è davvero meravigliosa la lotta che l'umanità combatte da tempo immemorabile; lotta incessante, con cui essa tenta di strappare e lacerare tutti i vincoli che la libidine di dominio di un solo, di una classe, o anche di un intero popolo, tentano di imporle. è questa una epopea che ha avuto innumerevoli eroi ed è stata scritta dagli storici di tutto il mondo. L'uomo, che ad un certo tempo si sente forte, con la coscienza della propria responsabilità e del proprio valore, non vuole che alcun altro gli imponga la sua volontà e pretenda di controllare le sue azioni e il suo pensiero. Perché pare che sia un crudele destino per gli umani, questo istinto che li domina di volersi divorare l'un l'altro, invece di convergere le forze unite per lottare contro la natura e renderla sempre più utile ai bisogni degli uomini. Invece, un popolo quando si sente forte e agguerrito, subito pensa a aggredire i suoi vicini, per cacciarli ed opprimerli. Perché è chiaro che ogni vincitore vuol distruggere il vinto. Ma l'uomo che per natura è ipocrito e finto, non dice già "io voglio conquistare per distruggere", ma, "io voglio conquistare per incivilire". E tutti gli altri, che lo invidiano, ma aspettano la loro volta per fare lo stesso, fingono di crederci e lodano. Così abbiamo avuto che la civiltà ha tardato di più ad espandersi e a progredire; abbiamo avuto che razze di uomini, nobili e intelligenti, sono state distrutte o sono in via di spegnersi. L'acquavite e l'oppio che i maestri di civiltà distribuivano loro abbondantemente, hanno compiuto la loro opera deleteria. Poi un giorno si sparge la voce: uno studente ha ammazzato il governatore inglese delle Indie, oppure: gli italiani sono stati battuti a Dogali, oppure: i boxers hanno sterminato i missionari europei; e allora la vecchia Europa inorridita impreca contro i barbari, contro gli incivili, e una nuova crociata viene bandita contro quei popoli infelici. E badate: i popoli europei hanno avuto i loro oppressori e hanno combattuto lotte sanguinose per liberarsene, ed ora innalzano statue e ricordi marmorei ai loro liberatori, ai loro eroi, e innalzano a religione nazionale il culto dei morti per la patria. Ma non andate a dire agli italiani, che gli austriaci erano venuti per portarci la civiltà: anche le colonne marmoree protesterebbero. Noi, sì, siamo andati per portare la civiltà ed infatti ora quei popoli ci sono affezionati e ringraziano il cielo della loro fortuna. Ma si sa; sic vos non vobis. La verità invece consiste in una brama insaziabile che tutti hanno di smungere i loro simili, di strappare loro quel po' che hanno potuto risparmiare con privazioni. Le guerre sono fatte per il commercio, non per la civiltà: gli inglesi hanno bombardato non so quante città della Cina perché i cinesi non volevano sapere del loro oppio. Altro che civiltà! E russi e giapponesi si sono massacrati per avere il commercio della Corea e della Manciuria. Si delapidano le sostanze dei soggetti, si toglie loro ogni personalità; non basta però ai moderni civilissimi: i romani si accontentavano di legare i vinti al loro carro trionfale, ma poi riducevano a provincia la terra conquistata: ora invece si vorrebbe che tutti gli abitanti delle colonie sparissero per lasciar largo ai nuovi venuti. Se poi una voce di onesto uomo si leva a rimproverare queste prepotenze, questi abusi, che la morale sociale e la civiltà sanamente intesa dovrebbero impedire, gli si ride in faccia; perché è un ingenuo, e non sa tutti i machiavellici cavilli che reggono la vita politica. Noi italiani adoriamo Garibaldi; fin da piccoli ci hanno insegnato ad ammirarlo, il Carducci ci ha entusiasmato con la sua leggenda garibaldina: se si domandasse ai fanciulli italiani chi vorrebbero essere, la gran maggioranza certo sceglierebbe di essere il biondo eroe. Mi ricordo che a una dimostrazione per una commemorazione dell'indipendenza, un compagno mi disse: ma perché tutti gridano: "viva Garibaldi! e nessuno: viva il re?" ed io non seppi darne una spiegazione. Insomma, in Italia dai rossi ai verdi, ai gialli idolatrano Garibaldi, ma nessuno veramente ne sa apprezzare le alte idealità; e quando i marinai italiani sono mandati a Creta per abbassare la bandiera greca innalzata dagli insorti e rimettere la bandiera turca, nessuno levò un grido di protesta. Già: la colpa era dei candioti che volevano turbare l'equilibrio europeo. E nessuno degli italiani che in quello stesso giorno forse acclamavano l'eroe liberatore della Sicilia, pensò che Garibaldi se fosse stato vivo, avrebbe sostenuto anche l'urto di tutte le potenze europee, pur di fare acquistare la libertà a un popolo. E poi si protesta se qualcuno viene a dirci che siamo un popolo di rètori! E chi sa per quanto tempo ancora durerà questo contrasto. Il Carducci si domandava: "Quando il lavoro sarà lieto? Quando sicuro sarà l'amore?". Ma ancora si aspetta una risposta, e chi sa chi saprà darla. Molti dicono che ormai l'uomo tutto ciò che doveva conquistare nella libertà, e nella civiltà, l'abbia già fatto, e che ormai non gli resta che godere il frutto delle sue lotte. Invece, io credo che ben altro da fare ci sia ancora: gli uomini non sono che verniciati di civiltà; ma se appena sono scalfiti, subito appare la pellaccia del lupo. Gli istinti sono ammansati, ma non distrutti, e il diritto del più forte è il solo riconosciuto. La Rivoluzione francese ha abbattuto molti privilegi, ha sollevato molti oppressi; ma non ha fatto che sostituire una classe ad un'altra nel dominio. Però ha lasciato un grande ammaestramento: che i privilegi e le differenze sociali, essendo prodotto della società e non della natura, possono essere sorpassate. L'umanità ha bisogno d'un altro lavacro di sangue per cancellare molte di queste ingiustizie: che i dominanti non si pentano allora d'aver lasciato le folle in uno stato di ignoranza e di ferocia quali sono adesso! Neutralità attiva ed operante(2) Pur nella straordinaria confusione che la presente crisi europea ha creato nelle coscienze e nei partiti, tutti sono d'accordo su di un punto: il presente momento storico è di una indicibile gravità, le sue conseguenze possono essere gravissime, e perché tanto sangue si è versato e tante energie sono andate distrutte, facciamo in modo che il maggior numero possibile di questioni che il passato ha lasciato insolute venga risolto, e l'umanità possa ripigliare la sua strada senza che ancora tanto grigiume di tristezze e di ingiustizie le intralci la via, senza che il suo avvenire possa essere a breve scadenza attraversato da un'altra di queste catastrofi che richieda di nuovo un altro, come questo, formidabile dispendio di vita e di attività. E noi, socialisti italiani, ci proponiamo il problema : "Quale dev'essere la funzione del Partito socialista italiano (si badi, e non del proletariato o del socialismo in genere) nel presente momento della vita italiana?". Perché il Partito socialista a cui noi diamo la nostra attività è anche italiano, cioè è quella sezione dell'Internazionale socialista che si è assunto il compito di conquistare all'Internazionale la nazione italiana. Questo suo compito immediato, sempre attuale gli conferisce dei caratteri speciali, nazionali, che lo costringono ad assumere nella vita italiana una sua funzione specifica, una sua responsabilità. è uno Stato in potenza, che va maturando, antagonista dello Stato borghese, che cerca, nella lotta diuturna con quest'ultimo e nello sviluppo della sua dialettica interiore, di crearsi gli organi per superarlo ed assorbirlo. E nello svolgimento di questa sua funzione è autonomo, non dipendendo dall'Internazionale se non per il fine supremo da raggiungere e per il carattere che questa lotta deve sempre presentare di lotta di classe. Del modo con cui questa lotta deve affermarsi nelle varie contingenze e del momento in cui deve culminare nella rivoluzione è solo giudice competente il PSI che ne vive e solo ne conosce il vario atteggiarsi. Solo così possiamo legittimare il riso e il disprezzo con cui da noi furono accolti gli improperi di G. Hervé e i tentativi d'approccio dei socialisti tedeschi, l'uno e gli altri parlanti a nome dell'Internazionale di cui si riputavano interpreti autorizzati, quando il PSI bandì la formula della "neutralità assoluta". Perché, si badi, non è sul concetto di neutralità che si discute (neutralità, beninteso, del proletariato), ma sul modo di questa neutralità. La formula della "neutralità assoluta" fu utilissima nel primo momento della crisi, quando gli avvenimenti ci colsero all'improvviso relativamente impreparati alla loro grandiosità, perché solo l'affermazione dogmaticamente intransigente, tagliente, poteva farci opporre un baluardo compatto, inespugnabile al primo dilagare delle passioni, degli interessi particolari. Ora che dalla iniziale situazione caotica sono precipitati gli elementi di confusione e ciascuno deve assumere le proprie responsabilità, essa ha solo valore per i riformisti, che dicono di non voler giocare terni secchi (ma lasciano che gli altri li giochino e li guadagnino) e vorrebbero che il proletariato assistesse da spettatore imparziale agli avvenimenti, lasciando che questi gli creino la sua ora, mentre intanto gli avversari la loro ora se la creano da sé e preparano loro la piattaforma per la lotta di classe. Ma i rivoluzionari che concepiscono la storia come creazione del proprio spirito, fatta di una serie ininterrotta di strappi operati sulle altre forze attive e passive della società, e preparano il massimo di condizioni favorevoli per lo strappo definitivo (la rivoluzione) non devono accontentarsi della formula provvisoria "neutralità assoluta", ma devono trasformarla nell'altra "neutralità attiva e operante". Il che vuol dire ridare alla vita della nazione il suo genuino e schietto carattere di lotta di classe, in quanto la classe lavoratrice, obbligando la classe detentrice del potere ad assumere le sue responsabilità, obbligandola a portare fino all'assoluto le premesse da cui trae la sua ragione di esistere, a subire l'esame della preparazione con cui ha cercato di arrivare al fine che diceva esserle proprio, la obbliga (nel caso nostro, in Italia) a riconoscere che essa ha completamente fallito al suo scopo, poiché ha condotto la nazione, di cui si proclamava unica rappresentante, in un vicolo cieco, da cui essa nazione non potrà uscire se non abbandonando al proprio destino tutti quegli istituti che del presente suo tristissimo stato sono direttamente responsabili. Solo così sarà ristabilito il dualismo delle classi, il Partito socialista si libererà da tutte le incrostazioni borghesi che la paura della guerra gli ha appiccicato addosso (mai come in questi ultimi due mesi il socialismo ha avuto tanti simpatizzanti più o meno interessati) e, avendo fatto toccar con mano al paese (che in Italia non è tutto né proletario né borghese, dato il poco interesse che la gran massa del popolo ha sempre dimostrato per la lotta politica, e quindi è tanto più facilmente conquistabile da chi sappia dimostrare energie e visione netta dei propri destini) come quelli che si dicevano i suoi mandatari si sono mostrati incapaci di una qualsiasi azione, [potrà] preparare il proletariato a sostituirla, prepararlo ad operare quel massimo strappo che segna il traboccare della civiltà da una forma imperfetta in un'altra più perfetta. Più cauto perciò, mi pare, avrebbe dovuto essere a. t.(3) che sul cosiddetto caso Mussolini ha scritto nel passato numero del Grido. Avrebbe egli dovuto distinguere tra ciò che, nelle dichiarazioni del direttore dell'Avanti! era dovuto a Mussolini uomo, romagnolo (anche di ciò si è parlato), e ciò che era di Mussolini socialista italiano, prendere insomma ciò che di vitale poteva esserci nel suo atteggiamento e su quello rivolgere la propria critica, annientandolo, ovvero trovandoci il piano di conciliazione tra il formalismo dottrinario della rimanente Direzione del partito e il concretismo realistico del direttore dell'Avanti! Ma errato mi pare il nucleo centrale dell'articolo di a. t. Quando Mussolini dice, alla borghesia italiana: "Andate dove i vostri destini vi chiamano", cioè: "Se voi ritenete che sia vostro dovere far la guerra all'Austria, il proletariato non saboterà la vostra azione", non rinnega affatto il suo atteggiamento di fronte alla guerra libica che ha avuto come risultato quello che a. t. chiama "il mito negativo della guerra". In quanto si parla di "vostri destini" si lascia intendere quei destini che per la funzione storica della borghesia culminano nella guerra, e questa mantiene quindi più intensa ancora, dopo l'acquistatane coscienza del proletariato, il suo carattere di antitesi irriducibile coi destini del proletariato. Non un abbracciamento generale vuole quindi il Mussolini, non una fusione di tutti i partiti in un'unanimità nazionale, che allora la sua posizione sarebbe antisocialista. Egli vorrebbe che il proletariato, avendo acquistato una chiara coscienza della sua forza di classe e della sua potenzialità rivoluzionaria, e riconoscendo per il momento la propria immaturità ad assumere il timone dello Stato (a fare la [...](4) una disciplina ideale, e permettesse che nella storia fossero lasciate operare quelle forze che il proletariato, non sentendosi di sostituire, ritiene più forti. E il sabotare una macchina (che ad un vero sabotaggio si riduce la neutralità assoluta, sabotaggio accettato del resto entusiasticamente dalla classe dirigente) non vuol certo dire che quella macchina non sia perfetta e non sia utile a qualche cosa. Né la posizione mussoliniana esclude (che anzi lo presuppone) che il proletariato rinunzi al suo atteggiamento antagonistico, e possa, dopo un fallimento o una dimostrata impotenza della classe dirigente, sbarazzarsi di questa e impadronirsi delle cose pubbliche, se, almeno, io ho interpretato bene le sue un po' disorganiche dichiarazioni, e le ho sviluppate secondo quella stessa linea che egli avrebbe fatto. Io non so immaginare un proletariato che sia come un meccanismo al quale nel mese di luglio sia stata data la corda con la chiavetta della neutralità assoluta, e che non possa essere nel mese di ottobre fermato senza che abbia a spezzarsi. Si tratta di uomini, invece, che hanno dimostrato, specialmente in questi ultimi anni, di possedere un'agilità di intelletto e una freschezza di sensibilità quale la massa borghese amorfa e menefreghista è ben lontana dal solamente fiutare. Di una massa che ha mostrato di sapere molto bene assimilare e rivivere i nuovi valori che il rinato Partito socialista ha messo in circolazione. O che forse ci spaventiamo del lavoro che bisognerebbe fare per fargli assumere questo nuovo compito, che forse potrebbe essere per lui il principio della fine del suo stato di pupillo della borghesia? In tutti i casi la comoda posizione della neutralità assoluta non ci faccia dimenticare la gravità del momento, e non faccia che noi ci abbandoniamo neppure per un istante ad una troppo ingenua contemplazione e rinunzia buddistica dei nostri diritti. Il Sillabo ed Hegel(5) Anche in questo nuovo volumetto(6) Mario Missiroli ricade nelle stesse deficienze e negli stessi errori che erano stati rimproverati ad un suo precedente lavoro, La monarchia socialista: concezione semplicista, esposizione troppo sommaria e che avrebbe bisogno di essere particolareggiata e documentata per avere una qualche efficacia persuasiva. Veramente l'autore mette le mani avanti scrivendo in un'avvertenza preliminare: "Non dimentichi il lettore che io prescindo da tutto ciò che non sia la pura logica delle idee", ma con ciò non rende minore la sua sufficienza. Di questa logica delle idee egli si serve per spiegare fatti storici, per giustificarli o condannarli implicitamente, per tracciare programmi politici, e tutto ciò non si può fare senza sentire la necessità, e in un certo senso il dovere morale, di documentare le proprie elucubrazioni. Trattare come problema di cultura, astrattamente, una questione che ha profonde radici nella storia e nelle coscienze individuali, è dilettantismo, è bizantinismo, e non basta la vivacità dell'ingegno, che può rendere piacevole anche la chiacchiera più vacua, a giustificare questa letteratura in cui si sono specializzati precisamente il Missiroli e Goffredo Bellonci. Il Missiroli riduce la storia che si sta svolgendo sotto ai nostri occhi ad un solo problema: quello religioso, e sostiene questa tesi: nel mondo latino esiste una terribile scissione nelle coscienze individuali; la creazione dello Stato laico sorto in opposizione all'autorità ecclesiastica ha gettato l'Europa meridionale in una crisi dalla quale non può salvarla che una forma sociale più perfetta: la teocrazia, intesa come perfetta unità del pensiero e della coscienza nella vita. Questa unità esiste nel mondo germanico. La nazione germanica è sorta da una crisi religiosa, la Riforma protestante, e si è consolidata e rafforzata attraverso un lavorìo del pensiero filosofico che l'ha portata alla creazione dello Stato moderno, in cui il cittadino è anche il credente, poiché l'idealismo filosofico, abolendo ogni dualismo e ponendo nella coscienza individuale il fattore della conoscenza e dell'attività creatrice della storia, lo ha reso indipendente da ogni autorità, da ogni Sillabo. Cosa è avvenuto invece in Italia? Il Risorgimento italiano è stato un movimento politico artificiale, senza basi, senza radici nello spirito del popolo, perché non è stato preceduto da una rivoluzione religiosa; il liberalismo cavouriano, separando lo Stato dalla Chiesa, e rendendolo antagonistico a questa come depositaria del divino, in realtà non commise che un grande errore, poiché non fece che spogliare lo Stato del suo valore assoluto. Un simile errore commise la democrazia francese, poiché accettò in parte i postulati dell'idealismo germanico, abolendo violentemente il diritto divino e il legittimismo, ma non riuscì a spogliarsi completamente del vecchio dualismo cattolico, e creò un Sillabo massonico: la giustizia assoluta superiore alle contingenze storiche e alle forze umane perverse, non creazione, insomma, volta a volta della volontà, ma a sé stante su un trono come l'Iddio dei cattolici. Ecco perché, secondo il Missiroli, il papa in realtà in questa guerra parteggia per l'Intesa; perché in essa trova concezioni simili alle sue, che hanno una stessa sorgente (semitica, direbbero i nazionalisti) nella vecchia tradizione cristiana; il papa può trovarsi d'accordo coi massoni, ma non coi tedeschi. Nei massoni c'è la possibilità di assorbimento, perché essi non hanno sostituito nulla, se non dei nomi vani, al cattolicismo; nei tedeschi c'è invece la saldezza granitica, inattaccabile, della coscienza dell'identità del divino e dell'umano, dell'idea e dell'atto, dello spirito e della storia. Hegel ha ucciso ogni possibilità di Sillabo, ciò che non ha fatto Rousseau, e dall'idealismo germanico sono germinate e hanno sciamato tutte le concezioni anarchiste, che hanno creato il caos nella limpida tradizione cattolica della latinità. Sarebbe troppo lungo e non adatto al carattere del Grido, il discutere e rilevare tutti gli errori in cui vaneggia la facile dialettica del Missiroli. Importa rilevare solo questo fatto: l'unica conclusione a cui si può arrivare dalle premesse dello scrittore è che il cattolicismo è matematicamente destinato a scomparire. Se è vero, e per tale l'accetta il Missiroli, lo sviluppo storico affermato da Hegel, per il quale dal cattolicismo si passa al luteranesimo, da questo al libero esame della scuola di Tubinga, e quindi alla filosofia pura che riesce finalmente ad occupare tutto il posto che le spetta nella coscienza umana, scacciandone il buon vecchio dio, che rientra nel regno delle larve, perché questo processo dovrà limitarsi alla sola Germania? Il turbamento che esisterebbe nelle coscienze latine, non potrebbe essere uno stadio intermedio tra il trascendentalismo cattolico e massonico e l'immanentismo idealistico? Se una cosa questa guerra ha ammazzato davvero, è la vecchia concezione della giustizia assoluta, che si impone da sé e non ha bisogno di cannoni o di baionette per sostenersi. Anche se la Germania sarà vinta, non lo sarà prima di aver imposto agli avversari la sua concezione dello Stato, della giustizia, della forza, o quella che più le si avvicini per mantenere l'equilibrio. Chi escirà sconfitto effettivamente dalla guerra sarà il cattolicismo e il Sillabo, come lo intende il Missiroli. Questo astrarsi dalla storia, questo voler conservare il proprio pensiero al disopra dei fatti, delle correnti sociali che si agitano e rinnovano continuamente la società, al Missiroli sembrano una prova di forza, di austerità morale ammirevole e di superiorità intellettuale. E invece sono l'intima debolezza del Papato. Mentre tutto si rinnova e rinasce, il Papato taglia uno ad uno i legami che potrebbero ancora farne una forza attiva nella storia. Il Missiroli vede due sole religioni: il trascendentalismo cattolico e l'immanentismo idealistico derivato dalla Riforma, in verità, ogni uomo ha una sua religione, ha una sua fede che riempie la sua vita e la rende degna di essere vissuta. Non invano Hegel è vissuto ed ha scritto. Come non si nega e non si supera il cattolicismo ignorandolo, così non si supera e non si nega l'idealismo ignorandolo, o trattandolo come una semplice questione di cultura. Le questioni di cultura non sono semplici giuochi di idee da risolversi astrattamente dalla realtà. L'ufficio di postillatore delle encicliche papali, in questo momento di incoscienza e di politicantismo religioso, può dare delle superbe soddisfazioni intellettuali per il senso che ne viene del proprio isolamento, della propria compenetrazione in un problema che gli altri non sentono e neppure intraveggono, ma non cava un ragno dal buco. Si risolve in un elegante dilettantismo filosofico che non è meno peggio e più serio dell'ignoranza e dell'incomprensione. Il Missiroli è stato punito nel suo stesso peccato: il suo volumetto è diventato per alcuni una riprova dell'attività cattolica e del Papato che ritorna in voga; mentre se in voga ritorna qualcuno è il solo Mario Missiroli, il vero papa del suo cattolicismo, il maestro infallibile di un credo che non potrà aver mai dei credenti perché ormai diventato extrastorico, giuoco di pazienza di un acuto sì, ma non perciò meno inconcludente amplificatore di aforismi e affermazioni che la storia ha superato. Nella lotta fra il Sillabo e Hegel, è Hegel che ha vinto, perché Hegel è la vita del pensiero che non conosce limiti e pone se stesso come qualcosa di transeunte, di superabile, di sempre rinnovantesi come e secondo la storia, e il Sillabo è la barriera, è la morte della vita interiore, è un problema di cultura e non un fatto storico. La commemorazione di Miss Cavell(7) Un foltissimo pubblico assisteva ieri mattina, nel vasto salone dell'Ambrosio, alla commemorazione che dell'eroica Miss Cavell fece Luigi di San Giusto. Commemorazione sobria nel contenuto, quantunque un po' troppo prolissa nella forma esteriore, letterariamente convenzionale e banale. Ci pare però che all'oratrice sia sfuggito il punto centrale del dramma spirituale dell'infermiera inglese, dramma suo intimo, tanto più interessante dell'esteriore dramma inscenato dalla sbrigativa e rigidamente feroce giustizia militare tedesca. Di questa donna che dopo aver apertamente, francamente confessata e aggravata la sua colpa, dirittamente giustificandola col suo patriottismo, sul punto di essere condotta al supplizio, dichiara al suo confessore: "Ora che mi trovo sola dinanzi a Dio e all'eternità, mi accorgo che nella vita il patriottismo non è tutto". Per la di San Giusto questo particolare diviene un puro e semplice fatto di cronaca, senza importanza e perciò non meritevole di sviluppo. Per noi è, in tutto questo orrendo episodio della fredda logica militaresca, punto culminante e suggestivo in sommo grado. Ma non bisogna domandare agli uomini e alle donne di letteratura, specialmente, più di quanto essi possono vedere e possono dare. Riandavamo, ascoltando l'oratrice, ad altre giornate tragiche indimenticabili. Fiori vermigli di sangue erano sbocciati sui selciati rettilinei della nostra città, fatta d'ordine, di tradizione militare, squadrata negli isolati delle sue case monotone, come un reggimento dell'esercito dei suoi vecchi duchi sabaudi. In una città lontana delle Marche tre sconosciuti eran caduti in un giorno beffardamente consacrato alla libertà statutaria, e serpeggiava per tutta l'Italia una ventata di ribellione a dimostrare che il proletariato aveva ben acquistato una coscienza nazionale se per obbedire ad un sentimento e ad una disciplina di solidarietà nazionale scendeva per le strade a farsi massacrare. Così noi commemoravamo i nostri morti. Non vane parole. Non richiami singhiozzanti a sfumate entità umanitarie, ad abbracciamenti generali per vendicare una vita sacrilegamente violentata, ma l'inquadramento delle nostre forze nei ferrei ranghi della solidarietà di classe, ma maree nereggianti di rudi uomini che calavano nei boulevards cittadini a sfilare innanzi alle saracinesche abbassate dei pallidi piccoli uomini della vigilia, rodentisi di rabbia compressa e di paura. Così commemoravamo i nostri morti, col sangue dei nostri migliori, e colla promessa di un domani migliore. Perciò non possiamo non sentir strazio per il piccolo Belgio schiantato, per Miss Cavell caduta sotto il piombo d'un ufficiale prussiano nel compimento del suo dovere di carità. Ma è strazio austero il nostro, che non fluisce in componimenti a rime obbligate, né si inquadra nelle vaneggianti ambagi di un discorso d'occasione. Ci sentiamo presi come nel volante di una macchina che il nostro braccio non può fermare e rinchiudiamo dentro di noi il dolore che c'invetrisce le pupille. Forze naturali irresistibili sono traboccate da argini di carta straccia e vediamo galleggiare cadaveri sulle livide acque, cadaveri di bimbi e di donne strappati dai focolari e dalla culla; e la loro morte ci pare anche più tragica, perché inutile, perché non rispondente ad una logica dell'azione, ad una necessità della propria conservazione, ma solo ad una concezione meccanica del regolamento della disciplina. Però non ci cospargiamo i capelli di cenere, né ci battiamo le anche in atteggiamento di prefiche, pagate ad una tanto, per il grado della loro commozione. Siamo maschi nei nostri dolori come lo siamo nelle nostre vendette. E perciò non possiamo prendervi sul serio, o eterni ipocriti, venditori di parole e di fumo umanitario. Riflettiamo leggendo il proclama che il duca d'Artois lanciò proprio da questa nostra Torino invocante una solidarietà di classe tra i coronati e i nobili dell'Europa per la vendetta del ghigliottinamento di Luigi XVI, che ora i bellicissimi legittimisti francesi vogliono beatificare avendo fallito a Valmy il tentativo di riscossa; rimaniamo rigidi dinanzi al vostro nuovo proclama che non ha ossatura ed è un mercato di parole. Non crediamo alla taumaturgia della bacchetta democratica e della giustizia assoluta. Rimaniamo rigidi nella coscienza del nostro accoramento e della impotenza dell'azione da parte vostra. Ma ricordiamo... Perché noi i nostri morti li vendichiamo col nostro sacrificio, col sangue del più audace e coll'obolo del più umile, e non facciamo vane ciance di giustizia e di diritto. E saremo noi che vendicheremo Miss Cavell, quando toglieremo la facoltà agli uni di violentare come agli altri d'ingannare i belgi e i serbi e i montenegrini, vasi d'argilla fra i massicci vasi di rame degli eserciti nazionali, e toglieremo anche la facoltà di massacrare gl'inermi contadini di Rocca Gorga e i dimostranti di Ancona con gli agenti della giustizia di classe. E in un giorno che ci proponiamo di non lunghissima attesa noi, proletariato internazionale, tedesco e belga, serbo e bulgaro, francese e italiano, inglese e russo, quando il giuoco delle forze storiche antagonistiche avrà ripreso il suo ritmo normale, faremo a nostro modo la commemorazione di Miss Cavell e dei sei milioni di nostri compagni che hanno insanguinato i campi della lotta infeconda. E non sarà il nostro un mercato di parole... Socialismo e cultura(8) Ci è capitato sott'occhi, qualche tempo fa, un articolo nel quale Enrico Leone, con quella forma involuta e nebulosa che troppo spesso gli è propria, ripeteva alcuni luoghi comuni sulla cultura e l'intellettualismo in rapporto al proletariato, opponendogli la pratica, il fatto storico per i quali la classe sta preparandosi con le sue stesse mani l'avvenire. Non crediamo inutile ritornare sull'argomento, trattato altre volte sul Grido e che ebbe specialmente nell'Avanguardia dei giovani una trattazione più rigidamente dottrinale nella polemica tra il Bordiga di Napoli e il nostro Tasca. Ricordiamo due brani: uno di un romantico tedesco, il Novalis (vissuto dal 1772 al 1801) che dice: "Il supremo problema della cultura è di impadronirsi del proprio io trascendentale, di essere nello stesso tempo l'io del proprio io. Perciò sorprende poco la mancanza di senso ed intelligenza completa degli altri. Senza una perfetta comprensione di noi, non si potranno veramente conoscere gli altri". L'altro, che riassumiamo, di G. B. Vico. Il Vico (nel 1° Corollario intorno al parlare per caratteri poetici delle prime nazioni nella Scienza nuova) dà una interpretazione politica del famoso detto di Solone, che poi Socrate fece suo quanto alla filosofia: "Conosci te stesso", sostenendo che Solone volle con quel detto ammonire i plebei, che credevano se stessi d'origine bestiale e i nobili di divina origine, a riflettere su se stessi per riconoscersi d'ugual natura umana co' nobili, e per conseguenza a pretendere di essere con quelli uguagliati in civil diritto. E pone poi in questa coscienza dell'uguaglianza umana tra plebei e nobili, la base e la ragione storica del sorgere delle repubbliche democratiche nell'antichità. Non abbiamo così a vanvera accostato i due frammenti. In essi ci pare siano adombrati, se non diffusamente espressi e definiti, i limiti e i principi sui quali deve fondarsi una giusta comprensione del concetto di cultura anche in rapporto al socialismo. Bisogna disabituarsi e smettere di concepire la cultura come sapere enciclopedico, in cui l'uomo non è visto se non sotto forma di recipiente da empire e stivare di dati empirici; di fatti bruti e sconnessi che egli poi dovrà casellare nel suo cervello come nelle colonne di un dizionario per poter poi in ogni occasione rispondere ai vari stimoli del mondo esterno. Questa forma di cultura è veramente dannosa specialmente per il proletariato. Serve solo a creare degli spostati, della gente che crede di essere superiore al resto dell'umanità perché ha ammassato nella memoria una certa quantità di dati e di date, che snocciola ad ogni occasione per farne quasi una barriera fra sé e gli altri. Serve a creare quel certo intellettualismo bolso e incolore, così bene fustigato a sangue da Romain Rolland, che ha partorito tutta una caterva di presuntuosi e di vaneggiatori, più deleteri per la vita sociale di quanto siano i microbi della tubercolosi o della sifilide per la bellezza e la sanità fisica dei corpi. Lo studentucolo che sa un po' di latino e di storia, l'avvocatuzzo che è riuscito a strappare uno straccetto di laurea alla svogliatezza e al lasciar passare dei professori crederanno di essere diversi e superiori anche al miglior operaio specializzato che adempie nella vita ad un compito ben preciso e indispensabile e che nella sua attività vale cento volte di più di quanto gli altri valgano nella loro. Ma questa non è cultura, è pedanteria, non è intelligenza, ma intelletto, e contro di essa ben a ragione si reagisce. La cultura è una cosa ben diversa. è organizzazione, disciplina del proprio io interiore, è presa di possesso della propria personalità, è conquista di coscienza superiore, per la quale si riesce a comprendere il proprio valore storico, la propria funzione nella vita, i propri diritti e i propri doveri. Ma tutto ciò non può avvenire per evoluzione spontanea, per azioni e reazioni indipendenti dalla propria volontà, come avviene nella natura vegetale e animale in cui ogni singolo si seleziona e specifica i propri organi inconsciamente, per legge fatale delle cose. L'uomo è soprattutto spirito, cioè creazione storica, e non natura. Non si spiegherebbe altrimenti il perché, essendo sempre esistiti sfruttati e sfruttatori, creatori di ricchezza e consumatori egoistici di essa, non si sia ancora realizzato il socialismo. Gli è che solo a grado a grado, a strato a strato, l'umanità ha acquistato coscienza del proprio valore e si è conquistato il diritto di vivere indipendentemente dagli schemi e dai diritti di minoranze storicamente affermatesi prima. E questa coscienza si è formata non sotto il pungolo brutale delle necessità fisiologiche, ma per la riflessione intelligente, prima di alcuni e poi di tutta una classe, sulle ragioni di certi fatti e sui mezzi migliori per convertirli da occasione di vassallaggio in segnacolo di ribellione e di ricostruzione sociale. Ciò vuol dire che ogni rivoluzione è stata preceduta da un intenso lavorio di critica, di penetrazione culturale, di permeazione di idee attraverso aggregati di uomini prima refrattari e solo pensosi di risolvere giorno per giorno, ora per ora, il proprio problema economico e politico per se stessi, senza legami di solidarietà con gli altri che si trovavano nelle stesse condizioni. L'ultimo esempio, il più vicino a noi e perciò meno diverso dal nostro, è quello della Rivoluzione francese. Il periodo anteriore culturale, detto dell'illuminismo, tanto diffamato dai facili critici della ragione teoretica, non fu affatto, o almeno non fu completamente quello sfarfallio di superficiali intelligenze enciclopediche che discorrevano di tutto e di tutti con pari imperturbabilità, che credevano di essere uomini del loro tempo solo dopo aver letto la Grande enciclopedia di D'Alembert e Diderot, non fu insomma solo un fenomeno di intellettualismo pedantesco ed arido, simile a quello che vediamo dinanzi ai nostri occhi, e che trova la sua maggiore esplicazione nelle Università popolari di infimo ordine. Fu una magnifica rivoluzione esso stesso, per la quale, come nota acutamente il De Sanctis nella Storia della letteratura italiana, si era formata in tutta l'Europa come una coscienza unitaria, una internazionale spirituale borghese sensibile in ogni sua parte ai dolori e alle disgrazie comuni e che era la preparazione migliore per la rivolta sanguinosa poi verificatasi nella Francia. In Italia, in Francia, in Germania si discutevano le stesse cose, le stesse istituzioni, gli stessi principi. Ogni nuova commedia di Voltaire, ogni nuovo pamphlet era come la scintilla che passava per i fili già tesi fra Stato e Stato, fra regione e regione, e trovava gli stessi consenzienti e gli stessi oppositori da per tutto e contemporaneamente. Le baionette degli eserciti di Napoleone trovavano la via già spianata da un esercito invisibile di libri, di opuscoli, che erano sciamati da Parigi fin dalla prima metà del secolo XVIII e che avevano preparato uomini e istituzioni alla rinnovazione necessaria. Più tardi, quando i fatti di Francia ebbero rinsaldate le coscienze, bastava un moto popolare a Parigi per suscitarne altri simili a Milano, a Vienna e nei più piccoli centri. Tutto ciò sembra naturale, spontaneo ai faciloni, e invece sarebbe incomprensibile se non si conoscessero i fattori di cultura che contribuirono a creare quegli stati d'animo pronti alle esplosioni per una causa che si credeva comune. Lo stesso fenomeno si ripete oggi per il socialismo. è attraverso la critica della civiltà capitalistica che si è formata o si sta formando la coscienza unitaria del proletariato, e critica vuol dire cultura, e non già evoluzione spontanea e naturalistica. Critica vuol dire appunto quella coscienza dell'io che Novalis dava come fine alla cultura. Io che si oppone agli altri, che si differenzia e, essendosi creata una meta, giudica i fatti e gli avvenimenti oltre che in sé e per sé anche come valori di propulsione o di repulsione. Conoscere se stessi vuol dire essere se stessi, vuol dire essere padroni di se stessi, distinguersi, uscire fuori dal caos, essere un elemento di ordine, ma del proprio ordine e della propria disciplina ad un ideale. E non si può ottenere ciò se non si conoscono anche gli altri, la loro storia, il susseguirsi degli sforzi che essi hanno fatto per essere ciò che sono, per creare la civiltà che hanno creato e alla quale noi vogliamo sostituire la nostra. Vuol dire avere nozioni di cosa è la natura e le sue leggi per conoscere le leggi che governano lo spirito. E tutto imparare senza perdere di vista lo scopo ultimo che è di meglio conoscere se stessi attraverso gli altri e gli altri attraverso se stessi. Se è vero che la storia universale è una catena degli sforzi che l'uomo ha fatto per liberarsi e dai privilegi e dai pregiudizi e dalle idolatrie, non si capisce perché il proletariato, che un altro anello vuol aggiungere a quella catena, non debba sapere come e perché e da chi sia stato preceduto, e quale giovamento possa trarre da questo sapere. Voci d'oltretomba(9) Noi che siamo stati e siamo internazionalisti di fatto, lo risaremo domani anche di diritto, perché non è possibile che i socialisti tedeschi e tanto meno quelli francesi, inglesi e russi, che hanno accettato in casa loro il fatto della guerra, vogliano condannare noi. Così Guido Podrecca nella sua conferenza al salone Ghersi, tutta striata di quella leggerezza e di quel facilonismo ciarlatanesco che fu una delle cause maggiori del suo tramonto dalla vita politica e della sua morte, ahimè quanto precoce. Perché Guido Podrecca dimentica che anche prima della guerra egli era stato seppellito con tutti gli onori, che la tiratura del suo foglietto anticlericale era spaventosamente discesa, e che ormai in Italia a prenderlo sul serio non erano rimasti che i sagrestani e i parroci di campagna, che dall'alto del pulpito tuonavano contro l'anticristo al cospetto delle folle esterrefatte. Il proletariato ormai educato alla esperienza viva e palpitante della lotta di classe, ne aveva abbastanza di questo falso profeta che con tutta la superficialità fatua di una cultura da spazzaturaio, continuava nel vecchio anticlericalismo smidollato e di maniera, mostrando nel prete l'eterno nemico, l'unico nemico, falsando incoscientemente la storia e intorpidando il limpido corso delle lotte sociali. Chi aveva superato tutti i Bevioni, tutti i Castellini e i Piazza del giornalismo giolittiano nello sparar grosso sulla fertilità, sulla feracità della terra promessa libica, non aveva più diritto di appartenere alla famiglia del proletariato italiano, e la sua espulsione, breve e recisa, non suscitò rimpianti né echi di dolore. Il ramo secco cadeva dall'albero vigoroso per esaurimento delle linfe vitali e il fuoco fatuo vaneggiante nelle sue barzellette di cattiva lega sul marito dell'amica, veniva riassorbito dalla grassa terra dei camposanti. Era passato il tempo che il socialismo, pur di trovar presa nelle masse disorganizzate, si trastullava con tutti gli scolaticci degli scandali da sacco nero, e bussava e picchiava disperatamente a tutti gli usci e si disperdeva nei blocchi demomassonici pur di potersi affermare, pur di far scivolare nel tumulto piazzaiolo la propaganda di un principio suo, tutto suo. Oramai il processo di individuazione era compiuto, e incominciava quello di isolamento, di opposizione a tutti i cugini di primo, secondo, terzo grado che s'aggrappavano alla trionfalmente robusta nuova personalità. E Podrecca e soci furono tagliati fuori, e passarono alla preistoria, al caos, al regno dell'indistinto. La loro voce arriva ormai fiacca e scialba alle nostre orecchie, come una voce di oltretomba. Il giudizio è inappellabile, onorevoli vittime dell'intransigenza e del domenicanismo socialista. Continuate pure a frugare nelle cloache con la fiocina del ciccaiolo, per la pesca di scandaletti di sacrestia, a blaterare contro la Kultur tedesca, contro Kant, contro tutti quelli che sono troppo in alto perché le unghiette vostre di bambini imbizziti possano scalfire. Continuate ad attaccarvi al rogo di Giordano Bruno per farne sprizzare qualche favilla di popolarità. Appunto Giordano Bruno ha insegnato che si deve essere implacabili contro gli spropositanti, e che quando si vuole ottenere uno scopo e si vuole far trionfare una verità, bisogna isolarsi ed essere intransigenti e domenicani. Vecchiezze(10) Ci accusano di essere vecchi. Si pigliano persino beffe di noi perché non manteniamo tutte le promesse, perché promettiamo più di quanto possiamo mantenere. In certi momenti, immersi come siamo in questa vita tumultuosa che ci circonda, sensibili come siamo ai rimproveri, alle facce irosamente beffarde dei nostri avversari, sentiamo anche noi come una diminuzione di noi stessi, ci sembra davvero di essere decrepiti, di non riuscire a far sgorgare dalle nostre labbra la parola definitiva, la parola che dia forza ai nostri organi, che infonda vigore alle membra rattrappite e le renda elastiche, atte alla lotta e alla conquista feconda. Ma una breve riflessione scaccia questo pessimismo. Ci sentiamo vecchi perché il destino perverso ci ha fatti nascere in età vecchia. è l'aria che respiriamo, sono gli istituti che ci reggono, sono gli uomini coi quali siamo in lotta, che sono vecchi. A ogni colpo vigoroso che meniamo su questo verminaio, una tanfata di vecchiume ci ottura le nari; ogni qual volta rimestiamo questa materia in decomposizione è tanto lo schifo che ci investe, che ineluttabilmente ce ne sentiamo noi stessi intaccati. Come il Lao-tse della leggenda cinese, siamo dei vecchi fanciulli, della gente che nasce ad ottant'anni. Un cumulo di tradizioni grava su di noi, e dobbiamo inarcare maggiormente le reni per reggerlo; leggi centenarie legano la nostra attività attuale, e lo sforzo per superarle deve sintetizzare tutti gli sforzi delle generazioni passate, che non si curarono di combattere per noi, di aprirci una strada meno irta di triboli, di ostacoli che uno per uno sono niente e nel complesso sono formidabili. Ci voleva la guerra per scaraventarci sulle gambe questo materasso molliccio di pregiudizi, per fare dei tanti fili sottili di seta una rete inestricabile. Ma non è parola di sconforto, la nostra. Bisogna anzi avere ben chiaro dinanzi ai lucidi occhi l'ostacolo complesso per meglio sfondarlo con il colpo di mazza. La visione della vita sociale, quale ci si offre ormai integrale, rinnova la fiducia e il proposito che nel passato solo pochi potevano avere. Gli stessi nostri compagni di lotta ci hanno chiamati mistici della rivoluzione; e lo eravamo nel passato, perché la nostra era solo intuizione della realtà, non rappresentazione plastica, viva, di ciò che si doveva abbattere. Dove tutti non vedevano che singoli "fatti", che singole "posizioni" da conquistare con la pazienza per arrivare finalmente alla cima, noi vedevamo un muro compatto su cui rovesciare con un atto energico, volontario, la massa delle nostre forze. O tutto o nulla, noi dicevamo. E la guerra ci ha dato ragione. O tutto o nulla deve essere il nostro programma di domani. Il colpo di mazza, non lo sgretolamento paziente e metodico. La falange irresistibile, non la lotta da talpe delle trincee fetide. Siamo dei giovani vecchi. Vecchi per il cumulo enorme di esperienze che in poco tempo abbiamo raggruzzolato, giovani per il vigore dei muscoli, per il desiderio irresistibile di vittoria che ci investe. La nostra generazione di vecchi giovani è quella che dovrà realizzare il socialismo. I nostri avversari si sono svuotati nell'enorme sforzo sostenuto per difendere ognuno il suo campicello. Ebbene, su questo tronco veramente decrepito meniamo il colpo finale della nostra mazza e l'ora nostra sarà giunta, scoccata per la nostra volontà irresistibile, si, ma riflessiva. Lotta di classe e guerra(11) La dottrina di Carlo Marx ha dimostrato anche ultimamente la sua fecondità e la sua eterna giovinezza offrendo un contenuto logico al programma dei più strenui avversari del Partito socialista, ai nazionalisti. Corradini saccheggia Marx, dopo averlo vituperato. Trasporta dalla classe alla nazione i principi, le constatazioni, le critiche dello studioso di Treviri; parla di nazioni proletarie in lotta con nazioni capitalistiche, di nazioni giovani che debbono sostituire, per lo sviluppo della storia mondiale, le nazioni decrepite. E trova che questa lotta si esplica nella guerra, si afferma nella conquista dei mercati, nel subordinamento economico e militare di tutte le nazioni a una sola, a quella che attraverso il sacrifizio del suo sangue e del suo benessere immediato, ha dimostrato di essere l'eletta, la degna. Perciò Corradini non avversa, a parole, la lotta di classe. "Sopprimere la lotta di classe, egli dice, val quanto sopprimere la guerra. Non è possibile. Entrambe sono vitali, l'una all'interno delle nazioni, l'altra fuori. Servono a muovere e rifornire di materiale umano fresco, classi, nazioni, il mondo." Ma questo saccheggio delle idee marxistiche ai fini nazionalistici ha il torto di tutti gli adattamenti arbitrari; manca di una base storica, non poggia su nessuna esperienza tradizionale. Per cui dal punto di vista della logica formale i ragionamenti corradiniani non fanno grinza, ma perdono ogni valore quando vogliono diventare norma di vita, coscienza di un dovere. La storia non ha esempi di uno uguale a uno; questa uguaglianza è formula matematica, non constatazione di rapporto fra due realtà affermatesi nel passato o attuali. Tizio è uguale solo a se stesso, e volta a volta, anche; non Tizio bambino uguale a Tizio uomo adulto. E così la classe non è uguale alla nazione e quindi non può averne le stesse leggi. Tanto vero che dopo affermato il principio, lo stesso Corradini pone tali limitazioni che finisce, senza avvedersene, col fare rovinare tutta la sua costruzione. Egli afferma che bisogna insegnare al proletariato il massimo rispetto per la produzione. E per produzione egli intende il capitalismo nazionale, cioè quel complesso di attività economiche, buone e cattive, naturali e fittizie, che in parte servono ad aumentare la ricchezza investita in macchine ed in aziende [una parola censurata] i socialisti vogliono socializzare lo sfruttamento, e in gran parte vivono ai danni del benessere generale e quindi specialmente di quello del proletariato. E rispettare questo pare sia alquanto difficile ai proletari, i quali non fanno la lotta di classe solamente per aumentare i salari, come crede il Corradini, ammiratore naturalmente dei riformisti nazionali, ma specialmente per sostituire la propria classe che lavora a quella dei capitalisti che la fa lavorare. E ciò per quei principi fondamentali dello spirito umano, per cui ogni uomo vuole che la sua attività sia autonoma e non subordinata alla volontà e agli interessi di estranei. E come la borghesia francese, esaltata dal Corradini, lottò per la sua autonomia economica e raggiunse contemporaneamente anche la realizzazione dell'autonomia nazionale, che prima non esisteva, così ora il proletariato internazionale lotta per una cosa che ancora non esiste, perché si lotta sempre per raggiungere qualche cosa che non si possiede ancora. E, questa nazione proletaria che è l'unificazione di tutti i proletari del mondo, supera la nazione di quanto Carlo Marx, che la sua logica nutriva di realtà storica, è superiore ad Enrico Corradini, che si diverte a riempire la botte senza fondo della logica formale con i torniti periodi della lingua italiana, e di quanto la lotta di classe, morale perché universale, supera la guerra, immorale perché particolaristica, e fatta non per volontà dei combattenti, ma per un principio che questi non possono condividere. La storia(12) Date pure alla vita tutta la vostra attività, tutta la vostra fede, tutto l'abbandono sincero e disinteressato delle vostre migliori energie. Immergetevi pure, creature vive, sul vivo e palpitante divenire umano, fino a sentirvi tutt'uno con esso, fino a riceverlo tutto in voi stessi, e a sentire la vostra personalità atomo di un corpo, vibrante particella di un tutto, corda sonora che riceve e riecheggia tutte le sinfonie della storia che voi sentite così di contribuire a creare. Nonostante questo abbandono completo alla realtà ambiente, nonostante questo collegare il vostro individuo al gioco complicato delle cause ed effetti universali, sentite all'improvviso il senso di qualcosa che vi manca, sentite dei bisogni vaghi, e difficilmente determinabili, quei bisogni che Schopenhauer chiamava metafisici. Siete nel mondo, ma non sapete perché. Operate, ma non sapete perché. Sentite dei vuoti, e desiderereste delle giustificazioni al vostro essere, al vostro operare, e vi pare che le ragioni umane non vi bastino, che risalendo di causa in causa arriviate ad un punto che, per coordinare e regolare il movimento, ha bisogno di una ragione suprema, fuori del conosciuto e del conoscibile per essere spiegata. Proprio come uno che guardando il cielo e risalendo di piano in piano nello spazio che la scienza ha misurato, sente sempre maggiori difficoltà al suo fantastico vagabondare nell'infinito, e arriva al vuoto e non può concepire questo vuoto assoluto, e allora inconsciamente lo popola di creature divine, di entità soprannaturali che coordinano il movimento vertiginoso e pur logico dell'universo. Il sentimento religioso è tutto materiato di queste aspirazioni vaghe, di questi istintivi ed interiori ragionamenti senza sbocco. E a tutti ne rimane nel sangue qualche traccia, qualche fremito, anche a chi più fortemente è riuscito a dominare queste manifestazioni inferiori, perché istintive, perché impulsive, del proprio io. Ma è la vita stessa che le vince, è l'attività storica che le cancella. Prodotti della tradizione, depositi istintivi di millenarie epoche di terrore e di ignoranza della realtà circostante, si cerca di rintracciare la loro origine. Spiegarle vuol dire superarle. Farne oggetto di storia vuol dire riconoscere la loro vacuità. E allora si ritorna alla vita attiva, si sente più plasticamente la realtà della storia. Riconducendo ad essa non solo il fatto ma anche il sentimento, si finisce col riconoscere che solo in essa è la spiegazione della nostra esistenza. Tutto ciò che è storificabile non può essere soprannaturale, non può essere il residuo di una rivelazione divina. Se qualcosa è ancora inesplicabile, ciò è dovuto solamente alla nostra incompletezza conoscitiva, all'ancora non raggiunta perfezione intellettuale. E ciò può renderci più umili, più modesti, non già buttarci in braccia alla religione. La nostra religione ritorna ad essere la storia, la nostra fede ritorna ad essere l'uomo e la sua volontà e attività. Sentiamo questa spinta enorme, irresistibile che ci viene dal passato, la sentiamo nel bene che ci apporta, dandoci l'energica sicurezza che ciò che è stato possibile lo sarà ancora, e con maggiori probabilità in quanto noi ci siamo scaltriti per l'esperienza altrui. E la sentiamo nel male, in questi residui inorganici di stati d'animo superati. E così è che ci sentiamo inevitabilmente in antitesi col cattolicismo e ci diciamo moderni. Perché il passato noi lo sentiamo bensì vivificare la nostra lotta, ma domato, servo e non padrone, illuminatore e non aduggiatore. I giornali e gli operai(13) Sono i giorni della réclame per gli abbonamenti. I direttori e gli amministratori dei giornali borghesi rassettano la loro vetrina, passano una mano di vernice sulla loro insegna e richiamano l'attenzione del passante (cioè del lettore) sulla loro merce. La merce è quel foglio a quattro o sei pagine che va ogni mattina od ogni sera a iniettare nello spirito del lettore le maniere di sentire e di giudicare i fatti dell'attualità politica, che convengono ai produttori e venditori di carta stampata. Vogliamo tentare di discorrere, con gli operai specialmente, dell'importanza e della gravità di quell'atto apparentemente così innocente, che consiste nel scegliere il giornale cui si vuole abbonarsi? è una scelta piena di insidie e di pericoli che dovrebbe essere fatta con coscienza, con criterio e dopo matura riflessione. Anzitutto l'operaio deve negare recisamente qualsiasi solidarietà col giornale borghese. Egli dovrebbe ricordarsi sempre, sempre, sempre, che il giornale borghese (qualunque sia la sua tinta) è uno strumento di lotta mosso da idee e da interessi che sono in contrasto coi suoi. Tutto ciò che stampa è costantemente influenzato da un'idea: servire la classe dominante, che si traduce ineluttabilmente in un fatto: combattere la classe lavoratrice. E difatti, dalla prima all'ultima riga, il giornale borghese sente e rivela questa preoccupazione. Ma il bello, cioè il brutto, sta in ciò: che invece di domandare quattrini alla classe borghese per essere sostenuto nell'opera di difesa spiegata in suo favore, il giornale borghese riesce a farsi invece pagare... dalla stessa classe lavoratrice che egli combatte sempre. E la classe lavoratrice paga, puntualmente, generosamente. Centinaia di migliaia di operai, dànno regolarmente ogni giorno il loro soldino al giornale borghese, concorrendo così a creare la sua potenza. Perché? Se lo domandate al primo operaio che vedete in tram o per la via con un foglio borghese spiegato dinanzi, voi vi sentite rispondere: "Perché ho bisogno di sapere cosa c'è di nuovo". E non gli passa neanche per la mente che le notizie e gli ingredienti coi quali sono cucinate possano essere esposte con un'arte che diriga il suo pensiero e influisca sul suo spirito in un determinato senso. Eppure egli sa che il tal giornale è codino, che il tal altro è palancaio, che il terzo, il quarto, il quinto, sono legati a gruppi politici che hanno interessi diametralmente opposti ai suoi. Tutti i giorni poi, capita a questo stesso operaio di poter constatare personalmente che i giornali borghesi raccontano i fatti anche più semplici in modo da favorire la classe borghese e la politica borghese a danno della politica e della classe proletaria. Scoppia uno sciopero? Per il giornale borghese gli operai hanno sempre torto. Avviene una dimostrazione? I dimostranti, sol perché siano operai, sono sempre dei turbolenti, dei faziosi, dei teppisti... Il governo emana una legge? è sempre buona, utile e giusta, anche se è... viceversa. Si svolge una lotta elettorale, politica od amministrativa? I candidati e i programmi migliori sono sempre quelli dei partiti borghesi. E non parliamo di tutti i fatti che il giornale borghese o tace, o travisa, o falsifica, per ingannare, illudere, e mantenere nell'ignoranza il pubblico dei lavoratori. Malgrado ciò, l'acquiescenza colpevole dell'operaio verso il giornale borghese è senza limiti. Bisogna reagire contro di essa e richiamare l'operaio all'esatta valutazione della realtà. Bisogna dire e ripetere che quel soldino buttato là distrattamente nella mano dello strillone, è un proiettile consegnato al giornale borghese che lo scaglierà poi, al momento opportuno, contro la massa operaia. Se gli operai si persuadessero di questa elementarissima verità, imparerebbero a boicottare la stampa borghese con quella stessa compattezza e disciplina con cui la borghesia boicotta i giornali degli operai, cioè la stampa socialista. Non date aiuti di danaro alla stampa borghese che è vostra avversaria: ecco quale deve essere il nostro grido di guerra in questo momento che è caratterizzato dalla campagna per gli abbonamenti fatta da tutti i giornali borghesi. Boicottateli, boicottateli, boicottateli! Uomini o macchine?(14) La breve discussione svoltasi nell'ultima seduta consiliare fra i nostri compagni e qualche rappresentante della maggioranza a proposito dei programmi per l'insegnamento professionale, merita di essere commentata, anche se brevemente e compendiosamente. L'osservazione del compagno Zini ("La corrente umanistica e quella professionale si urtano ancora nel campo dell'insegnamento popolare: occorre riuscire a fonderle, ma non bisogna dimenticare che prima dell'operaio vi è ancora l'uomo, al quale non bisogna precludere la possibilità di spaziare nei più ampi orizzonti dello spirito, per asservirlo subito alla macchina") e le proteste del consigliere Sincero contro la filosofia (la filosofia trova specialmente degli avversari quando afferma delle verità che colpiscono gli interessi particolari) non sono dei semplici episodi polemici occasionali: sono scontri necessari tra chi rappresenta dei principi fondamentalmente diversi. 1. Il nostro Partito non si è ancora affermato su un programma scolastico e concreto che si differenzi da quelli soliti. Ci siamo finora accontentati di affermare il principio generale della necessità della cultura sia elementare, che professionale, che superiore, e questo principio abbiamo svolto, abbiamo propagandato con vigore ed energia. Possiamo affermare che la diminuzione dell'analfabetismo in Italia non è tanto dovuta alla legge sull'istruzione obbligatoria quanto alla vita spirituale, al sentimento di certi determinati bisogni della vita interiore, che la propaganda socialista ha saputo suscitare negli strati proletari del popolo italiano. Ma non siamo andati più in là. La scuola in Italia è rimasta un organismo schiettamente borghese, nel peggior senso della parola. La scuola media e superiore, che è di Stato, e cioè è pagata con le entrate generali, e quindi anche con le tasse dirette pagate dal proletariato, non può essere frequentata che dai giovani figli della borghesia, che godono dell'indipendenza economica necessaria per la tranquillità degli studi. Un proletario, anche se intelligente, anche se in possesso di tutti i numeri necessari per diventare un uomo di cultura, è costretto a sciupare le sue qualità in attività diversa, o a diventare un refrattario, un autodidatta, cioè (fatte le dovute eccezioni) un mezzo uomo, un uomo che non può dare tutto ciò che avrebbe potuto, se si fosse completato ed irrobustito nella disciplina della scuola. La cultura è un privilegio. La scuola è un privilegio. E non vogliamo che tale essa sia. Tutti i giovani dovrebbero essere uguali dinanzi alla cultura. Lo Stato non deve pagare coi denari di tutti la scuola anche per i mediocri e deficienti, figli dei benestanti, mentre ne esclude gli intelligenti e capaci, figlioli dei proletari. La scuola media e superiore deve essere fatta solo per quelli che sanno dimostrare di esserne degni. Se è interesse generale che essa esista, e sia magari sorretta e regolata dallo Stato, è anche interesse generale che ad essa possano accedere tutti gli intelligenti, qualunque sia la loro potenzialità economica. Il sacrifizio della collettività è giustificato solo quando esso va a beneficio di chi se lo merita. Il sacrifizio della collettività perciò deve servire specialmente a dare ai valenti quella indipendenza economica, che è necessaria per poter tranquillamente dedicare il proprio tempo allo studio e poter studiare seriamente. 2. Il proletariato, che è escluso dalle scuole di cultura media e superiore per le attuali condizioni della società che determinano una certa specializzazione degli uomini, innaturale, perché non basata sulle diverse capacità, e quindi distruttrice ed inquinatrice della produzione, deve riversarsi nelle scuole collaterali: tecniche e professionali. Quelle tecniche, istituite con criteri democratici dal ministro Casati, hanno subìto per le necessità antidemocratiche del bilancio statale, una trasformazione che le ha in gran parte snaturate. Sono ormai in gran parte diventate superfetazioni delle scuole classiche, e uno sfogatoio innocente della impiegomania piccolo-borghese. Le tasse di iscrizione in continua ascensione, e le possibilità determinate che dànno per la vita pratica, hanno fatto anche di esse un privilegio, e del resto il proletariato ne è escluso, nella sua grandissima parte, automaticamente, per la vita incerta ed aleatoria che è costretto a condurre il salariato; vita che non è certo la più propizia per seguire con frutto un corso di studio. 3. Al proletariato è necessaria una scuola disinteressata. Una scuola in cui sia data al fanciullo la possibilità di formarsi, di diventare uomo, di acquistare quei criteri generali che servono allo svolgimento del carattere. Una scuola umanistica, insomma, come la intendevano gli antichi e i più recenti uomini del Rinascimento. Una scuola che non ipotechi l'avvenire del fanciullo e costringa la sua volontà, la sua intelligenza, la sua coscienza in formazione a muoversi entro un binario a stazione prefissata. Una scuola di libertà e di libera iniziativa e non una scuola di schiavitù e di meccanicità. Anche i figli dei proletari devono avere dinanzi a sé tutte le possibilità, tutti i campi liberi per poter realizzare la propria individualità nel modo migliore, e perciò nel modo più produttivo per loro e per la collettività. La scuola professionale non deve diventare una incubatrice di piccoli mostri aridamente(15) istruiti per un mestiere, senza idee generali, senza cultura generale, senza anima, ma solo dall'occhio infallibile e dalla mano ferma. Anche attraverso la cultura professionale può farsi scaturire, dal fanciullo, l'uomo. Purché essa sia cultura educativa e non solo informativa, o non solo pratica manuale. Il consigliere Sincero, che è un industriale, è troppo gretto borghese quando protesta contro la filosofia. Certo, per gli industriali grettamente borghesi, può essere più utile avere degli operai-macchine invece che degli operai-uomini. Ma i sacrifizi cui tutta la collettività si assoggetta volontariamente per migliorarsi e per far scaturire dal suo seno i migliori e i più perfetti uomini che la innalzino ancor più, devono riversarsi beneficamente su tutta la collettività e non solo su una categoria o una classe. è un problema di diritto e di forza. E il proletariato deve stare all'erta, per non subire un'altra sopraffazione dopo le tante che già subisce. L'Università popolare(16) Abbiamo qui davanti il programma dell'Università popolare per il primo periodo 1916-17. Cinque corsi: tre dedicati alle scienze naturali, uno di letteratura italiana, uno di filosofia. Sei conferenze su argomenti vari: due sole di esse dànno, per il titolo, una tal quale assicurazione di serietà. Ci domandiamo, qualche volta, il perché a Torino non sia stato possibile il solidificarsi di un organismo per la divulgazione della cultura, il perché l'Università popolare sia rimasta quella misera cosa che è, e non sia riuscita ad imporsi all'attenzione, al rispetto, all'amore del pubblico, il perché essa non sia riuscita a formarsi un pubblico. La risposta non è facile, o è troppo facile. Problema di organizzazione, senza dubbio, e di criteri informativi. La miglior risposta dovrebbe consistere nel far qualcosa di meglio, nella dimostrazione concreta che si può far meglio e che è possibile radunare intorno ad un focolaio di cultura un pubblico, purché questo focolaio sia vivo e riscaldi davvero. A Torino, l'Università popolare è una fiamma fredda. Non è né università, né popolare. I suoi dirigenti sono dei dilettanti in fatto di organizzazione di cultura. Ciò che li fa operare è un blando e scialbo spirito di beneficienza, non un desiderio vivo e fecondo di contribuire all'elevamento spirituale della moltitudine attraverso l'insegnamento. Come negli istituti di volgare beneficenza, essi nella scuola distribuiscono delle sporte di viveri che riempiono lo stomaco, producono magari delle indigestioni allo stomaco, ma non lasciano una traccia, ma non hanno un seguito di nuova vita, di vita diversa. I dirigenti dell'Università popolare sanno che l'istituzione che essi guidano deve servire per una determinata categoria di persone, la quale non ha potuto seguire gli studi regolari nelle scuole. E basta. Non si preoccupano del come questa categoria di persone possa nel modo più efficace essere accostata al mondo della conoscenza. Trovano negli istituti di cultura già esistenti un modello: lo ricalcano, lo peggiorano. Fanno presso a poco questo ragionamento: chi frequenta i corsi dell'Università popolare ha l'età e la formazione generale di chi frequenta le università pubbliche: dunque diamogli un surrogato di queste. E trascurano tutto il resto. Non pensano che l'università è la foce naturale di tutto un lavorio precedente: non pensano che lo studente quando arriva all'università è passato attraverso le esperienze delle scuole medie ed in queste ha disciplinato il suo spirito di ricerca, ha arginato col metodo le sue impulsività da dilettante, è divenuto, insomma, e si è scaltrito lentamente, tranquillamente, cadendo in errori e rialzandosene, ondeggiando e rimettendosi sulla via diritta. Non capiscono questi dirigenti che le nozioni, avulse da tutto questo lavorio individuale di ricerca, sono né più né meno che dogmi, che verità assolute. Non capiscono che l'Università popolare, così come essi la guidano, si riduce ad un insegnamento teologico, a una rinnovazione della scuola gesuitica, in cui la conoscenza viene presentata come qualcosa di definitivo, di apoditticamente indiscutibile. Ciò non si fa neppure nelle università pubbliche. Si è ormai persuasi che una verità è feconda solo quando si è fatto uno sforzo per conquistarla. Che essa non esiste in sé e per sé, ma è stata una conquista dello spirito, che in ogni singolo bisogna che si riproduca quello stato di ansia che ha attraversato lo studioso prima di raggiungerla. E pertanto gli insegnanti che sono maestri, dànno nell'insegnamento una grande importanza alla storia della loro materia. Questo ripresentare in atto agli ascoltatori la serie di sforzi, gli errori e le vittorie attraverso i quali sono passati gli uomini per raggiungere l'attuale conoscenza, è molto più educativo che l'esposizione schematica di questa stessa conoscenza. Forma lo studioso, dà al suo spirito la elasticità del dubbio metodico che fa del dilettante l'uomo serio, che purifica la curiosità, volgarmente intesa, e la fa diventare stimolo sano e fecondo di sempre maggiore e perfetta conoscenza. Chi scrive queste note parla un po' anche per esperienza personale. Del suo garzonato universitario ricorda con più intensità quei corsi, nei quali l'insegnante gli fece sentire il lavorìo di ricerca attraverso i secoli per condurre a perfezione il metodo di ricerca. Per le scienze naturali, per esempio, tutto lo sforzo che è costato il liberare lo spirito degli uomini dai pregiudizi e dagli apriorismi divini,o filosofici per arrivare alla conclusione che le sorgenti d'acqua hanno la loro origine dalla precipitazione atmosferica e non dal mare. Per la filologia, come si sia arrivati al metodo storico attraverso i tentativi e gli sbagli dell'empirismo tradizionale, e come, per esempio, i criteri e le convinzioni che guidavano Francesco De Sanctis nello scrivere la sua storia della letteratura italiana, non fossero che delle verità venutesi affermando attraverso faticose esperienze e ricerche, che liberarono gli spiriti dalle scorie sentimentali e retoriche che avevano inquinato nel passato gli studi di letteratura. E così per le altre materie. Era questa la parte più vitale dello studio: questo spirito ricreativo, che faceva assimilare i dati enciclopedici, che li fondeva in una fiamma ardente di nuova vita individuale. L'insegnamento, svolto in tal modo, diventa un atto di liberazione. Esso ha il fascino di tutte le cose vitali. Esso deve specialmente affermare la sua efficacia nelle Università popolari, gli uditori delle quali mancano precisamente di quella formazione intellettuale che è necessaria per poter inquadrare in un tutto organizzato i singoli dati della ricerca. Per essi, specialmente, ciò che è più efficace ed interessante è la storia della ricerca, la storia di questa enorme epopea dello spirito umano, che lentamente, pazientemente, tenacemente prende possesso della verità, conquista la verità. Come dall'errore si arrivi alla certezza scientifica. è il cammino che tutti devono percorrere. Mostrare come è stato percorso dagli altri è l'insegnamento più fecondo di risultati. è, tra l'altro, una lezione di modestia, che evita il formarsi della noiosissima caterva di saputelli, di quelli che credono aver dato fondo all'universo quando la loro memoria felice è riuscita a incasellare nelle sue rubriche un certo numero di date e nozioni particolari. Ma le Università popolari, come quella di Torino, amano meglio far tenere dei corsi inutili e ingombranti su "L'anima italiana nell'arte letteraria delle ultime generazioni", o delle lezioni su "La conflagrazione europea giudicata dal Vico", nei quali si bada più alla lustra che all'efficacia, e la personcina pretenziosa del conferenziere soverchia l'opera modesta del maestro, che pure sa di parlare a degli incolti. Preoccupazioni(17) La posta mi trasmette una circolare della mia parrocchia. Non conosco né il curato né la parrocchia, ma ciò non impedisce che essi esistano, e che io sia una pecorella del loro gregge, e che essi pensino alla mia salute spirituale, e che magari consacrino qualche minuto del prezioso loro tempo per invocare dall'angelo annunziatore il miracolo del rammollimento delle durezze del mio cuore. Pertanto la circolare mi dispone alla soavità, alla tenerezza. Domanda un contributo per l'elevazione di un tempio votivo a Maria Annunziata, vorrebbe riunire tutta l'Italia ai piedi di Maria SS. per implorare vittoria e pace, protezione ai combattenti, eterno riposo ai caduti. è accompagnata da alcune copie di una pubblicazione periodica, "Votiamoci a Maria!"; ricorda che la SS. Annunziata ha protetto in mille battaglie i magnanimi principi di Casa Savoia, ricorda che la immagine della dea brilla sul petto del nostro eroico sovrano nel collare benedetto, e ricorda perciò che essa è la speciale protettrice degli eserciti e dei soldati d'Italia. Ma questi ricordi non hanno neanche essi la virtù di indispormi, di strappare almeno un piccolo urlo alla mia coscienza di giacobino. La mia coscienza è immersa in un vago crepuscolo mitologico, la mia coscienza è tormentata da altre preoccupazioni. L'attività degli altri non mi irrita, anche se antipodica alla volontà mia e dei compagni in idea. Mi preoccupa il fatto che questa attività ha per fine di lasciare su qualche metro quadrato della superficie del globo una traccia architettonica che consuma pietra e calcina, ingegno e braccia per un edificio, cui non so prevedere un ufficio per domani, quando l'attività attuale sarà definitivamente divenuta mito, quando l'edifizio avrà perduto per tutti del suo carattere ieratico e non sarà più che sasso e calcina organizzati in edifizio. è una preoccupazione viva e attuale, questa. Si vorrebbe che tutto ciò che si produce in solido, in trasformazione geologica della superficie del mondo, avesse dei caratteri di perpetuità, e pertanto, avesse delle possibilità di adattamento a nuove funzioni. L'uomo passa: una generazione è sostituita dall'altra. La storia degli uomini è una matrice feconda di coscienze sempre nuove, quantunque nutrite di vecchio, di tradizione. Ma la materia bruta non possiede in sé questa elasticità di rinnovamento. Sono gli uomini che gliela dànno, quando hanno la coscienza di questo loro infuturarsi, di questo rivivere del loro sforzo attuale in una forza di domani. E quando trasformano la stratificazione geologica del mondo, quando tolgono granito al monte o calce alla cava per ordinarli in muri e soffitti, cercano di fare tutto con criteri di continuità, per non ferire inutilmente il decrepito mondo, per non ingombrare inutilmente il nuovo mondo che si dibatte per nascere. La circolare del mio curato mi preoccupa molto in questo vago crepuscolo mitologico nel quale l'animo è immerso. Ma non riesco a vincere i sentimenti soavi e teneri. è la stessa soavità e tenerezza che si prova al cospetto di tutte le creature imperfette. Si pensa alla fatale loro infecondità, all'oblio che le sommergerà completamente in un tempo non lontano. Il mito pagano ha lasciato dei monumenti di bellezza che continuano a vivere per questo loro carattere di perennità, che fanno rivivere qualcuno dei sentimenti ancestrali. Il mito cristiano, almeno nella nostra città, non lascerà che degli ingombri, preda del futuro piccone. C'è da preoccuparsene davvero. Confessiamo che esso se fa pena per la sua impotenza e sterilità, finisce anche per essere seccante. Profanazioni(18) Il pane di guerra - fatto con mani pure - è pane di comunione - dove è la Patria intera - transustanziata viva - come il corpo del Redentore - nell'offerta eucaristica - Anno di vittoria MCMXVII. è l'iscrizione dettata da G. d'Annunzio per la medaglia ai panettieri che meglio preparano il pane di guerra. Per i cattolici l'iscrizione è una bestemmia, una profanazione. Nelle chiese di Torino sono stati già celebrati dei tridui di riparazione; l'opinione pubblica cattolica ha protestato in tutte le forme; il d'Annunzio è stato perfino chiamato Rapagnetta, massimo insulto per l'esteta che ama le parole armoniose. Profanazione, sciocchezza. Profanazione per il cattolico, sciocchezza per il razionalista. Il razionalista non rinnega il misticismo. Lo comprende, lo spiega e, quindi, lo svuota del suo significato, del suo valore di propaganda. Il razionalista non disprezza il misticismo. Nega che abbia un'efficacia morale, un'efficacia costruttiva duratura e solida. Il misticismo è intuizione appassionata di una realtà fantastica, è fenomeno individuale, che nei singoli individui può determinare realizzazioni perfette di vita morale. Ma è individuale, non può assurgere a massima, a programma d'azione. è intuizione, non raziocinio. è incomunicabile nella sua vita profonda, e pertanto non può essere, diventando programma di vita, che stucchevole opera di scimmia, bigotteria volgare, sciocco e inconcludente verbalismo. D'Annunzio per i cattolici ha profanato, per essi ha fatto cosa scempia. Ha schematizzato il mistico atto della transustanziazione del Cristo nell'azzimo pane eucaristico, e lo schema ha applicato ad altre realtà: la patria oggi, come ieri e domani la donna, come sempre la parola. E la scempiaggine non è solo dannunziana: è dei cattolici, è dei monarchici, è dei repubblicani, è di tutti quelli che della mistica hanno fatto una massima d'azione e di propaganda [quindici righe censurate]. E per qualcuno può ben essere così. I santi esistono ed esisteranno; i mistici che bruciano in una fiamma di passione superumana tutte le scorie della loro terrena esistenza e assurgono a puro spirito, esistono ed esisteranno. Ma essi vivono questo misticismo e se ne consumano; non possono comunicarlo. Fare della loro vita una massima è scempio. Massima d'azione può essere la volontà, la ricerca, lo studio, la coerenza, la disciplina, non l'inconoscibile, l'oscurità, il lampo rivelatore, l'intuizione che sgorga dalle profondità dell'essere, senza seguire alcuna legge, senza presentare caratteri di uniformità. Chi ha per massima di vita il misticismo è una scimmia, non un uomo, è un retore, non un maestro, sia egli d'Annunzio, o il predicatore della chiesa cattolica, o il giornalista del trust clericale. è un imbroglione, incosciente qualche volta, quasi sempre cosciente del fine che vuol raggiungere. Profanatore d'Annunzio? Scempi imbroglioni d'Annunzio e i suoi fustigatori che si ricordano di Rapagnetta, ma ammirano quei famosi scocciatori che sono Paolo Bourget o Antonio Fogazzaro. Tre principi, tre ordini(19) L'ordine e il disordine sono le due parole che più frequentemente ricorrono nelle polemiche di carattere politico. Partiti dell'ordine, uomini dell'ordine, ordine pubblico... Tre parole avvicinate ad un cardine unico: l'ordine, sul quale le parole si fissano e girano con maggiore o minore aderenza a seconda della concreta forma storica che gli uomini, i partiti e lo Stato assumono nella molteplice possibile loro incarnazione. La parola ordine ha un potere taumaturgico; la conservazione degli istituti politici è affidata in gran parte a questo potere. L'ordine presente si presenta come qualcosa di armonicamente coordinato, di stabilmente coordinato; e la moltitudine dei cittadini esita e si spaura nell'incertezza di ciò che un cambiamento radicale potrebbe apportare. Il senso comune, il balordissimo senso comune predica al solito che è meglio un uovo oggi che una gallina domani. E il senso comune è un terribile negriero degli spiriti. Tanto più quando per aver la gallina bisogna rompere il guscio dell'uovo. Si forma nella fantasia l'immagine di qualcosa di lacerato violentemente; non si vede l'ordine nuovo possibile, meglio organizzato del vecchio, più vitale del vecchio, perché al dualismo contrappone l'unità, all'immobilità statica dell'inerzia la dinamica della vita semoventesi. Si vede solo la lacerazione violenta, e l'animo pavido arretra nella paura di tutto perdere, di aver dinanzi a sé il caos, il disordine ineluttabile. Le profezie utopistiche erano costituite appunto in vista di questa paura. Si voleva, con l'utopia, prospettare un assetto nel futuro che fosse ben coordinato, ben lisciato, e togliesse l'impressione del salto nel buio. Ma le costruzioni sociali utopistiche sono crollate tutte, perché essendo appunto così lisciate e assettatuzze, bastava dimostrarne infondato un particolare, per farle crollare nella loro totalità. Non avevano base queste costruzioni, perché troppo analitiche, perché fondate su un'infinità di fatti, e non su un unico principio morale. Ora i fatti concreti dipendono da tante cause, che finiscono per non aver più causa, e per essere imprevedibili. E l'uomo ha bisogno, per operare, di poter almeno in parte prevedere. Non si concepisce volontà che non sia concreta, che cioè non abbia uno scopo. Non si concepisce volontà collettiva che non abbia uno scopo universale concreto. Ma questo non può essere un fatto, singolo, o una serie di fatti singoli. Può essere solo un'idea, o un principio morale. Il difetto organico delle utopie è tutto qui. Credere che la previsione possa essere previsione di fatti, mentre essa può solo esserlo di princìpi, o di massime giuridiche. Le massime giuridiche (il diritto, il giure è la morale attuata) sono creazione degli uomini come volontà. Se volete dare a queste volontà una certa direzione, ponete loro come scopo ciò che solo può esserlo: altrimenti, dopo un primo entusiasmo, le vedrete abbiosciarsi e dileguare. Gli ordini attuali sono stati suscitati per la volontà di attuare totalmente un principio giuridico. I rivoluzionari dell'89 non prevedevano l'ordine capitalistico. Volevano attuare i diritti dell'uomo, volevano che fossero riconosciuti ai componenti la collettività determinati diritti. Questi, dopo la lacerazione iniziale del vecchio guscio, andarono affermandosi, andarono concretandosi e, divenuti forze operose sui fatti, li plasmarono, li caratterizzarono e ne sbocciò là civiltà borghese, l'unica che potesse sbocciarne, perché la borghesia era l'unica energia sociale fattiva e realmente operante nella storia. Gli utopisti furono sconfitti anche allora, perché nessuna delle loro particolari previsioni si realizzò. Ma si realizzò il principio, e da questo fiorirono gli ordinamenti attuali, l'ordine attuale. Era un principio universale quello affermatosi nella storia attraverso la rivoluzione borghese? Certamente sì. Eppure si è soliti dire che se J. J. Rousseau potesse vedere quale foce hanno avuto le sue predicazioni, probabilmente le rinnegherebbe. In questa affermazione paradossale è contenuta una critica implicita del liberalismo. Ma essa è paradossale, cioè afferma in modo ingiusto una cosa giusta. Universale non vuol dire assoluto. Nella storia niente vi è di assoluto e di rigido. Le affermazioni del liberalismo sono delle idee-limiti che, riconosciute razionalmente necessarie, sono diventate idee-forze, si sono realizzate nello Stato borghese, hanno servito a suscitare a questo Stato un'antitesi nel proletariato, e si sono logorate. Universali per la borghesia, non lo sono abbastanza per il proletariato. Per la borghesia erano idee-limiti, per il proletariato sono idee-minimi. E infatti il programma liberale integrale è diventato il programma minimo del Partito socialista. Il programma cioè che ci serve a vivere giorno per giorno, in attesa che si giudichi giunto l'istante più utile. Come idea-limite il programma liberale crea lo Stato etico, uno Stato cioè che idealmente sta al disopra delle competizioni di classe, del vario intrecciarsi ed urtarsi degli aggruppamenti che ne sono la realtà economica e tradizionale. è un'aspirazione politica questo Stato, più che una realtà politica; esiste solo come modello utopistico, ma è appunto questo suo essere un miraggio che lo irrobustisce e ne fa una forza di conservazione. Nella speranza che finalmente esso si realizzi nella sua compiuta perfezione, molti trovano la forza di non rinnegarlo, e non cercare quindi di sostituirlo. Vediamo due di questi modelli che sono tipici, che sono la pietra di paragone per i dissertatori di teorie politiche. Lo Stato inglese e lo Stato germanico. Ambedue divenuti grande potenza, ambedue riusciti ad affermarsi, con direttive diverse, come saldi organismi politici ed economici, ambedue aventi una sagoma ben definita, che li pone di fronte ora, e che sempre li ha resi inconfondibili. L'idea che ha servito come motrice delle forze interne, parallele, per l'Inghilterra si può riassumere nella parola: liberismo, per la Germania nelle parole: autorità con la ragione. Liberismo è la formula che comprende tutta una storia di lotte, di movimenti rivoluzionari per la conquista di singole libertà. è la forma mentis venutasi creando attraverso questi movimenti. è la convinzione venutasi formando nel sempre maggior numero di cittadini che vennero attraverso queste lotte a partecipare all'attività pubblica, che nella libera manifestazione dei propri convincimenti, nel libero esplicarsi delle forze produttive e legislative del paese era il segreto della felicità. Della felicità, naturalmente, intesa nel senso che di tutto ciò che succede di male, non possa andare la colpa a singoli, e di tutto ciò che non riesce debba ricercarsi la ragione solo nel fatto che gli iniziatori non possedevano ancora la forza per affermare vittoriosamente il loro programma. Per l'Inghilterra il liberismo ha trovato, per citare un esempio, prima della guerra, il suo propugnatore teorico-pratico in Lloyd George, che, ministro di Stato, in un comizio pubblico, e sapendo che le sue parole acquistavano significato di programma di governo, dice press'a poco agli operai: "Noi non siamo socialisti, cioè non addiveniamo subito alla socializzazione della produzione. Ma non abbiamo pregiudiziali teoriche contro il socialismo. A ognuno il suo compito. Se la società attuale è ancora capitalistica, ciò vuol dire che il capitalismo è ancora una forza storicamente non esaurita. Voi socialisti dite che il socialismo è maturo. Provatelo. Provate di essere la maggioranza, provate di essere non solo potenzialmente, ma anche in atto, la forza capace di reggere le sorti del paese. E noi vi lasceremo il posto pacificamente". Parole che a noi, abituati a vedere nel governo qualcosa di sfingico, astratto completamente dal paese e da ogni polemica viva su idee e fatti, sembrano strabilianti. Ma che non lo sono, e non sono neppure retorica vuota, se si pensa che è da più di 200 anni che in Inghilterra si combattono delle lotte politiche nella piazza, e che il diritto alla libera affermazione di tutte le energie è un diritto conquistato, e non un diritto naturale, che si presume tale in sé e per sé. E basta ricordare che il governo radicale inglese tolse alla Camera dei Lordi ogni diritto di voto, per poter far diventare realtà l'autonomia irlandese, e che Lloyd George si proponeva prima della guerra di far votare un progetto di legge agraria, per la quale, posto come assioma che chi possiede mezzi di produzione, e non li fa adeguatamente fruttare, decade dai suoi diritti assoluti, molte delle proprietà private dei terrieri venivano loro tolte e vendute a chi avrebbe potuto coltivarle. Questa forma di socialismo di Stato borghese, cioè socialismo non socialista, faceva sì che anche il proletariato non vedesse molto di cattivo occhio lo Stato come governo, e persuaso, a torto o a ragione, di essere tutelato, conducesse la lotta di classe con discrezione e senza quell'esasperazione morale che caratterizza il movimento operaio. La concezione dello Stato germanico è agli antipodi di quella inglese, ma produce gli stessi effetti. Lo Stato tedesco è protezionista per forma mentis. Fichte ha dato il codice dello Stato chiuso. Cioè dello Stato retto dalla ragione. Dello Stato che non deve essere lasciato in balìa delle forze libere spontanee degli uomini, ma deve in ogni cosa, in ogni atto imprimere il suggello di una volontà, di un programma stabilito, preordinato dalla ragione. E perciò in Germania il Parlamento non ha quei poteri che ha altrove. è semplicemente consultivo, da mantenere solo perché razionalmente non si può ammettere l'infallibilità dei poteri esecutivi, e anche dal Parlamento, dalla discussione può scoccare la verità. Ma la maggioranza non ha diritto riconosciuto alla verità. Arbitro rimane il Ministero (l'Imperatore), che giudica e sceglie, e non è sostituito che per volontà imperiale. Ma le classi hanno la convinzione, non retorica, non supina, ma formatasi attraverso decenni di esperienze di retta amministrazione, di osservata giustizia distributiva, che i loro diritti alla vita sono tutelati e che la loro attività deve consistere nel cercare di diventar maggioranza, per i socialisti, e di conservarsi maggioranza e dimostrare continuamente la loro necessità storica, per i conservatori. Un esempio: la votazione, approvata anche dai socialisti, del miliardo per maggiori spese militari, avvenuta nel 1913. La maggioranza dei socialisti votò a favore perché il miliardo fu prelevato non dalla generalità dei contribuenti, ma con una espropriazione (almeno apparente) dei grossi reddituari. Sembrò un esperimento di socialismo di Stato, sembrò che fosse giusto principio in sé far pagare ai capitalisti le spese militari, e si votarono dei denari che andavano a beneficio esclusivo della borghesia e del partito militare prussiano. Questi due tipi di ordine costituito sono il modello base dei partiti d'ordine d'Italia. I liberali e i nazionalisti dicono (o dicevano) rispettivamente di volere che in Italia si creasse qualcosa di simile allo Stato inglese e allo Stato germanico. La polemica contro il socialismo è tutta tessuta sull'aspirazione di questo Stato etico potenziale in Italia. Ma in Italia è mancato completamente quel periodo di svolgimento che ha reso possibile l'attuale Germania e Inghilterra. Pertanto se portate alle ultime conseguenze i ragionamenti dei liberali e dei nazionalisti italiani, ottenete come risultato nel presente questa formula: il sacrifizio da parte del proletariato. Sacrifizio dei propri bisogni, sacrifizio della propria personalità, della propria combattività per dare tempo al tempo, per permettere che la ricchezza si moltiplichi, per permettere che la amministrazione si purifichi [tre righe censurate]. I nazionalisti e i liberali non arrivano fino a sostenere che in Italia esista un ordine qualsiasi. Sostengono che quest'ordine dovrà esistere, purché i socialisti non intralcino la fatale sua instaurazione. Questo stato di fatto delle cose italiane è per noi fonte di maggiore energia e di maggiore combattività. Se si pensa quanto sia difficile convincere a muoversi un uomo che non abbia delle ragioni immediate per farlo, si comprende quanto sia più difficile convincere una moltitudine negli Stati dove non esiste, come in Italia, da parte del governo, il partito preso di soffocarne le aspirazioni, di taglieggiarne in tutti i modi la pazienza e la produttività. Nei paesi dove non succedono i conflitti di piazza, dove non si vedono calpestate le leggi fondamentali dello Stato, né si vede l'arbitrio essere il dominatore, la lotta di classe perde della sua asprezza, lo spirito rivoluzionario perde di slancio e si abbioscia. La cosiddetta legge del minimo sforzo, che è la legge dei poltroni, e vuol dire spesso non far niente, diventa popolare. In quei paesi la rivoluzione è meno probabile. Dove esiste un ordine, è più difficile che ci si decida a sostituirlo con un ordine nuovo [una riga censurata]. I socialisti non devono sostituire ordine ad ordine. Devono instaurare l'ordine in sé. La massima giuridica che essi vogliono realizzare è: possibilità di attuazione integrale della propria personalità umana concessa a tutti i cittadini. Con il concretarsi di questa massima cadono tutti i privilegi costituiti. Essa porta al massimo della libertà col minimo della costrizione. Vuole che regola della vita e delle attribuzioni sia la capacità e la produttività, all'infuori di ogni schema tradizionale. Che la ricchezza non sia strumento di schiavitù, ma essendo di tutti impersonalmente, dia a tutti i mezzi per tutto il benessere possibile. Che la scuola educhi gli intelligenti da chiunque nati, e non rappresenti il premio [quattro righe censurate]. Da questa massima dipendono organicamente tutti gli altri princìpi del programma massimo socialista. Esso, ripetiamo, non è utopia. è universale concreto, può essere attuato dalla volontà. è principio d'ordine, dell'ordine socialistico. Di quell'ordine che crediamo in Italia si attuerà prima che in tutti gli altri paesi [quattro righe censurate]. Indifferenti(20) Odio gli indifferenti: Credo come Federico Hebbel che "vivere vuol dire essere partigiani". Non possono esistere i solamente uomini, gli estranei alla città. Chi vive veramente non può non essere cittadino, e partigiano. Indifferenza è abulia, è parassitismo, è vigliaccheria, non è vita. Perciò odio gli indifferenti. L'indifferenza è il peso morto della storia. è la palla di piombo per il novatore, è la materia inerte in cui affogano spesso gli entusiasmi più splendenti, è la palude che recinge la vecchia città e la difende meglio delle mura più salde, meglio dei petti dei suoi guerrieri, perché inghiottisce nei suoi gorghi limosi gli assalitori, e li decima e li scora e qualche volta li fa desistere dall'impresa eroica. L'indifferenza opera potentemente nella storia. Opera passivamente, ma opera. è la fatalità; è ciò su cui non si può contare; è ciò che sconvolge i programmi, che rovescia i piani meglio costrutti; è la materia bruta che si ribella all'intelligenza e la strozza. Ciò che succede, il male che si abbatte su tutti, il possibile bene che un atto eroico (di valore universale) può generare, non è tanto dovuto all'iniziativa dei pochi che operano, quanto all' indifferenza, all'assenteismo dei molti. Ciò che avviene, non avviene tanto perché alcuni vogliono che avvenga, quanto perché la massa degli uomini abdica alla sua volontà, lascia fare, lascia aggruppare i nodi che poi solo la spada potrà tagliare, lascia promulgare le leggi che poi solo la rivolta farà abrogare, lascia salire al potere gli uomini che poi solo un ammutinamento potrà rovesciare. La fatalità che sembra dominare la storia non è altro appunto che apparenza illusoria di questa indifferenza, di questo assenteismo. Dei fatti maturano nell'ombra, poche mani, non sorvegliate da nessun controllo, tessono la tela della vita collettiva, e la massa ignora, perché non se ne preoccupa. I destini di un'epoca sono manipolati a seconda delle visioni ristrette, degli scopi immediati, delle ambizioni e passioni personali di piccoli gruppi attivi, e la massa degli uomini ignora, perché non se ne preoccupa. Ma i fatti che hanno maturato vengono a sfociare; ma la tela tessuta nell'ombra arriva a compimento: e allora sembra sia la fatalità a travolgere tutto e tutti, sembra che la storia non, sia che un enorme fenomeno naturale, un'eruzione, un terremoto, del quale rimangono vittima tutti, chi ha voluto e chi non ha voluto, chi sapeva e chi non sapeva, chi era stato attivo e chi indifferente. E questo ultimo si irrita, vorrebbe sottrarsi alle conseguenze, vorrebbe apparisse chiaro che egli non ha voluto, che egli non è responsabile. Alcuni piagnucolano pietosamente, altri bestemmiano oscenamente, ma nessuno o pochi si domandano: se avessi anch'io fatto il mio dovere, se avessi cercato di far valere la mia volontà, il mio consiglio, sarebbe successo ciò che è successo? Ma nessuno o pochi si fanno una colpa della loro indifferenza, del loro scetticismo, del non aver dato il loro braccio e la loro attività a quei gruppi di cittadini che, appunto per evitare quel tal male, combattevano, di procurare quel tal bene si proponevano. I più di costoro, invece, ad avvenimenti compiuti, preferiscono parlare di fallimenti ideali, di programmi definitivamente crollati e di altre simili piacevolezze. Ricominciano così la loro assenza da ogni responsabilità. E non già che non vedano chiaro nelle cose, e che qualche volta non siano capaci di prospettare bellissime soluzioni dei problemi più urgenti, o di quelli che, pur richiedendo ampia preparazione e tempo, sono tuttavia altrettanto urgenti. Ma queste soluzioni rimangono bellissimamente infeconde, ma questo contributo alla vita collettiva non è animato da alcuna luce morale; è prodotto di curiosità intellettuale, non di pungente senso di una responsabilità storica che vuole tutti attivi nella vita, che non ammette agnosticismi e indifferenze di nessun genere. Odio gli indifferenti anche per ciò, che mi dà noia il loro piagnisteo di eterni innocenti. Domando conto ad ognuno di essi del come ha svolto il compito che la vita gli ha posto e gli pone quotidianamente, di ciò che ha fatto e specialmente di ciò che non ha fatto. E sento di poter essere inesorabile, di non dover sprecare la mia pietà, di non dover spartire con loro le mie lacrime. Sono partigiano, vivo, sento nelle coscienze virili della mia parte già pulsare l'attività della città futura che la mia parte sta costruendo. E in essa la catena sociale non pesa su pochi, in essa ogni cosa che succede non è dovuta al caso, alla fatalità, ma è intelligente opera dei cittadini. Non c'è in essa nessuno che stia alla finestra a guardare mentre i pochi si sacrificano, si svenano nel sacrifizio; e colui che sta alla finestra, in agguato, voglia usufruire del poco bene che l'attività di pochi procura e sfoghi la sua delusione vituperando il sacrificato, lo svenato perché non è riuscito nel suo intento. Vivo, sono partigiano. Perciò odio chi non parteggia, odio gli indifferenti. Disciplina e libertà(21) Associarsi a un movimento vuoi dire assumersi una parte della responsabilità degli avvenimenti che si preparano, diventare di questi avvenimenti stessi gli artefici diretti. Un giovane che si iscrive al movimento giovanile socialista compie un atto di indipendenza e di liberazione. Disciplinarsi è rendersi indipendenti e liberi. L'acqua è acqua pura e libera quando scorre fra le due rive di un ruscello o di un fiume, non quando è sparsa caoticamente sul suolo, o rarefatta si libra nell'atmosfera. Chi non segue una disciplina politica è appunto materia allo stato gassoso, o materia bruttata da elementi estranei: pertanto inutile e dannosa. La disciplina politica fa precipitare queste lordure, e dà allo spirito il suo metallo migliore, alla vita uno scopo, senza del quale la vita non varrebbe la pena di essere vissuta. Ogni giovane proletario che sente quanto sia pesante il fardello della sua schiavitù di classe, deve compiere l'atto iniziale della sua liberazione, iscrivendosi al Fascio giovanile socialista più vicino a casa sua. Margini(22) 1 Lo sforzo fatto per conquistare una verità, fa apparire un po' come propria la verità stessa, anche se alla sua nuova enunciazione non si è aggiunto nulla di veramente proprio, non s'è data neppure una lieve colorazione personale. Ecco perché spesso si plagiano gli altri inconsciamente e si rimane disillusi per la freddezza con cui vengono accolte affermazioni che riputavamo capaci di scuotere, di entusiasmare. Amico mio, ci ripetiamo sconsolatamente, il tuo era l'uovo di Colombo. Ebbene, non mi importa di essere lo scopritore dell'uovo di Colombo. Preferisco ripetere una verità già conosciuta al cincischiarmi l'intelligenza per fabbricare paradossi brillanti, spiritosi giuochi di parole, acrobatismi verbali, che fanno sorridere ma non fanno pensare. La giardiniera plebea è sempre la minestra più nutriente e più appetitosa appunto perché preparata con le civaie più usuali. Mi piace vederla ingoiare a larghe cucchiaiate dagli uomini gagliardi e ricchi di succhi gastrici che contengono nella forza della loro volontà e dei loro muscoli l'avvenire. La più trita verità non è mai stata ripetuta quanto basti perché essa diventi massima e stimolo all'azione in tutti gli uomini. 2 Quando discuti con un avversario, prova a metterti nei suoi panni. Lo comprenderai meglio e forse finirai con l'accorgerti che ha un po', o molto di ragione. Ho seguìto per qualche tempo questo consiglio dei saggi. Ma i panni dei miei avversari erano così sudici che ho concluso: è meglio essere ingiusto qualche volta che provare di nuovo questo schifo che fa svenire. 3 Le diserzioni dal socialismo di molti cosiddetti intellettuali (a proposito, intellettuale vuol sempre dire intelligente?) sono diventate per gli sciocchi la miglior prova della povertà morale della nostra idea. Il fatto è che fenomeni simili sono avvenuti e avvengono per il positivismo, per il nazionalismo, per il futurismo, e per tutti gli altri ismi. Ci sono i crisaioli, le animucce sempre in cerca di un punto fermo, che si buttano sulla prima idea che si presenti con l'apparenza di poter diventare un ideale e se ne nutrono fino a quando dura lo sforzo per impossessarsene. Quando si è arrivati alla fine dello sforzo e ci si accorge (ma questo è effetto della poca profondità spirituale, del poco ingegno, in fondo) che essa non basta a tutto, che ci sono problemi la cui soluzione (se pur esiste) è fuori di quella ideologia (ma forse è ad essa coordinata in un piano superiore), ci si butta su qualche altra cosa che sia una verità, che rappresenti ancora un incognito e quindi presenti probabilità di soddisfazioni nuove. Gli uomini cercano sempre fuori di sé la ragione dei propri fallimenti spirituali; non vogliono convincersi che la causa ne è sempre e solo la loro animuccia, la loro mancanza di carattere e di intelligenza. Ci sono i dilettanti della fede, così come i dilettanti del sapere. Ciò nella migliore delle ipotesi. Per molti la crisi di coscienza non è che una cambiale scaduta o il desiderio di aprire un conto corrente. 4 Si dice che in Italia ci sia il peggior socialismo d'Europa. E sia pure: l'Italia avrebbe il socialismo che si merita. 5 Il progresso non consiste per lo più che nella partecipazione di un sempre maggior numero di individui a un bene. L'egoismo è il collettivismo degli appetiti e dei bisogni di un singolo: il collettivismo è l'egoismo di tutti i proletari del mondo. I proletari non sono certo altruisti nel significato che a questa parola dànno gli umanitari frolli. Ma l'egoismo del proletariato è nobilitato dalla coscienza che il proletariato ha di non poterlo totalmente appagare senza che lo abbiano appagato nello stesso tempo tutti gli altri individui della sua classe. E perciò l'egoismo proletario crea immediatamente la solidarietà di classe. 6 è stato detto: il socialismo è morto nel momento stesso in cui è stato dimostrato che la società futura che i socialisti dicevano di star creando era solo un mito buono per le folle. Anch'io credo che il mito si sia dissolto nel nulla. Ma la sua dissoluzione era necessaria. Il mito si era venuto formando quando era ancor viva la superstizione scientifica, quando si aveva una fede cieca in tutto ciò che era accompagnato dall'attributo scientifico. Il raggiungimento di questa società modello era un postulato del positivismo filosofico, della filosofia scientifica. Ma questa concezione non era scientifica, era solo meccanica, aridamente meccanica. Ne è rimasto il ricordo scolorito nel riformismo teorico (però anche la Critica sociale non si chiama più: Rivista del socialismo scientifico) di Claudio Treves, un balocco di fatalismo positivista le cui determinanti sono energie sociali astratte dall'uomo e dalla volontà, incomprensibili e assurde: una forma di misticismo arido e senza scatti di passione dolorante. Era questa una visione libresca, cartacea della vita; si vede l'unità, l'effetto, non si vede il molteplice, l'uomo di cui l'unità è la sintesi. La vita è per costoro come una valanga che si osserva da lontano, nella sua irresistibile caduta. Posso io fermarla?, si domanda l'homunculus: no, dunque essa non segue una volontà. Perché la valanga umana obbedisce ad una logica che caso per caso può non essere la mia individuale, ed io individuo non ho la forza di fermarla o di farla deviare, mi convinco che essa non ha una logica interiore, ma ubbidisce a delle leggi naturali infrangibili. è avvenuta la débâcle della scienza, o per meglio dire, la scienza si è limitata ad assolvere il solo compito che le era concesso; si è perduta la cieca fiducia nelle sue deduzioni ed è quindi tramontato il mito che essa aveva contribuito potentemente a suscitare. Ma il proletariato si è rinnovato; nessuna delusione vale ad essiccare la sua convinzione, come nessuna brinata distrugge il virgulto ricolmo di succhi vitali. Ha riflettuto sulle proprie forze, e su quanta forza è necessaria per il raggiungimento dei suoi fini. Si è maggiormente nobilitato nella coscienza delle sempre maggiori difficoltà che ora vede, e nel proposito dei sempre maggiori sacrifici che sente di dover fare. è avvenuto un processo di interiorizzamento: si è trasportato dall'esterno all'interno il fattore della storia: a un periodo di espansione ne succede sempre uno di intensificazione. Alla legge naturale, al fatale andare delle cose degli pseudo-scienziati è stata sostituita: la volontà tenace dell'uomo. Il socialismo non è morto, perché non sono morti per esso gli uomini di buona volontà. 7 Si è irriso, e si irride ancora al valore numero, che sarebbe solo un valore democratico, non rivoluzionario: la scheda, non la barricata. Ma il numero, la massa, ha servito a creare un nuovo mito: il mito dell'universalità, il mito della marea che sale irresistibile e fragorosa e raderà al suolo la città borghese sorretta sui puntelli del privilegio. Il numero, la massa (tanti in Germania, in Francia, in America, in Italia... che ogni anno crescono, crescono...) ha saldato la convinzione che ogni singolo ha di partecipare a qualcosa di grandioso che sta maturando e di cui ogni nazione, ogni partito, ogni sezione, ogni gruppo, ogni individuo è una molecola che riceve e restituisce rinvigorito il succo vitale che circolando arricchisce tutto il complesso del corpo socialista mondiale. I milioni d'infusori che nuotano nell'Oceano Pacifico costruiscono sterminati banchi coralliferi sotto il livello dell'acqua: un terremoto fa affiorare i banchi e un nuovo continente si forma. I milioni di socialisti dispersi nella vastità del mondo lavorano anch'essi alla costruzione di un continente nuovo; e il terremoto [due righe censurate]. 8 è più facile convincere chi non ha mai partecipato alla vita politica di chi ha già appartenuto a un partito già sagomato e ricco di tradizioni. è immensa la forza che la tradizione esercita sugli animi. Un clericale, un liberale che, diventano socialisti, sono altrettante macchine a sorpresa che possono da un momento all'altro esplodere con effetti letali per la nostra compagine. Le anime vergini degli uomini di campagna, quando si convincono di una verità, si sacrificano per essa, fanno tutto il possibile per attuarla. Chi si è convertito, è sempre un relativista. Ha esperimentato in se stesso una volta quanto sia facile sbagliarsi nello scegliere la propria via. Pertanto gliene rimane un fondo di scetticismo. Chi è scettico non ha il coraggio necessario per l'azione. Preferisco che al movimento si accosti un contadino più che un professore d'università. Solo che il contadino dovrebbe cercare di farsi tanta esperienza e tanta larghezza di mente quanta ne può avere un professore d'università, per non rendere sterile la sua azione e il possibile suo sacrifizio. 9 Accelerare l'avvenire. Questo è il bisogno più sentito nella massa socialista. Ma cos'è l'avvenire? Esiste esso come qualcosa di veramente concreto? L'avvenire non è che un prospettare nel futuro la volontà dell'oggi come già avente modificato l'ambiente sociale. Per tanto accelerare l'avvenire significa due cose. Essere riusciti a far estendere questa volontà a un numero tale di uomini quanto si presume sia necessaria per far diventare fruttuosa la volontà stessa. E questo sarebbe un progresso quantitativo. Oppure: essere riusciti a far diventare questa volontà talmente intensa nella minoranza attuale, che sia possibile l'equazione: 1 = 1.000.000. E questo sarebbe un progresso qualitativo. Arroventare la propria anima e farne sprizzare miriadi di scintille. Ciò è necessario [una riga censurata]. Aspettare di essere diventati la metà più uno è il programma delle anime pavide che aspettano il socialismo da un decreto regio controfirmato da due ministri. Carattere(23) Non rimproveriamo agli avversari del socialismo di essere avversari del socialismo. Avendo una coscienza esatta della nostra personalità, del compito che ci siamo proposti, del metodo, attraverso il quale cerchiamo di raggiungere i nostri fini, comprendiamo perfettamente che possano e anzi debbano esistere i nostri avversari. Ci maravigliamo che i nostri avversari non comprendano che possiamo e dobbiamo esistere noi. Ci maravigliamo che i nostri avversari non comprendano che noi possiamo e dobbiamo avere una personalità, dei compiti, dei fini, dei metodi, che non sono i loro. Ci maravigliamo, ma non andiamo in collera. Questa incomprensione dei nostri avversari è una prova della loro deficienza. Essi non comprendono il nostro carattere, perché essi stessi non hanno carattere. Essi non comprendono che noi facciamo sul serio, che noi seria[mente c preoccupiamo di perseguire i no]stri fini, di sviluppare la nostra potenza, di esplicare i nostri metodi, solo perché essi non sono seri, perché non hanno fini; non hanno metodi, sono impotenti. La loro mentalità si è formata attraverso il trasformismo. La loro vita è la vita del giorno per giorno. Non sanno vedere più in là del fatto attuale. Anche se giovani singolarmente, sono vecchi come collettività. E i vecchi non hanno uno scopo importante nella vita. Pensano solo a superare volta per volta gli ostacoli, le insidie al loro organismo indebolito. Biologicamente il vecchio non ha carattere, perché è di là dalla parabola. Egli consuma le energie accumulate in giovinezza, e non può immaginare più, non può più comprendere che ci sia chi si preoccupi invece di moltiplicare le cellule e i tessuti del suo organismo, chi si preoccupi che il suo scheletro osseo sia saldo, non subisca delle deviazioni, ma si rinsaldi omogeneo, tale da essere quello di un uomo biologicamente perfetto e non un ammasso di materia cartilaginosa, che si affloscia e si deforma a seconda degli urti delle forze esteriori. La mentalità dei nostri avversari è trasformistica. Il primo nucleo dei partiti attuali di conservazione si è costituito con gli uomini che nel periodo tra il 1860 e il 1880 si sono convertiti dalle idee estreme di allora (mazzinianismo, radicalismo antimonarchico, ecc.) alle idee d'ordine. Si sono convertiti per sentimentalismo o per spirito di adattamento. Il sentimentalismo è diventato così il principio politico costruttivo della vita pubblica italiana. Il sentimentalismo che distrugge il carattere, che impedisce la formazione del carattere. Che alla vita logica sostituisce la confusione, al distinto, l'indistinto e il caotico. Che nega ogni programma concreto, perché è disposto a modificarsi a seconda delle contingenze che il caso crea. Che è disposto a costringere le sue idee elementari, i suoi principi istintivi nelle strettoie che gli avvenimenti preparano e impongono. Questa accomodabilità diventa un abito, determina un modo speciale di pensare. Le polemiche scatenatesi contro il socialismo per l'atteggiamento che i socialisti italiani hanno assunto nei confronti della guerra, ne sono una conseguenza. I nostri avversari non si preoccupano di giudicare l'atteggiamento dei socialisti alla stregua dei principi e dei metodi che i socialisti hanno sempre professato e seguito. Far ciò vorrebbe dire giudicare veramente, e fare cosa concreta. Essi non tentano neppure questo giudizio, ne sono incapaci. Dinanzi a degli uomini di carattere, perdono la bussola, brancolano nel buio, si disperdono in tutti i vicoli ciechi del pettegolezzo, della maldicenza, della diffamazione. Non comprendono un contegno rettilineo, rigidamente coerente. Sono ipnotizzati dai fatti, dalla attualità. Non comprendono l'uomo di carattere, che i fatti e l'attualità pesa e giudica non tanto in sé e per sé quanto per la concatenazione che hanno col passato e con l'avvenire. Che i fatti giudica quindi specialmente per i loro effetti, per la loro eternità. Sono dei mistici del fatto. E il mistico non può giudicare, può solamente benedire o odiare. Ma è questa la forza dei socialisti italiani. Aver conservato un carattere. Essere riusciti à vincere i sentimentalismi, essere riusciti a strozzare i palpiti del cuore, come stimoli all'azione, come stimolo alle manifestazioni di vita collettiva. I socialisti italiani hanno realizzato, in questo periodo della storia, l'umanità più perfetta per i fini della storia. L'umanità che non cade nelle facili trappole dell'illusione. La umanità che ha rinnegato come inutili e nocive le forme inferiori della vita spirituale: l'impulso del buon cuore e il sentimentalismo. Le ha rinnegate coscientemente. Perché ha saputo assimilare gli insegnamenti dei suoi maestri più grandi, e gli insegnamenti che scaturivano spontaneamente dalla realtà borghese morsa dai reagenti della critica socialista. I socialisti italiani sono rimasti incrollabili entro i ranghi determinati dalla esistenza delle classi sociali. Non si sono turbati, come collettività, per gli spettacoli dolorosi che si presentavano ai loro occhi. Non sono svenuti, come collettività, quando è stato loro scagliato fra i piedi il cadavere ancora palpitante di un bambino assassinato. La commozione che ogni singolo ha provato, la stretta al cuore, le simpatie che ogni singolo ha potuto provare, non hanno scalfito la granitica compattezza della classe. Se ogni singolo ha un cuore, la classe, come tale, non ha cuore nel senso che alla parola è solito dare l'umanitarismo infrollito. La classe ha una volontà, la classe ha un carattere. Di questa volontà, di questo carattere è plasmata tutta la sua vita, senza alcun residuo. Come classe non può avere solidarietà che di classe, altra forma di lotta che quella di classe, altra nazione che la classe, cioè l'Internazionale. Il suo cuore non è che la coscienza del suo essere classe, la coscienza dei suoi fini, la coscienza del suo avvenire. Dell'avvenire che è solamente suo, per il quale non domanda solidarietà e collaborazione a nessuno, per il quale non vuole che palpiti il cuore di nessuno, ma palpiti solo, nella sua immensa potenzialità dinamica e creatrice, la sua volontà tenace, implacabile contro tutto e tutti che a lei siano estranei. I nostri avversari non comprendono questo. In Italia non si conosce il carattere. Ed è questa l'unica cosa in cui i socialisti possano giovare, e abbiano giovato all'italianità. Hanno dato all'Italia ciò che finora le è sempre mancato. Un esempio vivo e drammaticamente palpitante di carattere adamantino e fieramente superbo di se stesso. Note sulla rivoluzione russa(24) Perché la rivoluzione russa è rivoluzione proletaria? A leggere i giornali, a leggere il complesso delle notizie che la censura ha permesso di pubblicare, ciò non si capisce troppo. Sappiamo che la rivoluzione è stata fatta dai proletari (operai e soldati), sappiamo che esiste un comitato di delegati operai che controlla l'opera degli enti amministrativi che necessariamente si sono dovuti mantenere per il disbrigo degli affari ordinari. Ma basta che una rivoluzione sia stata fatta dai proletari perché essa sia rivoluzione proletaria? Anche la guerra è fatta dai proletari, eppure essa non è, solo perciò, un fatto proletario. è necessario perché ciò sia che intervengano altri fattori, i quali sono fattori spirituali. è necessario che il fatto rivoluzionario si dimostri, oltre che fenomeno di potenza, anche fenomeno di costume, si dimostri fatto morale. I giornali borghesi hanno insistito sul fenomeno di potenza, ci hanno detto come sia avvenuto che la potenza dell'autocrazia sia stata sostituita da un'altra potenza non ancora ben definita e che essi sperano sia la potenza borghese. E hanno subito istituito il parallelo: rivoluzione russa, rivoluzione francese, e hanno trovato che i fatti si rassomigliano. Ma è solo la superficie dei fatti che si rassomiglia, così come un atto di violenza rassomiglia a un altro atto di violenza, e una distruzione rassomiglia a un'altra distruzione. Eppure noi siamo persuasi che la rivoluzione russa è, oltre che un fatto, un atto proletario, e che essa naturalmente deve sfociare nel regime socialista. Le poche notizie veramente concrete, veramente sostanziali, non permettono una dimostrazione esauriente. Tuttavia alcuni elementi ci sono che ci permettono di arrivare a questa conclusione. La rivoluzione russa ha ignorato il giacobinismo. La rivoluzione ha dovuto abbattere l'autocrazia, non ha dovuto conquistare la maggioranza con la violenza. Il giacobinismo è fenomeno puramente borghese: esso caratterizza la rivoluzione borghese di Francia. La borghesia, quando ha fatto la rivoluzione, non aveva un programma universale: essa serviva degli interessi particolaristici, gli interessi della sua classe, e li serviva con la mentalità chiusa e gretta di tutti quelli che tendono a dei fini particolaristici. Il fatto violento delle rivoluzioni borghesi è doppiamente violento: distrugge l'ordine vecchio, impone l'ordine nuovo. La borghesia impone la sua forza e le sue idee non solo alla casta prima dominante, ma anche al popolo che essa si accinge a dominare. è un regime autoritario che si sostituisce a un altro regime autoritario. La rivoluzione russa ha distrutto l'autoritarismo, e gli ha sostituito il suffragio universale, estendendolo anche alle donne. All'autoritarismo ha sostituito la libertà, alla Costituzione ha sostituito la libera voce della coscienza universale. Perché i rivoluzionari russi non sono giacobini, non hanno cioè sostituito alla dittatura di un solo, la dittatura di una minoranza audace e decisa a tutto pur di far trionfare il suo programma? Perché essi perseguono un ideale che non può essere solo di pochi, perché essi sono sicuri che quando tutto il proletariato russo sarà da loro interrogato, la risposta non può essere dubbia: essa è nelle coscienze di tutti, e si trasformerà in decisione irrevocabile non appena potrà esprimersi in un ambiente di libertà spirituale assoluta, senza che il suffragio sia pervertito dall'intervento della polizia e dalla minaccia della forca o dell'esilio. Il proletariato industriale è già preparato al trapasso anche culturalmente: il proletariato agricolo, che conosce le forme tradizionali del comunismo comunale, è anche esso preparato al passaggio a una nuova forma di società. I rivoluzionari socialisti non possono essere giacobini: essi in Russia hanno solo attualmente il compito di controllare che gli organismi borghesi (la duma, gli zemstva) non facciano essi del giacobinismo per rendere equivoco il responso del suffragio universale, e volgere il fatto violento ai loro interessi.' I giornali borghesi non hanno dato alcuna altra importanza a questo altro fatto. I rivoluzionari russi hanno aperto le carceri non solo ai condannati politici, ma anche ai condannati per reati comuni. In un reclusorio i condannati per reati comuni, all'annunzio che erano liberi, risposero di non sentirsi in diritto di accettare la libertà perché dovevano espiare le loro colpe. A Odessa essi si radunarono nel cortile della prigione e volontariamente giurarono di diventare onesti e di far proposito di vivere del loro lavoro. Questa notizia ha importanza, ai fini della rivoluzione socialista, quanto e più di quella della cacciata dello zar e dei granduchi. Lo zar sarebbe stato cacciato anche dai borghesi. Ma per i borghesi questi condannati sarebbero stati sempre i nemici del loro ordine, i subdoli insidiatori della loro ricchezza, della loro tranquillità. La loro liberazione ha per noi questo significato: in Russia è un nuovo costume che la rivoluzione ha creato. Essa ha non solo sostituito potenza a potenza, ha sostituito costume a costume, ha creato una nuova atmosfera morale, ha instaurato la libertà dello spirito, oltre che la libertà corporale. I rivoluzionari non hanno avuto paura di rimettere in circolazione uomini che la giustizia borghese ha bollato col marchio infame di pregiudicati, che la scienza borghese ha catalogato nei vari tipi di criminali delinquenti. Solo in un'atmosfera di passione sociale può avvenire un tal fatto, quando il costume è cambiato, quando la mentalità predominante è cambiata. La libertà fa gli uomini liberi, allarga l'orizzonte morale, del peggiore malfattore in regime autoritario fa un martire del dovere, un eroe dell'onestà. Dicono in un giornale che in una prigione questi malfattori hanno rifiutato la libertà e si sono eletti i guardiani. Perché non hanno fatto mai ciò prima? Perché la loro prigione era cintata di muraglioni e le finestre erano difese da inferriate? Quelli che andarono a liberarli dovevano avere una faccia ben diversa dai giudici dei tribunali e dagli aguzzini del carcere, parole ben diverse dalle solite dovettero sentire questi malfattori comuni, se una tale trasformazione si fece nelle loro coscienze, se essi divennero d'un tratto così liberi da essere in grado di poter preferire la segregazione alla libertà, da imporsi essi, volontariamente, una espiazione. Dovettero sentire che il mondo era cambiato, che anche essi, i rifiuti della società, erano diventati qualcosa, che anche essi, i segregati, avevano una volontà di scelta. è questo il fenomeno più grandioso che mai opera umana abbia prodotto. L'uomo malfattore comune è diventato, nella rivoluzione russa, l'uomo quale Emanuele Kant, il teorizzatore della morale assoluta, aveva predicato, l'uomo che dice: l'immensità del cielo fuori di me, l'imperativo della mia coscienza dentro di me. è la liberazione degli spiriti, è l'instaurazione di una nuova coscienza morale che queste piccole notizie ci rivelano. è l'avvento di un ordine nuovo, che coincide con tutto ciò che i nostri maestri ci avevano insegnato. E ancora una volta: la luce viene dall'oriente e irradia il vecchio mondo occidentale, che ne rimane stupito e non sa opporgli che la banale e sciocca barzelletta dei suoi pennivendoli. L'uomo più libero(25) Leggo la tirata d'occasione dei giornali; spruzzatine di polvere di riso sui motivi più abusati della polemica quotidiana. Il Momento, dopo un pesante anfanare tra il sì e il no, se ne rimette a Massimo d'Azeglio: gli uomini credono di mutare essi il mondo, e invece è Iddio che lo muta. La Gazzetta di Delfino Orsi rivoga i suoi sottilissimi argomenti da bottegaio: non tende l'uomo alla felicità? Ebbene: i neutri stanno male, soffrono più degli italiani, il che significa che la guerra ha pure apportato una qualche felicità. Incontro un professore. è contro la guerra; non è giolittiano, non è precisamente ciò che si dice un germanofilo. La guerra ha fatto chiudere l'Istituto germanico di Roma: nell'Istituto era raccolta la più completa collezione di materiale archeologico classico: il professore non può più attendere alla messe di titoli per la brillante carriera, e perciò è contro la guerra. Mi dibatto fra queste tre forme di schiavitù spirituale: la mia umanità ne soffre, ne è offesa, sente una diminuzione di sé, della propria libertà. Soffrirebbe meno, se fosse sicura di aver subito un sopruso eroico, di essere stata vittima di una violenza volontaria. Si trova presa tra la flaccidità melensa dell'egoismo angusto, che si ripiega su se stesso gemendo sconsolatamente, e l'impotenza a creare ogni pensiero storico della suburra democratica e dell'anchilosi mentale cattolica. Tra la fatalità trascendente che determina la storia e spinge gli uomini, inerti batuffoli imbottiti di illusione, verso la morte, e la fatalità immanente nel regime autoritario, che scatena delle forze demoniache, incontrollabili, indisciplinabili, ormai fuori del regno della volontà, operante brutalmente su tutti, neutri e intervenuti, forti e deboli, innocenti e colpevoli; tra queste due fatalità il mio essere più profondo, che lotta angosciosamente per sublimarsi in una libertà spirituale perfetta, per raggiungere l'adesione più completa tra l'atto e il fatto, tra la volontà e il successo, vorrebbe divincolarsi in un canto lirico all'uomo più libero, alla creatura meglio materiata di sostanza eterna che il nostro pensiero, il nostro operare faticoso in un mondo ottuso e inerte, viene preparando. All'uomo che ha ucciso tutte le fatalità, tutte le forze demoniache incontrollabili, e che perciò ha incominciato oggi col rinnegare la fatalità del mondo borghese, e si sforza oggi, con tutte le armi dialettiche, col sorriso, col ghigno, col sillogismo catafratto di farla rinnegare a un numero sempre maggiore di uomini. Che si sforza, con un lavorio corrodente di critica implacabile, di arrivare, attraverso la purificazione drammaticamente raggiunta col dolore, alla impassibilità stoica della coscienza universale, per giudicare gli avvenimenti con la pupilla ben aperta, col cervello slargato, contenente nel ritmo del suo pensiero gli echi della musica universale, dell'accordo polifonico, delle aspirazioni degli uomini più liberi di tutto il mondo. E poiché le parole, monete tarlate di un mondo tarlato dalla retorica dei servi padr-oni, sono sorde a riempirsi dell'empito della coscienza dell'uomo libero, il mio essere più profondo si alimenta della sua stessa passione, momentaneamente circoscritta a troppo pochi individui, schivando di servirsi, in un mondo di larve vaneggianti in una prigione di nebbia, delle stesse parole che questa prigione servono a infittire e a rendere più pestilenzialmente nauseabonda. I massimalisti russi(26) I massimalisti russi sono la stessa rivoluzione russa. Kerensky, Zeretelli, Cernof sono l'oggi della rivoluzione, sono i realizzatori di un primo equilibrio sociale, la risultante di forze in cui i moderati hanno ancora molta importanza. I massimalisti sono la continuità della rivoluzione, sono il ritmo della rivoluzione: perciò sono la rivoluzione stessa. Essi incarnano l'idea-limite del socialismo: vogliono tutto il socialismo. E hanno questo compito: impedire che si addivenga a un compromesso definitivo tra il passato millenario e l'idea, essere il vivente simbolo della meta ultima cui si deve tendere; impedire che il problema immediato dell'oggi da risolvere si dilati fino a occupare tutta la coscienza, e diventi unica preoccupazione, diventi frenesia spasmodica che erige cancelli insormontabili a ulteriori possibilità di realizzazione. è questo il pericolo massimo di tutte le rivoluzioni: il formarsi della convinzione che un determinato momento della nuova vita sia definitivo, e che bisogni fermarsi per guardare indietro, per assodare il fatto, per gioire finalmente del proprio successo. Per riposare. Una crisi rivoluzionaria logora rapidamente gli uomini. Stanca rapidamente. E si comprende un tale stato d'animo. La Russia ha avuto però questa fortuna: che ha ignorato il giacobinismo. è stata possibile perciò la propaganda fulminea di tutte le idee, si sono formati attraverso questa propaganda numerosi gruppi politici, ognuno dei quali è più audace, e non vuole fermarsi, ognuno dei quali crede che il momento definitivo che bisogna raggiungere sia più in là, sia ancora lontano. I massimalisti, gli estremisti sono l'ultimo anello logico di questo divenire rivoluzionario. Perciò si continua nella lotta, si va avanti; tutti vanno avanti perché c'è almeno un gruppo che vuole sempre andare avanti, e lavora nella massa, e suscita sempre nuove energie proletarie, e organizza nuove forze sociali che minacciano gli stanchi, che li controllano, e si addimostrano capaci di sostituirli, di eliminarli se non si rinnovano, se non si rinfrancano per andare innanzi. Così la rivoluzione non si ferma, non chiude il suo ciclo. Divora i suoi uomini, sostituisce un gruppo con un altro più audace e per questa instabilità, per questa sua mai raggiunta perfezione è veramente e solamente rivoluzione. I massimalisti sono in Russia i nemici dei poltroni. Essi sono il pungolo per i pigri: hanno rovesciato finora tutti i tentativi di arginamento del torrente rivoluzionario, hanno impedito il formarsi delle paludi stagnanti, delle morte gore. Perciò sono odiati dalle borghesie occidentali, perciò i giornali d'Italia, di Francia e d'Inghilterra li diffamano, cercano di screditarli, di soffocarli sotto un cumulo enorme di calunnie. Le borghesie occidentali speravano che allo sforzo enorme di pensiero e di azione che è costato il venire alla luce della nuova vita succedesse una crisi di pigrizia mentale, un ripiegamento dell'attività dinamica dei rivoluzionari che fosse il principio di un assestamento definitivo del nuovo stato di cose. Ma in Russia non ci sono giacobini. Il gruppo dei socialisti moderati, che ha avuto il potere in sue mani, non ha distrutto, non ha cercato di soffocare nel sangue gli avanguardisti. Lenin nella rivoluzione socialista non ha avuto il destino di Babeuf. Ha potuto il suo pensiero convertirlo in forza operante nella storia. Ha suscitato energie che più non morranno. Egli e i suoi compagni bolscevichi sono persuasi che sia possibile in ogni momento realizzare il socialismo. Sono nutriti di pensiero marxista. Sono rivoluzionari, non evoluzionisti. E il pensiero rivoluzionario nega il tempo come fattore di progresso. Nega che tutte le esperienze intermedie tra la concezione del socialismo e la sua realizzazione debbano avere nel tempo e nello spazio una riprova assoluta e integrale. Queste esperienze basta che si attuino nel pensiero perché siano superate e si possa procedere oltre. è necessario invece spoltrire le coscienze, conquistare le coscienze. E Lenin coi suoi compagni ne hanno spoltrite di coscienze, ne hanno conquistate. La loro persuasione non è rimasta solo audacia di pensiero: si è incarnata in individui, in molti individui; è diventata fruttuosa di opere. Ha creato quel certo gruppo che era necessario per opporsi ai compromessi definitivi, a tutto ciò che potesse diventare definitivo. E la rivoluzione continua. Tutta la vita è diventata veramente rivoluzionaria; è un'attività sempre attuale, è un continuo scambio, una continua escavazione nel blocco amorfo del popolo. Nuove energie sono suscitate, nuove idee-forze propagate. Gli uomini sono finalmente così gli artefici del loro destino, tutti gli uomini. è impossibile che si formino minoranze dispotiche. Il controllo è sempre vivo ed alacre. Ormai c'è un fermento che scompone e ricompone gli aggregati sociali senza posa e impedisce le cristallizzazioni e impedisce che la vita si adagi nel successo momentaneo. Lenin, i suoi compagni più in vista possono essere travolti nello scatenarsi delle bufere che essi stessi hanno suscitato. Non spariscono tutti i loro seguaci. Sono ormai troppo numerosi. E l'incendio rivoluzionario si propaga, brucia cuori e cervelli nuovi, ne fa fiaccole ardenti di luce nuova, di nuove fiamme, divoratrici di pigrizie e di stanchezze. La rivoluzione procede, fino alla completa sua realizzazione. è ancora lontano il tempo in cui sarà possibile un relativo riposo. E la vita è sempre rivoluzione. L'orologiaio(27) Si parla spesso di un prima e di un poi. Si aspetta una data fissa. Noi crediamo che non esista alcuna data fissa, e crediamo di essere specificamente noi, solo perché il nostro pensiero coglie sempre nella vita un modo di essere perennemente aderente al nostro pensiero stesso. Tra la solita vita sociale quotidiana e la vita di eccezione delle rivoluzioni non c'è differenza qualitativa, ma differenza quantitativa. Un più o un meno di certi determinati fattori. Le energie sociali attive sono l'apparenza sensibile e umana di certi determinati fattori. Le energie sociali attive sono l'apparenza sensibile e umana di certi determinati programmi, di certe determinate idee; in tempi normali c'è un equilibrio di forze la cui instabilità ha oscillazioni minime; quanto più queste oscillazioni diventano irregolari e capricciose, tanto più si dice che i tempi sono calamitosi; quando l'equilibrio tende irresistibilmente a spostarsi, si ammette che si è entrati in un momento di vita nuova. Ma la novità è quantitativa, non qualitativa. è avvenuta una escavazione più profonda nella ganga sociale. Ora la ganga si sta metallizzando tutta, e il metallo nuovo ha tutto un timbro, il nostro timbro. Ma questo fenomeno c'è sempre stato, perché noi non siamo diversi da ieri, perché noi continuiamo il nostro ieri. Ci ritroviamo in questo fenomeno; gli altri se ne spaventano. Esso è la nostra realtà, è la nostra concezione, è il nostro capolavoro storico, perché finalmente i due termini, concezione e realtà, aderiscono estesamente, non frammentariamente. La vita del pensiero si sta sostituendo all'inerzia mentale, all'indifferenza: è la prima delle sostituzioni rivoluzionarie. Una nuova abitudine si forma: quella di non temere il fatto nuovo: prima perché peggio di così non può andare, in seguito perché ci si convince che andrà meglio. è incominciato il processo ideale del regime, è incominciata la sua dichiarazione di fallimento; esso ha perduto la fiducia istintiva e pecorile degli indifferenti, perché ha chiuso troppi sportelli. Ha socchiuso ora un altro sportello: quello della vita, la bocca del forno, la porta del magazzino granario. Lo chiuderà del tutto? La domanda angosciosa si propaga nelle lunghe file di donne che fanno coda alle cinque del mattino dinanzi alle panetterie. Raggiunge tutti, anche i più umili strati della passività sociale; bussa e scuote i pilastri stessi della vita. E la ganga si metallizza; tutti vivono, tutti si nutrono: le sorgenti della vita si disseccano, e la passività si organizza in pensiero per difendersi. Hanno per tre anni goduto la fiducia di una piccola parte attiva della società: hanno disciplinato esteriormente la immensa passività sociale, gli indifferenti: l'altra parte attiva, che non soffre esteriorità, non ha concesso la sua fiducia, la sua collaborazione. Ora anche l'immensa passività si organizza in pensiero, si disciplina, non secondo schemi esteriori, ma secondo le necessità della sua vita propria, del suo pensiero nascente. Non c'è bisogno dell'accordo dell'armonia prestabilita. Se, come Leibniz, paragoniamo i numeri di questa umanità nascente agli orologi di una bottega da orologiaio, osserviamo lo stesso atto: l'armonia prestabilita, il segnare tutti la stessa ora, il pensare tutti la stessa cosa, l'essere tutti assillati da uno stesso turbamento, non risulta da un accordo, da uno scambio di volontà. Il disagio è l'orologiaio che fa scattare insieme tutte le molle, che imprime un movimento sincrono a tutte le lancette. Il disagio è l'orologiaio che ha creato un'unità sociale nuova, con stimoli nuovi, non esteriori, ma interiori. Un'unità sociale più estesa di quella che ieri esisteva determinata dalla stessa causa. Ieri il disagio era il rapporto di insoddisfacimento tra un dato pensiero politico ed economico, tra un bisogno e una delusione, oggi è lo stesso rapporto, colto da una moltitudine, da una quasi totalità. Ed è la continuazione del nostro ieri, è per noi una continuità, perché la vita è sempre una rivoluzione, una sostituzione di valori, di persone, di categorie, di classi. Gli uomini però dànno il nome di rivoluzione alla grande rivoluzione, a quella cui partecipa il massimo numero di individui, che sposta un numero maggiore di rapporti, che distrugge tutto un equilibrio per sostituirlo con un altro intero, organico. Noi ci distinguiamo dagli altri uomini perché concepiamo la vita come sempre rivoluzionaria, e pertanto domani non dichiareremo definitivo un nostro mondo realizzato, ma lasceremo sempre aperta la via verso il meglio; verso armonie superiori. Non saremo mai conservatori, neanche in regime di socialismo, ma vogliamo che l'orologiaio delle rivoluzioni non sia un fatto meccanico come il disagio, ma sia l'audacia del pensiero che crea miti sociali sempre più alti e luminosi. Carattere(28) Non è tempo di sermoni. La censura non ce li permetterebbe e, del resto, abborriamo i sermoni. Abbiamo piena fiducia nel proletariato torinese e nella sua maturità. Lasciamo ai patrioti il piacevole compito di imbottire i cervelli [sedici righe censurate]. Il proletariato torinese è ora azzannato ferocemente dai suoi avversari implacabili. Ma ha avuto anche testimonianze di ammirazione indimenticabili. Non potevano mancare gli sfoghi dei primi. Le mezze coscienze odiano i forti, non solo per avversione di idee, ma anche per il solo fatto che sono forti, e mettono in maggior rilievo l'altrui incapacità. Del resto, non bisogna turbarsi per l'odio, come non bisogna esaltarsi per l'ammirazione. L'odio e l'ammirazione non producono. La vita solo produce: la vita che è azione disciplinata, che è fermo proposito, che è volontà sicura e indomabile, che è servizio oscuro dell'individuo per la collettività. La vita di ogni giorno è ricominciata. All'eroismo succede il trito susseguirsi delle piccole cose quotidiane. è nella forza, nella tenacia con cui entro se stessi e nei rapporti con gli altri si vincono gli scoramenti, si ricrea l'organizzazione, si ritessono i fili innumerevoli che uniscono insieme gli individui di una classe. Osiamo dire che questo eroismo è più produttivo dell'altro. Ha bisogno per essere attuato della continuità indefessa. Tutti gli italiani sono capaci dell'eroismo occasionale, teatrale, che può essere produttivo, ma può anche sembrare inutile spreco di energia. Il proletariato ha mostrato di essere superiore. è capace dell'uno e dell'altro. è un organismo sociale, è una complessità di vita, che non dà solo sprazzi accecanti, ma sa anche diffondere attorno a sé la luce continua, dell'operosità minuta, incessante, che tempra alla lotta, che forma l'implacabile potenza del carattere, che mai smentisce se stessa, che dopo una caduta non rilassa i suoi tendini, ma si risolleva, più numeroso di prima, meglio preparato di prima, perché più esperto e più agguerrito. Analogie e metafore(29) L'on. Claudio Treves, si compiace di "sottili analogie" (Critica sociale, 1-17 settembre). Talmente se ne compiace che ad esse, e alle loro affini, le metafore, sacrifica il pensiero, la ricerca affannosa della verità, la comprensione stessa del particolar mondo in cui egli si illude di vivere e di operare. Attraverso le analogie e le metafore, la vita, la vita degli uomini, che è sangue e dolore, che è sofferenza e lotta, diventa qualcosa di astratto, di semplicistico, di materialmente insensibile come i pezzi di una scacchiera, cui si dànno preventivamente nome e valore e poi si fanno muovere e saltellare con una mossa della mano, preventivamente sicuri del successo o dell'insuccesso; l'astrattismo arriva fino al punto, che la potenza della volontà, negata come fattore attivo di storia, messa in burletta come "aspettazione fiduciosa del miracolo", viene poi reintegrata in tutto il suo valore come negatività. La volontà è solo fattiva quando nega, è illusione idealistica quando afferma: la volontà è attiva quando "difende", è pietosa illusione di cretini quando prende un'iniziativa. Per la "sottile" dialettica dell'on. Treves, concettualmente non esiste che la difensiva: l'offensiva è vaneggiamento di menti inferme. La verità è che l'on. Treves, "stratego" della lotta di classe, ha rivendicato gli "imbottitori di crani" che ci deliziano nei giornali borghesi. Ha esagerato il loro metodo. Ha ridotto in ischemi, in pezzi da scacchiera, ciò che è assolutamente irriducibile. La "sottile analogia strategica tra la guerra e la lotta di classe" l'ha indotto a dare corpo a quei vani fantasmi metaforici che sono l'"esercito proletario" coi suoi battaglioni, con le sue fortezze, coi suoi campi trincerati. Ha immaginato tutta una gerarchia di ufficiali, sottufficiali, caporali e soldati del partito, delle organizzazioni, delle officine. Li ha visti muoversi, ben inquadrati nei ranghi all'assalto del nemico, "nell'illusione che la vittoria è una meta attiva, la quale, per non essere vincolata a circostanze reali, obiettive, si raggiunge con qualsiasi mezzo e basta agire perché nell'azione ogni sforzo sia valido, ogni volizione sia sacra al trionfo". La verità è che la "sottile analogia" dell'on. Treves, per essere tanto sottile, finisce coll'essere assenza assoluta di intelligenza. Il proletariato non è un esercito, non ha ufficiali, sottufficiali, caporali e soldati. La sua vita collettiva non può essere neppure lontanamente paragonata alla vita collettiva di un esercito in armi, se non per incidenze, per metafore. Il proletariato ha una vita collettiva che non può entrare in nessuno schema astratto. è un organismo in continua trasformazione che ha una volontà, ma questa non è la volontà libresca contro cui l'on. Treves tira freccioline di carta stampata. I socialisti non sono gli ufficiali dell'esercito proletario, sono una parte del proletariato stesso, ne sono la coscienza forse, ma come la coscienza non può esser scissa da un individuo, così i socialisti non possono essere posti in dualismo col proletariato. Sono uno, sempre uno, e non comandano, ma vivono col proletariato, come il sangue circola e si muove nelle vene di un corpo e non può essere fatto vivere e muover entro tubi di gomma avvoltolati attorno a un cadavere. Vivono nel proletariato, e la loro forza è nella forza del proletariato, e la loro potenza è in questo aderire perfetto. L'on. Treves dichiara che un determinato atto di vita è un "errore". Ma errore e verità sono atti di pensiero: la vita è, semplicemente; il successo e l'insuccesso non ne sono predicati necessari. Dimostrare di esistere, assicurarsi di esistere, sentire battere il proprio cuore e pulsare le vene è già un successo, è il più grande successo della vita. L'esistenza, la dimostrazione della esistenza è il problema massimo del proletariato italiano in questo momento. E questo proletariato non è lo stesso di tre anni fa. è più esteso numericamente, ha attraversato più intense esperienze spirituali. Non ha avuto il tempo di organizzarsi, ancora; non può organizzarsi. Le elaborazioni, gli assorbimenti di cultura socialista possibili in tempi normali, non sono più possibili ora normalmente. Il Partito socialista, il socialismo italiano è più ricco ora di succhi che non lo fosse tre anni fa. Ma non conosce tutte le sue forze, e si agita, o tende a diventare organismo più ampio e trabocca qua e là, incompostamente secondo il buon senso filisteo, fruttuosamente secondo una spregiudicata concezione della vita. Noi ci sentiamo solidali con questo nuovo immenso pullulare di forze giovani e non ne rinneghiamo quelli che i filistei chiamano errori, e gioiamo del senso della vita gagliarda che ne promana. E pertanto compatiamo la vecchia mentalità astratta che tutta in ghingheri sciorina le "vecchie prediche" e si pavoneggia sui trampoli delle sottili analogie e delle metafore viete. Il proletariato non vuole predicatori di esteriorità, freddi alchimisti di parolette, vuole comprensione intelligente e simpatia piena d'amore. Demagogia(30) Demagogico e demagogia sono le due parole più in voga presso le persone ben pensanti e i pietisti in pantofole per dare il colpo di grazia all'attività dei "caporioni", dei "sobillatori" socialisti. Demagogia, per lo squisito senso linguistico di Tartufo, ha solo questo preciso significato: attività, propaganda socialista in quanto volta a scuotere i dormienti, a organizzare gli indifferenti, a dare stimoli di ricerca, di libertà a quanti finora si sono tenuti in disparte dalla vita e dalle lotte sociali. La demagogia non è insomma, un modo di fare la propaganda, ma è tutta una certa propaganda, la propaganda socialista. Demagogia non è il giudizio morale che si può dare della leggerezza, della superficialità, dell'avventatezza con cui si cerca di formare una qualsiasi convinzione, ma è un fatto storico, il movimento ideale che è la faccia più appariscente dell'azione educativa del Partito socialista. Tartufo così modifica il vocabolario, determina una certa fortuna alle parole. Ha riabilitato la parola teppista, sta nobilitando la parola demagogia. Tra qualche tempo, quando il movimento socialista avrà tanta forza da imprimere anche alla lingua il suo sigillo di bontà e di libero corso, teppista prenderà definitivamente il significato di galantuomo, e viceversa, e demagogia, vorrà dire metodo di politica e di propaganda serio, fondato sulla realtà dei fatti, e non sulle apparenze più vistose, e perciò più fallaci. Aspettando quel giorno noi continuiamo a dare alla parola il suo vecchio significato, e continuiamo ad applicarla ai demagoghi, cioè a quelli che si servono di sgambetti logici per apparire nel vero, che falsano scientemente i fatti per apparire i trionfatori, che per ubriacarsi della vittoria di un istante sono insinceri o affrettati. Ci hanno chiamati demagoghi perché ci piace chiamare "pescicani" i fornitori militari. E ci hanno fatto osservare che alcuni di questi pescicani pagano duemila lire la loro inserzione nel nostro giornale. Siamo "demagoghi" perché non ci lasciamo guidare nelle nostre valutazioni dal criterio dell'utile; evviva dunque la demagogia. Siamo demagoghi perché non siamo imbecilli, perché non vogliamo confondere l'inconfondibile. Perché non ci vergogniamo che il nostro giornale prenda duemila lire per un contratto di pubblicità liberamente accettato, perché in libera concorrenza con gli altri datori di pubblicità, mentre siamo persuasi che debbono vergognarsi dei loro guadagni, che possono essere chiamati "pescicani" quelli che abusano della loro indispensabilità, della mancanza di concorrenza per svaligiare l'erario pubblico, per imporre i prezzi che permettano gli arricchimenti subitanei e il ritiro in pensione dei fortunati che hanno approfittato del momento buono. Perché non muoviamo dalle apparenze fallaci, perché non giudichiamo dal criterio dell'utile immediato, siamo demagoghi, e gli altri sono persone serie, maestri di bel vivere. Con questi capovolgimenti di senso comune si dimostra la nostra disonestà, la nostra demagogia. E si contribuisce niente altro che a una trasformazione dei significati delle parole del vocabolario italiano. Ghirigori(31) Una volta, due volte, tre volte... Scrivi e raschiano, scrivi e raschiano... Intingi la penna, la mano rimane a mezz'aria, titubante. Il cervello è impastoiato, non trasmette alla mano, alle dita, l'impulso a muoversi. La mano cala sulla carta e la punta d'acciaio passeggia sul biancore descrivendo complicatissimi ghirigori, labirinti senza uscita. Si cerca affannosamente l'uscita. Il pensiero si assottiglia nell'angustia, bussa alle pareti per cercar di vedere se esse si spalanchino in una sortita possibile. Si incomincia. Si cancella. Si ricomincia. L'espressione fluisce, il lavorio di conglutinamento delle frasi, dei periodi, riposa, allenta lo sforzo iniziale. Si è persuasi d'aver trovato l'equilibrio necessario tra i bisogni della propria sincerità e le aggressioni irrazionali della censura. Si aspetta trepidanti. Sicuro, trepidanti, perché amiamo tutto ciò che ci ha domandato uno sforzo per nascere, per estrinsecarsi. Sentiamo le stesse impressioni di una volta, dinanzi agli esaminatori, con questa differenza: che negli esaminatori eravamo persuasi di aver a che fare con individui assolutamente superiori, che avevano veramente la capacità di giudicare dei nostri sforzi, dei nostri meriti. Adesso sentiamo invece l'incapacità assoluta, l'impreparazione assoluta, in chi, armato di matita, come allora, giudica e manda. Ma un'uguaglianza c'è, tra gli uni e gli altri: sentiamo che un'uguaglianza c'è. Ci troviamo ora, come allora, dinanzi a italiani, a vecchi italiani (anche se giovanissimi nel tempo) che non dànno nessuna importanza agli altri, al lavoro, allo sforzo degli altri, alla personalità morale degli altri. Che, detentori per un momento di un potere (anche se piccolo potere), vogliono lasciare una traccia di esso, una traccia quanto è possibile maggiore. Il vecchio italiano non è abituato alla libertà: e non già alla libertà con L maiuscolo, astrazione ideologica, ma la piccola, concreta libertà, che si esprime nel rispetto degli altri, del lavoro, degli sforzi, della personalità e dei bisogni morali degli altri: che abbassa le piccole, esasperanti, inutili irritazioni: che impone, a chi ha il potere (sia pure un piccolo potere), di evitare anche l'apparenza di un'ingiustizia, di un sopruso. Che ha fiducia nelle energie buone degli uomini, e non passa l'erpice su un campo di grano per distruggere quattro papaveri e mezza dozzina di teneri steli di loglio. Che crede anzi naturale che così sia, che al grano si mescoli loglio e papavero, perché una vita collettiva è sana solo quando c'è lotta, attrito, urto di sentimenti e passioni, e solo nella lotta si rivelano i forti, gli indispensabili, gli uomini di fede e d'azione che chiudono la bocca alla critica agendo fortemente. Ma il vecchio italiano non comprende un potere senza repressioni: se in Italia ci fosse la pena di morte, e nessuno cadesse sotto questa sanzione, il carnefice per non stare con le mani in mano diventerebbe mandatario di assassinii e di stupri, per poter lavorare i suoi complici. Così come in molti paesi dell'Italia meridionale le guardie campestri danneggiano esse stesse la proprietà privata per far sentire la propria indispensabilità. Così come il censore, per far sentire quanto faticoso ed improbo sia il suo ufficio, cancella, cancella, cancella tutto tutto tutto, grano e papaveri, lavoro e noia, bene e male. E la penna continua a tracciare ghirigori, aspettando perché sente che questa barbarie (la confusione nei criteri, l'arbitrio, il sopruso è barbarie) si esaurirà nella propria rabbia. La rivoluzione contro il "Capitale"(32) La rivoluzione dei bolscevichi si è definitivamente innestata nella rivoluzione generale del popolo russo. I massimalisti che erano stati fino a due mesi fa il fermento necessario perché gli avvenimenti non stagnassero, perché la corsa verso il futuro non si fermasse, dando luogo ad una forma definitiva di assestamento — che sarebbe stato un assestamento borghese, — si sono impadroniti del potere, hanno stabilito la loro dittatura, e stanno elaborando le forme socialiste in cui la rivoluzione dovrà finalmente adagiarsi per continuare a svilupparsi armonicamente, senza troppo grandi urti, partendo dalle grandi conquiste realizzate ormai. La rivoluzione dei bolscevichi è materiata di ideologie più che di fatti. (Perciò, in fondo, poco ci importa sapere più di quanto sappiamo.) Essa è la rivoluzione contro il Capitale di Carlo Marx. Il Capitale di Marx era, in Russia, il libro dei borghesi, più che dei proletari. Era la dimostrazione critica della fatale necessità che in Russia si formasse una borghesia, si iniziasse un'èra capitalistica, si instaurasse una civiltà di tipo occidentale, prima che il proletariato potesse neppure pensare alla sua riscossa, alle sue rivendicazioni di classe, alla sua rivoluzione. I fatti hanno superato le ideologie. I fatti hanno fatto scoppiare gli schemi critici entro i quali la storia della Russia avrebbe dovuto svolgersi secondo i canoni del materialismo storico. I bolscevichi rinnegano Carlo Marx, affermano con la testimonianza dell'azione esplicata, delle conquiste realizzate, che i canoni del materialismo storico non sono così ferrei come si potrebbe pensare e si è pensato. Eppure c'è una fatalità anche in questi avvenimenti, e se i bolscevichi rinnegano alcune affermazioni del Capitale, non ne rinnegano il pensiero immanente, vivificatore. Essi non sono "marxisti", ecco tutto; non hanno compilato sulle opere del Maestro una dottrina esteriore, di affermazioni dogmatiche e indiscutibili. Vivono il pensiero marxista, quello che non muore mai, che è la continuazione del pensiero idealistico italiano e tedesco, e che in Marx si era contaminato di incrostazioni positivistiche e naturalistiche. E questo pensiero pone sempre come massimo fattore di storia non i fatti economici, bruti, ma l'uomo, ma le società degli uomini, degli uomini che si accostano fra di loro, si intendono fra di loro, sviluppano attraverso questi contatti (civiltà) una volontà sociale, collettiva, e comprendono i fatti economici, e li giudicano, e li adeguano alla loro volontà, finché questa diventa la motrice dell'economia, la plasmatrice della realtà oggettiva, che vive, e si muove, e acquista carattere di materia tellurica in ebollizione, che può essere incanalata dove alla volontà piace, come alla volontà piace. Marx ha preveduto il prevedibile. Non poteva prevedere la guerra europea, o meglio non poteva prevedere che questa guerra avrebbe avuta la durata e gli effetti che ha avuto. Non poteva prevedere che questa guerra, in tre anni di sofferenze indicibili, di miserie indicibili, avrebbe suscitato in Russia la volontà collettiva popolare che ha suscitata. Una volontà di tal fatta normalmente ha bisogno per formarsi di un lungo processo di infiltrazioni capillari; di una larga serie di esperienze di classe. Gli uomini sono pigri, hanno bisogno di organizzarsi, prima esteriormente, in corporazioni, in leghe, poi intimamente, nel pensiero, nelle volontà [...](33) di una incessante continuità e molteplicità di stimoli esteriori. Ecco perché, normalmente, i canoni di critica storica del marxismo colgono la realtà, la irretiscono e la rendono evidente e distinta. Normalmente, è attraverso la lotta di classe sempre più intensificata, che le due classi del mondo capitalistico creano la storia. Il proletariato sente la sua miseria attuale, è continuamente in istato di disagio e preme sulla borghesia per migliorare le proprie condizioni. Lotta, obbliga la borghesia a migliorare la tecnica della produzione, a rendere più utile la produzione perché sia possibile il soddisfacimento dei suoi bisogni più urgenti. è una corsa affannosa verso il meglio, che accelera il ritmo della produzione, che dà continuo incremento alla somma dei beni che serviranno alla collettività. E in questa corsa molti cadono, e rendono più urgente il desiderio dei rimasti, e la massa è sempre in sussulto, e da caos-popolo diventa sempre più ordine nel pensiero, diventa sempre più cosciente della propria potenza, della propria capacità ad assumersi la responsabilità sociale, a diventare l'arbitro dei propri destini. Ciò normalmente. Quando i fatti si ripetono con un certo ritmo. Quando la storia si sviluppa per momenti sempre più complessi e ricchi di significato e di valore, ma pure simili. Ma in Russia la guerra ha servito a spoltrire le volontà. Esse, attraverso le sofferenze accumulate in tre anni, si sono trovate all'unisono molto rapidamente. La carestia era imminente, la fame, la morte per fame poteva cogliere tutti, maciullare d'un colpo diecine di milioni di uomini. Le volontà si sono messe all'unisono, meccanicamente prima, attivamente, spiritualmente dopo la prima rivoluzione. La predicazione socialista ha messo il popolo russo a contatto con le esperienze degli altri proletariati. La predicazione socialista fa vivere drammaticamente in un istante la storia del proletariato, le sue lotte contro il capitalismo, la lunga serie degli sforzi che deve fare per emanciparsi idealmente dai vincoli del servilismo che lo rendevano abietto, per diventare coscienza nuova, testimonio attuale di un mondo da venire. La predicazione socialista ha creato la volontà sociale del popolo russo. Perché dovrebbe egli aspettare che la storia dell'Inghilterra si rinnovi in Russia, che in Russia si formi una borghesia, che la lotta di classe sia suscitata, perché nasca la coscienza di classe e avvenga finalmente la catastrofe del mondo capitalistico? Il popolo russo è passato attraverso queste esperienze col pensiero, e sia pure col pensiero di una minoranza. Ha superato queste esperienze. Se ne serve per affermarsi ora, come si servirà delle esperienze capitalistiche occidentali per mettersi in breve tempo all'altezza di produzione del mondo occidentale. L'America del Nord è capitalisticamente più progredita dell'Inghilterra, perché nell'America del Nord gli anglosassoni hanno incominciato di un colpo dallo stadio cui l'Inghilterra era arrivata dopo lunga evoluzione. Il proletariato russo, educato socialisticamente, incomincerà la sua storia dallo stadio massimo di produzione cui è arrivata l'Inghilterra d'oggi, perché dovendo incominciare, incomincerà dal già perfetto altrove, e da questo perfetto riceverà l'impulso a raggiungere quella maturità economica che secondo Marx è condizione necessaria del collettivismo. I rivoluzionari creeranno essi stessi le condizioni necessarie per la realizzazione completa e piena del loro ideale. Le creeranno in meno tempo di quanto avrebbe fatto il capitalismo. Le critiche che i socialisti hanno fatto al sistema borghese, per mettere in evidenza le imperfezioni, le dispersioni di ricchezza, serviranno ai rivoluzionari per far meglio, per evitare quelle dispersioni, per non cadere in quelle deficienze. Sarà in principio il collettivismo della miseria, della sofferenza. Ma le stesse condizioni di miseria e di sofferenza sarebbero ereditate da un regime borghese. Il capitalismo non potrebbe subito fare in Russia più di quanto potrà fare il collettivismo. Farebbe oggi molto meno, perché avrebbe subito di contro un proletariato scontento, frenetico, incapace ormai di sopportare per altri anni i dolori e le amarezze che il disagio economico porterebbe. Anche da un punto di vista assoluto, umano, il socialismo immediato ha in Russia la sua giustificazione. La sofferenza che terrà dietro alla pace potrà essere solo sopportata in quanto i proletari sentiranno che sta nella loro volontà, nella loro tenacia al lavoro di sopprimerla nel minor tempo possibile. Si ha l'impressione che i massimalisti siano stati in questo momento la espressione spontanea, biologicamente necessaria, perché la umanità russa non cada nello sfacelo più orribile, perché l'umanità russa, assorbendosi nel lavoro gigantesco, autonomo, della propria rigenerazione, possa sentir meno gli stimoli del lupo affamato e la Russia non diventi un carnaio enorme di belve che si sbranano a vicenda. Letture(34) Ho qui sul tavolino alcune pubblicazioni recentissime. Altre ne vedo annunziate. Ho ricevuto due o tre circolari che annunziano l'uscita di periodici che dovranno trattare i problemi che si riferiscono alla complessa azione che deve svolgere il proletariato per il raggiungimento dei suoi fini immediati o ultimi. Discorro con compagni, con amici, con affini. Sento in tutti un qualcosa di diverso. Dei bisogni nuovi sono sorti, e stimolano il pensiero. La realtà ambiente è vista ora sotto punti di vista nuovi. Tutti sono irrequieti, è in tutti un tumulto di intenzioni ancora incerte e vaghe che si esprimono genericamente, che non riescono a solidificarsi. Perché nasconderlo? Partecipo anch'io di questa irrequietezza, di questa incertezza. Certo di infrenare gli stimoli, di non lasciarmi sommergere da ondate di impressioni nuove che bussano alla soglia della coscienza e vogliono essere accolte, e vogliono essere esaminate. Tre anni di guerra hanno ben portato delle modificazioni nel mondo. Ma forse questa è la maggiore di tutte le modificazioni : tre anni di guerra hanno reso sensibile il mondo. Noi sentiamo il mondo; prima lo pensavamo, solamente. Sentivamo il nostro piccolo mondo, eravamo compartecipi dei dolori, delle speranze, delle volontà, degli interessi del piccolo mondo nel quale eravamo immersi più direttamente. Ci saldavamo alla collettività più vasta solo con uno sforzo di pensiero, con uno sforzo enorme di astrazione. Ora la saldatura è diventata più intima. Vediamo distintamente ciò che prima era incerto e vago. Vediamo uomini, moltitudini di uomini dove ieri non vedevamo che Stati o singoli uomini rappresentativi. L'universalità del pensiero si è concretata, tende almeno a concretarsi. Qualcosa crolla necessariamente, in noi e negli altri. Si è formata una temperie morale nuova: tutto è mobile, instabile, fluido. Ma le necessità del momento urgono, e perciò il fluido tende a stagnare, ciò che non è altro che avventura spirituale vuole diventare definitivo. Lo stimolo al pensiero si pone come pensiero bello e perfetto. Ciò che è solo velleità si pone come volontà chiara e concreta. E nasce il caos, la confusione delle lingue, e si incrociano le proposte più pazzesche con le più luminose verità. Scontiamo così la nostra leggerezza di ieri, la nostra superficialità di ieri. Disabituati al pensiero, contenti della vita del giorno per giorno, ci troviamo oggi disarmati di contro alla bufera. Avevamo meccanizzato la vita, avevamo meccanizzato noi stessi. Ci accontentavamo di poco: la conquista di una piccola verità ci riempiva di tanta gioia come se avessimo conquistato tutta la verità. Rifuggivamo dagli sforzi, ci sembrava inutile porre delle ipotesi lontane e risolverle, sia pure provvisoriamente. Eravamo dei mistici inconsapevolmente. O davamo troppa importanza alla realtà del momento, ai fatti, o non ne davamo loro alcuna. O eravamo astratti perché di un fatto, della realtà facevamo tutta la nostra vita, ipnotizzandoci, o lo eravamo perché mancavamo completamente di senso storico, e non vedevamo che l'avvenire sprofonda le sue radici nel presente e nel passato, e gli uomini, i giudizi degli uomini possono fare dei salti, devono fare dei salti, ma non la materia, la realtà economica e morale. Tanto più grande è il dovere attuale di porre un ordine in noi. Il mondo si è avvicinato a noi, meccanicamente, per impulsi e forze che erano a noi estranee. Inconsapevolmente molti vedono in noi la salvezza. Eravamo gli unici che preparavamo un avvenire diverso, migliore del presente. Tutti i disillusi, ma specialmente tutta l'enorme moltitudine che tre anni di guerra hanno portato alla luce della storia, hanno obbligato a interessarsi della vita collettiva, aspettano da noi la salvezza, l'ordine nuovo. Una crisi spirituale enorme è stata suscitata. Bisogni inauditi sono sorti in chi fino a ieri non aveva sentito altro bisogno che quello di vivere e di nutrirsi. E ciò proprio nel momento storico — come del resto necessariamente doveva avvenire — in cui è avvenuta la maggiore distruzione di beni che la storia registri, di quei beni che soli possono appagare la maggior parte di quei bisogni. Le pubblicazioni nuove, le nuove riviste, non mi dànno, non riescono a darmi alcuna delle soddisfazioni che io cerco. Ciò, del resto, non è una ragione di sconforto. Le soddisfazioni le devo ricercare in me stesso, nell'intimo della mia coscienza, dove solo possono comporsi tutti i dissidi, tutti i turbamenti suscitati dagli stimoli esterni. Questi libri non sono altro per me che stimoli, che occasioni per pensare, per scavare in me stesso, per ritrovare in me stesso le ragioni profonde del mio essere, della mia partecipazione alla vita del mondo. Queste letture mi convincono ancora una volta che un grande lavoro deve essere ancora fatto da noi socialisti: lavoro di interiorizzazione, lavoro di intensificazione della vita morale. Si minaccia tutta una campagna serrata per la revisione delle formule, dei programmi finora adottati. Non questo revisionismo è necessario. Gli errori che si sono potuti commettere, il male che non si è potuto evitare non sono dovuti a formule o a programmi. L'errore, il male era in noi, era nel nostro dilettantismo, nella leggerezza della nostra vita, era nel costume politico generale, dei cui pervertimenti anche noi partecipavamo inconsapevolmente. Le formule, i programmi erano esteriori, erano inanimati per troppi; non li vivevamo con intensità, con fervore, non vibravano in ogni atto della nostra vita, in ogni momento del nostro pensiero. Cambiare le formule non significa nulla. Occorre che cambiamo noi stessi, che cambi il metodo della nostra azione. Siamo avvelenati da un'educazione riformistica che ha distrutto il pensiero, che ha impaludato il pensiero, il giudizio contingente, occasionale, il pensiero eterno, che si rinnova continuamente pur mantenendosi immutato. Siamo rivoluzionari nell'azione, mentre siamo riformisti nel pensiero: operiamo bene e ragioniamo male. Progrediamo per intuizioni, più che per ragionamenti; e ciò porta a una instabilità continua, a una continua insoddisfazione: siamo dei temperamenti più che dei caratteri. Non sappiamo mai ciò che i nostri compagni potranno fare domani; siamo disabituati al pensare concreto, e perciò non sappiamo fissare ciò che domani si debba fare, e se lo sappiamo per noi, non lo sappiamo per gli altri, che ci sono compagni di lotta, che dovranno coordinare i loro sforzi ai nostri sforzi. Nella complessa vita del movimento proletario manca un organo, sentiamo che manca un organo. Dovrebbe esserci, accanto al giornale, alle organizzazioni economiche, al partito politico, un organo di controllo disinteressato, che fosse il lievito perenne di vita nuova, di ricerca nuova, che favorisse, approfondisse e coordinasse le discussioni, all'infuori di ogni contingenza politica ed economica. Nel corso di queste relazioni di letture fatte, questi bisogni che io sento, che molti altri sentono con me, andranno concretandosi, e con l'aiuto dei compagni di buona volontà sarà prospettata una soluzione e indicata una via da seguire. Intransigenza-tolleranza. Intolleranza-transigenza Intransigenza è il non permettere che si adoperino — per il raggiungimento di un fine — mezzi non adeguati al fine e di natura diversa dal fine. L'intransigenza è il predicato necessario del carattere. Essa è l'unica prova che una determinata collettività esiste come organismo sociale vivo, ha cioè un fine, una volontà unica, una maturità di pensiero. Poiché l'intransigenza richiede che ogni singola parte sia coerente al tutto, che ogni momento della vita sociale sia armonicamente prestabilito, che tutto sia stato pensato. Vuole cioè che si abbiano dei principi generali, chiari e distinti, e che tutto ciò che si fa necessariamente dipenda da essi. Perché, dunque, un organismo sociale possa essere disciplinato intransigentemente è necessario che esso abbia una volontà (un fine) e che il fine sia secondo ragione, sia un fine vero, e non un fine illusorio. Non basta: bisogna che della razionalità del fine siano persuasi tutti i singoli componenti l'organismo, perché nessuno possa rifiutare l'osservanza della disciplina, perché quelli che vogliono far osservare la disciplina possano domandare questa osservanza come compimento di un obbligo liberamente contratto, anzi di un obbligo a fissare il quale lo stesso recalcitrante ha contribuito. Da queste prime osservazioni risulta come l'intransigenza nella azione abbia per suo presupposto naturale e necessario la tolleranza nella discussione che precede la deliberazione. Le deliberazioni stabilite collettivamente devono essere secondo ragione. La ragione può essere interpretata da una collettività? Certamente l'unico fa più in fretta a deliberare (a trovar la ragione, la verità) che non una collettività. Perché l'unico può essere scelto tra i più capaci, tra i meglio preparati a interpretare la ragione, mentre la collettività è composta di elementi diversi, preparati in diverso grado a comprendere la verità, a sviluppare la logica di un fine, a fissare i diversi momenti attraverso i quali bisogna passare per il conseguimento del fine stesso. Tutto ciò è vero, ma è anche vero che l'unico può diventare o essere visto come tiranno, e la disciplina da esso imposta può disgregarsi perché la collettività si rifiuta, o non riesce a comprendere l'utilità dell'azione, mentre la disciplina fissata dalla collettività stessa ai suoi componenti, anche se tarda ad essere applicata, difficilmente fallisce nella sua effettuazione. I componenti la collettività devono pertanto mettersi d'accordo tra loro, discutere tra loro. Deve, attraverso la discussione, avvenire una fusione delle anime e delle volontà. I singoli elementi di verità, che ciascheduno può portare, devono sintetizzarsi nella complessa verità ed essere l'espressione integrale della ragione. Perché ciò avvenga, perché la discussione sia esauriente e sincera, è necessaria la massima tolleranza. Tutti devono essere convinti che quella è la verità, e che pertanto bisogna assolutamente attuarla. Al momento dell'azione tutti devono essere concordi e solidali, perché nel fluire della discussione si è venuto formando un tacito accordo, e tutti sono diventati responsabili dell'insuccesso. Si può essere intransigenti nell'azione solo se nella discussione si è stati tolleranti, e i più preparati hanno aiutato i meno preparati ad accogliere la verità, e le esperienze singole sono state messe in comune, e tutti gli aspetti del problema sono stati esaminati, e nessuna illusione è stata creata [diciotto righe censurate]. Naturalmente questa tolleranza — metodo delle discussioni fra uomini che fondamentalmente sono d'accordo, e devono trovare le coerenze tra i principi comuni e l'azione che dovranno svolgere in comune — non ha che vedere con la tolleranza, intesa volgarmente. Nessuna tolleranza per l'errore, per lo sproposito. Quando si è convinti che uno è in errore — ed egli sfugge alla discussione, si rifiuta di discutere e di provare, sostenendo che tutti hanno il diritto di pensare come vogliono — non si può essere tolleranti. Libertà di pensiero non significa libertà di errare e spropositare. Noi siamo solo contro l'intolleranza che è un portato dell'autoritarismo o dell'idolatria, perché impedisce gli accordi durevoli, perché impedisce che si fissino delle regole d'azione obbligatorie moralmente perché al fissarle hanno partecipato liberamente tutti. Perché questa forma di intolleranza porta necessariamente alla transigenza, all'incertezza, alla dissoluzione degli organismi sociali [sei righe censurate]. Perciò abbiamo fatto questi ravvicinamenti: intransigenza-tolleranza, intolleranza-transigenza. Per un'associazione di cultura(35) Personalmente e anche per conto di molti altri, approvo la proposta del compagno Pellegrino per l'istituzione di un'Associazione di cultura fra i compagni torinesi e non torinesi qui residenti. Credo che, nonostante il momento poco favorevole, essa possa effettuarsi benissimo. Sono molti i compagni che per immaturità di convinzioni, e per insofferenza dell'opera minuta che è necessario svolgere, si sono allontanati dalle organizzazioni per lasciarsi trascinare ai divertimenti. Nell'Associazione troverebbero un soddisfacimento ai loro istintivi bisogni, troverebbero un posto di riposo e di istruzione che di nuovo li affezionerebbe al movimento politico, all'ideale nostro. E da questa iniziativa, alla quale i compagni tutti vorranno dare il loro appoggio, potrebbe avere anche una soluzione il problema dei compagni inscritti alle sezioni lontane, mai risolto appunto per la difficoltà di trovare un campo di comune interesse nel quale svolgere un'attività. Bartolomeo Botto L'Avanti! torinese ha accolto con simpatia la proposta Pellegrino e le adesioni che essa ha suscitato. Il Botto in questa sua lettera ha degli accenni di grande interesse, che crediamo opportuno sviluppare e presentare ordinati all'attenzione dei compagni. A Torino manca una qualsiasi organizzazione di cultura popolare. Dell'Università popolare è meglio non parlare: essa non è mai stata viva, non ha mai avuto una funzione che rispondesse ad un bisogno. è d'origine borghese, e risponde ad un criterio vago e confuso di umanitarismo spirituale: ha la stessa efficacia degli istituti di beneficenza, che credono con un piatto di minestra soddisfare ai bisogni fisiologici dei disgraziati che non possono sfamarsi e muovono a pietà il tenero cuore di lor signori. L'associazione di cultura quale i socialisti dovrebbero promuovere, deve avere scopi di classe e limiti di classe. Deve essere un istituto proletario, con caratteri finalistici. Il proletariato, a un certo momento del suo sviluppo e della sua storia, si accorge che la complessità della sua vita manca di un organo necessario e se lo crea, con le sue forze, con la sua buona volontà, per i suoi fini. A Torino il proletariato ha raggiunto un punto di sviluppo che è dei più alti, se non il più alto d'Italia. La sezione socialista, nell'attività politica, ha raggiunto una individualità ben distinta di classe; le organizzazioni economiche sono forti; nella cooperazione si è riusciti a creare una istituzione potente come l'Alleanza cooperativa. A Torino pertanto si capisce che sia nato e sia più sentito il bisogno di integrare l'attività politica ed economica con un organo di attività culturale. Il bisogno di integrazione nascerà e si imporrà anche nelle altre parti di Italia. E il movimento proletario ne acquisterà in compattezza e in energia di conquista. Una delle più gravi lacune dell'attività nostra è questa: noi aspettiamo l'attualità per discutere dei problemi e per fissare le direttive della nostra azione. Costretti dall'urgenza, diamo dei problemi soluzioni affrettate, nel senso che non tutti quelli che al movimento partecipano si sono impadroniti dei termini esatti delle questioni e pertanto, se seguono la direttiva fissata, lo fanno per spirito di disciplina e per la fiducia che nutrono nei dirigenti, più che per un'intima convinzione, per una razionale spontaneità. Così avviene che, a ogni ora storica importante, si verificano gli sbandamenti, gli ammorbidimenti, le beghe interne, le questioni personali. Così si spiegano anche i fenomeni di idolatria, che sono un controsenso nel nostro movimento, e fanno rientrare dalla finestra l'autoritarismo cacciato dalla porta. Non esiste la convinzione ferma diffusa. Non esiste quella preparazione di lunga mano che dà la prontezza del deliberare in qualsiasi momento, che determina gli accordi immediati, accordi effettivi, profondi, che rafforzano l'azione. L'associazione di cultura dovrebbe curare questa preparazione, dovrebbe creare queste convinzioni. Disinteressatamente, cioè senza aspettare lo stimolo dell'attualità, in essa dovrebbe discutersi tutto ciò che interessa o potrà interessare un giorno il movimento proletario. Inoltre, esistono dei problemi, filosofici, religiosi, morali, che l'azione politica ed economica presuppone, senza che gli organismi economici e politici possano in sede propria discuterli e propagandarne le soluzioni proprie. Essi hanno una grande importanza. Sono essi che determinano le così dette crisi spirituali, e ci mettono tra i piedi, ogni tanto, i così detti "casi". Il socialismo è una visione integrale della vita: ha una filosofia, una mistica, una morale. L'associazione sarebbe la sede propria della discussione di questi problemi, della loro chiarificazione, della loro propagazione. Sarebbe risolta in gran parte anche la questione degli "intellettuali". Gli intellettuali rappresentano un peso morto nel nostro movimento, perché in esso non hanno un compito specifico, adeguato alla loro capacità. Lo troverebbero, sarebbe messo alla prova il loro intellettualismo, la loro capacità di intelligenza. Realizzando questo istituto di cultura, i socialisti darebbero un fiero colpo alla mentalità dogmatica ed intollerante creata nel popolo italiano dalla educazione cattolica e gesuitica. Manca nel popolo italiano lo spirito di solidarietà disinteressata, l'amore per la libera discussione, il desiderio di ricercare la verità con mezzi unicamente umani, quali dà la ragione e l'intelligenza. I socialisti ne darebbero un esempio attivo e fattivo, contribuirebbero potentemente a suscitare un nuovo costume, più libero e spregiudicato dall'attuale, più disposto all'accettazione dei loro princìpi e dei loro fini. In Inghilterra e in Germania esistevano ed esistono delle potentissime organizzazioni di cultura proletaria e socialista. Nell'Inghilterra è specialmente nota la Società dei Fabiani che aderiva all'Internazionale. Ha come suo compito la discussione profonda e diffusa dei problemi economici e morali che la vita impone o imporrà all'attenzione del proletariato, ed è riuscita a porre al servizio di questa opera di civiltà e di liberazione degli spiriti una gran parte del mondo intellettuale e universitario inglese. A Torino, dato l'ambiente e la maturità del proletariato, potrebbe e dovrebbe sorgere il primo nucleo di un'organizzazione di cultura prettamente socialista e di classe, che diventerebbe, col partito e la Confederazione del lavoro, il terzo organo del movimento di rivendicazione della classe lavoratrice italiana. La critica critica(36) Claudio Treves scrive un articolo nella Critica sociale per passare agli archivi una lettera di Leone Martoff e per constatare la "spaventosa incultura della nuova generazione socialista italiana". La "nuova generazione" ha accomodato la dottrina di Marx in modo che il determinismo è sostituito dal volontarismo, la forza trasformatrice dello strumento del lavoro dalla violenza eroica o isterica degli individui o dei gruppi, il soggettivismo più frenetico lusinga ed applaude le peggiori enfasi dei demagoghi. Certo grande è l'incultura della "nuova generazione". Ma probabilmente essa non è maggiore di quella della "vecchia guardia", e più probabilmente ancora essa non coincide affatto con ciò che il Treves vuole intendere. La "nuova generazione" ha letto, per esempio, oltre che il Manifesto dei comunisti, anche il trattatello di Marx ed Engels sulla Critica critica e le è parso che i Bauer non siano ancora guariti dai loro vagellamenti pseudofilosofici ed arruffatori di concetti e di realtà. Ha letto e studiato anche i libri che in Europa sono stati scritti dopo la fioritura del positivismo, ed ha scoperto (ohibò, quanto piccola scoperta) che la sterilizzazione operata dai socialisti positivisti delle dottrine di Marx non è stata precisamente una grande conquista di cultura, e non è stata neppure (necessariamente) accompagnata da grandi conquiste di realtà. Come è avvenuto che la Critica sociale sia divenuta la Critica critica? Per il fenomeno stesso per cui Marx sbeffeggiava i signori Bruno Bauer, Faucher e Szeliga, scrittori della Allgemeine Literaturzeitung: perché il Treves "al posto dell'uomo individuale realmente esistente" pone il "determinismo" o la "forza trasformatrice", così come Bruno Bauer poneva "l'autocoscienza". Perché il Treves, nella sua alta cultura, ha ridotto la dottrina di Marx a uno schema esteriore, a una legge naturale, fatalmente verificantesi all'infuori della volontà degli uomini, della loro attività associativa, delle forze sociali che questa attività sviluppa, diventando essa stessa determinante di progresso, motivo necessario di nuove forme di produzione. La dottrina di Marx divenne così la dottrina dell'inerzia del proletariato. Non che il volontarismo (usiamo pure questa parola, che significa poco, per necessità pratiche del linguaggio) venisse rinnegato di fatto. Esso fu ridotto alla piccola schermaglia riformista: divenne una cosa volgare, divenne la volontà del compromesso ministeriale, la volontà di piccole conquiste, dell'uovo oggi meglio che la gallina domani, anche se, come dice il Ruta, l'uovo è un uovo di pidocchio. L'opera di proselitismo fu abbandonata (cosa possono contare gli "uomini individuali"?). L'azione storica del proletariato non poté, con tutta la sua efficacia, inserirsi nel processo di sviluppo dell'economia capitalistica. Anche dal punto di vista riformistico, la Critica critica operò deleteriamente. Per la solita concezione dell'"uovo di pidocchio" furono trascurati i grandi problemi nazionali, che interessano tutto il proletariato italiano. Non bisogna dimenticare che nel 1913, quando il Partito socialista si presentò alle elezioni a suffragio universale con programma nettamente liberista, la Critica critica pubblicò due articoli protezionistici scritti da Treves e da Turati. Se non esistessero le annate dell'Unità di Gaetano Salvemini, Treves potrebbe forse parlare di "incultura della nuova generazione socialista". Ma Salvemini e Mondolfo hanno troppo spesso documentato (e citiamo uomini della stessa tendenza del Treves) di che cosa fosse materiata la cultura della Critica critica, perché anche i giovanissimi possano troppo preoccuparsi del rimprovero di Very Well. La "nuova generazione" si rifiuta pertanto di prendere sul serio, non la vecchia, ma la generazione definitivamente assestatasi nelle colonne della Critica critica. La nuova generazione pare voglia ritornare alla genuina dottrina di Marx, per la quale l'uomo e la realtà, lo strumento di lavoro e la volontà, non sono dissaldati, ma si identificano nell'atto storico. Credono, pertanto, che i canoni del materialismo storico valgano solo post factum, per studiare e comprendere gli avvenimenti del passato, e non debbano diventare ipoteca sul presente e sul futuro. Credono non già che la guerra abbia distrutto il materialismo storico, ma solo che la guerra abbia modificato le condizioni dell'ambiente storico normale, per cui la volontà sociale, collettiva degli uomini abbia acquistato una importanza che normalmente non aveva. Queste nuove condizioni sono anch'esse fatti economici, hanno dato ai sistemi di produzione un carattere che prima non avevano: l'educazione del proletariato si è ad essi adeguata necessariamente, ed ha in Russia portato alla dittatura [diciotto righe censurate]. La volontà, in fondo in fondo, esiste anche per Treves, ma è difensiva, non offensiva, è acquattata, non palese. Non esiste solo la cultura che avrebbe potuto far ricordare al Treves che Gio. Battista Vico ha detto prima di Marx che anche la credenza nella divina provvidenza ha operato beneficamente nella storia diventando stimolo dell'azione consapevole, e che pertanto anche la credenza nel "determinismo" potrebbe avere avuto la stessa efficacia, in Russia per Lenin, e altrove per altri. La Lega delle Nazioni(37) Nel beato paese di Utopia ha avuto in tutti i tempi diritto di cittadinanza e di libera circolazione il "bel sogno" (come si suol dire) degli Stati Uniti d'Europa e del Mondo. Il "bel sogno" ha fatto ridere i saggi; i critici, i filosofi realisti ne hanno dimostrato l'incongruenza, la fallacia storica. Ed a ragione. Il "bel sogno" si presenta ora: ha cambiato nome, si chiama la Lega delle Nazioni. Un capo di Stato e di uno Stato modernissimo, un uomo, che ha dimostrato, nella semplicità del suo linguaggio, di essere più realista di tutti gli spacciatori di cabale diplomatiche, se ne fa banditore: Wilson. Alcuni ministri della moderna Inghilterra, paese anch'esso poco fertile in acchiappanuvole, accolgono con simpatia e divulgano la formula wilsoniana. Che non si tratti più del "bel sogno" ma che davvero un nucleo di realtà sia nascosto in questa formula rimessa a nuovo? Vediamo, perché ne vale la pena. La vecchia concezione, che possiamo chiamare latina, la concezione vittorhughiana, umanitaria, massonica era ed è ancora un'astrazione arbitraria, antistorica, teneramente costruita con cemento di lacrime e con blocchi di sospiri. La sostiene in Italia il senatore Ponti e il... compagno Modigliani, è una ernestoteodoromonetoria, che non sprofonda le sue radici in nessun ceto di classe, vivo economicamente e socialmente. In Francia è bandita dalla Lega per i diritti dell'uomo, dai socialisti di tutte le frazioni, e da quell'accozzaglia di retori sfiaccolati e di uomini d'affari che costituiscono il partito radico-socialista. Anche in Francia non è una corrente economico-sociale che la fa propria; rimane pura ideologia, fiorita nei fertili campi della politica e della chiacchiera giornalistica: è il fantasma della Francia giacobina che in berretto frigio e carmagnola agita la fiaccola della fratellanza, dell'eguaglianza, della libertà, l'eroina della liberazione dei popoli, la sanzionatrice di tutte le più squisite e nebulose conquiste verbali dello spirito umano. Ma nel mondo anglosassone l'ideologia si presenta sotto altre vesti e con ben altre garanzie di serietà e di concretezza. Nel mondo anglosassone Lega delle Nazioni significa questo: necessità del capitalismo moderno, forma politica attuale di convivenza internazionale che sia meglio adeguata alle necessità della produzione e degli scambi. Woodrow Wilson è arrivato alla presidenza degli Stati Uniti per rappresentarvi gli interessi politici di un ceto capitalista che è la quintessenza del capitalismo: i produttori non protetti, e che non possono essere protetti; gli industriali che esportano, che hanno bisogno di nuovi mercati, che possono essere danneggiati nel loro vigoroso e spontaneo sviluppo dai protezionismi degli altri paesi. La loro ideologia politica è la democrazia liberale e liberista, che nelle penultime elezioni ha sconfitto la democrazia radicale, affaristica, trustaiola, protezionista. Per questa borghesia Lega delle Nazioni vuol dire dissolvimento delle reliquie politiche del feudalismo. L'economia borghese ha in un primo momento dissolto le piccole nazionalità, i piccoli aggruppamenti feudali: ha liberato i mercati interni da tutte le pastoie mercantili che inceppavano i traffici, che impedivano alla produzione di trasformarsi e di espandersi. L'economia borghese ha così suscitato le grandi nazioni moderne. Nei paesi anglosassoni è andata oltre: all'interno la pratica liberale ha creato meravigliose individualità, energie sicure, agguerrite alla lotta e alla concorrenza, ha discentrato gli Stati, li ha sburocratizzati: la produzione, non insidiata continuamente da forze non economiche, si è sviluppata con un respiro d'ampiezza mondiale, ha rovesciato sui mercati mondiali cumuli di merce e di ricchezza. Continua ad operare; si sente soffocata dalla sopravvivenza del protezionismo in molti dei mercati europei e del mondo. Le lotte di tariffe non la sollecitano: le sa, per esperienza pratica, dannose ad ambe le parti belligeranti. Crea l'ideologia pacifista di Norman Angell, ma si addimostra capace di far la guerra e di perdurarvi tenacemente non meno dei più agguerriti Stati militareschi. In questo scorcio della vita del mondo lancia l'ideologia della Lega delle Nazioni. Essa rappresenta per la borghesia liberista anglosassone la garanzia politica dell'attività economica di domani e dell'ulteriore sviluppo capitalistico. è il tentativo di adeguare la politica internazionale alle necessità degli scambi internazionali. Rappresenta, per i singoli Stati, quella garanzia di sicurezza e di libertà che corrisponde nel seno di ogni Stato all'habeas corpus per la libertà e la sicurezza individuale dei singoli cittadini.- è il grande Stato borghese supernazionale che ha dissolto le barriere doganali, che ha ampliato i mercati, che ha ampliato il respiro della libera concorrenza e permette le grandi imprese, le grandi concentrazioni capitalistiche internazionali. Questa ideologia politica è funzione degli scambi; lo strumento di produzione che l'ha prodotta sono gli scambi internazionali, che hanno anch'essi valore produttivo, perché, liberi da impacci doganali, permettono il massimo sfruttamento delle risorse naturali e della capacità lavorativa del proletariato. Rappresenta, la Lega delle Nazioni, un superamento del periodo storico delle alleanze e degli accordi militari: rappresenta un conguagliamento della politica con l'economia, una saldatura delle classi borghesi nazionali in ciò che le affratella al disopra delle differenziazioni politiche: l'interesse economico. Ecco perché l'ideologia si è affermata vittoriosamente nei due grandi Stati anglosassoni, liberisti e liberali, ed ha in essi salde basi, e rappresenta qualcosa di più che il "bel sogno" vittorhughiano. Ed ecco perché non trova sostenitori che possano realizzarla in Italia e Francia: perché la Francia e l'Italia sono protezionistiche, e non è una classe che detiene il potere, ma sono piccoli gruppi politici, rappresentanti di affarismo più che di vigorosa e potente economia borghese. Diamantino(38) Oggi vi voglio raccontare la storia di Diamantino, come io stesso la udii, molti anni or sono, intercalata in una lunga e noiosa conferenza pacifista del professor Mario Falchi. Diamantino era un piccolo cavallo nato in una miniera carbonifera di un bacino inglese. Sua madre — povera cavalla! — dopo aver trascorso i primi e più begli anni della sua vita sulla superficie della terra, soleggiata e allietata dal sorriso dei fiori, tra i quali, garrulo e lascivetto scherza lo zeffiro — era stata adibita al traino dei vagoncini di minerale, a qualche centinaio di metri sotto terra. Diamantino fu generato così, tra la fuliggine, nel nerore dell'aspra fatica, e non vide mai, l'infelice, i fiorellini dei prati e non annitrì mai, nell'esuberanza dei succhi giovanili, ai zeffiretti profumati di primavera. E non volle neppur mai prestar fede alle bellissime descrizioni che la mamma sua gli andava, di volta in volta, facendo delle bellezze, della luminosità, dei freschi e grassi pascoli che allietano il genere equino sulla superficie sublunare del mondo. Diamantino, credette sempre di essere bellamente preso in giro dalla rispettabile sua genitrice, e morì fra la fuliggine e la polvere di carbone, convinto che le stelle, il sole, la luna fossero fantasmi nati nel cervello un po' tocco della stanca e affaticata trainatrice di vagoncini. Ebbene, sì, noi siamo tanti Diamantini, ma non "noi uomini" per rispetto alla pace perpetua, come voleva nella sua conferenza il professor Mario Falchi; ma "noi italiani" per rispetto a una ben più umile e modesta forma di convivenza civile: la libertà individuale, la sicurezza personale, che dovrebbe essere assicurata a tutti i cittadini dal regime individualista borghese. Ci agitano dinnanzi agli occhi lo spettacolo pauroso dello sfacelo sociale in Russia, dei liberi cittadini russi in balìa a tutte le aggressioni, non sicuri dei loro averi, vaganti nelle boscaglie, ricoperti i corpi scheletriti di cenciame, strappantisi vicendevolmente le radici per potersi sfamare. E vi contrappongono la nostra libertà, la nostra sicurezza. Ma noi siamo come Diamantino. La nostra sicurezza, la nostra libertà, non l'abbiamo mai viste. Ci parlano di un mondo che non abbiamo mai visto, dove non abbiamo mai vissuto [quarantadue righe censurate]. Abbiamo sentito dire che questa libertà, questa sicurezza sono in altri paesi garantite ai cittadini: ne abbiamo notizia dai libri e dai giornali, persone di assoluta fiducia ce l'hanno affermato, alcuni di noi lo hanno potuto constatare durante i loro pellegrinaggi forzati all'estero. Ma nel nostro paese? Per il nostro paese noi rimaniamo nello stato d'animo di Diamantino: ci pare sentire descrivere un paese incantato, di sogno, abitato da chissà quali miracolose creature della fantasia. La libertà, la sicurezza? Non riusciamo, sperimentalmente, a rappresentarcele: sono il mito, la favola, l'Eden cui tendiamo quando, in una delle poche notti dell'anno, dopo non aver avuto nella giornata e nella sera alcuna seccatura, dormiamo tranquilli e il magico sogno ci fa vivere in mondi ultraterreni. Costituente e Soviet(39) Lo scioglimento della Costituente, subito dopo la sua prima assemblea, non è solo un episodio di violenza giacobina, come piace raffigurarlo ai giornalisti che non hanno ancora compreso nulla di quanto sta succedendo in Russia. La Costituente era il mito vago e confuso del periodo prerivoluzionario. Mito intellettualistico, continuazione nel futuro delle tendenze sociali che si potevano cogliere nella parte più appariscente e superficiale delle confuse forze rivoluzionarie di prima della rivoluzione. Queste forze si sono chiarite e definite in gran parte, e sempre meglio vanno chiarendosi e definendosi. Esse stanno elaborando spontaneamente, liberamente, secondo la loro natura intrinseca, le forme rappresentative attraverso le quali la sovranità del proletariato dovrà esercitarsi. Queste forme rappresentative non sono riconosciute nella Costituente, in un parlamento cioè di tipo occidentale, eletto secondo i sistemi delle democrazie occidentali. Il proletariato russo ci ha offerto un primo modello di rappresentanza diretta dei produttori: i Soviet. Ora la sovranità è ritornata ai Soviet. Definitivamente? La mancanza assoluta di informazioni su ciò che si pensa e si sostiene in proposito negli ambienti proletari russi, non permette alcuna risposta. Conosciamo solo l'esteriorità degli avvenimenti, non ne conosciamo l'intimo spirito che li avviva. Vediamo nello scioglimento della Costituente solo l'apparenza violenta, il colpo di forza. Giacobinismo? Il giacobinismo è un fenomeno tutto borghese, di minoranze tali anche potenzialmente. Una minoranza che è sicura di diventare maggioranza assoluta, se non addirittura la totalità dei cittadini, non può essere giacobina, non può avere come programma la dittatura perpetua. Essa esercita provvisoriamente la dittatura per permettere alla maggioranza effettiva di organizzarsi, di rendersi cosciente delle intrinseche sue necessità, e di instaurare il suo ordine all'infuori di ogni apriorismo, secondo le leggi spontanee di questa necessità [tre righe e tre quarti censurate]. L'organizzazione economica e il socialismo(40) Pubblichiamo questo scritto di un giovane compagno, perché egli ci assicura esservi riflesso il pensiero di una importante frazione del movimento socialista torinese. Rinunziamo preventivamente a ogni ricerca di storia delle idee, e di storia di espressione delle idee. Lo esaminiamo in sé e per sé, appunto come manifestazione di convincimenti che possono essere collettivi, e possono determinare speciali atteggiamenti. D'accordo in linea generale con moltissime delle affermazioni del compagno R. F., crediamo erronei alcuni giudizi e alcune conseguenze di essi. La scissione tra politica ed economia, tra organismo e ambiente sociale, sostenuta dalla critica sindacalista, per noi non è altro che una astrazione teorica della necessità empirica, tutta pratica, di scindere provvisoriamente l'unità attiva sociale per meglio studiarla, per meglio comprenderla. Nell'analizzare un fenomeno si è costretti, per necessità di studio, a ridurre questo fenomeno ai suoi così detti elementi, che invero non sono altro, ognuno, che il fenomeno stesso visto in un momento piuttosto che in un altro, con la preoccupazione di un fine particolare invece che di un altro. Ma la società, come l'uomo, è sempre e solo una unità storica e ideale che si sviluppa negandosi e superandosi continuamente. Politica ed economia, ambiente e organismo sociale sono tutt'uno, sempre, ed è uno dei più gran meriti del marxismo avere affermato questa unità dialettica. è avvenuto che i sindacalisti e i riformisti, per uno stesso errore di pensiero, si sono specializzati in una diversa branca del linguaggio empirico socialista. Gli uni hanno arbitrariamente avulso dall'unità dell'attività sociale il termine economia, gli altri il termine politica. Gli uni si cristallizzano nell'organizzazione professionale, e per la stortura iniziale del loro pensiero fanno della cattiva politica e della pessima economia, gli altri si cristallizzano nell'esteriorità parlamentare, legiferatrice, e per la stessa ragione fanno della cattiva politica e della pessima economia. Da queste deviazioni nasce la fortuna e la necessità del socialismo rivoluzionario, che riconduce l'attività sociale alla sua unità, e si sforza di fare politica ed economia senza aggettivi, cioè aiuta lo svilupparsi e il prendere coscienza di sé delle energie proletarie e capitaliste spontanee, libere, necessarie storicamente, perché dal loro antagonismo si affermino sintesi provvisorie sempre più compiute e perfette, che dovranno culminare nell'atto e nel fatto ultimo che tutte le contenga, senza residui di privilegi e di sfruttamenti. L'attività storica contrastante non sfocerà né in uno Stato professionale, come quello vagheggiato dai sindacalisti, né in uno Stato che abbia monopolizzato la produzione e la distribuzione, come è vagheggiato dai riformisti. Ma in un'organizzazione della libertà di tutti e per tutti, che non avrà nessun carattere stabile e definito, ma sarà una ricerca continua di forme nuove, di rapporti nuovi, che sempre si adeguino ai bisogni degli uomini e dei gruppi, perché tutte le iniziative siano rispettate, purché utili, tutte le libertà siano tutelate, purché non di privilegio. Queste considerazioni trovano un esperimento vivo e palpitante nella rivoluzione russa, la quale finora è stata specialmente uno sforzo titanico perché nessuna delle concezioni statiche del socialismo si affermasse definitivamente, chiudendo la rivoluzione e fatalmente riconducendola a un regime borghese, che, se liberale e liberista, darebbe maggiori garanzie di storicità di un regime professionale, o di un regime accentratore e statolatra. Non è quindi esatta l'affermazione che l'attività politica socialista sia tale solo perché proviene da uomini che si dicono socialisti. Allo stesso modo si potrebbe dire di qualsiasi altra attività, che essa è quella che si dice sia solo perché lo stesso aggettivo si attribuiscono gli uomini che la esplicano. Faremmo molto meglio se la cattiva politica la chiamassimo col suo vero nome di camorra, e non ci lasciassimo incantare dai camorristi fino al punto di rinunziare a un'attività che è integrante necessaria del nostro movimento. Del resto il Kautsky acutamente ha osservato che la fobia politica e parlamentare è una debolezza piccolo-borghese, di gente pigra, che non vuol compiere lo sforzo necessario per controllare i propri rappresentanti, per essere tutt'uno con essi, o far sì che essi siano tutt'uno con sé. Wilson e i massimalisti russi(41) Esiste nella storia una logica superiore ai fatti contingenti, superiore alla volontà dei singoli individui, all'attività dei particolari gruppi, al contributo di operosità delle singole nazioni. Ciò non significa che queste volontà, queste attività, questi contributi siano sforzi inani, fallaci tentativi di illusi che credono sottrarsi e magari imporsi alla fatalità degli avvenimenti. L'efficacia creatrice delle volontà e delle iniziative umane è condizionata nello spazio è nel tempo. Ciò che appare non è spesso che l'immagine vana della vita. Le nostre passioni, i nostri desideri ci spingono a interpretare i singoli avvenimenti in un modo piuttosto che in un altro. E queste interpretazioni stesse diventano a loro volta determinanti di storia, suscitatrici di operosità attiva, anche se in piccola zona e per piccoli fatti. Intanto nel colossale urto di tante operosità contrastanti, che si elidono o si integrano, la vita prosegue, implacabile, secondo una linea che risulta da queste elisioni e integrazioni. Solo dopo possiamo giudicare, e questo dopo è più o meno futuro, quanto più estese e grandi sono le forze che cozzano, quanto più profondi sono gli strati d'umanità che all'attività sociale partecipano. Ci sono nella storia sconfitte che più tardi sono apparse vittorie luminosissime, presunti morti che hanno fatto riparlare di sé fragorosamente, cadaveri dalle cui ceneri è risorta la vita più intensa e produttrice di valori. Gli uomini singoli, i singoli gruppi possono essere sconfitti, possono morire, può di loro perire anche il ricordo. Ma non muore l'attività loro buona, non muore il loro pensiero in quanto interpreta una aspirazione razionale della coscienza umana. Si diffonde anzi, diventa energia di moltitudini, si trasforma in costume, e vince, e si afferma vittorioso. Spesso chi sembrava aver compresso e vinto, diventa l'erede dell'avversario, lo sostituisce inconsapevolmente nel suo compito. Il Medioevo cristiano si è venuto sempre meglio rivelando come l'integratore e il continuatore della civiltà romana di cui era apparso invece, ai letterati, l'esecrabile becchino. Una grande affermazione di civiltà non si compie in un anno, o in sei mesi. Perciò i suoi fautori devono rinunziare all'azione? La storia ha bisogno di martiri e di sconfitti, come di trionfatori: si nutre del sangue degli eroi e del sacrifizio anonimo delle moltitudini. Chi può giudicare volta a volta una sconfitta e una vittoria, un sacrifizio e una corbelleria? Ma di leggeri e imbecilli è abitato il mondo più che di intelligenti e di uomini seri. E l'oggi, il bisogno dell'oggi, costringe all'ingiustizia, alla avventatezza, al sogghigno beffardo. è inutile ogni rimprovero. Solo dopo il fatto compiuto riconosciamo il merito. Molti borghesi imprecano ancora al giacobinismo francese della Grande Rivoluzione, e non sono ancora convinti che senza quella violenza, senza quelle mostruose ingiustizie, senza aver versato il sangue anche innocente, essi ancora sarebbero servi, e le loro mogli sarebbero state le sgualdrine dei signori feudali prima di essere loro mogli. Armonie nuove si formano, sintesi di vita più elevata e umana. Le opinioni si trasformano sotto il pungolo delle necessità impellenti, si avvicinano a un'idea già disprezzata, perché non compresa, perché non ambientata politicamente. Conversioni si verificano senza documenti logici del trapasso. Sono prima pochi individui, che vibrano sotto l'impressione di correnti ideali che la grande massa non accoglie. I pochi si moltiplicano, disseminati nel grande spazio del mondo civile: impressionano gruppi e partiti. Avvengono oscillazioni d'opinione, finché tutto uno strato sociale, una classe, un ceto diffuso si eleva alla comprensione, fa propria un'idea. Si rivelano rapporti nuovi tra le ideologie e l'economia. Ceti produttivi che erano stati sacrificati, compressi, a benefizio dei ceti spadroneggianti, si rafforzano, diventano essi la piattaforma di un'orientazione politica nuova, si sviluppano, assorbono le attività e dànno consistenza a realtà nuove. Nel sommovimento ideale provocato dalla guerra due forze nuove si sono rivelate: il presidente Wilson, i massimalisti russi. Essi rappresentano l'estremo anello logico delle ideologie borghesi e proletarie. Il presidente Wilson riscuote in questi giorni le testimonianze di maggior simpatia. Egli è l'uomo del fatto compiuto. L'opera sua è stata di correzione, di integrazione di valori borghesi. Egli è un capo di Stato, dirige un organismo sociale preesistente alla guerra, che nella guerra si è rafforzato, si è meglio disciplinato. Eppure il riconoscimento della sua utilità ha tardato tre anni ad affermarsi. I suoi programmi sono stati derisi, egli è stato vituperato, è stato chiamato ipocrita, vacuo. Ora incomincia la revisione dei giudizi. Un bel libro di Daniele Halévy, che raccoglie i documenti del suo pensiero e della sua attività politica, dà occasione ad articoli elogiativi. Le qualità ieri negative ora diventano prova di solidità. Giovanni Papini (e la sua testimonianza ha valore, perché il Papini coi suoi capricci, colle sue disuguaglianze, col suo ingegno bizzarro, che produce acutissime e precorritrici verità così come banali infarciture di parole, è vicino al borghese medio italiano, è anticipatore dell'opinione media borghese italiana) due anni fa avrebbe chiamato Wilson uno "svizzero elettivo", un "castrato", un noioso predicatore, così come chiamò Romain Rolland, tanto vicino spiritualmente al presidente americano. Ora Papini esalta in Wilson proprio il puritanesimo, l'essere professore, l'essere un predicatore di princìpi e massime morali, e lo avvicina ai più grandi uomini di Stato della storia: al magnifico Lorenzo de' Medici, a Marco Aurelio, a Federico il Grande, a Giulio Cesare, uomini di pensiero e d'azione, ideologi e realizzatori. Il riconoscimento dell'utilità storica dei massimalisti russi, meglio, del massimalismo russo, non poteva certo venire ora, subito; probabilmente non verrà neppure durante il decorso della guerra e subito dopo l'avvento della pace. Eppure noi sentiamo che esso è immancabile, che al massimalismo russo la storia riserva un posto di prim'ordine, superiore a quello dei giacobini francesi di quanto il socialismo è superiore alle ideologie borghesi. Il massimalismo è la Russia martire, è il sacrifizio di una nazione a un'idea, perché essa non muoia e salvi l'umanità del mondo. Il martirio della Russia ha chiarito già molte menti, ha elevato il livello politico delle nazioni, ha fatto trionfare già alcuni di quei principi coi quali gli Stati dovranno fare i conti nel conchiudere la pace. L'avvenire delle nazioni e dei popoli dovrà ai massimalisti russi le maggiori garanzie di pace che certamente saranno assicurate. I massimalisti russi hanno trovato una nazione esaurita, disorganizzata, in completo sfacelo. Hanno per sei mesi arginato questo sfacelo, hanno fatto rendere all'umanità russa ciò che solamente poteva rendere: una luce ideale abbagliante, che ha rinvigorito molti spiriti, che ha fatto ritrovare la coscienza a moltitudini sperdute nella cecità della frenesia guerriera. Il programma di Wilson, la pace delle nazioni, si avvererà solo per il sacrifizio della Russia, per il martirio della Russia. Tra le ideologie medie della borghesia italiana, francese, inglese, tedesca, e il massimalismo russo era un abisso; la distanza è stata accorciata avvicinandosi all'estremo anello logico borghese, al programma del presidente Wilson. Il presidente americano sarà il trionfatore della pace; ma per il suo trionfo è stato necessario il martirio della Russia: Wilson lo ha sentito, e ha reso omaggio a quelli che pure sono anche i suoi avversari [undici righe censurate]. Individualismo e collettivismo(42) La classe borghese si è redenta dalla schiavitù feudale affermando i diritti dell'individuo alla libertà e all'iniziativa. La classe proletaria lotta per la sua redenzione, affermando i diritti della collettività, del lavoro collettivo, contrapponendo alla libertà individuale, all'iniziativa individuale, l'organizzazione delle iniziative, l'organizzazione delle libertà. Logicamente il principio dell'organizzazione è superiore a quello della libertà pura e semplice. Esso è la maturità in confronto della fanciullezza; ma storicamente la maturità ha bisogno della fanciullezza per svilupparsi, e il collettivismo presuppone necessariamente il periodo individualistico, durante il quale gli individui acquistano le capacità necessarie per produrre indipendentemente da ogni pressione del mondo esteriore, imparando a proprie spese come niente di più reale e di più concreto esiste del dovere della laboriosità, e come il desiderio della sopraffazione, la concorrenza brutale e sfrenata debba, per il bene di tutti, essere sostituita dall'organizzazione, dal metodo, che assegna a tutti un compito specifico da svolgere e a tutti assicura la libertà e i mezzi di sussistenza. La classe borghese, succedendo alla classe feudale nella dittatura della produzione, ha introdotto una modificazione nel regime della proprietà privata. Questa era inalienabile, si trasmetteva solo in linea diretta, di padre in figlio, era vincolata da legami antieconomici che precludevano la via ai rapidi incrementi, rendendo perciò necessario lo sfruttamento iniquo dell'enorme maggioranza, con l'esclusione assoluta di ogni concorrenza nella mano d'opera, ottenuta con la servitù della gleba e con le corporazioni artigiane. La borghesia dissolvette il privilegio feudale di casta, rese commerciabili gli strumenti di produzione, terre, macchine e mano d'opera. Assicurò a sé la proprietà degli strumenti naturali e meccanici, e la libertà di produrre, e assicurò alla mano d'opera la libertà della concorrenza, della quale quella avrebbe potuto servirsi per migliorare le proprie condizioni, La proprietà, resa commerciabile, incominciò a circolare, passando dai meno capaci ai più capaci. La tecnica si sviluppò sotto il pungolo della concorrenza; la società definì le sue basi nell'individualismo, che ebbe il suo maggior assertore filosofico in Herbert Spencer, e i suoi assertori economici nei liberisti della scuola inglese. La libertà di concorrenza venne sempre più intensificandosi per i continui perfezionamenti della tecnica industriale ed agricola. La classe borghese si frantumò in ceti e gruppi, che entrarono in lotta per il predominio politico; essi rappresentano stadi più o meno sviluppati della produzione; alcuni, sicuri dell'esito della concorrenza, vogliono le libertà per eliminare gli avversari: altri, deboli e incerti del domani, vogliono la conservazione di leggi restrittive delle libertà politiche ed economiche, vogliono essere protetti, vogliono un minimo di sicurezza per non soccombere, per non essere eliminati dal campo delle competizioni. Il capitalismo si è così sviluppato, più o meno intenso a seconda delle nazioni, delle condizioni naturali e storiche dei vari paesi. Dove è più antico ed ha raggiunto il massimo di produzione, ha conseguito sul piano politico: la riduzione al minimo delle funzioni dello Stato, un'ampia libertà di riunione, di stampa, di propaganda, la sicurezza dei cittadini di fronte ai poteri, la diffusione degli ideali di pace e di fraternità internazionale. Non bisogna credere che questi principi si siano affermati per ragioni sentimentali. Essi sono la necessaria garanzia dell'attività individuale in regime di libera concorrenza. L'individuo ha bisogno nei suoi affari della rapidità amministrativa e giudiziaria, quindi è necessario che lo Stato rinunzi a una gran parte dei suoi attributi a benefizio delle autonomie locali che rendono spedita la macchina burocratica e facilitano i controlli. L'individuo ha bisogno di poter contare sulla sua attività futura per i contratti e la locazione d'opera; deve esistere naturalmente la più ampia libertà, la maggiore sicurezza contro le privazioni arbitrarie e illimitate della libertà personale; il codice penale si semplifica, diminuisce l'importanza dei delitti e delle pene. La concorrenza dei ceti, conservando la possibilità del ritorno al potere di quelli arretrati e parassitari, domanda che sia garantita la maggiore libertà di stampa, di riunione, di propaganda, attraverso la quale si può educare l'opinione pubblica e respingere ogni assalto del passato. La libertà economica si dimostrò subito dottrina di classe: gli strumenti di produzione, pur circolando, rimasero proprietà di una minoranza sociale; il capitalismo fu anch'esso un privilegio di pochi, che tendono a diventar sempre più pochi, accentrando la ricchezza per sottrarsi così alla concorrenza col monopolio. La maggioranza dei diseredati cerca allora nell'associazione il mezzo di resistenza e di difesa dei propri interessi. Le libertà, concepite solo per l'individuo capitalista, devono estendersi a tutti. La concorrenza si amplia: oltre che di individui e di ceti borghesi, è anche di classi. Le associazioni proletarie educano gli individui a trovare nella solidarietà il maggiore sviluppo del proprio io, delle proprie attitudini alla produzione. L'organizzazione, per il proletariato, nel campo della sua classe, si sostituisce già necessariamente all'individualismo, assorbendo di questo ciò che di eterno e di razionale vi è contenuto: il senso della propria responsabilità, lo spirito di iniziativa, il rispetto degli altri, la convinzione che la libertà per tutti è sola garanzia delle libertà singole, che l'osservanza dei contratti è condizione indispensabile di convivenza civile, che gli sgambetti, le truffe, gli illusionismi finiscono col danneggiare anche chi se ne è servito. Ma l'associazione ha lo scopo precipuo di educare al disinteresse: l'onestà, il lavoro, l'iniziativa vi diventano fine a se stessi, procurano solo soddisfazione intellettuale, gioia morale negli individui, non privilegi materiali. La ricchezza che ognuno può produrre in misura superiore ai bisogni della vita immediata è della collettività, è patrimonio sociale: non è più necessaria la commerciabilità degli strumenti di lavoro per suscitare le capacità e le iniziative, perché il lavoro è divenuto dovere morale, l'attività è gioia, non battaglia cruenta. L'individualismo borghese produce così necessariamente la tendenza al collettivismo nel proletariato. All'individuo-capitalista si contrappone l'individuo-associazione, al bottegaio la cooperativa: il sindacato diventa un individuo collettivo che svecchia la libera concorrenza, la obbliga a forme nuove di libertà e di attività. La maggioranza degli individui si organizza, sviluppa le leggi sue proprie di convivenza nuova, crea le competenze, abitua alla responsabilità, al disinteresse, all'iniziativa senza fini immediati di lucro personale. Si diffondono così le condizioni ideali e morali per l'avvento del collettivismo, per l'organizzazione della società; si afferma quella atmosfera morale per la quale il nuovo regime non sia il trionfo dei poltroni e degli irresponsabili, ma sicuro progresso storico, realizzazione di una vita superiore a tutte quelle passate. Un anno di storia(43) Un anno è trascorso, dal giorno in cui il popolo russo costringeva lo zar Nicola II ad abdicare e a prendere la via dell'esilio. La commemorazione dell'anniversario è poco lieta. Dolore, rovina, apparenza di sfacelo, controffensiva borghese con le baionette e le mitragliatrici tedesche. è finita la rivoluzione russa? è fallito, in Russia, il proletariato, nel più grande dei tentativi di riscossa che esso abbia mai tentato nella storia? Le apparenze sono sconfortanti: i generali tedeschi sono arrivati ad Odessa: i giapponesi si dice stiano per intervenire; 50 milioni di cittadini sono stati staccati dalla rivoluzione, e con essi le terre più fertili, gli sbocchi al mare, le strade della civiltà e della vita economica. La rivoluzione, nata dal dolore e dalla disperazione, continua nel dolore e nelle sofferenze, stretta in un anello di potenze nemiche, immersa in un mondo economico refrattario alle sue idealità, ai suoi fini. Nel marzo 1917 il telegrafo ci annunziò che un mondo era crollato in Russia: mondo effimero ormai, inanimata parvenza di un potere che era sorto, si era rafforzato, si era trascinato con la violenza sanguinosa, con la compressione degli spiriti, con la tortura delle carni dilaniate. Aveva questo potere suscitato una grande macchina statale: 170 milioni di creature umane erano state costrette a dimenticare la loro umanità, la loro spiritualità per servire. A che? All'idea dell'Impero russo, del grande Stato russo che doveva arrivare ai mari caldi e aperti per assicurare all'attività economica sbocchi sicuri da ogni taglia di concorrenti, da ogni sorpresa di guerra. L'Impero russo era una mostruosa necessità del mondo moderno: per vivere, per svilupparsi, per assicurarsi le vie dell'attività, 10 razze, 170 milioni di uomini dovevano sottostare a una disciplina statale feroce, dovevano rinunziare all'umanità ed essere puro strumento del potere. Sono secoli di martirio e di crocifissione; e il martirio diventa più acuto quanto più la civiltà si afferma e raffina le coscienze. Il bisogno di indipendenza, di autonomia si fa sentire più pungente, ma la ragione di Stato deve soffocarlo, deve sterminare migliaia, centinaia di migliaia di individui per conservare l'unità, per tenere legati in un fascio questi 170 milioni che solo col numero resistono alla concorrenza capitalistica, bilanciano le forze avverse della concorrenza mondiale. Gli individui perdono ogni autonomia, ogni libertà, perché lo Stato possa essere autonomo e libero tra gli altri Stati. Avviene così che gli individui attingano nella loro coscienza culmini di spiritualità quali in nessun altro paese sono raggiunti. La letteratura russa è il documento doloroso di una coscienza interiore che non ha eguali: mai una tale ricerca si è verificata di valori umani, una tale escavazione interiore, una tale presa di possesso di personalità. La letteratura russa è documento unico nella storia, perché senza uguali era il dolore, l'umiliazione cui gli uomini erano in Russia sottoposti. I corpi si piegano sotto le gravezze della catena sociale, e le anime, cui è tolta la vista del mondo esteriore, si rivolgono su se stesse, e un canto si leva sublime e sovrumano, canto di dolore raccolto, di disperazione, di purificazione, del quale solo nei profeti del popolo d'Israele si può trovare una pallida somiglianza. Nel marzo 1917 la macchina mostruosa crolla, imputridita, disfatta nella sua impotenza congenita. Gli uomini si drizzano, si guardano negli occhi. Tutti i valori umani hanno il sopravvento. L'esteriorità non ha più valore; troppo male ha fatto, troppi dolori ha prodotto, troppo sangue ha versato. Incomincia la storia, la vera storia. Ognuno vuole essere padrone del proprio destino, si vuole che la società sia plasmata in ubbidienza allo spirito, e non viceversa. L'organizzazione della convivenza civile deve essere espressione di umanità, deve rispettare tutte le autonomie, tutte le libertà. Incomincia la nuova storia della società umana, incominciano le esperienze nuove della storia dello spirito umano. Esse vengono a coincidere con le espressioni che l'ideale socialista aveva dato ai bisogni elementari degli uomini. I socialisti come ceto politico salgono al potere senza troppi sforzi: le parole della loro fede coincidono con le aspirazioni confuse e vaghe del popolo russo. Essi devono realizzare l'organizzazione nuova, devono dettare le nuove leggi, stabilire i nuovi ordinamenti. Il passato continua a sussistere; viene disgregato. Si ha la parvenza dello sfacelo, del disordine, della confusione. Sembra che si ritorni alla società barbarica, cioè alla non società. Il passato continua a sussistere oltre il territorio della libertà, e preme e vuole prendere una rivincita. L'ordine nuovo tarda a realizzarsi. Tarda? O uomini scettici e perversi, non tarda, no, perché non si rifà una società in un fiat, perché il male del passato non è un edilizio di cartapesta cui si dà fuoco in un attimo. Doloroso sforzo è la vita, lotta tenace contro le abitudini, contro l'animalità e l'istinto grezzo che latra continuamente. Non si crea una società umana in sei mesi, quando tre anni di guerra hanno esaurito un paese, l'hanno privato dei mezzi meccanici per la vita civile. Non si riorganizzano milioni e milioni di uomini in libertà, così, semplicemente, quando tutto è avverso, e non sussiste che lo spirito indomabile. La storia della rivoluzione russa non si è chiusa e non si chiuderà con l'anniversario del suo iniziarsi. Come un canto esiste nella fantasia del poeta prima che sulla carta stampata, l'avvento dell'organizzazione sociale esiste nelle coscienze e nelle volontà. Sono gli uomini cambiati: questo importa. Si vuole l'esteriorità, la carta stampata. Si stride per ogni insuccesso, per ogni rovescio apparente. Si domanda ai russi ciò che gli storici non domandano alle rivoluzioni passate: la creazione fulminea di un ordine nuovo. Si suppongono propositi che non sono mai esistiti, speranze che non sono mai state sognate. E questi propositi, queste speranze sono confrontate con la realtà attuale per concludere al fallimento, allo sfacelo. Con la realtà che si dice sortita da un anno di nuova storia, ma che è sortita da secoli di bestiale soppressione dell'uomo dalla storia. Si domanda l'impossibile, che non si è mai domandato agli uomini del passato. Quante volte la Rivoluzione francese ha visto occupata la capitale dai nemici? E l'occupazione veniva dopo che Napoleone aveva organizzato autoritariamente le forze rivoluzionarie e aveva condotto gli eserciti francesi di vittoria in vittoria. E la Francia era ben piccola cosa in confronto della Russia sterminata. No, le forze meccaniche non prevalgono mai nella storia: sono gli uomini, sono le coscienze, è lo spirito che plasma l'esteriore apparenza, e finisce sempre col trionfare. Un anno di storia si è chiuso, ma la storia continua [sei righe censurate]. La tua eredità(44) La società contemporanea: una fiera rumorosa, di uomini in delirio; nel centro della fiera una giostra che rotea turbinosamente, fulmineamente. Ognuno dei presenti vuol saltare in groppa a un lucente e ben bardato cavallino, a una sirena dai languidi occhi; vuole adagiarsi nei morbidi cuscini di una carrozzella. è un precipitarsi disordinato e caotico della folla in tumulto, è un osceno acrobatismo di arti scimmiesche. Diecimila cadono riversi, dopo essersi fiaccate le membra, uno per diecimila passa, si aderge su questi corpi innumeri, spicca il salto giusto, e trasvola nel turbine infernale. Tu vuoi partecipare alla gara. Hai probabilità, anche tu, di fortuna. Arrivare significa diventar ricco, essere signore della vita, conquistare la propria libertà. Ecco: la libertà. Fermiamoci. La ricchezza non è un fine, certamente; se diventa fine si chiama avidità (avarizia). è mezzo per un fine: la libertà. Un soldo che possiedi, è un soldo di libertà a tua disposizione, è un soldo di libera scelta. La proprietà è la garanzia che questa libertà sarà continua. La proprietà di una parte di ricchezza (strumento di lavoro) è possibilità di ampliare ancora il dominio della personale libertà. Il diritto di eredità è la garanzia che la tua personale libertà sarà anche della tua prole, dei tuoi cari. Poiché il tuo fine non è un circoscritto fatto materiale, poiché tu non sei un avido di benessere meccanico, ma di libertà, consegue che il tuo fine non è individuale: è un'immortalità. Senti che i tuoi figli ti continueranno, come tu continui i tuoi padri, e vuoi garantita la libertà del tuo spirito immortale. Questa immortalità è ammessa dai laici, dai filosofi: essa appunto è dai filosofi chiamata Spirito, e viene fatta coincidere con la Storia, perché tutto umano, perché non ha nulla da spartire con lo spirito (anima) trascendente, ultraterreno, delle religioni. è pura attività: tu sei attivo, lavori, partecipi dell'immortalità del lavoro, ma vuoi vedere esteriormente questa perennità del tuo io: la cerchi nei tuoi discendenti, nelle garanzie di libertà che loro assicuri. Tutti gli uomini hanno questa aspirazione, tutti gli uomini vogliono diventare proprietari di libertà, di libertà garantita, di libertà trasmissibile. Se essa è il sommo bene, è naturale si cerchi di farne partecipi i propri cari, è naturale si accetti il sacrifizio per creare questa libertà, anche sicuri di non goderla per se stessi, solo per assicurarla ai propri cari. La preoccupazione diventa in taluni casi così pungente da spingere al delitto, alla perversione, al suicidio. Madri si prostituiscono per racimolare un peculio di libertà ai figli; padri si uccidono con l'apparenza della disgrazia perché i figli godano subito l'assicurazione della libertà. La libertà è solo un privilegio: ecco perché si manifestano queste perversioni. La società è una fiera: la fortuna è una giostra. La maggioranza deve necessariamente fallire nella gara atroce. è dunque essa non spirito, non partecipa essa della immortalità della storia? Esiste la immortalità senza l'esteriore continuità? Certo no. Esistendo, trasforma il mondo, suscita quindi forme esteriori. Ebbene, anche tu, che non sei ricco, che non sei capitalista, che non garantisci alla tua immortalità nessuna esteriore continuazione di libertà, erediti e lasci un retaggio. Non saresti uomo, altrimenti, non saresti spirito, non saresti Storia. Bisogna che di questa verità tu abbia consapevolezza, che questa consapevolezza tu approfondisca in te e diffonda negli altri. Essa è la tua forza, è la chiave del tuo destino e del destino dei tuoi cari. La proprietà è il rapporto giuridico esistente tra un cittadino e un bene. Essa è dunque un valore sociale, puramente contingente; è garantita da tutti, che la garantiscono solo in quanto sperano, ognuno singolarmente, di giungere a goderla. I pochi sono liberi, nel possesso dei beni, e trasmettono questa libertà ad altri pochi, perché i molti sperano, hanno la velleità di essere liberi, non ne hanno la volontà. La volontà è adeguazione dei mezzi al fine, quindi è specialmente ricerca di mezzi congrui. Il privilegio della libertà sussiste perché la società è una fiera, perché è un disordine perenne. La speranza che tu hai di saltare immediatamente in groppa a un cavallino della giostra, ti fa elemento del disordine, della perenne fiera: tu sei una rotellina della macchina infernale che fa roteare la giostra: se, nella gara, fallisci, tu sei causa del tuo fallire, se ti fiacchi le ossa, tu sei un suicida. Da elemento di disordine devi diventare elemento d'ordine. All'essere immediatamente (vaga speranza, probabilità minima), devi preferire la certezza, anche se non immediata, la certezza per i tuoi figli. Il fine rimane immutato, i mezzi per raggiungerlo sono i soli mezzi congrui a tua disposizione: l'associazione, l'organizzazione. Se la proprietà è solo un valore sociale, il solo fatto che esiste un organismo-forza proponentesi di renderla bene comune, garanzia di libertà per tutti, la trasforma, la rende aleatoria in quanto privilegio, cioè la diminuisce ora in pro della collettività, ne fa compartecipe già ora la collettività. Questa diminuzione, questa compartecipazione potenziale è una eredità che tu trasmetti. Certo è più evidente, più palpabile l'eredità dei capitalisti; ma se rifletti anche la tua non è trascurabile cosa. Anche tu hai un retaggio: i tuoi ascendenti, che hanno fatto la rivoluzione contro il feudalesimo, ti hanno lasciato in eredità il diritto alla vita (tu non puoi essere ucciso arbitrariamente: ti par piccola cosa?), la libertà individuale (per incarcerarti devi essere giudicato colpevole d'un crimine), il diritto di muoverti per lavorare in una terra piuttosto che in un'altra, a tua scelta, secondo la tua utilità. Godi una eredità più recente: la libertà di scioperare, la libertà di associarti con altri per discutere i tuoi interessi immediati e per proporti, in comunione con altri, il fine maggiore della tua vita: la libertà per te, o almeno per i tuoi discendenti. Ti paiono piccole eredità queste? Esse hanno notevolmente diminuito il privilegio dei pochi. Perché non ti proponi di ampliare e diminuire ancora, conseguentemente, il privilegio? Queste eredità sono il frutto del lavoro di molti, non del solo padre tuo, del solo tuo nonno o bisnonno. Sono frutto, inconsapevole, perciò piccolo. Diventa tu consapevole, diffondi la tua consapevolezza: quale eredità superiore a quelle del passato non trasmetterai tu all'avvenire? Quale più concreta sicurezza di libertà per i tuoi figli, per l'immortalità del tuo spirito? Invece di una proprietà individuale, preoccupati di lasciare maggiore possibilità per l'avvento della proprietà collettiva, della libertà per tutti, perché tutti uguali dinanzi al lavoro, allo strumento di lavoro. Questa tua eredità ha anch'essa una forma esteriore: l'associazione. Quanto più forte è l'associazione, tanto più vicina è l'ora di riscuotere allo sportello della Storia. Chi riscuoterà? Tu stesso, forse, per la tua quota. Lavora come se il fine fosse immediato, ma non trascurare perciò di suscitare mezzi più potenti, nel caso non fosse immediato: sacrificati, perché tu pensi ai tuoi figli, ai tuoi cari. Rafforza le associazioni che hanno questo fine: liberare la collettività, dando a lei la proprietà della ricchezza. L'associazione economica ti garantisce la riscossione quotidiana dei benefizi che frutta l'eredità lasciatati dai tuoi padri nullatenenti: rafforzala con la tua adesione, aumenterai così l'eredità dei tuoi figli. L'associazione politica, il Partito socialista, è l'organo di educazione, di elevazione; per esso tu sentirai la collettività, ti spoglierai dei tuoi egoismi personali, imparerai a lavorare disinteressatamente per l'avvenire che è di tutti, quindi anche tuo e dei tuoi. Per esso metterai il tuo sacrifizio e il tuo lavoro con quello degli altri, moltiplicandone il valore per il valore del comune sacrifizio. L'Associazione di cultura ti renderà più degno del tuo compito sociale, ti educherà a pensar bene, migliorerà il tuo spirito: per essa parteciperai al patrimonio di pensiero, di esperienze spirituali, di intelligenza, di bellezza del passato e del presente. Diffondi questa piccola verità: nella società attuale, che è fiera, che è giostra, tutti singolarmente possono diventar ricchi (liberi), ma, necessariamente, solo pochi lo diventano; la ricerca della proprietà, dell'eredità individuale ha uno riuscito per diecimila falliti. I diecimila non falliranno invece nella ricerca dell'eredità sociale; che si associno, che da elemento di disordine diventino elemento d'ordine, e avranno avvicinato di diecimila probabilità il raggiungimento del fine stesso. Intanto tu fa il tuo dovere: dà la tua parte di attività, di spiritualità al comune patrimonio sociale attuale: lavora perché sia trasmesso, migliorato e ampliato, ai tuoi discendenti: cura la tua eredità, cura l'eredità che sola sei certo di poter lasciare. Il nostro Marx(45) Siamo noi marxisti? Esistono marxisti? Buaggine, tu sola sei immortale. La questione sarà probabilmente ripresa in questi giorni, per la ricorrenza del centenario, e farà versare fiumi d'inchiostro e di stoltezze. Il vaniloquio e il bizantinismo sono retaggio immarcescibile degli uomini. Marx non ha scritto una dottrinetta, non è un messia che abbia lasciato una filza di parabole gravide di imperativi categorici, di norme indiscutibili, assolute, fuori delle categorie di tempo e di spazio. Unico imperativo categorico, unica norma: "Proletari di tutto il mondo unitevi". Il dovere dell'organizzazione, la propaganda del dovere di organizzarsi e associarsi, dovrebbe dunque essere discriminante tra marxisti e non marxisti. Troppo poco e troppo: chi non sarebbe marxista? Eppure così è: tutti sono marxisti, un po', inconsapevolmente. Marx è stato grande, la sua azione è stata feconda, non perché abbia inventato dal nulla, non perché abbia estratto dalla sua fantasia una visione originale della storia, ma, perché il frammentario, l'incompiuto l'immaturo è in lui diventato maturità, sistema, consapevolezza. La consapevolezza sua personale può diventare di tutti, è già diventata di molti: per questo fatto egli non è solo uno studioso, è un uomo d'azione; è grande e fecondo nell'azione come nel pensiero, i suoi libri hanno trasformato il mondo, così come hanno trasformato il pensiero. Marx significa ingresso dell'intelligenza nella storia dell'umanità, regno della consapevolezza. La sua opera cade proprio nello stesso periodo in cui si svolge la grande battaglia tra Tomaso Carlyle ed Erberto Spencer sulla funzione dell'uomo nella storia. Carlyle: l'eroe, la grande individualità, mistica sintesi di una comunione spirituale, che conduce i destini dell'umanità verso un approdo sconosciuto, evanescente nel chimerico paese della perfezione e della santità. Spencer: la natura, l'evoluzione, astrazione meccanica e inanimata. L'uomo: atomo di un organismo naturale, che obbedisce a una legge astratta come tale, ma che diventa concreta, storicamente, negli individui: l'utile immediato. Marx si pianta nella storia con la solida quadratura di un gigante: non è un mistico né un metafisico positivista; è uno storico, è un interprete dei documenti del passato, di tutti i documenti, non solo di una parte di essi. Era questo il difetto intrinseco delle storie, delle ricerche sugli avvenimenti umani: esaminare e tener conto solo di una parte dei documenti. E questa parte veniva scelta non dalla volontà storica, ma dal pregiudizio partigiano, tale anche se inconsapevole e in buona fede. Le ricerche avevano come fine non la verità, l'esattezza, la ricreazione integrale della vita del passato, ma il rilievo di una particolare attività, il mettere in valore una tesi aprioristica. La storia era solo dominio delle idee. L'uomo era considerato come spirito, come coscienza pura. Due conseguenze erronee derivavano da questa concezione: le idee messe in valore erano spesso solamente arbitrarie, fittizie. I fatti cui si dava importanza erano aneddotica, non storia. Se storia fu scritta, nel senso reale della parola, si dovette ad intuizione geniale di singoli individui, non ad attività scientifica sistematica e consapevole. Con Marx la storia continua ad essere dominio delle idee, dello spirito, dell'attività cosciente degli individui singoli od associati. Ma le idee, lo spirito, si sustanziano, perdono la loro arbitrarietà, non sono più fittizie astrazioni religiose o sociologiche. La sostanza loro è nell'economia, nell'attività pratica, nei sistemi e nei rapporti di produzione e di scambio. La storia come avvenimento è pura attività pratica (economica e morale). Un'idea si realizza non in quanto logicamente coerente alla verità pura, all'umanità pura (che esiste solo come programma, come fine etico generale degli uomini), ma in quanto trova nella realtà economica la sua giustificazione, lo strumento per affermarsi. Per conoscere con esattezza quali sono i fini storici di un paese, di una società, di un aggruppamento importa prima di tutto conoscere quali sono i sistemi e i rapporti di produzione e di scambio di quel paese, di quella società. Senza questa conoscenza si potranno compilare monografie parziali, dissertazioni utili per la storia della cultura, si coglieranno riflessi secondari, conseguenze lontane, non si farà però storia, l'attività pratica non sarà enucleata in tutta la sua solida compattezza. Gli idoli crollano dal loro altare, le divinità vedono dileguarsi le nubi d'incenso odoroso. L'uomo acquista coscienza della realtà obiettiva, si impadronisce del segreto che fa giocare il succedersi reale degli avvenimenti. L'uomo conosce se stesso, sa quanto può valere la sua individuale volontà, e come essa possa essere resa potente in quanto, ubbidendo, disciplinandosi alla necessità, finisce col dominare la necessità stessa, identificandola col proprio fine. Chi conosce se stesso? Non l'uomo in genere, ma quello che subisce il giogo della necessità. La ricerca della sostanza storica, il fissarla nel sistema e nei rapporti di produzione e di scambio, fa scoprire come la società degli uomini sia scissa in due classi. La classe che detiene lo strumento di produzione conosce già necessariamente se stessa, ha la coscienza, sia pur confusa e frammentaria, della sua potenza e della sua missione. Ha dei fini individuali e li realizza attraverso la sua organizzazione, freddamente, obiettivamente, senza preoccuparsi se la sua strada è lastricata di corpi estenuati dalla fame, o dei cadaveri dei campi di battaglia. La sistemazione della reale causalità storica acquista valore di rivelazione per l'altra classe, diventa principio d'ordine per lo sterminato gregge senza pastore. Il gregge acquista consapevolezza di sé, del compito che attualmente deve svolgere perché l'altra classe si affermi, acquista coscienza che i suoi fini individuali rimarranno puro arbitrio, pura parola, velleità vuota ed enfatica finché non avrà gli strumenti, finché velleità non sarà diventata volontà. Volontarismo? La parola non significa nulla, o viene usata nel significato di arbitrio. Volontà, marxisticamente, significa consapevolezza del fine, che a sua volta significa nozione esatta della propria potenza e dei mezzi per esprimerla nell'azione. Significa pertanto in primo luogo distinzione, individuazione della classe, vita politica indipendente da quella dell'altra classe, organizzazione compatta e disciplinata ai fini propri specifici, senza deviazioni e tentennamenti. Significa impulso rettilineo verso il fine massimo, senza scampagnate sui verdi prati della cordiale fratellanza, inteneriti dalle verdi erbette e dalle morbide dichiarazioni di stima e d'amore. Ma è inutile l'avverbio "marxisticamente", e anzi esso può dare luogo ad equivoci e ad inondazioni fatue e parolaie. Marxisti, marxisticamente... aggettivo e avverbio logori come monete passate per troppe mani. Carlo Marx è per noi maestro di vita spirituale e morale, non pastore armato di vincastro. è lo stimolatore delle pigrizie mentali, è il risvegliatore delle energie buone che dormicchiano e devono destarsi per la buona battaglia. è un esempio di lavoro intenso e tenace per raggiungere la chiara onestà delle idee, la solida cultura necessaria per non parlare a vuoto, di astrattezze. è blocco monolitico di umanità sapiente e pensante, che non si guarda la lingua per parlare, non si mette la mano sul cuore per sentire, ma costruisce sillogismi ferrati che avvolgono la realtà nella sua essenza, e la dominano, che penetrano nei cervelli, fanno crollare le sedimentazioni di pregiudizio e di idea fissa, irrobustiscono il carattere morale. Carlo Marx non è per noi il fantolino che vagisce in culla o l'uomo barbuto che spaventa i sacrestani. Non è nessuno degli episodi aneddotici della sua biografia, nessun gesto brillante o grossolano della sua esteriore animalità umana. è un vasto e sereno cervello pensante, è un momento individuale della ricerca affannosa secolare che l'umanità compie per acquistare coscienza del suo essere e del suo divenire, per cogliere il ritmo misterioso della storia e far dileguare il mistero, per essere più forte nel pensare e operare. è una parte necessaria ed integrante del nostro spirito, che non sarebbe quello che è se egli non avesse vissuto, non avesse pensato, non avesse fatto scoccare scintille di luce dall'urto delle sue passioni e delle sue idee, delle sue miserie e dei suoi ideali. Glorificando Carlo Marx nel centenario della sua nascita, il proletariato internazionale glorifica se stesso, la sua forza cosciente, il dinamismo della sua aggressività conquistatrice che va scalzando il dominio del privilegio, e si prepara alla lotta finale che coronerà tutti gli sforzi e tutti i sacrifizi. Astrattismo e intransigenza(46) La Stampa dell'8 maggio ha pubblicato un articolo di un "simpatizzante", sul dissidio socialista manifestatosi nella polemica tra la direzione dell'Avanti!, che scrive per tutta la frazione intransigente rivoluzionaria e alcuni membri del gruppo parlamentare che scrivono non si sa bene per chi. Il "simpatizzante" simpatizza specialmente per il gruppo, ma non riesce a dare di questa simpatia una dimostrazione che convinca intimamente così come può convincere qualcuno per l'apparenza formale di una ferrea logicità. Ciò che cercheremo di dimostrare. Il dissidio esistente nel partito avrebbe le sue scaturigini nello stesso Carlo Marx, la cui personalità si rivelerebbe sotto due aspetti: quella del mistico-rivoluzionario e quella del concreto-storico. Gli intransigenti sarebbero dei mistici-astrattisti, i collaborazionisti sarebbero dei concretisti, degli storicisti, dei realisti (domandiamo perdono per la filastrocca degli isti). Il misticismo si sarebbe accordato col concretismo nella negazione della guerra, dando luogo alla compattezza occasionale del partito, ma il granito ha questa intima screpolatura, e la lucertola del dissidio fa ogni tanto capolino dalla fessura. Il "simpatizzante" è egli stesso un'astrattista coi fiocchi, cioè non è un temperamento politico. La sua astrazione prediletta sono i "fatti". Ma esistono i fatti senza gli uomini, e i determinati fatti senza i determinati uomini, che hanno una determinata cultura, che si propongono un determinato fine? Il concretismo diviene astrattismo quando, allucinato dall'empirismo, dimentica che i fatti, in quanto attualità e non storia del passato, in quanto spinta per lo sviluppo ulteriore della loro essenza effettiva, sono sovrattutto conoscenza, giudizio, valutamento, e queste belle cose sono possibili solo se gli uomini, gli aggruppamenti si propongono un fine generale nella loro azione. La traiettoria dei fatti è la risultante obiettiva delle attività svolte dalle energie sociali costituite: lo Stato e il Partito socialista. Uno si propone un fine quantitativo (fissabile nello spazio e nel tempo) e opera attraverso i suoi organi, dall'esercito alla magistratura, ai quotidiani. L'altro si propone anch'esso un fine quantitativo, ma non come immediato, e ottiene immediatamente dei parziali successi qualitativi: trasforma il costume, chiarifica idee, fa conoscere le energie reali operanti, suscitando, organizzando energie ancora passive, da cui scaturirà l'ordine nuovo attraverso il quale il fine ultimo sarà realizzato. Concretismo assoluto, perché non si illude che la legge abbia valore senza il controllo intelligente dei rappresentanti, che l'idea sia storia senza la forza organizzata. Le idee, i principi, l'intransigenza ideale divengono così concretezze storiche, anche se immediatamente non fanno abdicare un monarca o vincere una battaglia. Le due facce di Carlo Marx (storicismo e misticismo) che diventano i due termini del dissidio socialista, sono un'amplificazione retorica. Lo storicismo concreto di Marx è pura serietà di studioso, che ricerca i documenti del passato. Questi documenti sono definitivi, e lo studio ha il fine della verità, della ricreazione della storia, non della sua creazione. La concretezza in questo caso significa solo assenza di tutte le passioni, di tutte le energie, che non siano quelle necessarie per la ricerca, per la ricostruzione del passato, nel suo assestamento in una determinata forma d'equilibrio. Non sarebbe concreto Marx neppure in questo caso, se il concretismo fosse quale l'immagina il "simpatizzante". La storia, anche del passato, deve servirsi di schemi pratici, di idee generali, deve astrarre dai singoli individui, concretezza massima, e studiare l'attività tendenziale delle forze sociali costituite, consciamente o inconsciamente. Il "simpatizzante", invece, se fosse coerente con tutto il suo concretismo, dovrebbe ridurre la storia a un atomismo individuale; egli è un empirico, non un politico storicista, e la sua dimostrazione ha apparente robustezza, ma è viziata da un intimo astrattismo polverizzatore e scettico. Marx irride le ideologie, ma è ideologo in quanto uomo politico attuale, in quanto rivoluzionario. La verità è che le ideologie sono risibili quando sono pura chiacchiera, quando sono rivolte a creare confusioni, ad illudere e asservire energie sociali, potenzialmente antagonistiche, ad un fine che è estraneo a queste energie. Marx irride i democratici spappolati, che non conoscono la forza, credono la parola sia carne, credono che alle forze organizzate basti opporre la parola, che ai fucili e ai cannoni basti opporre il petardo del vaniloquio. Ma come rivoluzionario, cioè uomo attuale di azione, non può prescindere dalle ideologie e dagli schemi pratici, che sono entità storiche potenziali, in formazione; solo che le salda con la forza dell'organizzazione, del partito politico, della associazione economica. Il "simpatizzante" riconosce che il dogma, lo schema pratico della classe, avendo generato l'intransigenza, ha rinvigorito il partito (cioè la classe potenziale, in formazione, che si integra giorno per giorno). Non pensa che il dogma ha così dimostrato di essere una concretezza, ed ha esaurito il solo suo compito. L'uomo politico che non sia un empirico, opera per l'avvenire come se la classe fosse già attualmente in piena efficienza di quadri. Ottiene lo scopo immediato di rinvigorirsi e di trasformare il costume, di migliorare l'ambiente generale. La critica dovrebbe dimostrare, per essere concreta, come questi schemi pratici siano arbitrari, come l'astrazione, che è una necessità della pratica, sia gratuita, cioè non diventerà mai organizzazione, date le premesse storiche attuali. Ma la dimostrazione è impossibile perché lo schema della classe, diventato azione col metodo dell'intransigenza, ha determinato un rinvigorimento, documento di concretezza nel presente e più nell'avvenire. Il "simpatizzante" è anch'egli un mistico inconsapevole, dato che misticismo significhi non adesione alla vita, all'azione. Crede ai fini concreti fissati e raggiungibili a priori. Immagina l'avvenire come un qualcosa di solido, della solidità del passato. Non è un dialettico, sebbene si serva di questa parola, e non immagina il futuro come puro giuoco di forze potenziali che nel presente hanno solo un presupposto; il futuro non è che il riflesso che la nostra fantasia logica proietta del presente per avere un indirizzo certo e non empirico, di tutti e non di pochi, delle organizzazioni non di individui rappresentativi e incontrollati. Esistono i fini concreti, ma essi si attuano parzialmente ogni giorno, nell'esteriorità e nelle coscienze. Il problema è da porsi in questi termini: di questi fini concreti solo una parte si attua quotidianamente; questa parte non è fissabile a priori perché la storia non è un calcolo matematico: questa parte è il risultato dialettico delle attività sociali in continua concorrenza di fini massimi. Solo se questi fini massimi sono perseguiti col metodo dell'intransigenza, la dialettica è storia e non arbitrio puerile, è risultato solido, e non sbaglio, che bisogni disfare e correggere. Nasce il dovere dell'intransigenza, pura da ogni empirismo arbitrario. Questo dovere è di tutte le energie sociali; è la ragione di vita e di sviluppo del Partito socialista. La storia è dialettica della lotta di classe, che ha protagonista e antagonista lo Stato e il Partito socialista con le organizzazioni economiche che il partito controlla. Ma di questo snodarsi di avvenimenti sono anche fattori i partiti politici borghesi in continua concorrenza fra di loro per la conquista dello Stato (concorrenza che non permette il metodo intransigente) e la passività, l'inerzia delle moltitudini. L'intransigenza conquista al partito questa inerzia, e la conquista è effettiva perché fatta con l'organizzazione, attraverso il fine generale, il programma massimo. La collaborazione è morte dello spirito, perché è assenza di distinzione, di plasticità politica. Il "simpatizzante" dovrebbe dimostrare che il fine massimo dei socialisti è arbitrario, che la classe, oltreché astrazione, è astrazione arbitraria, che non aderisce ai fatti, neppure negativamente. Dimostrare che esistono i fatti in sé, fuori del giudizio degli uomini, come qualcosa di fatale e non di necessario dialetticamente. Dimostrare che la vita è confusione e non chiarezza, che le idee generali sono astrattismi e non concrete realtà quanto il cannone e le manette. Così solo potrà dimostrare che l'intransigenza è passività e reazione e non, come noi crediamo, metodo necessario e sufficiente perché la realtà effettiva si organizzi e si riveli, perché la storia dialetticamente necessaria si affermi, sia pure questa storia la reazione degli altri e non il "democraticismo", ideologico e vacuo di Giovanni Giolitti che in concreto ha sempre voluto dire: protezione doganale, accentramento statale con la tirannia burocratica, corruzione del Parlamento, favori al clero e alle caste privilegiate, schioppettate sulle strade contro gli scioperanti, mazzieri elettorali. Ha voluto dire anche qualche pizzico di legislazione sociale, ma per gli intransigenti le leggi sono inutili se non corrisponde loro il costume, e queste leggine sono sbagli, in senso classista, perché non essendoci il costume diffuso, sono diventate privilegi di categorie. L'intransigenza di classe e la storia italiana(47) La Stampa pubblica ancora due articoli sul "dissidio socialista". La Stampa insiste sul carattere puramente "culturale" e informativo di queste sue pubblicazioni. O disinteresse mirabile, o francescana buona volontà di informare ed educare la nazione italiana! Ma non insistiamo. Preoccupiamoci della solida sostanza dei fatti, delle conseguenze reali che possono avere per la vita politica e per la storia italiana gli atteggiamenti dei gruppi interessati alla polemica tra gli intransigenti e i relativisti del nostro partito. Praticamente, La Stampa è venuta in ausilio al gruppo parlamentare. L'offensiva contro gli intransigenti è condotta in modo abile, con la sorniona destrezza che è caratteristica dei giolittiani. Gli articoli della Stampa sono scritti da un "simpatizzante", condizione utile per addormentare il senso critico nei lettori proletari del giornale. Sono scritti da un uomo d'ingegno, esperto nel linguaggio critico marxista, un uomo di cultura superiore, scaltrito nella sottile arte del distinguere, del graduare i concetti secondo la più recente filosofia idealista. Il "simpatizzante" è diventato, per naturale logica delle cose e dei valori, il teorico dei collaborazionisti. Dai tre articoli finora pubblicati, sciamano a profusione i motivi polemici, i nessi di pensiero, gli schemi logici che saranno utilizzati in articoli, ma specialmente nella conversazione privata, a sostegno della tesi relativista. Crediamo perciò necessario sottoporre a una critica minuziosa tutto il complesso della dimostrazione. Dovremo esser lunghi, purtroppo, ma i lettori di buona volontà che ci seguiranno fino alla fine, si convinceranno che ne valeva la pena, si convinceranno che la polemica tra la direzione dell'Avanti! e i collaborazionisti supera l'angusto dominio di una scaramuccia sulla tattica parlamentare, sulla disciplina di partito, ed è il preludio di una formidabile battaglia in cui sono impegnati [una riga censurata] una ventina d'anni della prossima storia italiana. Il nucleo centrale della disputa è questo, secondo le parole che La Stampa pone in bocca ai relativisti: I partiti interventisti vanno mano a mano impadronendosi di tutti i poteri, di tutti i meccanismi dello Stato, presidiandoli e controllandoli direttamente e indirettamente. Essi, inoltre, si valgono di questo controllo sui poteri dello Stato, di questa progressiva "annessione" della potenza statale ai loro partiti — sino al punto di identificare la organizzazione stessa dello Stato con la loro organizzazione di partito — per indebolire, disarticolare, ridurre all'impotenza lo strumento politico della classe lavoratrice, che è il Partito socialista. Così ragionano i collaborazionisti, e La Stampa plaude. Perché del fenomeno "annessionistico" prime e sole vittime sono Giolitti e il suo partito, perché il fenomeno "annessionistico" è l'inizio per l'Italia di una nuova forma di governo, che presuppone uno Stato di classe, dinanzi al quale tutti i partiti borghesi sono uguali, in uguali condizioni di partenza. è l'inizio di un'èra democratica, nata non per la buona volontà di uno o dell'altro partito, ma per l'inesorabile logica degli avvenimenti. Il privilegio governativo giolittiano è intaccato: un altro partito è riuscito a stare al potere più di quanto era presumibile, e sta cercando di insediarvisi stabilmente. La logica della storia, in simili casi, ha portato a questo risultato ottimo (la storia dei partiti in Inghilterra insegni): sotto i colpi della concorrenza spietata di due partiti ugualmente forti, che temono il predominio l'uno dell'altro, lo Stato s'alleggerisce del suo fardello di funzioni ingombranti, l'amministrazione si discentra, la burocrazia attenua la sua tirannide, i poteri si rendono indipendenti. Lo Stato perde la sua impalcatura feudale, dispotica, militaresca e si costituisce in modo che sia impossibile la dittatura di un capopartito, ma ci sia sempre la possibilità dell'alternarsi, del succedersi al potere di chi rappresenta l'essenziale delle forze politiche ed economiche del paese, che pertanto vedrà dare impulso alle sue energie naturali e spontanee sorte dall'attività economica, e non dilatare morbosamente i ceti parassitari, che dalla politica muovono per l'attività economica, che nel superprivilegio trovano l'unica loro ragione di esistenza. Classe, Stato, partiti Cosa rappresenta lo Stato per i socialisti? Lo Stato è l'organizzazione economico-politica della classe borghese. Lo Stato è la classe borghese nella sua concreta forza attuale. La classe borghese non è una unità fuori dello Stato. Per il principio e l'azione della libera concorrenza sorgono e si costituiscono continuamente nuovi gruppi di produttori capitalisti che integrano incessantemente la capacità economica del regime. Ogni gruppo vorrebbe uscire dalla dilacerante lotta della concorrenza imponendo il monopolio. Lo Stato compone giuridicamente i dissidi interni di classe, gli attriti d'interessi contrastanti, unifica i ceti e dà l'immagine plastica dell'intera classe. Il governo, il potere, è il punto in cui si afferma la concorrenza dei ceti. Il governo è il premio del partito, del ceto borghese più forte, che per questa forza conquista il diritto di regolare il potere dello Stato, di rivolgerlo a determinati fini, di plasmarlo prevalentemente a seconda dei suoi programmi economici e politici. Assolutamente diversa è la posizione che occupano di fronte allo Stato i partiti borghesi e il Partito socialista. I partiti borghesi o sono esponenti di categorie di produttori, o sono sciame di mosche cocchiere che non intaccano neppure superficialmente la compagine dello Stato, ma ronzano parole e succhiano il miele dei favoritismi. Il Partito socialista non è organizzazione di ceto, ma di classe: è morfologicamente diverso da ogni altro partito. Può riconoscere solo nello Stato, complesso della classe borghese, il suo simile antagonistico. Non può entrare in concorrenza per la conquista dello Stato, né direttamente, né indirettamente, senza suicidarsi, senza snaturarsi, e diventare puro ceto politico, estraniato dalla attività storica del proletariato, e diventare sciame di mosche cocchiere in caccia della scodella di biancomangiare in cui rimanere invischiato e perire ingloriosamente. Il Partito socialista non conquista lo Stato, lo sostituisce; sostituisce il regime, abolisce il governo dei partiti, alla libera concorrenza sostituisce l'organizzazione della produzione e degli scambi. L'Italia ha uno Stato di classe? Nelle discussioni e nelle polemiche troppo spesso le parole si sovrappongono alla realtà storica. Riferendoci all'Italia noi usiamo le parole: capitalisti, proletari, Stati, partiti, come se esse significassero entità sociali che hanno raggiunto la pienezza della loro maturità storica, o una maturità già notevole così come nei paesi economicamente progrediti. Ma in Italia il capitalismo è ai suoi primi inizi, e la legge esteriore non si adegua per nulla alla realtà. La legge è una incrostazione moderna su un edifizio antiquato, non è il prodotto di una evoluzione economica, è un prodotto del mimetismo politico internazionale, di una evoluzione intellettuale del giure, non dello strumento di lavoro. Lo notava Giuseppe Prezzolini recentemente a proposito della polemica sulla "democrazia". Sotto una parvenza, puramente superficiale, di ordinamento democratico, lo Stato italiano ha conservato la sostanza e l'impalcatura di uno Stato dispotico (lo stesso dicasi della Francia). Esiste un regime burocratico centralista, fondato sul sistema tirannico napoleonico, adatto ad opprimere e livellare ogni energia ed ogni movimento spontaneo. La politica estera è arcisegreta; non solo non ne sono pubbliche le discussioni, ma nemmeno i patti sono conosciuti dagli interessati. L'esercito era (fino alla guerra che ha fatto scoppiare necessariamente lo schema antiquato) di carriera, non la nazione armata. C'è una religione di Stato, stipendiata, aiutata dallo Stato, e non la separazione laica e l'uguaglianza di tutti i culti. Le scuole o mancano, o i maestri, scelti in un ristretto numero di bisognosi, data l'esiguità delle retribuzioni, sono impari allo scopo dell'educazione nazionale. Il suffragio è rimasto ristretto fino alle ultime elezioni, ed anche oggi è ben lungi dal dare la capacità alla nazione di esprimere il suo volere. Sussistono istituti feudali ancora vigorosi come il latifondo, inalienabile di fatto se non di diritto, gli usi civici, il fondo culti, che ha trasformato la dipendenza feudale dei beni di fronte alla Chiesa in un reddito sicuro e fuori da ogni alea. La libera concorrenza, principio essenziale della borghesia capitalistica, non è ancora giunta a sfiorare le più importanti attività della vita nazionale. Così avviene che le forme politiche siano semplici soprastrutture arbitrarie, senza efficacia, infeconde di risultati. I poteri sono ancora confusi e interdipendenti, mancano i grandi partiti organizzati delle borghesie agraria e industriale [otto righe e un quarto censurate]. Non esiste quindi lo Stato di classe, in cui culmina l'efficacia del principio della libera concorrenza, coll'alternarsi al potere dei grandi partiti comprensivi di vasti interessi di categorie produttrici. è esistita la dittatura di un uomo, esponente degli interessi ristretti politici della regione piemontese, che, per tenere unita l'Italia, ha imposto all'Italia un sistema di dominazione coloniale accentrata e dispotica. Il sistema si sgretola, nuove forze borghesi sono sorte e si sono rafforzate, esse vogliono il riconoscimento per i loro interessi di potersi affermare e sviluppare. L'interventismo è la contingenza, il pacifismo è la contingenza, la guerra passerà; ciò che pericola per l'avvenire è lo Stato dispotico giolittiano, è il cumulo di interessi parassitari incrostatisi a questo vecchio Stato, è la vecchia borghesia infrollita che sente il suo superprivilegio minacciato da questo fermentare di giovinezza borghese che vuole il suo posto al governo, che vuole inserirsi nel giuoco della libera concorrenza politica, e la quale indubbiamente, dato che l'evoluzione non sia troncata da un fatto nuovo, svecchierà lo Stato, butterà via tutto il ciarpame tradizionale, perché lo Stato democratico non è un portato del buon cuore o della buona educazione, è una necessità di vita della grande produzione, degli scambi intensi, dell'addensarsi della popolazione nelle città moderne capitalistiche. Il sottinteso(48) Questi sono i termini della situazione storica. L'aggruppamento giolittiano, in venti anni di dittatura incontrollata, ha illuso con largizioni formali di libertà, ma ha consolidato, di fatto, lo Stato dispotico caro alla memoria di Emanuele Filiberto. L'arma del suo dominio, della sua dittatura, è caduta in mano all'aggruppamento avversario (non chiamiamo partito né l'uno né l'altro perché ambedue mancano di sagoma politica ed economica) e questo l'ha tenuta più a lungo di quanto si credesse, e se ne serve, e la plasma per sé, e la rivolge contro gli antichi padroni. Se la lotta rimane di ceti, di aggruppamenti borghesi, dal cozzo furioso delle due parti nascerà lo Stato nuovo, liberale, si inizierà l'èra dei governi di partito, si costituiranno i grandi partiti, i piccoli dissidi spariranno, assorbiti dagli interessi superiori. I giolittiani vogliono evitare il cozzo, non vogliono dare battaglia su grandi programmi istituzionali, che possono arroventare la temperie politica della nazione; il dio dei borghesi sa se la nazione ha bisogno di nuove arroventature e quali contraccolpi può avere nel proletariato un urto così formidabile. I giolittiani vogliono evitare il cozzo e risolvere nell'ambito parlamentare il problema che li assilla. Continuano così nella loro tradizione di rimpicciolire ogni grande problema, di estraniare il paese dalla vita politica, di evitare ogni controllo dell'opinione pubblica. I giolittiani sono in minoranza. Ed ecco i deputati socialisti in caccia di farfalle, ecco le sirene a cantare le nostalgiche ariette della libertà, del controllo parlamentare e della necessità di collaborare per muoversi, per agire, per uscire dall'inerzia. Ed ecco La Stampa venire a rincalzo con gli articoli del "simpatizzante", il quale mette a servizio della cattiva causa la fresca cultura che manca purtroppo ai rappresentanti del proletariato nel Parlamento, e imprestar loro un "realismo", un hegelismo marxista che non hanno mai saputo cosa fosse. Ecco che gli intransigenti sono presentati come mistici sognatori, vacui astrattisti, e addirittura come stupidi, perché la loro concezione non sarebbe basata che sulla ipotesi semplicistica e gratuita che "i lavoratori torneranno dalle trincee, dopo la pace, con la deliberata volontà e la capacità politica di attuare il socialismo". L'intransigenza è presentata come inerzia mentale e politica; si accenna alle posizioni migliori che il proletariato potrebbe conquistare. E un sottinteso domina, sovrano, ammaliatore, affascinante per il fatto stesso che è inespresso, ma pare che i periodi secchi e nervosi ne diventino turgidi di misteriosi significati: è la risoluzione della guerra, il problema della pace che si vuole insinuare possa essere risolto da un pateracchio parlamentare. è il motivo dominante, questo che è taciuto. Si spera per esso, specialmente per esso, di creare nel proletariato uno stato d'animo di disagio intellettuale, un ottundimento del senso critico di classe che porti a una pressione sugli organi direttivi del partito e faccia ottenere, se non addirittura un consenso entusiastico e neppure freddo alla alleanza, per lo meno uno scioglimento provvisorio del gruppo parlamentare dall'obbligo della disciplina. Ciò che importa è l'azione parlamentare, il voto che faccia andare al potere i giolittiani. L'intervento diretto del proletariato viene esorcizzato: l'esempio della Russia e della miserevole fine della borghesia antizarista, travolta dall'ondata sopravveniente della furia popolare, spaventa queste anime pavide di democratici trogloditi, di parassiti, usi solo a rodere in segreto le casse dello Stato e a distribuire leggine e favori così come i frati distribuiscono brodo di lasagne alla pezzentaglia tignosa. Realismo ed empirismo La concezione che La Stampa impresta ai relativisti è puerile, in fondo, anche teoricamente. La collaborazione non può essere giustificata né con ragioni contingenti, né con teorizzazioni logiche. è un errore storico, ed è un errore logico. Il realismo collaborazionista è puro empirismo. Sta all'intransigenza come un flebotomo sta ad Augusto Murri. La storia — secondo La Stampa — mostra come il contrasto tra due tesi sociali — cioè l'antitesi di classe — siasi sempre risolto in una sintesi, dalla quale è alienata sempre una parte di ciò che fu e nella quale entra sempre più ciò che sarà finché l'utopia, attraverso graduali trasformazioni, diventa realtà e accoglie nella sua forma una nuova corrispondente costituzione sociale. La storia mostra ciò, è vero, ma non mostra che la "sintesi", "ciò che sarà", sia stato già fissato anteriormente per contratto. Anticipare la sintesi storica è arbitrio puerile, ipotecare il futuro con un contratto di classi è empirismo, non è senso vivo della storia. Con parole più facili abbiamo fatto nel Grido scorso lo stesso ragionamento: Dei fini massimi (utopia) una parte si attua quotidianamente (ciò che sarà); questa parte non è fissabile a priori perché la storia non è calcolo matematico; questa parte è il risultato dialettico delle attività sociali in continua concorrenza di fini massimi. Solo se questi fini massimi sono perseguiti col metodo dell'intransigenza, la dialettica è storia e non arbitrio puerile, è risultato solido, e non sbaglio, che bisogni disfare e correggere. Per dirla più facilmente ancora: l'intransigente e il relativista dicono ambedue: per far scoccare la scintilla bisogna battere l'acciarino contro la selce. Ma mentre l'intransigente sta per battere, il relativista dice: sta' buono, la scintilla l'ho io in tasca. Accende un fiammifero e aggiunge: ecco la scintilla che nascerebbe dall'urto ormai reso inutile. E accende il sigaro. Ma chi può prendere per senso hegeliano della storia, per pensiero marxistico un tale miserevole giuoco di bussolotti? La funzione del proletariato Come il Partito socialista, organizzazione della classe proletaria, non può entrare in concorrenza per la conquista del governo senza perdere il suo valore intrinseco e diventare uno sciame di mosche cocchiere, così non può collaborare con un ceto borghese organizzato parlamentare, senza far del male, determinando pseudo-fatti che dovranno essere disfatti e corretti. Il marasma politico che la collaborazione di classe determina è dovuto al dilatarsi spasmodico di un partito borghese, che oltre al detenere lo Stato, si serve anche della classe antagonista allo Stato, diventando un ircocervo, un mostro storico senza volontà e fini determinati, preoccupato solo del possesso dello Stato, al quale si incrosta come la ruggine. L'attività dello Stato si riduce a puro giure, alle composizioni formali dei dissidi, non intacca mai la sostanza; lo Stato diventa un carro zingaresco, che si regge a furia di tasselli e chiavi, ed è mastodontico su quattro piccole rotelline. Il Partito socialista, se vuole rimanere e sempre più diventare l'organo esecutivo del proletariato, deve osservare e far rispettare da tutti il metodo della più feroce intransigenza. I partiti borghesi, se vogliono andare al governo, per la sola loro forza intrinseca, dovranno evolversi, mettersi a contatto col paese, porre fine ai loro dissidi particolaristici, acquistare una sagoma politica ed economica che li distingua. Se non vorranno, siccome nessun partito da solo è capace di reggersi, sorgerà una crisi perenne e pericolosa, in cui il proletariato, saldo e compatto, accelererà la sua ascesa e la sua evoluzione. L'intransigenza non è inerzia, perché obbliga gli altri a muoversi ed operare. Essa è basata non su stupidaggini, come abilmente insinua La Stampa: è una politica di principi, è la politica del proletariato consapevole della sua missione rivoluzionaria di acceleratore della evoluzione capitalistica della società, di reagente che chiarifica il caos della produzione e della politica borghese, che costringe gli Stati moderni a continuare nella naturale loro missione di disgregatori degli istituti feudali che emergono ancora, dopo il naufragio delle vecchie società, impacciando la storia. L'intransigenza è il solo modo di essere della lotta di classe. è il solo documento che la storia si sviluppa e crea valori solidi, sostanziali, non "sintesi privilegiate", sintesi arbitrarie, confezionate di comune accordo tra la tesi e l'antitesi che hanno fatto comunella insieme, come l'acqua e il fuoco di buona memoria. Legge suprema della società capitalistica è la libera concorrenza tra tutte le energie sociali. I commercianti si contendono i mercati, i ceti borghesi si contendono il governo, le due classi si contendono lo Stato. I commercianti tendono a crearsi il monopolio attraverso la legge protettiva. I ceti borghesi vogliono, ognuno per sé, monopolizzare il governo, asservendo alla propria fortuna le energie incatenate della classe che è fuori della concorrenza governativa. Gli intransigenti sono liberisti. Non vogliono baroni né per gli zuccheri e il ferro, né per il governo. La legge della libertà deve integralmente operare; essa è intrinseca dell'attività borghese, è l'acido reattivo che ne scompone continuamente i quadri, obbligandoli a migliorarsi e perfezionarsi. Le grandi borghesie anglosassoni hanno acquistato l'attuale capacità produttiva attraverso questo giuoco implacabile della libera concorrenza. Lo Stato inglese si è evoluto, è stato svuotato dei suoi valori nocivi per il cozzo libero delle forze sociali borghesi che hanno finito per costituire i grandi partiti storici liberale e conservatore. Il proletariato ha guadagnato indirettamente da questo cozzo il pane a buon mercato, le libertà sostanziali, garantite dalla legge e dal costume di associazione, di sciopero, una sicurezza individuale che in Italia è un mito chimerico. La lotta di classe non è un arbitrio puerile, un atto volontaristico: è necessità intima del regime. Turbarne il limpido corso, arbitrariamente, per sintesi prestabilite da fumatori impenitenti, è sbaglio puerile, è perdita secca nella storia. I partiti non giolittiani al potere, all'infuori del fatto guerra, che è contingenza, e che ormai supera la capacità politica delle classi dirigenti delle piccole nazioni, compiono inconsapevolmente opera di disgregazione dello Stato feudale, militaresco, dispotico, che Giovanni Giolitti ha perpetuato per farsene strumento di dittatura. I giolittiani sentono sfuggirsi il monopolio. Si muovano, per dio, lottino, chiamino il paese a giudicare. No, essi vogliono far muovere il proletariato, vogliono, meglio ancora, far votare i deputati socialisti. L'intransigenza è inerzia, nevvero? Ma il movimento non è solo atto fisico, è anche intellettuale, anzi prima che fisico è sempre intellettuale, eccettuato che per le marionette. Togliete al proletariato la sua coscienza di classe: marionette, quanto movimento! Cultura e lotta di classe(49) La Giustizia di Camillo Prampolini, offre ai suoi lettori una rassegna delle opinioni espresse dai settimanali socialisti sulla polemica tra la direzione dell'Avanti! ed il gruppo parlamentare. L'ultimo capitolo della rassegna è spiritosamente intitolato Gli interpreti del proletariato e spiega: La Difesa di Firenze e Il Grido di Torino, i due esponenti più rigidi e culturali della dottrina intransigente, svolgono larghe considerazioni teoriche che ci è impossibile riassumere e che ad ogni modo sarebbe poco utile riprodurre, perché — quantunque quei due giornali affermino di essere genuini interpreti del proletariato e di avere con sé la grande massa — i nostri lettori non sarebbero abbastanza colti per capire il loro linguaggio. E l'implacabile Giustizia, perché non si dica che "faccia della maligna ironia", riporta quindi due passi staccati di un articolo del Grido, per concludere: "Più proletariamente chiari di così non si potrebbe essere". Il compagno Prampolini ci offre lo spunto per trattare una questione di non piccolo momento nei riguardi della propaganda socialista. Ammettiamo che l'articolo del Grido fosse il non plus ultra della difficoltà e della oscurità proletaria. Avremmo potuto scriverlo in altra maniera? Esso era di risposta a un articolo della Stampa, e nell'articolo della Stampa si faceva uso di un preciso linguaggio filosofico, che non era una superfluità né una posa, poiché ogni indirizzo di pensiero ha un suo particolare linguaggio e un suo particolare vocabolario. Nella risposta dovevamo rimanere nel dominio di pensiero dell'avversario, dimostrare che anche, anzi proprio per quell'indirizzo di pensiero (che è il nostro, che è l'indirizzo di pensiero del socialismo non acciabattone né fanciullescamente puerile), la tesi collaborazionistica era un errore. Per essere facili avremmo dovuto snaturare, impoverire un dibattito che versava su concetti di massima importanza, sulla sostanza più intima e più preziosa del nostro spirito. Far questo non è essere facili: significa frodare, tal quale il vinattiere che vende acqua tinta per barolo o lambrusco. Un concetto che sia difficile di per sé non può essere reso facile nell'espressione senza che si muti in una sguaiataggine. E d'altronde fingere che la sguaiataggine sia sempre quel concetto è da bassi demagoghi, da imbroglioni della logica e della propaganda. Perché dunque Camillo Prampolini fa della facile ironia sugli "interpreti" del proletariato che non si fanno comprendere dai proletari? Perché il Prampolini, con tutto il suo buon senso e la sua praticoneria, è un astrattista. Il proletariato è uno schema pratico, nella realtà esistono i proletari singoli, più o meno colti, più o meno preparati dalla lotta di classe alla comprensione dei più squisiti concetti socialisti. I settimanali socialisti s'adattano al livello medio dei ceti regionali ai quali si rivolgono; il tono degli scritti e della propaganda deve però sempre essere un tantino superiore a questa media perché ci sia uno stimolo al progresso intellettuale, perché almeno un certo numero di lavoratori esca dall'indistinto generico delle rimasticature da opuscoletti, e consolidi il suo spirito in una visione critica superiore della storia e del mondo in cui vive e lotta. Torino è città moderna. L'attività capitalistica vi pulsa col fragore immane di officine ciclopiche che addensano in poche migliaia di metri quadrati diecine e diecine di migliaia di proletari. Torino ha più di mezzo milione di abitanti; la umanità vi è divisa in due classi con caratteri di distinzione quali non esistono altrove in Italia. Non abbiamo democratici, non abbiamo riformistucci fra i piedi. Abbiamo una borghesia capitalistica audace, spregiudicata, abbiamo organizzazioni poderose, abbiamo un movimento socialista complesso, vario, ricco di impulsi e di bisogni intellettuali. Crede il compagno Prampolini che a Torino i socialisti debbano fare la propaganda imboccando la zampogna pastorale, parlando idillicamente di bontà, di giustizia, di fraternità arcadica? Qui la lotta di classe vive in tutta la sua rude grandiosità, non è una finzione retorica, non è una estensione dei concetti scientifici e antiveggenti a fenomeni sociali ancora in germe e in maturazione. Certo anche a Torino la classe proletaria si integra continuamente di nuovi individui, non elaborati spiritualmente, non capaci di comprendere tutta la portata dello sfruttamento cui sottostanno. Bisognerebbe per loro incominciare sempre dai primi princìpi, dalla propaganda elementare. Ma, e gli altri? E i proletari già intellettualmente progrediti, già adusati al linguaggio della critica socialista? Chi bisogna sacrificare, a chi ci si deve rivolgere? Il proletariato è meno complicato di quanto può sembrare. Si è formata una gerarchia spirituale e culturale spontaneamente, e l'educazione scambievole opera là dove non può arrivare l'attività degli scrittori e dei propagandisti. Nei circoli, nei fasci, nelle conversazioni dinanzi all'officina si sminuzza, si propaga, resa duttile e plastica a tutti i cervelli, a tutte le culture, la parola della critica socialista. In un ambiente complesso e vario come è quello di una grande città industriale, si suscitano spontaneamente gli organi di trasmissione capillare delle opinioni che la volontà dei dirigenti non riuscirebbe mai a costituire e creare. E noi si dovrebbe rimanere sempre alle georgiche, al socialismo agreste e idillico? Si dovrebbe sempre, con monotona insistenza, ripetere l'abecedario, dato che c'è sempre qualcuno che l'abecedario non conosce? Ricordiamo appunto un vecchio professore di università, che da quarant'anni avrebbe dovuto svolgere un corso di filosofia teorica sull'"Essere evolutivo finale". Ogni anno incominciava una "scorsa" sui precursori del sistema, e parlava di Lao-tse, il vecchio-fanciullo, l'uomo nato a ottant'anni, della filosofia cinese. E ogni anno ricominciava a parlare di Lao-tse, perché nuovi studenti erano sopraggiunti, ed anche essi dovevano erudirsi su Lao-tse per bocca del professore. E così l'"Essere evolutivo finale" divenne una leggenda, una evanescente chimera, e l'unica realtà vivente, per gli studenti di tante generazioni, fu Lao-tse, il vecchio-fanciullo, il fantolino nato ad ottant'anni. Così come succede per la lotta di classe nella vecchia Giustizia di Camillo Prampolini; anch'essa è una chimera evanescente, e ogni settimana è del vecchio-fanciullo che vi si scrive, che non matura mai, che non evolve mai, che non diventa mai l'"Essere evolutivo finale" che pure si aspetterebbe dover finalmente sbocciare dopo tanta lenta evoluzione, dopo tanta perseverante opera di educazione evangelica. I giorni(50) Incomincia a diventare popolare l'istituzione anglosassone dei "giorni". Si legge nei giornali della celebrazione in trincea del "giorno delle madri", della celebrazione, in Inghilterra o negli Stati Uniti, del "giorno dell'Italia", del "giorno dell'alleanza", del "giorno dell'Impero". L'istituzione è simpatica. è schiettamente democratica, cioè capitalistica. Poiché i cittadini è meglio pensino il meno possibile durante gli affari e il lavoro, si è applicato il metodo Taylor al pensiero e ai ricordi. Per ogni movimento dello spirito, così come del corpo, il suo momento. Si stabilisce un calendario spirituale-politico-sociale. Invece di celebrare il martirio di S. Lorenzo, o le virtù di S. Zita, o i miracoli della madonna di Caravaggio, per un giorno intero si pensa alle madri lontane, oppure si riflette all'utilità politica di un'alleanza con l'Italia, o si gioisce per la grandezza dell'Impero di S. M. Britannica. L'istituzione è simpatica. Del resto i lavoratori di tutto il mondo sono stati i primi a riconoscerla tale e da qualche decina d'anni hanno fatto entrare nella tradizione il "giorno del lavoro", il Primo Maggio. Perché non dovrebbero anche i borghesi accogliere altri giorni, o adottare l'istituzione agli e usi locali"? Sarebbe una prova di maturità economica e politica (ma forse appunto per questo non metterà radici tanto presto). Pensate infatti. Il regime economico scioglie tutti i vincoli che uniscono gli individui gli uni agli altri. Il lavoro d'officina, l'ufficio, il viaggiare per affari, il servizio militare, determinano un continuo spostarsi degli individui, rarefanno i contatti intellettuali, rendono nervose e saltellanti le conversazioni, gli scambi d'opinione. La società viene disgregata dall'azione dell'economia capitalistica, nei suoi organi morali e politici più efficaci: la famiglia, il comune, la regione. Gli individui reagiscono a quest'azione dissolvente e stabiliscono le date fisse: in una domenica tra tutti gli individui di una nazione si disserta sull'amore familiare, su un problema istituzionale, su una questione di politica internazionale. Risuscita, a data fissa, la comunione spirituale, la società che il regime ha dissolto; risuscita ampliata, con orizzonti più vasti, ricca di valori nuovi. In queste creazioni della civiltà capitalistica c'è indubbiamente una grandezza che impone rispetto: rispetto che vorremmo fosse sentito per il "giorno del lavoro" che celebrato in tutto il mondo dà già una misura per il paragone di grandezze tra l'Impero borghese e l'Internazionale socialista. L'istituzione non si radicherà subito fra la borghesia italiana, ma perché non potrebbe diffondersi per opera del proletariato? Quale efficacia non avrebbe per la propaganda il giorno della Rivoluzione russa, il giorno del proletariato inglese, tedesco, francese, americano, ecc., il giorno dei contadini, il giorno delle donne, ecc.? Sapere che nello stesso momento tante folle pensano allo stesso argomento, si comunicano riflessioni e giudizi sul medesimo problema, amplia la visione della vita, accresce l'intensità e l'efficacia del pensiero. Il proletariato anticipa i momenti storici attraverso i quali la società borghese deve passare. La sofferenza acuisce la fantasia e provoca la visione drammatica del mondo futuro nelle sue manifestazioni di solidarietà e comunione, degli spiriti e del pensiero, e qualcuna di queste manifestazioni può incominciare a riprodursi già ora, pur nell'ambiente avverso. Sono esse come le palafitte della città nuova che il proletariato getta fin d'ora nella melma viscida della palude presente. Fiorisce l'illusione(51) L'intransigenza non è solo un metodo esteriore che i partiti politici applicano nella lotta politica. Essa è in dipendenza di una visione realistica della storia e della vita politica, corrisponde a una determinata cultura, a un determinato indirizzo mentale e morale. Attraverso il serrato giuoco della lotta di classe, come attraverso lo svolgersi delle relazioni internazionali tra Stato e Stato, o delle relazioni, nel seno di una nazione, dei vari gruppi che formano una classe, lo spirito si educa a riconoscere che solo la forza (sia meccanica che morale) è l'arbitra suprema dei contrasti. Divenuto consapevole di questa verità originaria, lo spirito critico la accetta come necessità ineluttabile, fa di essa la base di ogni suo ragionamento, e scaccia, come inferiori, come privi di ogni fecondo risultato, tutti gli elementi che non rientrino in quella verità, che non servano a darle efficienza umana, a farla diventare motivo di storia, perché incarnatasi negli individui che vivono e lottano. I socialisti (e parliamo di quelli che del socialismo hanno fatto tutt'uno con la loro vita interiore, di quelli nei quali l'idea socialista ha fecondato tutte le attività, quelle intellettuali, quelle morali e quelle estetiche) si propongono sul serio il fine di instaurare la civiltà comunista. A questo fine subordinano tutte le azioni loro, per questo fine si educano, per questo fine intrecciano relazioni col mondo in cui sono immersi. I loro affetti, i loro sentimenti, gli echi inconsci dell'istinto, vengono subordinati continuamente da loro a questo fine. Si preoccupano di trovar sempre e di mettere in chiarezza uno stretto legame tra ogni atto che compiono e questo fine, una dipendenza necessaria tra ogni atto e questa loro indomabile volontà. Non vogliono essere imbroglioni in politica come non vogliono esserlo nella vita privata, non vogliono essere dilettanti nella fede socialista come non vogliono esserlo negli studi, nell'arte, nel mestiere che professano. Per questi socialisti l'intransigenza è tutt'uno con la serietà morale ed il galantomismo. Vogliono essere forti per vincere: vogliono che il partito al quale aderiscono, la classe alla quale appartengono siano forti per vincere. La classe, come fatto economico, si afforza all'infuori delle volontà individuali: essa nasce da una fonte naturale, che è il regime borghese, che è il sistema di produzione a salario, basato sulla libera concorrenza. Ma la forza della classe, in quanto fatto economico, in quanto effetto di una causa obiettiva, non è un valore politico. Perché tale diventi bisogna che questa forza si organizzi, si disciplini in vista di un fine politico da raggiungere. Il Partito socialista rappresenta l'organo di conquista di questo fine, l'elaboratore delle forme e dei modi attraverso i quali la classe conquisterà la vittoria. Perché il partito sia, tale, perché esso operi veramente e trasformi e organizzi le forze sociali, è necessario che sia tutt'uno con la classe economica, che attinga solo alle energie e alla potenza della classe economica. Perché esso ampli la sfera della sua azione, diventi elemento d'ordine del caos ancora esistente — poiché l'evoluzione economica non è ancora arrivata al suo culmine, e l'umanità non è nettamente e coscientemente divisa in due classi — è necessario che il partito tenga distinta la sua individualità finalistica, che sempre, anche nelle questioni in apparenza trascurabili, metta in rilievo la sua personalità inconfondibile. Solo così organizzerà intorno a sé le forze classiste che disordinatamente il regime ha prodotto e continua a produrre senza posa. L'intransigenza è perciò anche una necessità democratica. La chiarezza sola, la sola azione rettilinea può essere seguita e giudicata dalla grande massa che costituisce la classe già organizzata o ancora in tumultuosa formazione. Così pensano i socialisti che hanno una visione netta e reale dello svolgersi della storia, i socialisti che sono veramente tali in quanto mirano sempre al fine massimo da raggiungere, che hanno viva fede, che hanno chiara volontà. Essi non si preoccupano del successo vistoso momentaneo: non sono demagoghi, non cercano di suscitare illusioni fallaci, non cercano di pescare nel torbido dei sentimentalismi e dei dolori più cocenti per distogliere l'attenzione dal fine massimo per il quale solo si deve combattere, al quale sono e non possono essere che subordinate tutte le conquiste immediate. L'illusione cerca di fiorire: l'utopia parlamentare (utopia in quanto all'azione parlamentare si pone un fine sproporzionato alle forze e alla capacità) traccia il cerchio magico dell'incanto allucinante. Ogni uomo al suo posto, ogni energia alla sua funzione. Non lasciamoci travolgere dall'illusione e dalla demagogia, non fingiamo di credere che una piccola forza possa ottenere un grande successo. Non perdiamo il contatto, per questa illusione, con la forza grande della classe, che sola può ottenere quel grande successo. Essa cerchiamo di meglio organizzare spiritualmente, di meglio educare al fine nostro, senza presunzioni grottesche, ma anche senza abdicazioni pavide; e senza illudere e illuderci, onestamente, ci avvicineremo al nostro fine e coglieremo i frutti immediati della nostra tenacia, gli unici frutti che possono esserci consentiti finché non saremo i più forti, i quali anche perderemo, deflettendo dalla nostra linea d'azione, poiché sola conquista reale è quella che dipende dalla forza, che può essere difesa e conservata con la forza. La politica del "se"(52) La politica del "se" ha molti seguaci in Italia; si può dire anzi che la maggioranza dei cittadini italiani che fanno professione di fede politica, che discutono i problemi della vita pubblica, nazionali o internazionali, non hanno altro criterio direttivo che il "se"; e se ne trovano bene, perché il "se" esime dal pensare e dallo studiare. La politica del "se" consiste nel non tener conto alcuno delle forze sociali organizzate, nel non dare importanza alcuna alle responsabilità legittime, liberamente accettate nell'assumere un potere, nel trascurare la ricerca della funzione, dei modi in cui si svolge l'attività economica e delle conseguenze necessariamente determinate da questi speciali modi nei rapporti culturali e di convivenza sociale. La politica del "se" non è pertanto che dominio della pigrizia mentale nei semplici cittadini che fingono di controllare i poteri responsabili e le energie libere operanti nella vita del paese, ed è dominio dell'irresponsabilità nei cittadini troppo leggermente sobbarcatisi alla responsabilità del potere; per essa infatti si trascurano le forze permanentemente attive nello svolgersi degli eventi umani e che continuano ad operare nonostante tutti i bei discorsi, e si ferma invece l'attenzione sul transeunte, sull'occasionale o su una energia libera che nella realtà ha importanza limitata. E si procede per ipotesi: "se" Tizio non avesse detto, "se" Caio avesse fatto, "se" il gruppo X avesse sostenuto questa verità sacrosanta... e così via. La politica del "se" è una prova dell'incapacità a comprendere la storia e pertanto anche una prova della incapacità a fare la storia. Un ex ministro pubblica un opuscolo che ha la pretesa di essere un contributo alla storia scientifica di un periodo oscuro e doloroso della vita nazionale italiana, e ha la pretesa di essere uno stimolo pedagogico per l'attualità. Nell'opuscolo non si accenna neppure all'attività svolta dal governo del tempo per disciplinare le energie della nazione, per rivolgere utilmente ed efficacemente i mezzi dello Stato al raggiungimento di un certo bene o all'allontanamento di un certo male: il governo sembra non esistesse in quel tempo, sembra che in quel tempo lo Stato non fosse quella suprema organizzazione di tutta la vita pubblica che esso invece è, ed è con gravi responsabilità per gli uomini che lo dirigono. Avviene così che in questo opuscolo la causa degli avvenimenti è tutta riposta nella buona o perversa volontà di individui irresponsabili; piccoli episodi, di valore puramente aneddotico, vengono dilatati artificiosamente e si ha l'impressione che il paese non fosse allora un organismo disciplinato dai poteri, ma fosse un aggregato meccanico di tribù barbariche, sempre in piazza a danzare intorno a un feticcio e le quali si precipitavano da un lato o dall'altro disordinatamente e incoerentemente, a seconda che la volontà misteriosa del feticcio veniva interpretata da un pazzo malvagio, da un pazzo melanconico o da un pazzo miracolosamente ragionante. E fu giusta l'acuta riflessione di un cittadino che dopo aver letto l'opuscolo e aver constatato queste deficienze concluse: l'ex ministro non tiene conto del governo, dello Stato, dei poteri responsabili nel descrivere la storia del passato, perché il governo di cui ha fatto parte fu assente dalla vita pubblica; l'ex ministro non concepisce l'importanza sovrana dello Stato nello svolgersi degli eventi passati perché lo Stato, quando egli fu al potere, non aveva alcuna importanza per l'inettitudine dei responsabili. Il messianismo giacobino Questa incapacità a comprendere la storia e quindi a farla attualmente attraverso la lotta politica, è in dipendenza con un indirizzo di cultura e una tradizione politica nati in Francia nel secolo XVIII, e che hanno avuto la prima e più significativa espressione nel giacobinismo della rivoluzione borghese dell'89. Il giacobinismo è una visione messianica della storia; esso parla sempre per astrazioni, il male, il bene, l'oppressione, la libertà, la luce, le tenebre che esistono assolutamente, genericamente e non in forme concrete e storiche come sono gli istituti economici e politici nei quali la società si disciplina attraverso o contro i quali si sviluppa: lo Stato cioè, variamente organizzato a seconda dei rapporti di sommessione o di indipendenza che intercedono tra i poteri responsabili (il sovrano e il governo, il parlamento e la magistratura), lo Stato che è costituito in modo da permettere facilmente un ulteriore sviluppo della società verso forme superiori di libertà e responsabilità sociale, o è un aggregato parassitario di individui e gruppi che ne rivolgono a proprio beneficio le energie, e con lo Stato le organizzazioni libere sorte come affermazione di interessi legittimi delle classi e dei ceti economici e politici. Il giacobinismo astrae da queste forme concrete della società umana che operano permanentemente sullo svolgersi degli eventi, e pone la storia come un contratto, come la rivelazione di una verità assoluta che si realizza perché un certo numero di cittadini di buona volontà si sono messi d'accordo, hanno giurato di portare a realtà il pensiero. Così concepita la storia è una lunga serie di disillusioni, di rimbrotti, di richiami, di "se". Se gli avvenimenti non si svolgono secondo lo schema prestabilito, si grida al tradimento, alla defezione, si suppone che perverse volontà ne abbiano attraversato il "naturale" decorso. E il giacobinismo trae dal suo spirito messianico, dalla sua fede nella verità rivelata, la pretesa politica di sopprimere violentemente ogni opposizione, ogni volontà che rifiuti di aderire al contratto sociale. E si cade nelle contraddizioni, così comuni nei regimi democratici, tra le professioni di fede inneggianti alla libertà più sconfinata e la pratica di tirannia e di intolleranza brutale. Il giacobinismo politico, se può essere innocuo fintantoché rimane pura forma mentale, è dannoso allo sviluppo della storia e delle forme concrete che disciplinano la società, quando riesce a imporsi politicamente e a diventare il datore della cultura. Esso disabitua i cervelli dallo studio serio, dalla seria ricerca delle fonti permanentemente vive delle ingiustizie, dei mali, delle oppressioni, dissolve le associazioni sorte per operare secondo una nozione esatta della realtà e produrre quindi conseguenze utili, teglie il senso della responsabilità sociale, rende vana ogni critica, perché la critica rivolge la sua ricerca non al concreto ma ai fantasmi fluttuanti della contingenza più svaporata. Contro questo indirizzo di cultura, contro la concezione della storia che si esaurisce nei "se", ha reagito vigorosamente la critica marxista; ma si è ben lungi dall'aver raggiunto una cultura critica diffusa che efficacemente si opponga a questo deleterio imperversare dei cani urlanti alla luna. Il messianismo culturale Il messianismo giacobino è completato dal messianismo culturale, che in Italia è rappresentato da Gaetano Salvemini ed ha fatto nascere dei movimenti ideali, quali in passato quello della Voce e attualmente quello dell'Unità, rassegna di discussione dei problemi della vita italiana diretta dal Salvemini e dall'on. De Viti de Marco. Il messianismo culturale ha sviluppato della tradizione rivoluzionaria francese la corrente liberale. Anch'esso attende al culto della verità, ma il culto professa non al modo dei cattolici, ma al modo dei protestanti; con grande tolleranza, con infinita fede nell'efficacia della discussione e della propaganda, con molta tenacia e coraggio alimentato dalla persuasione che la maggioranza degli uomini è formata di individui fondamentalmente onesti e retti che sono preda e vittime dell'ignoranza, o di una confusa nozione dei loro reali interessi e dei fini che più utilmente si dovrebbero perseguire. Questo indirizzo, così simpatico, così attraente per un infinito numero di ragioni, rientra anch'esso nella corrente politica del "se". Il messianismo culturale astrae anch'esso dalle concrete forme della vita economica e politica, pone anch'esso un assoluto fuori del tempo e dello spazio, è fenomeno di indisciplina e di disorganizzazione sociale, finisce col diventare un'utopia, col creare dei dilettanti e dei leggeri irresponsabili. L'Unità infatti studia i problemi della vita pubblica nazionale e internazionale con accuratezza, con scrupolo scientifico; è una mirabile esperienza di scuola libera per i cittadini che vogliono avere informazioni controllate, che vogliono avere la sicurezza di non essere truffati dagli scrittori cui si rivolgono per avere suggerimenti, stimoli a coordinare il pensiero pratico, indirizzi per giudicare rettamente gli avvenimenti. Ma a chi si rivolge l'Unità? A quali energie sociali organizzate coordina la sua attività di cultura? A tutti genericamente e a nessuno praticamente. La sua operosità si inizia con un "se" formidabile, che dissolve ogni efficacia reale dell'operosità stessa: se... tutti facessero come noi, se... tutti si impadronissero degli esatti termini di un problema così rapidamente come noi facciamo, e contemporaneamente a noi. La realtà invece è che un paese, e specialmente l'Italia per le particolari condizioni intellettuali del suo popolo, è diversamente preparato nei singoli individui, e solo dopo uno sforzo assiduo, paziente, di diecine d'anni, una determinata idea riesce a diffondersi efficacemente negli organismi liberamente costituiti, che liberamente accettano un indirizzo e liberamente operano in comunione. Salvemini crede al "contratto sociale", crede alla possibilità degli accordi fulminei di un certo numero di persone, disperse in un grande territorio, e poiché questi accordi fulminei non si verificano o tardano a verificarsi, egli presuppone la coda del diavolo, l'influsso malefico di volontà perverse, che finisce con l'identificare coi "dirigenti", i cui nomi egli solo conosce e che demagogicamente vengono segnati all'esecrazione universale. Una "verità" travisata L'Unità ha sermoneggiato Il Grido e il Partito socialista in genere per una frase apparsa in queste colonne: "l'atteggiamento del Partito socialista ha indubbiamente giovato a quel poco di fortuna che hanno avuto le soluzioni democratiche che il gruppo dell'Unità propugna per i problemi nazionali". L'Unità ci accusa di volere usurpare i suoi meriti, con molto spirito ricorda il "venerabile compagno Greulich", parla di sagrestani e cardinali del socialismo, ricorda le nostre responsabilità per Caporetto, le quali se sono "in proporzioni assai minori che i socialisti credono (!)" non pertanto risulterebbero terribili se la frase del Grido volesse dire che i socialisti "lavorando a provocare quelle sventure hanno lavorato a rendere necessari certi provvedimenti". Strano modo di concepire le responsabilità, se esse diminuiscono e si ampliano per virtù di una frase staccata. Il Salvemini è, anche in questo particolare caso, vittima del suo messianismo culturale. Perché egli confonde la fortuna che la soluzione di un problema può avere idealmente e la fortuna che la stessa soluzione avrà politicamente. La soluzione salveminiana del problema adriatico è tutt'altro che accettata. Si è solamente ottenuto il permesso di discuterla e diffonderla, si è ottenuto solo ciò che dovrebbe essere condizione permanente della vita politica in un paese liberale. Perché essa venga tradotta in realtà, diventi fatto politico, è necessario che sia fatta propria da una energia sociale organizzata. Esiste in Italia una forza politica capace di far ciò? Capace di assumere la responsabilità del potere, se ciò fosse necessario, per attuare questa soluzione? Risolverlo nella sua integrità democratica significa imprimere un determinato indirizzo alla vita nazionale, perché esso dipende da una concezione vasta secondo la quale anche altri problemi devono essere risolti coordinatamente. Forze organizzate di tal genere in Italia non esistono all'infuori del Partito socialista e dello Stato. Il Partito socialista risolverebbe il problema socialisticamente, coordinandolo alle soluzioni degli altri problemi, secondo la sua "giustizia" [una riga censurata]. Rimane lo Stato, il governo, che spontaneamente non farà propria la soluzione salveminiana, ma può adottarla empiricamente per imposizione esteriore. E questa imposizione, indirettamente, solo il Partito socialista può esercitarla, finché esso rappresenta una opposizione minacciosa. Tra il programma di Zimmerwald [una riga censurata] e le soluzioni imperialistiche, c'è la probabilità che il governo, per comporre l'insanabile dissidio, adotti la soluzione democratica. L'esistenza di questa probabilità spiega la poca fortuna che Salvemini ha avuto, ed essa è condizionata dall'atteggiamento intransigente del Partito socialista. Ciò significa la frase del Grido, e il significato balzava da tutto il contesto. Salvemini vi ha trovato un motivo per sermoneggiare, per ripetere i suoi luoghi comuni sui cardinali e i sagrestani, sul pervertimento morale e intellettuale dei socialisti che avrebbero "dissociata sistematicamente in tutta la loro propaganda l'idea della pace dall'idea di giustizia". Perché Salvemini dissocia l'idea di giustizia dall'idea di garanzia (e unica garanzia per i socialisti è la dittatura del proletariato internazionale), dissocia l'idea di cultura politica da quella di organizzazione economica e politica, dissocia l'idea di azione e di efficacia dell'azione dal fatto delle condizioni generali di cultura e di forza. Gli rimane la passione messianica che lo fa rientrare tra i politici del "se", che lo rende inconsapevolmente elemento di indisciplina e di disordine. Utopia(53) Le Costituzioni politiche sono necessariamente dipendenti dalla struttura economica, dalle forme di produzione e di scambio. Con la semplice enunciazione di questa formula molti credono di aver risolto ogni problema politico e storico, credono di essere in grado di impartire lezioni a destra e a mancina, di poter senz'altro giudicare gli avvenimenti e concludere per esempio: Lenin è un utopista, gli infelici proletari russi vivono in piena illusione utopistica, un terribile risveglio li attende implacabile. La verità è che non esistono due Costituzioni politiche uguali fra di loro, così come non esistono due uguali strutture economiche. La verità è che la formula non è affatto la secca espressione di una legge naturale che subito salti agli occhi. Tra la premessa (struttura economica) e la conseguenza (Costituzione politica) i rapporti sono tutt'altro che semplici e diretti: e la storia di un popolo non è documentata solo dai fatti economici. Lo snodarsi della causazione è complesso e imbrogliato, e a districarlo non giova che lo studio approfondito e diffuso di tutte le attività spirituali e pratiche, e questo studio è possibile solo dopo che gli avvenimenti si sono assestati in una continuità, cioè molto, ma molto tempo dopo l'accadimento dei fatti. Lo studioso può affermare con sicurezza che una certa Costituzione politica non si affermerà vittoriosa (non durerà permanentemente), se non aderisce indissolubilmente e intrinsecamente a una determinata struttura economica, ma la sua affermazione non ha altro valore che di indizio generico; mentre i fatti si svolgono come potrebbe egli infatti sapere in che preciso modo questa dipendenza si stabilirà? Le incognite sono più numerose dei dati accertati e controllabili, e ognuna di queste incognite può rovesciare una induzione avventata. La storia non è un calcolo matematico: non esiste in essa un sistema metrico decimale, una numerazione progressiva di quantità uguali che permetta le quattro operazioni, le equazioni e le estrazioni di radici: la quantità (struttura economica) vi diventa qualità poiché diventa strumento di azione in mano agli uomini, agli uomini che non valgono solo per il peso, la statura, la energia meccanica che possono sviluppare dai muscoli e dai nervi, ma valgono specialmente in quanto sono spirito, in quanto soffrono, comprendono, gioiscono, vogliono o negano. In una rivoluzione proletaria la incognita "umanità" è più oscura che in qualunque altro avvenimento: la spiritualità diffusa del proletariato russo, come degli altri proletariati in genere, non è stata mai studiata, e forse era impossibile studiarla. Il successo o l'insuccesso della rivoluzione potrà darci un documento attendibile della sua capacità a creare la storia: per ora non è dato che aspettare. Chi non aspetta, ma vuol subito fissare un giudizio definitivo, si propone altri scopi: scopi politici attuali, da raggiungere tra gli uomini ai quali si rivolge la sua propaganda. L'affermare che Lenin è un utopista non è un fatto di cultura, non è un giudizio storico: è un atto politico attuale. L'affermare, così seccamente, che le Costituzioni politiche, ecc., ecc., non è un fatto dottrinario, è il tentativo di suscitare una certa mentalità, perché l'azione si diriga in un modo piuttosto che in un altro. Nessun atto rimane senza risultati nella vita, e il credere in una piuttosto che in un'altra teoria ha i suoi particolari riflessi sull'azione: anche l'errore lascia tracce di sé, in quanto divulgato e accettato può ritardare (non certo impedire) il raggiungimento di un fine. è questa una prova che non la struttura economica determina direttamente l'azione politica, ma l'interpretazione che si dà di essa e delle così dette leggi che ne governano lo svolgimento. Queste leggi non hanno niente di comune con le leggi naturali, sebbene anche queste non siano obiettivi dati di fatto, ma solo costruzioni del nostro pensiero, schemi utili praticamente per comodità di studio e di insegnamento. Gli avvenimenti non dipendono dall'arbitrio di un singolo, e neppure da quello di un gruppo anche numeroso: dipendono dalle volontà di molti, le quali si rivelano dal fare o non fare certi atti e dagli atteggiamenti spirituali corrispondenti, e dipendono dalla consapevolezza che una minoranza ha di queste volontà, e dal saperli più o meno rivolgere a un fine comune dopo averle inquadrate nei poteri dello Stato. Perché gli individui, nella loro maggioranza, compiono solo determinati atti? Perché essi non hanno altro fine sociale che la conservazione della propria integrità fisiologica e morale: così è che si adattano alle circostanze, ripetono meccanicamente alcuni gesti i quali, per la esperienza propria o per l'educazione ricevuta (risultato delle esperienze altrui), si sono dimostrati idonei a raggiungere il fine voluto: poter vivere. Questa rassomiglianza di atti della maggioranza produce una somiglianza di effetti, dà all'attività economica una certa struttura: nasce il concetto di legge. Solo il perseguire un fine maggiore corrode questo adattamento all'ambiente: se il fine umano non è più il puro vivere, ma il vivere qualificato, si compiono degli sforzi maggiori, e a seconda della diffusione del fine umano superiore si riesce a trasformare l'ambiente, si instaurano nuove gerarchie, diverse da quelle esistenti per regolare i rapporti tra i singoli e lo Stato, tendenti a sostituirsi permanentemente a queste per la realizzazione diffusa del fine umano superiore. Chi pone queste pseudo-leggi come qualcosa di assoluto, di estraneo alle volontà singole, e non come un adattamento psicologico all'ambiente, dovuto alla debolezza dei singoli (al non essere organizzati e quindi all'incertezza del futuro), non può immaginare che la psicologia possa mutare, che la debolezza possa diventare forza. Eppure così avviene, e la legge, la pseudo-legge si frange. Gli individui escono dalla loro solitudine e si associano. Ma come avviene questo processo associativo? Anche esso non si riesce a concepirlo che alla stregua della legge assoluta, della normalità, e quando — per il tardo ingegno o per il pregiudizio — la legge non salta agli occhi subito, si giudica e si manda: utopia, utopisti. Lenin è dunque un utopista, il proletariato russo, dal giorno della rivoluzione bolscevica ad oggi, vive in piena utopia e un terribile risveglio lo attende implacabile. Se alla storia russa si applicano gli schemi astratti, generici, costruiti per poter seguire i momenti dello sviluppo normale dell'attività economica e politica del mondo occidentale, l'illazione non può essere altra che questa. Ma ogni fenomeno storico è "individuo"; lo sviluppo è governato dal ritmo della libertà; la ricerca non deve essere di necessità generica, ma di particolare necessità. Il processo di causazione deve essere studiato instrinsecamente agli avvenimenti russi, non da un punto di vista generico e astratto. Negli avvenimenti di Russia esiste indubbiamente il rapporto di necessità, ed è un rapporto di necessità capitalistica: la guerra è stata la condizione economica, il sistema di vita pratica che ha determinato lo Stato nuovo, che ha sostanziato di necessità la dittatura del proletariato: la guerra che la Russia arretrata ha dovuto combattere nelle stesse forme degli Stati capitalistici più progrediti. Nella Russia patriarcale non potevano avvenire quegli addensamenti di individui che avvengono in un paese industrializzato, e che sono la condizione perché i proletari si conoscano tra loro, si organizzino e acquistino consapevolezza della propria potenza di classe da rivolgere a un fine umano universale. Un paese ad agricoltura estensiva isola gli individui, rende impossibile la consapevolezza uguale e diffusa, rende impossibili le unità sociali proletarie, la coscienza concreta di classe che dà la misura della propria forza e la volontà di instaurare un regime legittimato permanentemente da quella forza. La guerra è la massima concentrazione dell'attività economica nelle mani di pochi (i dirigenti dello Stato); e le corrisponde la massima concentrazione di individui nelle caserme e nelle trincee. La Russia in guerra era davvero il paese di utopia: con uomini da invasione barbarica lo Stato ha creduto di poter fare una guerra di tecnica, di organizzazione, di resistenza spirituale, quale poteva dare solo un'umanità rinsaldata cerebralmente e fisicamente dall'officina e dalla macchina. La guerra era l'utopia, e la Russia zarista patriarcale si è sfasciata sotto l'altissima tensione dello sforzo impostosi e impostole dal nemico agguerrito. Ma le condizioni suscitate artificialmente, per l'immane potenza dello Stato dispotico, hanno prodotto le conseguenze necessarie: le grandi masse degli individui socialmente solitari, accostate, addensate in piccolo spazio geografico, hanno sviluppato sentimenti nuovi, hanno sviluppato una solidarietà umana inaudita. Quanto più si sentivano deboli prima, nell'isolamento, e si piegavano al dispotismo, tanto più grande fu la rivelazione della forza collettiva esistente, tanto più prepotente e tenace il desiderio di conservarla, e di costruire su di essa la società nuova. La disciplina dispotica si liquefece: un periodo di caos subentrò. Gli individui cercavano di organizzarsi, ma come? e come conservare l'unità umana creatasi nella sofferenza? Il filisteo si fa avanti e risponde: la borghesia doveva ricondurre l'ordine nel caos, perché così sempre è successo, perché all'economia patriarcale e feudale succede sempre l'economia borghese e la Costituzione politica borghese. Il filisteo non vede salvezza fuori degli schemi prestabiliti, non concepisce la storia che come un organismo naturale che attraversa momenti fissi e prevedibili di sviluppo. Se tu semini una ghianda, sei sicuro che non può nascere altro che un germoglio di quercia, che lentamente cresce, e solo dopo un certo numero d'anni darà i frutti. Ma la storia non è un querceto, e gli uomini non sono ghiande. Dov'era in Russia la borghesia capace di adempiere questo compito? E se il suo dominio è una legge naturale, come mai la legge non ha funzionato? Questa borghesia non si è rivelata: pochi borghesi hanno cercato di imporsi e furono travolti. Dovevano vincere, dovevano imporsi anche se pochi, incapaci e deboli? Ma di quale santo crisma erano stati dunque unti gli infelici per dover trionfare anche perdendo? Il materialismo storico è dunque solo una reincarnazione del legittimismo, del diritto divino? Chi trova Lenin utopista, chi afferma che il tentativo della dittatura proletaria in Russia è un tentativo utopistico, non può esser socialista consapevole, non costruì la sua cultura studiando la dottrina del materialismo storico: è un cattolico, è impaludato nel Sillabo. Egli è il solo e autentico utopista. L'utopia consiste infatti nel non riuscire a concepire la storia come libero sviluppo, nel vedere il futuro come una solidità già sagomata, nel credere ai piani prestabiliti. L'utopia è il filisteismo, quale lo sbeffeggia Enrico Heine: i riformisti sono i filistei e gli utopisti del socialismo, come i protezionisti e i nazionalisti sono i filistei e gli utopisti della borghesia capitalistica. Enrico von Treitschke è l'esponente massimo del filisteismo tedesco (gli statolatri tedeschi ne sono i figli spirituali), come Augusto Comte e Ippolito Taine rappresentano il filisteismo francese, e Vincenzo Gioberti quello italiano. Sono quelli che predicano le missioni storiche nazionali, o credono alle vocazioni individuali, sono tutti quelli che ipotecano il futuro e credono imprigionarlo nei loro schemi prestabiliti, che non concepiscono la divina libertà, e gemono continuamente sul passato perché gli avvenimenti si sono svolti male. Non concepiscono la storia come sviluppo libero — di energie libere, che nascono e si integrano liberamente — diverso dall'evoluzione naturale, come l'uomo e le associazioni umane sono diversi dalle molecole e dagli aggregati di molecole. Non hanno imparato che la libertà è la forza immanente della storia, che fa scoppiare ogni schema prestabilito. I filistei del socialismo hanno ridotto la dottrina socialista a uno strofinaccio del pensiero, l'hanno insozzata e s'infuriano buffamente contro chi, a loro parere, non la rispetta. In Russia la libera affermazione delle energie individuali e associate ha schiantato gli ostacoli delle parole e dei piani prestabiliti. La borghesia ha cercato di imporre il suo dominio ed ha fallito. Il proletariato ha assunto la direzione della vita politica ed economica e realizza il suo ordine. Il suo ordine, non il socialismo, perché il socialismo non s'esprime con un fiat magico: il socialismo è un divenire, uno sviluppo di momenti sociali sempre più ricchi di valori collettivi. Il proletariato realizza il suo ordine, costituendo istituti politici che garantiscano la libertà di questo sviluppo, che assicurino la permanenza del suo potere. La dittatura è l'istituto fondamentale che garantisce la libertà, che impedisce i colpi di mano delle minoranze faziose. è garanzia di libertà perché non è un metodo da perpetuare, ma permette di creare e solidificare gli organismi permanenti in cui la dittatura si dissolverà, dopo aver compiuto la sua missione. Dopo la rivoluzione la Russia non era ancora libera, perché non esistevano le garanzie della libertà, perché la libertà non era stata ancora organizzata. Il problema era di suscitare una gerarchia, ma che fosse aperta, che non potesse cristallizzarsi in ordine di casta e di classe. Dalla massa, dal numero si doveva arrivare all'uno, in modo che esistesse una unità sociale, che l'autorità fosse solo autorità spirituale. I nuclei vivi di questa gerarchia sono i Soviet e i partiti popolari. I Soviet sono l'organizzazione primordiale da integrare e sviluppare e i bolscevichi diventano il partito del governo perché sostengono che i poteri dello Stato devono dipendere ed essere controllati dai Soviet. Il caos russo si rapprende intorno a questi elementi d'ordine: incomincia l'ordine nuovo. Una gerarchia si costituisce: dalla massa disorganizzata e sofferente si passa agli operai e contadini organizzati, ai Soviet, al partito bolscevico e all'uno: Lenin. è la gradazione gerarchica del prestigio e della fiducia, che si è formata spontaneamente, che si mantiene per libera elezione. Dov'è l'utopia in questa spontaneità? Utopia è l'autorità, non la spontaneità, ed è utopia in quanto diventa carrierismo, diventa casta, e presume essere eterna: la libertà non è utopia perché aspirazione primordiale, perché tutta la storia degli uomini è lotta e lavoro per suscitare istituti sociali che garantiscano il massimo di libertà. Formatasi questa gerarchia essa sviluppa la sua logica. I Soviet e il partito bolscevico non sono organismi chiusi: si integrano continuamente. Ecco il dominio della libertà, ecco le garanzie della libertà. Non sono caste, sono organismi in continuo sviluppo. Rappresentano la progressione della consapevolezza, rappresentano l'organizzabilità della società russa. Tutti i lavoratori possono far parte dei Soviet, tutti i lavoratori possono influire nel modificarli e renderli meglio espressivi delle loro volontà e dei loro desideri. La vita politica russa è indirizzata in modo che tende a coincidere con la vita morale, con lo spirito universale della umanità russa. Avviene uno scambio continuo tra queste tappe gerarchiche: un individuo grezzo si affina nella discussione per la elezione del suo rappresentante al Soviet, egli stesso può essere il rappresentante; egli controlla questi organismi perché li ha sempre sotto gli occhi, vicini nel territorio. Acquista il senso della responsabilità sociale, diventa cittadino operante nel decidere dei destini del suo paese. E il potere, la consapevolezza si estende, per il tramite di questa gerarchia, dall'uno ai molti, e la società è quale mai ne apparve nella storia. Questo è lo slancio vitale della nuova storia russa. Cosa vi è in esso di utopistico? Dove è il piano prestabilito che si vuole attuare anche contro le condizioni dell'economia e della politica? La rivoluzione russa è dominio della libertà: l'organizzazione si fonda per spontaneità, non per arbitrio di un "eroe" che s'impone con la violenza. è un'elevazione umana continua e sistematica, che segue una gerarchia, che si crea volta a volta gli organi necessari della nuova vita sociale. Ma allora non è il socialismo?... No, non è il socialismo, nel senso balordissimo che alla parola dànno i filistei costruttori di progetti mastodontici; è la società umana che si sviluppa sotto il controllo del proletariato. Quando questo sarà organizzato nella sua maggioranza, la vita sociale sarà più ricca di contenuto socialista di quanto non sia ora, e il processo di socializzazione andrà sempre più intensificandosi e perfezionandosi. Perché il socialismo non si instaura a data fissa, ma è un continuo divenire, uno sviluppo infinito in regime di libertà organizzata e controllata dalla maggioranza dei cittadini, o dal proletariato. L'opera di Lenin(54) La stampa borghese di tutti i paesi e specialmente quella francese (la speciale distinzione dipende da ragioni intuitive) non ha nascosto la sua immensa gioia per l'attentato contro Lenin. I sinistri beccamorti dell'antisocialismo hanno sconciamente tripudiato sul presunto cadavere sanguinoso (o destino crudele, quanti pii desideri, quanti soavi ideali tu hai infranto), hanno esaltato la gloriosa omicida, hanno rinverdito la tattica, squisitamente borghese, del terrorismo e del delitto politico. I beccamorti sono stati defraudati: Lenin vive e noi auguriamo, per il bene e la fortuna del proletariato, che egli riacquisti presto il vigore fisico e riprenda il suo posto di milite del socialismo internazionale. Il baccanale giornalistico avrà avuto anch'esso la sua efficacia storica: i proletari ne hanno colto la significazione sociale. Lenin è l'uomo più odiato nel mondo, così come un giorno lo fu Carlo Marx [dodici righe censurate]. Lenin ha consacrato tutta la sua vita alla causa del proletariato: il contributo che egli ha dato allo sviluppo dell'organizzazione e alla diffusione delle idee socialiste in Russia è immenso. Uomo di pensiero e di azione trova la sua forza nel carattere morale; la popolarità che gode tra le masse operaie è spontaneo omaggio alla sua rigida intransigenza verso il regime capitalista: egli non si è mai lasciato abbacinare dalle apparenze superficiali della società moderna, che altri hanno scambiato con la realtà, precipitando quindi di errore in errore. Lenin, applicando il metodo foggiato da Marx, trova che la realtà è il profondo e incolmabile abisso che il capitalismo ha scavato fra il proletariato e la borghesia, ed il sempre crescente antagonismo delle due classi. Nello spiegare i fenomeni sociali e politici e nel fissare al partito la via da seguire in tutti i momenti della sua vita, non perdette mai di vista la molla più potente di tutta l'attività economica e politica: la lotta di classe. Egli appartiene alla schiera dei più fervidi e più convinti assertori dell'internazionalismo del movimento operaio. Ogni azione proletaria deve essere subordinata o coordinata all'internazionalismo, deve poter avere carattere internazionalista. Qualunque iniziativa, in qualunque momento, sia pure transitoriamente, viene in conflitto con questo ideale supremo, deve essere combattuta inesorabilmente: perché ogni deviamento, per piccolo che sia, dalla strada che conduce direttamente al trionfo del socialismo internazionale è contrario agli interessi del proletariato, interessi lontani o immediati, e serve solo a inacerbire la lotta e a prolungare la dominazione della classe borghese. Egli, il "fanatico", l'"utopista", sostanzia il suo pensiero e la sua azione, e quella del partito, unicamente su questa profonda e incoercibile realtà della vita moderna, non sui fenomeni superficialmente vistosi, che conducono sempre i socialisti, che se ne lasciano abbacinare, verso illusioni ed errori che mettono a repentaglio la compagine del movimento. Perciò Lenin ha sempre visto trionfare le sue tesi, mentre quelli che gli rimproveravano il suo "utopismo" ed esaltavano il proprio "realismo", venivano miseramente travolti dai grandi avvenimenti storici. Subito dopo lo scoppio della rivoluzione e prima di partire per la Russia, Lenin aveva inviato ai compagni il monito: "Diffidate di Kerenski", gli avvenimenti che si sono poi svolti gli hanno dato piena ragione. Nell'entusiasmo della prima ora per la caduta dello zarismo, la maggioranza della classe operaia e molti dei suoi condottieri si erano lasciati convincere dalla fraseologia di questo uomo, il quale, colla sua mentalità piccolo-borghese, per la mancanza di qualsiasi programma e di ogni visione socialista della società, poteva condurre la rivoluzione allo sfacelo e trascinare il proletariato russo su una via pericolosa per l'avvenire del nostro movimento [tre righe censurate]. Arrivato in Russia, Lenin si mise subito a svolgere la sua azione essenzialmente socialista, e che potrebbe sintetizzarsi nel motto di Lassalle: "Dire ciò che è": una critica stringente e implacabile dell'imperialismo dei cadetti (partito costituzionale-democratico, il più grande partito liberale della Russia), della fraseologia di Kerenski e del collaborazionismo dei menscevichi. Basandosi sullo studio critico approfondito delle condizioni economiche e politiche della Russia, dei caratteri della borghesia russa e della missione storica del proletariato russo, Lenin fin dal 1905 era venuto alla conclusione che per l'alto grado di coscienza di classe del proletariato, e dato lo sviluppo della lotta di classe, ogni lotta politica si sarebbe trasformata in Russia necessariamente in lotta sociale contro l'ordinamento borghese. Questa posizione speciale in cui si trovava la società russa era dimostrata anche dalla incapacità della classe capitalista a condurre una seria lotta contro lo zarismo per sostituirgli il suo dominio politico. Dopo la rivoluzione del 1905, in cui sperimentalmente si dimostrò la enorme forza del proletariato, la borghesia ebbe paura di ogni movimento politico al quale il proletariato avrebbe partecipato, e per necessità storica di conservazione divenne sostanzialmente controrivoluzionaria. L'espressione fedele di questo stato d'animo fu dato dallo stesso Miliucoff in uno dei suoi discorsi alla Duma: il Miliucoff affermò che preferiva la sconfitta militare alla rivoluzione. La caduta dell'autocrazia non mutò per nulla i sentimenti e le direttive della borghesia russa, anzi la sua sostanza reazionaria andò aumentando a mano a mano che la forza e la coscienza del proletariato si concretava. La tesi storica di Lenin si avverò: il proletariato divenne il gigantesco protagonista della storia, ma era un gigante ingenuo, entusiasta, pieno di fede in sé e negli altri. La lotta di classe, esercitata in un ambiente di dispotismo feudale, gli aveva dato la coscienza della sua unità sociale, della sua potenza storica, ma non l'aveva educato al metodo freddo e realistico, non gli aveva formato una volontà concreta. La borghesia si rimpicciolì furbescamente, nascose i suoi caratteri essenziali con frasi altisonanti: per la sua opera illusionistica si servì del Kerenski, l'uomo più popolare fra le masse al principio della rivoluzione; i menscevichi e i socialisti-rivoluzionari (non marxisti, eredi del partito terroristico, intellettuali piccolo-borghesi) la aiutarono inconsciamente, con il loro collaborazionismo, a nascondere le sue intenzioni reazionarie e imperialiste. Contro questo inganno si levò vigorosamente il partito bolscevico con a capo Lenin, implacabilmente smascherando le vere intenzioni della borghesia russa, combattendo la tattica nefasta dei menscevichi che consegnava il proletariato mani e piedi legati alla borghesia. I bolscevichi rivendicavano ai Soviet tutti i poteri, perché ciò solo poteva costituire una garanzia contro le mene reazionarie delle classi abbienti. All'inizio gli stessi Soviet, sotto l'influsso dei menscevichi e dei socialisti-rivoluzionari, si opponevano a questa soluzione e preferivano dividere il potere con i diversi elementi della borghesia liberale; anche la massa, eccettuata una minoranza più avanzata, lasciava fare, non vedendo chiaro nella realtà delle cose, mistificata da Kerenski e dai menscevichi al governo [diciassette righe censurate]. Gli eventi si sviluppavano in modo da dare completa ragione alla critica serrata e stringente di Lenin e dei bolscevichi, che avevano sostenuto non avere la borghesia né il desiderio né la capacità di dare una soluzione democratica agli obiettivi della rivoluzione, ma che essa, aiutata inconsciamente dai socialisti collaborazionisti, avrebbe condotto il paese alla dittatura militare, strumento politico necessario per il conseguimento dei fini imperialistici e reazionari. Le masse operaie e contadine, attraverso la propaganda dei bolscevichi, cominciarono a rendersi conto di quanto avveniva, acquistarono una capacità e una sensibilità politica sempre maggiore: la loro esasperazione proruppe la prima volta nel luglio con la sollevazione di Pietrogrado facilmente repressa dal Kerenski. Questa sollevazione, quantunque giustificata dalla funesta politica di Kerenski, non aveva però l'adesione dei bolscevichi e di Lenin, perché i Soviet rimanevano ancora contrari ad assumere tutto il potere nelle loro mani e per conseguenza ogni sollevazione virtualmente si dirigeva contro i Soviet, che, bene o male, rappresentavano la classe. Bisognava quindi continuare ancora la propaganda classista e persuadere gli operai a mandare nei Soviet delegati convinti della necessità che i Soviet assumessero tutto il potere del paese. Appare anche da ciò evidente il carattere essenzialmente democratico dell'azione bolscevica, rivolta a dare capacità e coscienza politica alle masse, perché la dittatura del proletariato si instaurasse in modo organico e risultasse forma matura di regime sociale economico-politico. Ad affrettare lo svolgersi degli avvenimenti contribuì, oltre che l'atteggiamento sempre più provocante della borghesia, il tentativo militare, fatto da Korniloff, di marciare su Pietrogrado per impossessarsi del potere, e poi Kerenski con i suoi gesti napoleonici, con la formazione di un gabinetto composto di noti reazionari, col suo preparlamento non eletto col suffragio universale, e finalmente col divieto del Congresso panrusso dei Soviet, vero colpo di Stato contro il popolo, inizio del tradimento borghese verso la rivoluzione. Le tesi di Lenin e dei bolscevichi, sostenute, ribadite, propagate con lavoro perseverante e tenace fin dall'inizio della rivoluzione, avevano nella realtà una riprova assoluta: il proletariato, tutto il proletariato delle città e delle campagne si schierò risolutamente attorno ai bolscevichi, rovesciò la dittatura personale di Kerenski consegnando il potere al Congresso dei Soviet di tutta la Russia. Come era naturale, il Congresso panrusso dei Soviet, che si era convocato nonostante il divieto di Kerenski, affidò, fra l'entusiasmo generale, la carica di presidente del Consiglio dei commissari del popolo a Lenin che aveva dimostrato tanta abnegazione per la causa del proletariato e tanta chiaroveggenza nel giudicare i fatti e nel tracciare il programma d'azione della classe operaia [trentacinque righe censurate]. La stampa borghese di tutti i paesi ha sempre rappresentato Lenin come un "dittatore" che si è imposto con la violenza ad un popolo sterminato e lo opprime ferocemente. I borghesi non riescono a concepire la società che inquadrata nei loro schemi dottrinari: la dittatura per loro è Napoleone, o sia pure Clemenceau, è il dispotismo accentratore di tutto il potere politico nelle mani di uno solo, ed esercitato attraverso una gerarchia di servi armati di schioppo o emarginatori di pratiche burocratiche. Perciò la borghesia ha tripudiato alla notizia dell'attentato contro il nostro compagno, e ne ha decretato la morte: sparito il "dittatore" insostituibile, tutto il regime nuovo, secondo la loro concezione, dovrebbe miseramente crollare [sessantatre righe censurate]. Egli è stato aggredito mentre usciva da una officina, dove aveva tenuto una conferenza agli operai: il "feroce dittatore" continua dunque la sua missione di propagandista, è sempre a contatto coi proletari, ai quali porta la parola della fede socialista, l'incitamento all'opera tenace di resistenza rivoluzionaria, per costruire, per migliorare, per progredire attraverso il lavoro, il disinteresse, il sacrifizio. Fu colpito dal revolver di una donna, di una socialista-rivoluzionaria, di una vecchia militante del sovversivismo terroristico. Nell'episodio è tutto il dramma della rivoluzione russa. Lenin è il freddo studioso della realtà storica, che tende organicamente a costruire una società nuova su basi solide e permanenti, secondo i dettami della concezione marxista: è il rivoluzionario che costruisce senza farsi illusioni frenetiche, ubbidendo alla ragione e alla saggezza. Dora Kaplan era una umanitaria, una utopista, una figlia spirituale del giacobinismo francese, che non riesce a comprendere la funzione storica dell'organizzazione e della lotta di classe, che crede socialismo significhi immediata pace fra gli uomini, paradiso idillico di gaudio e di amore. Che non comprende quanto complessa sia la società e come difficile il compito dei rivoluzionari appena divenuti gestori della responsabilità sociale. Ella era certo in buona fede, e credeva poter far raggiungere all'umanità russa la felicità liberandola dal "mostro". Non certo in buona fede sono i suoi glorificatori borghesi, i beccamorti schifosi della stampa capitalistica. Essi hanno esaltato il socialista-rivoluzionario Ciaicovski che ad Arcangelo aveva accettato di porsi a capo del movimento antibolscevico e aveva rovesciato il potere dei Soviet: ora, che egli ha compiuto la sua missione antisocialista ed è stato mandato in esilio dai borghesi russi capeggiati dal colonnello Sciaplin, irridono al vecchio pazzo, al sognatore. La giustizia rivoluzionaria ha punito Dora Kaplan: il vecchio Ciaicovski sconta in un'isola di ghiaccio il suo delitto d'essersi fatto strumento della borghesia, e sono i borghesi che lo hanno punito e si ridono di lui. Dopo il Congresso(55) Il Congresso di Roma ha riaffermato, in seno all'organizzazione politica dei lavoratori, il trionfo della frazione intransigente rivoluzionaria, ha riaffermato, in seno al Partito socialista italiano, il trionfo del socialismo. Altro sono le parole, altra è l'azione effettiva che si riesce ad esercitare nella storia. Le parole possono essere pronunziate da chiunque: la bandiera può essere assunta da ogni avventuriero che si proponga di costruirsi una fortuna personale abusando della credulità popolare e della vigliaccheria delle classi dirigenti. Nell'azione si determinano i fini reali, si concretano le volontà; la truffa politica non è più possibile, i contrabbandieri vengono smascherati. Il Congresso di Roma, il primo Congresso del Partito socialista italiano rinnovato, è stato azione più che parole, perché ha fissato una ferrea disciplina d'azione, perché ha voluto dare all'azione carattere di continuità e di perspicua distinzione. Non più politiche personali, ma organizzazione dell'attività politica, non più libertà d'iniziativa, ma controllo della libertà. La maggioranza del partito ha così dimostrato di aver raggiunto una più alta coscienza sociale e politica, una altezza storica davvero eccezionale; i socialisti hanno dimostrato di essere nel seno della nazione italiana la forza sociale più sensibile ai richiami della ragione e della storia, di essere un'aristocrazia che merita di assumere la gestione della responsabilità sociale. La misura del progresso storico è data infatti dall'affermarsi sempre più accentuato del principio organizzativo, in contrapposizione all'arbitrio, al capriccio, al vago istinto dell'originalità vuota di contenuto concreto; dal formarsi di salde gerarchie democratiche, liberamente costituite in vista di un fine concreto, irraggiungibile se ad esso non si tende con tutte le energie raccolte in fascio. Il Partito socialista italiano si è costituito all'inizio per il confluire caotico di individui usciti dalle più diverse scaturigini sociali: ha tardato a diventare interprete della volontà classista del proletariato. è stato palestra di individualità bizzarre, di spiriti irrequieti; bell'assenza delle libertà politiche ed economiche che pungolano gli individui all'azione e rinnovano continuamente i ceti dirigenti, il Partito socialista è stato il fornitore di individui nuovi alla borghesia pigra e sonnolenta. I giornalisti più quotati, gli uomini politici più capaci e attivi della classe borghese, sono disertori del movimento socialista; il partito è stato la passerella delle fortune politiche italiane, è stato il crivello più efficace dell'individualismo giacobino. Questa incapacità del partito a funzionare classisticamente era in correlazione al basso livello sociale della nazione italiana. La produzione era ancora infantile, gli scambi erano fiacchi; il regime era, come è ancora, non parlamentare, ma dispotico, non capitalistico cioè, ma piccolo-borghese. E anche il socialismo italiano era piccolo-borghese, procacciante, opportunista, tramite di privilegi statali a poche categorie proletarie. La riscossa classista è incominciata a Reggio Emilia, è continuata ad Ancona, si è dimostrata ormai rinsaldata nelle coscienze a Roma. I riformisti, gli eredi della mentalità piccolo-borghese preistorica, sono stati posti in minoranza, dopo che furono espulsi dalla compagine socialista i più compromessi, i più indisciplinati. Ma l'opera di rigenerazione non è ultimata: il Congresso ha tracciato i quadri; bisogna ancora continuare il lavoro di elaborazione individuale delle coscienze, bisogna educare dei militi che spontaneamente compiano gli atti congrui alle direttive classiste, che controllino tutti gli istituti dell'organizzazione proletaria perché questa diventi macchina potente di lotta, vibrante in ogni sua articolazione sotto l'impulso di un'unica volontà. Il partito anticipa idealmente i momenti del processo storico della società, e si prepara per essere capace di dominarli quando si avvereranno: è esso stesso coefficiente attivo della storia italiana. La sua opera rivoluzionaria la esplica in ogni istante della sua vita. L'intransigenza ha valore rivoluzionario in quanto costringe i borghesi ad assumersi tutta la responsabilità dei loro atti ed è l'ingranatura necessaria per l'Internazionale proletaria: per essa si opera all'interno sulla compagine borghese minando i ceti abbarbicatisi al potere e divenuti parassiti della produzione, e si opera internazionalmente, poiché solo chi è libero da compromessi con lo Stato nazionale può onestamente entrare a far parte attiva e disciplinata di un organismo internazionale. L'autonomia e l'indipendenza degli associati è la prima condizione necessaria della vitalità e della storicità di una associazione: sbaragliati i massoni per la doppia disciplina cui rimanevano legati, bisognò sbaragliare i collaborazionisti e gli opportunisti. Ma la battaglia è appena iniziata: bisogna distruggere lo spirito collaborazionista e riformista; bisogna con esattezza e precisione segnare cosa noi intendiamo per lo Stato, e come nell'atteggiamento che il partito va sempre meglio assumendo, nulla ci sia che contrasti con la dottrina marxista. Bisogna fissare e far penetrare diffusamente nelle coscienze che lo Stato socialista, e cioè l'organizzazione della collettività dopo l'abolizione della proprietà privata, non continua lo Stato borghese, non è una evoluzione dello Stato capitalistico costituito dai tre poteri, esecutivo, parlamentare e giudiziario, ma continua ed è uno sviluppo sistematico delle organizzazioni professionali e degli enti locali, che il proletariato ha saputo già suscitare spontaneamente in regime individualistico. L'azione immediata che pertanto il proletariato deve svolgere non può tendere assolutamente alla dilatazione dei poteri e dell'intervenzionismo statale, ma deve tendere al discentramento dello Stato borghese, all'ampliamento delle autonomie locali e sindacali fuori della legge regolamentatrice. L'ordinamento che lo Stato capitalista ha assunto in Inghilterra è molto più vicino al regime dei Soviet di quanto non vogliano ammettere i nostri borghesi che, parlano di "utopia leninista"; e nel riconoscimento è l'affermazione della vitalità perenne della dottrina marxista e della storicità della rivoluzione massimalista che rappresenta nel divenire storico un momento necessario. Il trionfo della nostra frazione al Congresso non deve illuderci e indurci a rallentare la nostra opera di cultura e di educazione; esso anzi ci crea responsabilità maggiori. Il mondo capitalista è in sussulto; lo spostamento avvenuto dei risparmi innumeri nelle mani di pochi capitalisti dà audacia alla borghesia, ma determina in essa una lotta intestina; si profila, per un tempo non lontano, un cozzo formidabile di interessi tra industriali e agricoltori, tra Nord e Sud, sulla quistione delle tariffe doganali. Lo Stato borghese, o piccolo-borghese, minaccia per un momento di rimanere scoperto [dieci righe censurate]. Il Patto d'alleanza(56) Il dissidio tra la Confederazione generale del lavoro e il Partito socialista italiano si è composto "giuridicamente" in un Patto d'alleanza, nel quale sono fissate le competenze reciproche e vengono stabiliti i rapporti e le norme secondo i quali i due organismi del movimento socialista e proletario svolgeranno la loro attività evitando i cozzi e gli attriti. La composizione ci allieta per la buona volontà che rivela negli uomini. Ma non ci lasciamo illudere che si sia ormai entrati in un'èra di perfetto accordo e di idillio. Il dissidio, più che negli uomini, era nelle cose. Gli uomini possono facilmente, quando siano sinceri e aspirino al lavoro fecondo, mettere d'accordo le loro volontà buone; la composizione "giuridica" è sufficiente a ciò. Ma le cose sono meno duttili e malleabili, il plasmarle a un fine programmatico è operazione molto difficile e complicata. E per cose intendiamo (escludendo ogni intenzione di offendere o diminuire il valore e la coscienza di chicchessia) le organizzazioni, gli uomini che ne fanno parte, il complesso movimento di resistenza, che in Italia è quello che è — senza che buona volontà di singoli possa trasformarlo immediatamente — in dipendenza del grado di sviluppo economico e culturale che la società italiana ha raggiunto. Le organizzazioni italiane di resistenza sono ben lungi dal rappresentare quelle forze democratiche e capaci di controllo reciproco che sono il presupposto di un'azione di classe politica ed economica, sistematica e ordinata quale il Partito socialista vorrebbe si esplicasse per rappresentare esso stesso veramente un'energia rivoluzionaria che trasformi la storia. Le organizzazioni italiane sono deboli e sconnesse, non solo esteriormente, ma specialmente dal punto di vista della cultura individuale, della preparazione e della coscienza individuale delle responsabilità e dei doveri democratici. Alla vita interna delle Leghe e delle Camere del lavoro partecipa una esigua minoranza degli inscritti; la maggioranza è regolarmente assente, ciò che però non toglie la possibilità, insita nei suoi diritti sociali, che essa intervenga nei momenti decisivi della vita dell'organizzazione, portando nei suffragi la leggerezza e l'avventatezza proprie di chi, non avendo dato nulla all'attività minuta dell'organizzazione, non comprendendo la portata e le conseguenze possibili di una decisione, non ha il senso della responsabilità dei suoi atti. Questa è, purtroppo, la realtà, ed essa crea delle condizioni specifiche di vita. I dirigenti acquistano un'autorità ed un'importanza che non dovrebbero avere secondo lo spirito ugualitario ed essenzialmente democratico delle organizzazioni. I dirigenti deliberano essi, molto, troppo spesso, invece che essere, puramente e solamente, organi esecutivi e amministrativi; e, si badi, questo fatto noi escludiamo dipenda da volontà dispotica ed autocratica, riconosciamo essere una necessità, ma non perciò [lo] denunziamo meno e cerchiamo convincere che bisogna distrugger[lo]. La volontà perversa o buona dei singoli ci importa poco; ci importa l'insieme delle condizioni per le quali una volontà perversa può trionfare e una volontà buona può essere sopraffatta, snervata, corrotta. Poiché così stanno le cose, il Patto d'alleanza stretto tra la Confederazione del lavoro e il partito, se ci rallegra come indizio di buona volontà individuale, non ci tranquillizza affatto e non ci induce all'inerzia. Le condizioni suddescritte continuano ad esistere, ad operare; gli enti direttivi della resistenza possono essere condotti da esse (ed escludiamo nelle persone ogni tortuosa cavillazione) a un ostruzionismo nei confronti del Patto, a sofisticazioni e obiezioni tali che in momenti decisivi, quando urge deliberare per uno spontaneo accordo determinato da somiglianza di volontà, il Patto si dissolva automaticamente e rimanga, residuo doloroso, uno strascico di polemiche velenose, deleterie per il movimento operaio. Pertanto i compagni che desiderano che la Confederazione del lavoro diventi organismo vigoroso e schietto di classe, cooperante col partito in solidarietà non solo "giuridica" e dipendente dall'arbitrio individuale, ma che sia necessaria per il suo intimo organamento e per la concorde volontà dei proletari associati, devono proseguire e intensificare il lavoro nell'interno delle Leghe, delle Federazioni, delle Camere del lavoro, perché esse si democratizzino, si solidifichino per una maggiore attività degli inscritti; nei riguardi dei quali anche è necessario intensificare la propaganda individuale (la più efficace) perché acquistino una coscienza e una educazione socialista adeguate al compito che devono svolgere, alla responsabilità sociale che devono assumersi. Il dovere di essere forti(57) La pace incomincia a portare già i suoi frutti. Abrogato il decreto Sacchi, i rapporti fra gli individui e lo Stato ricominciano ad essere regolati dalle leggi ordinarie condizionate dallo Statuto. La lotta politica ricomincia a svolgersi in un ambiente di relativa libertà, condizione indispensabile perché i cittadini possano conoscere la verità, possano riunirsi, possano discutere i problemi e i programmi economici e politici, possano associarsi dopo aver identificato la loro volontà e la loro coscienza con una volontà e una coscienza sociale organizzata in partito. Un lavoro immenso si impone agli operai e ai contadini che nel Partito socialista e nella Confederazione del lavoro riconoscono gli organismi necessari e sufficienti per lo svolgimento disciplinato e consapevole della lotta di classe. è necessario che nel più breve volgere di tempo il Partito socialista e la Confederazione raggiungano la massima potenza consentita dal grado di sviluppo economico cui è giunta l'Italia durante i quattro anni di guerra. Il nostro dovere più urgente è quello di essere forti, di raggruppare intorno ai nuclei esistenti di organizzazione politica ed economica tutti i cittadini che sono con noi, che accettano i nostri programmi, che votano per i nostri candidati nelle elezioni, che scendono in piazza per una nostra parola d'ordine. Questi cittadini sono molto numerosi, raggiungono indubbiamente la cifra di qualche milione: il partito non ha, in questo momento, più di 30.000 aderenti. Numeri irrisori, numeri che sono l'indice di una nostra pigrizia, di una nostra insufficienza nel diffondere e far penetrare nei cervelli i postulati della dottrina socialista. Numeri che sono il documento più clamoroso della nostra debolezza in confronto dello Stato borghese che vogliamo sovvertire e sostituire con la dittatura del proletariato. è inutile ricercare ora quali siano le ragioni di questa nostra debolezza. Noi sappiamo che la causa maggiore di essa sono state nel passato le condizioni arretrate dell'economia nazionale; in un paese dove predominava ancora l'agricoltura patriarcale, l'artigianato e la piccola fabbrica, non poteva formarsi ed affermarsi, coi caratteri permanenti di un processo storico normale, una democrazia sociale folta e consapevolmente disciplinata. C'era in Italia un ambiente di ribellione istintiva, dovuto alle condizioni arretrate dello Stato dispotico oppressore delle iniziative individuali, dovuto alla pesantezza della vita economica che costringeva gli individui a emigrare per sostentarsi; non c'era l'ambiente della lotta di classe definita e consapevole tra capitalismo e proletariato. Il Partito socialista ebbe momenti di enorme prestigio politico sulle masse, ma non riuscì (e non poteva riuscire) a suscitare organismi che permanentemente raccogliessero le grandi masse; le ribellioni delle folle erano fenomeni di individualismo piuttosto che di classe proletaria, erano rivolte contro lo Stato che dissangua la nazione con il fisco eccessivo, e non contro lo Stato riconosciuto espressione giuridica della classe proprietaria che impone il suo privilegio con la violenza. Quattro anni di guerra hanno rapidamente mutato l'ambiente economico e spirituale. Maestranze colossali sono state improvvisate, e la violenza connaturata nei rapporti tra salariati e imprenditori apparve in modo vistoso e riconoscibile anche dalle intelligenze più crepuscolari. E apparve non meno spettacolosamente come di questa violenza sia strumento lo Stato borghese, in tutti i suoi poteri e i suoi ordini: dal governo che si continua nei comitati di mobilitazione, nella questura, nei carabinieri, negli ufficiali di sorveglianza, all'ordine giudiziario che si presta alle violazioni statutarie promosse dai ministri democratici, al Parlamento elettivo che con la sua ignavia supina permette si faccia strazio delle libertà più elementari. L'incremento industriale è stato reso miracoloso con una tale saturazione di violenza di classe. Ma la borghesia non ha potuto evitare di offrire agli sfruttati una terribile lezione pratica di socialismo rivoluzionario. Una coscienza nuova, di classe, è sorta; e non solo nell'officina, ma anche nella trincea, che offre tante condizioni di vita simili a quelle dell'officina. Questa coscienza è elementare; la consapevolezza dottrinaria non l'ha ancora formata. è materia grezza non ancora modellata. L'artefice deve essere la nostra dottrina. Il movimento proletario deve assorbire questa massa; deve disciplinarla, deve aiutarla a diventare consapevole dei propri bisogni materiali e spirituali, deve educare i singoli individui che la compongono a solidarizzare permanentemente e organicamente tra di loro, deve diffondere nelle coscienze individuali la persuasione netta, precisa, razionalmente acquistata, che solo nell'organizzazione politica ed economica è la via della salute individuale e sociale, che la disciplina e la solidarietà nei limiti del Partito socialista e della Confederazione sono doveri imprescindibili, sono i doveri di chi si afferma fautore della democrazia sociale. Oggi il Partito socialista dovrebbe almeno contare 250.000 soci, la Confederazione del lavoro dovrebbe avere almeno due milioni di aderenti; l'Avanti! dovrebbe diffondersi a centinaia di migliaia di copie e avere milioni di lettori. Il dovere è diventato oggi potere; l'ambiente spirituale non è più refrattario alla disciplina e all'azione paziente e perseverante. Sta a noi di trasformare il potere in realtà, di diventare il partito più potente della nazione, non solo in senso relativo, ma in senso assoluto, diventare l'Antistato preparato a sostituire la borghesia in tutte le sue funzioni sociali di classe dirigente. Gli operai e i contadini, che già lottano associati, devono intensificare la propaganda individuale; le sezioni e i gruppi attivi di compagni devono promuovere un'azione di propaganda sistematica e indefessa (conferenze pubbliche, contraddittori, riunioni) perché tutti i salariati aderiscano alle organizzazioni di resistenza, perché tutti i socialisti si inscrivano nel partito. I cattolici italiani(58) I giornali così detti liberali dedicano molto spazio ai "retroscena" e ai pettegolezzi di sacrestia o di caffè intorno ai nuovi atteggiamenti che stanno assumendo i cattolici italiani e all'intenzione, che va maturando e concretandosi, di costituire un grande partito nazionale cattolico, che attivamente si inserisca nella vita dello Stato con un programma proprio distinto, e lotti per diventare il partito di governo, la corrente sociale che imprime allo Stato la forma peculiare alla sua particolare ideologia e ai suoi -particolari interessi nazionali e internazionali. Il costituirsi di un tale partito segna il culminare di un processo di sviluppo ideologico e pratico della società italiana che è essenziale nella storia politica ed economica del nostro paese: il problema centrale della vita politica, riguardante la forma e la funzione dello Stato capitalista, si avvia ad una soluzione rapida, ed aspre lotte si profilano per l'avvenire prossimo tra i vari ceti borghesi. Perciò i giornali così detti liberali, che aborrono ogni lotta in quanto possibile inizio di vasti rivolgimenti sociali, cercano svalutare preventivamente l'efficienza della nuova organizzazione che sta costituendosi, annegando le notizie e le discussioni in una palude di pettegolezzi e di chiacchiere ciarlatanesche. Ma non certo le vacue esercitazioni letterarie dei giornalisti chiacchieroni arresteranno l'inesorabile processo di dissoluzione della vecchia società italiana e lo sferrarsi delle lotte in seno alla classe dirigente e il proletariato rimbocca già le maniche per apprestarsi al suo compito di seppellitore. L'idea dello Stato liberale o parlamentare, proprio della economia liberista del capitalismo, non si è diffusa in Italia con lo stesso ritmo e la stessa intensità che nelle altre nazioni. Il suo processo di sviluppo storico si è urtato irriducibilmente con la quistione religiosa, o meglio col complesso di problemi economici e politici inerenti ai formidabili interessi costituitisi in tanti secoli di teocrazia. La vita dello Stato italiano ne è stata raggrinzita, e il partito liberale al governo si è ipnotizzato in un problema politico unico, quello delle relazioni fra lo Stato e la Chiesa, tra la dinastia e il papato. I fini essenziali dello Stato laico furono trascurati o impostati empiricamente, e l'Italia nei sessant'anni del suo essere Stato non ebbe una vita politica economica, finanziaria, interna ed estera, degna di un organismo statale moderno: naturalmente non ebbe neppure una politica religiosa, poiché l'attività di uno Stato o è unitaria e audacemente tesa ai suoi fini più essenziali, o è solo rappezzatura e basso compromesso di consorterie. Allo sviluppo dello Stato nuovo italiano mancò la collaborazione dello spirito religioso, della gerarchia ecclesiastica, la sola che potesse accostarsi alle innumeri coscienze individuali del popolo arretrato ed opaco, percorso da stimoli irrazionali e capricciosi, assente da ogni lotta ideale ed economica avente caratteri organici di necessità permanente. Gli uomini di Stato furono assillati dalla preoccupazione di escogitare un compromesso con il cattolicismo, di subordinare allo Stato liberale le energie cattoliche appartate e ottenerne la collaborazione al rinnovamento della mentalità italiana e alla sua unificazione, di suscitare o rinsaldare la disciplina nazionale attraverso il mito religioso. Non era possibile conciliare due forze come lo Stato laico e il cattolicismo assolutamente irriducibili. Perché il cattolicismo si subordinasse allo Stato laico, sarebbe stato necessario un atto di umiliazione dell'autorità pontificia, una rinunzia alla vita da parte della gerarchia ecclesiastica: solo con la forza e con l'audacia lo Stato avrebbe realizzato la sua volontà, con la dissoluzione degli istituti giuridici ed economici che potenziano socialmente il cattolicismo. Il partito liberale non ebbe l'audacia e la forza che sarebbero state necessarie: la tattica dittatoriale della Destra non dette i risultati sperati, e lo Stato italiano minacciò spesso di scompaginarsi per le reazioni violente popolari alla sua politica. Il partito liberale divenne opportunista, mandò in soffitta le sue ideologie e i suoi programmi concreti, si frantumò in tante cricche quanti sono i centri mercantili italiani, divenne vespaio di congreghe elettorali e di agenzie per il collocamento e la felice carriera di tutti gli sfaccendati e di tutti i parassiti. Così snaturato e corrotto, senza unità e gerarchia nazionale, il liberalismo fini col subordinarsi al cattolicismo, le cui energie sociali sono invece fortemente organizzate e accentrate e posseggono, nella gerarchia ecclesiastica, una ossatura millenaria, salda e preparata a ogni forma di lotta politica e di conquista delle coscienze e delle forze sociali: lo Stato italiano divenne l'esecutore del programma clericale, e nel patto Gentiloni culmina un'azione subdola e tenace per ridurre lo Stato a una vera e propria teocrazia, per sottoporre l'amministrazione pubblica al controllo indiretto della gerarchia ecclesiastica. Ma se nel piano politico, in cui operano pochi individui rappresentativi, il cattolicismo come gerarchia autoritaria trionfa clamorosamente dello Stato laico e dell'ideologia liberale, nell'intimità sociale i fatti si svolgono molto differenti. Il fattore economico reagisce potentemente sulla compagine della società italiana; il capitalismo inizia la dissoluzione dei rapporti tradizionali inerenti all'istituto familiare e al mito religioso. Il principio d'autorità viene scosso dalle fondamenta: la plebe agricola diventa proletariato e aspira, sia pur confusamente e vagamente, alla sua indipendenza dal mito religioso: la gerarchia ecclesiastica, nei suoi ordini inferiori, si vede costretta a prendere posizione nella lotta di classe delineantesi con sempre maggiore intensità e distinzione. Nel seno del cattolicismo sorgono le tendenze modernistiche e democratiche come tentativo di comporre, nell'ambito religioso, i conflitti emergenti nella società moderna. La gerarchia ecclesiastica resiste e dissolve d'autorità la democrazia cristiana, ma il suo prestigio e la sua forza si piegano dinanzi alle incoercibili necessità locali degli interessi intrecciatisi al mito religioso: essa disperde i piccoli campioni della Riforma, ma la sostanza del fenomeno che dipende dallo sviluppo della produzione capitalistica, anche se attenuata e irrigidita nella sua spontaneità storica, permane tuttavia e opera fatalmente. I cattolici esplicano un'azione sociale sempre più vasta e profonda: organizzano masse proletarie, fondano cooperative, mutue, banche, giornali, si tuffano nella vita pratica, intrecciano necessariamente la loro attività all'attività dello Stato laico e uniscono col far dipendere dalla fortuna di esso le fortune dei loro interessi particolari. Gli interessi e gli uomini trascinano con sé le ideologie: lo Stato assorbe il mito religioso, tende a farsene uno strumento di governo, atto a respingere gli assalti delle forze nuove, assolutamente laiche, organizzate dal socialismo. La guerra ha accelerato questo processo d'intima dissoluzione del mito religioso e delle dottrine legittimiste proprie della gerarchia ecclesiastica romana: la guerra ha accelerato vertiginosamente il processo di sviluppo storico dello Stato laico e liberale sorto appunto come antitesi del legittimismo romano pontificio. L'ideologia cattolica è percorsa da correnti nuove riformistiche che trovano espressione anche nei più eminenti assertori delle dottrine politiche romane: il marchese Filippo Crispolti pizzica il colascione per inneggiare al presidente Wilson; un manifesto delle organizzazioni cattoliche afferma che la vittoria dell'Intesa è vittoria del cristianesimo (senza aggettivi) contro il luteranesimo autoritario e qualifica di "negazione di Dio" la cattolicissima Austria, perché illiberale, perché lo Stato non vi era costruito sul consenso dei governati. Ora, il cristianesimo del presidente Wilson — in quanto può aver dato forma ed ispirato programmi politici e fini generali, di moralità pubblica nazionale ed internazionale, proposti ai popoli — è puro calvinismo. Il papa e le dottrine cattoliche non hanno (e non potevano avere) contribuito per nulla alla ideazione del programma wilsoniano: il papa si è rivolto sempre ai sovrani, non ai popoli, all'autorità, legittima sempre per lui, non alle moltitudini silenziose; mai il pontefice romano avrebbe lanciato ai popoli l'incitamento alla ribellione contro i poteri costituiti degli Stati dinastici e militaristi, che esprimevano la forma di società propria delle dottrine politiche cattoliche. Per una predicazione simile a quella del presidente Wilson il papa è stato privato del potere temporale e i sudditi si sono ribellati alla sua autorità teocratica: l'ideologia wilsoniana della Società delle Nazioni è l'ideologia propria del capitalismo moderno, che vuole liberare l'individuo da ogni ceppo autoritario collettivo dipendente da strutture economiche precapitalistiche, per instaurare la cosmopoli borghese in funzione di una più sfrenata gara all'arricchimento individuale, possibile solo con la caduta dei monopoli nazionali dei mercati del mondo: l'ideologia wilsoniana è anticattolica, è antigerarchica, è la rivoluzione capitalistica demoniaca che il papa ha sempre esorcizzato, senza riuscire a difendere contro di essa il patrimonio tradizionale economico e politico del cattolicismo feudale. Il cattolicismo, come dottrina e come gerarchia, esce disfatto dalla vittoria dell'Intesa, specialmente in Italia, dove esso ha la sua sede. Trionfano, in mezzo alla borghesia e al popolino disorganizzato, le tendenze liberali del calvinismo: l'idea dello Stato laico si è affermata come coscienza politica operante. Lo Stato italiano non ha più bisogno dell'ausilio dell'energia cattolica per infrenare le forze sociali immature alla storia. Lo Stato è libero dalle preoccupazioni d'ordine internazionale provocate dalla questione romana, può svilupparsi secondo la sua essenza laica e anticattolica, può svilupparsi e, attraverso una rivoluzione proletaria, trasformarsi da parlamentare in un sistema di Soviet. I cattolici si aggrappano alla realtà che sfugge al loro controllo. Il mito religioso, come coscienza diffusa che informa dei suoi valori tutte le attività e gli organismi della vita individuale e collettiva, si dissolve, in Italia come già altrove, e diventa partito politico definito. Si laicizza, rinunzia alla sua universalità, per diventare volontà pratica di un particolare ceto borghese, che si propone, conquistando il governo dello Stato, oltre che la conservazione dei privilegi generali della classe, la conservazione dei privilegi particolari dei suoi aderenti: Il costituirsi dei cattolici in partito politico è il fatto più grande della storia italiana dopo il Risorgimento. I quadri della classe borghese si scompaginano: il dominio dello Stato verrà aspramente conteso, e non è da escludere che il partito cattolico, per la sua potente organizzazione nazionale accentrata in poche mani abili, riesca vittorioso nella concorrenza dei ceti liberali e conservatori laici della borghesia, corrotti, senza vincoli di disciplina ideale, senza unità nazionale, rumoroso vespaio di basse congreghe e consorterie. Per l'intima necessità della sua struttura, per gl'inconciliabili conflitti degl'interessi individuali e di gruppo, la classe borghese sta per entrare in un momento di crisi costituzionale che proietterà i suoi effetti nell'organizzazione dello Stato, proprio mentre il proletariato agricolo e urbano trova, nell'idea dei Soviet, il perno della sua energia rivoluzionaria, l'idea compaginatrice dell'ordine nuovo internazionale. Il giornale-merce(59) Il giornale borghese è il giornale-merce, quale lo determina la concorrenza commerciale tra i proprietari di aziende giornalistiche. è una pizzicheria, dove una schiera di solerti impiegati affetta, impacca, accumula: formaggi, mortadelle, gelatine, molta patata e poco latte, molto cavallo e poco manzo, molta colla e poco brodo Non importa: importa solo che ci sia una bella vetrina, molte lampadine accecanti, molti nastri e sbrendoli varicolori. Gli uomini passano e si fermano, abbarbagliati, stupiti: che lusso, che buone cose appetitose, che ricchezza, e tutto per una vilissima moneta. E gli uomini entrano e comprano e se ne vanno soddisfatti del lusso, dei colori, del garbo signorile dei nastri, e degli sbrendoli multicolori: e l'illusione fa inghiottire i cattivi cibi senza nausea, senza vomiti, sebbene il corpo si denutrisca e il cervello si atrofizzi e le idee non facciano più ressa per esprimersi, ma solo lentamente si avanzino a una a una, come vecchiette grinzose appoggiate al bastone che ogni cinque passi si soffermano per frugarsi le tasche ed estrarre la tabacchiera ed annusare lungamente la presina: senza quel tabacco imbalsamante non potrebbero vivere. Ebbene, no; il nostro giornale Avanti! non può essere un giornale-merce, non può essere una pizzicheria imbottita di tutte le cianciafruscole, adorna di tutti gli specchietti che attirino le allodole; il Partito socialista non è una fiera dove Barnum batte la grancassa per attirare gli ingenui. L'Avanti! è un giornale unico, senza concorrenti, è il "prodotto" necessario che si acquista perché necessario, perché insostituibile, perché corrisponde a un bisogno intimo, irresistibile come il bisogno del pane per uno stomaco sano. Chi compra l'Avanti! non sceglie, non può scegliere: si sceglie tra due cose simili, diverse solo per gradi di perfezione, tra due cavalli, tra due case, tra due bastoni, tra due giornali borghesi. Ma chi è socialista, chi vuole (vuole, intendiamoci, e non già desidera vagamente o sospira o geme o smania, ma vuole concretamente) che il socialismo informi dei suoi valori morali la società degli uomini, chi vuole la società organizzata in modo che ogni uomo abbia un compito utile ed esso sia il più acconcio alle sue attitudini, in modo che ogni uomo dia il massimo del suo rendimento e la sua attività sia coordinata all'attività universale in una armonia che elimini ogni sofferenza inutile, ogni dispersione di energia e di spiritualità; chi, già oggi, immerso nella società del traffico mercantile, nella società in cui si fa fortuna sacrificando gli altri, pugnalando la propria madre, prostituendo la propria sorella, tesaurizzando la fame e il sangue degli uomini; chi è socialista ed ha ucciso in se stesso, nei rapporti con i compagni di fede, la frenesia individualistica, la brama di arraffare, arraffare per sé dando del suo il meno possibile — costui non può scegliere tra l'Avanti! e un altro giornale, non può confondere l'Avanti! con un giornale-merce. Egli sa di essere una parte dell'Avanti!, parte viva, parte attiva; sa che l'Avanti! non è un'azienda capitalistica, i cui azionisti arrischiano il denaro altrui per ricavarne utile proprio con l'inganno e l'illusione della merce appariscente e bene strombazzata, ma rappresenta, già oggi, in piena società mercantile, il principio antimercantile, il principio comunistico, che impone la sincerità, la verità, l'utilità essenziale anche quando paia immediatamente dannosa. Comprare l'Avanti! significa pertanto essersi resi indipendenti dalle leggi mercantili del capitalismo, vivere già oggi il comunismo e avvicinare quindi la società comunista. Il paese di Pulcinella(60) Quotidianamente i giornali ufficiosi di questo o quello dei pascià irresponsabili e incontrollati che costituiscono il ministero Orlando pubblicano un bollettino sanitario sulla censura. Appena avantieri il Popolo Romano annunciava: Apprendiamo col più vivo piacere da fonte sicura che dal ministero dell'Interno sono state impartite disposizioni perché l'ufficio di censura si attenga scrupolosamente agli ultimi decreti luogotenenziali evitando esagerate interpretazioni e conseguenti reclami. Le nuove disposizioni impartite non faranno mutare minimamente le cose: continueranno a soggiacere al regime di arbitrio che da quattro anni ha ridotto i "figli di Roma" al rango di una tribù di cannibali della Papuasia. I dottrinari del diritto costituzionale discutono sulla formula che definisca lo Stato italiano. è lo Stato italiano parlamentare, costituzionale, assoluto? O contempera brillantemente in una sintesi, riflesso delle qualità eminentemente pragmatiche del popolo nostro, tutto ciò che di buono è risultato dalle esperienze democratiche degli altri popoli? Lo Stato italiano, attraverso l'esame della guerra, ha finalmente rivelato la sua intima essenza: esso è lo Stato di Pulcinella, è il dominio dell'arbitrio, del capriccio, dell'irresponsabilità, del disordine immanente, generatore di sempre più asfissiante disordine. Negli Stati assoluti esiste un solo autocrate, depositario della sovranità e del potere: nel paese di Pulcinella gli autocrati si moltiplicano per generazione spontanea: la tribù dei segretari e sottosegretari di Stato è un semenzaio di poteri autocratici, ognuno dei quali opera per conto proprio, fa, disfa, accavalla e distrugge, distrugge la ricchezza nazionale; sono autocrati i prefetti, i sottoprefetti, i questori che unificano la farragine di disposizioni, circolari, decreti nel proprio buon piacere; i censori che, scelti col criterio della beneficenza, per assicurare una decorosa vecchiaia ai falliti del giornalismo e della burocrazia, mangiano la foglia... sonniniana-conservatrice e tagliano e deturpano l'Avanti! preoccupandosi solo di perpetuare il loro canonicato e i lauti appannaggi correlativi: i generali, i delegati, i questurini. Ognuno di questi "servitori" del potere esecutivo ha trasformato la sfera della sua azione in una satrapia indipendente dalle leggi generali, in uno Stato nello Stato, dove l'abuso e il sopruso sono la quotidiana attività, che travolge e dissolve le tradizioni, la sicurezza, gli interessi cosiddetti legittimi, le gerarchie sentimentali e autoritarie, i rapporti sociali. Attraversiamo la fase critica del processo dissolutivo dello Stato capitalista, costretto dagli avvenimenti a strafare quando è incapace al semplice fare, che interviene nella sfera d'azione delle private iniziative e determina solo confusione, turbamento, arresti di sviluppo, che proclama a gran voce libertà e ordine, e trema per ogni parola eterodossa, per ogni affermazione teorica di principio. Lo Stato italiano è lo Stato di Pulcinella, dove nessuno comanda perché un'infinità di irresponsabili comandano, dove nessuno crea, perché gli incompetenti riddano attorno agli stipendi e alle sinecure, dove il domani è buio perché non esiste un'attività generale organizzata che segua rettilineamente una via conosciuta. è il paese del disordine permanente, della censura permanente, dello stato d'assedio permanente, anche se decreti e disposizioni particolari annunziano, confermano, ripetono, avvertono, assicurano. Esiste più uno Stato? Esistono più leggi generali? Esiste più una gerarchia d'autorità che effettivamente riesca a ottenere obbedienza dai subalterni? Pulcinella trema; egli ha sentito rumore e il terrore bianco gli ha fermato il cuore, gli ha spezzato i tendini, gli ha atrofizzato il cervello. Un Soviet locale(61) La Fiat è diventata una colonia nord-americana, dove i probi pionieri wilsoniani, con tenacia e perseveranza, lavorano per creare il primo nucleo sociale italiano della Società delle Nazioni. Il capitalista Agnelli è convinto assertore della pace perpetua. Convinto e volenteroso. Una grande idea ha conquistato la sua coscienza. Può un uomo d'azione, un realizzatore, un creatore, un demiurgo della statura di Giovanni Agnelli, lasciare che le grandi idee ammuffiscano nelle soffitte della coscienza? La coscienza di Giovanni Agnelli è un granitico blocco senza interessi e screpolature: fede vi significa azione, concetto universale vi significa atto storico concreto. L'Agnelli è un uomo moderno, è un militante dell'ideologia democratica; vuole la libertà dei popoli, il riconoscimento delle nazionalità battezzate e cresimate con l'autodecisione plebiscitaria e la costituente. Vuole concretamente e, pertanto, da fedele milite dell'ideale, suscita, nella sfera d'azione della sua volontà individuale, le condizioni necessarie e sufficienti perché il vero diventi fatto, perché l'ideale si attui in istituto storico efficiente. Ed ecco come la Fiat è diventata nucleo sociale organico della Società delle libere nazioni. Perché le nazioni siano libere, è necessario che gli individui siano "disciplinati" alla libertà nazionale. Gli individui che, per dovere professionale e per ragion pratica di sussistenza, frequentano la Fiat, possono avere interessi contrari e idealità contrastanti con la Lega delle libere nazioni. è necessario quindi sottoporli a rigoroso controllo e disinfezione, e prevenire ogni loro azione che intralci l'inveramento dell'idea. La Fiat, nucleo originario della veniente Società delle Nazioni, si trasforma in uno Stato sovrano, che ha il suo monarca, il suo ministero esecutivo e gli organi di ordinaria amministrazione statale volgarmente conosciuti col nome di polizia. Ecco dunque la giustificazione storica e razionale delle "colombe" che tutelano l'ordine interno della Fiat ("colombe", intuizione gentile linguistica, in cui si contempera la realtà e l'ideale, la pace nell'ordine, la libertà ben intesa e l'autorità; aver scelto la colomba come distintivo della polizia interna nella Fiat, è documento della genialità moderna e wilsoniana del cav. Agnelli). Le "colombe" si sono rapidamente identificate con la dialettica finalistica della Società che sono destinate ad annunciare ed a far nascere; esse capiscono che il metodo migliore di governo è prevenire e non reprimere. Pertanto presuppongono che ogni cittadino del nuovo felice Stato della Fiat sia un ladro, e controllano, controllano, perquisiscono, frugano. Ma non bisogna offendersi; il regime delle libere nazioni ha le sue inevitabili esigenze, cui bisogna sottostare per il felice progresso dell'umanità. Come bisogna sottostare al controllo politico? Potrebbe realizzarsi l'ordine nuovo wilsoniano, se fosse concessa libertà di propaganda e d'azione agli sconsigliati mestatori che pretendono insolentemente di pensarla in modo diverso da Wilson e da Agnelli? La Società delle Nazioni vuole instaurare la pace perpetua, all'interno e all'estero. La lotta di classe, turbando i rapporti di produzione e di scambio, genera malessere interno e genera necessità di guerre esterne. Il capitalista, per soddisfare le domande delle maestranze, dovrebbe far pressione sullo Stato centrale per indurlo a conquistare nuovi mercati di esportazione; e allora, la pace perpetua, me la saluta lei? è necessario quindi il controllo politico che impedisca la concentrazione degli operai intorno a un'idea, all'idea socialista, che suscita bisogni insolenti e stimola insolenti domande e, insolenza insolentissima, suggerisce i mezzi adeguati e fruttuosi per costringere i capitalisti a soddisfare le insolenti domande. Ecco dunque la giustificazione razionale e storica della creazione, nel felice Stato sovrano della Fiat, di un corpo di sorveglianti politici che "prevenga" gli operai dal fare propaganda per l'Avanti! e per l'idea dei Soviet proletari. Così la Fiat diventa nucleo originario ed organico della Società delle Nazioni, si badi, non degli Stati. Lo Stato accentrato politicamente nel parlamento è forma politica piccolo-borghese. Lo Stato capitalista è la Società delle Nazioni, Stato di classe squisitamente cosmopolita com'è il capitalismo. Gli organi efficienti e storici della Società delle Nazioni sono gli aggruppamenti industriali, o Soviet dei capitalisti. In Italia è nato il primo Soviet dei capitalisti, la Fiat di Giovanni Agnelli, piccolo Stato locale con polizia propria, con un organo giudiziario preventivo proprio, con una legge "generale" propria, che dovrà instaurare la Società delle Nazioni, ossia la esplicita dittatura del capitalismo che abolisce la lotta di classe col terrore bianco, per evitare che sorgano i Soviet dei proletari che aboliscano loro le classi col terrore rosso. La dialettica storica continua a svilupparsi, unificando i contrari. Siamo giunti al Soviet. Lo sviluppo ulteriore dirà quale forza storica aggettiverà permanentemente il sostantivo: capitalista o proletario? Stato è sovranità(62) Nel suo articolo Perché sono uomo d'ordine il prof. Balbino Giuliano ha posto una quistione di sincerità e di galantomismo politico a coloro che ancora "credono" nel socialismo, nella lotta di classe, nel determinismo economico, e altrettali materialistiche metafisicherie. Il prof. Balbino Giuliano ha "creduto" anch'egli, un tempo, a "tutte queste cose"; oggi non ci "crede" più. La sua fede e la sua fedeltà le ha dedicate a idee e concetti più alti e più vivi; egli è ritornato a Mazzini e si è convinto che la quistione sociale è essenzialmente quistione morale, quistione di cultura, d'educazione spirituale in genere; ha detronizzato il Manifesto dei comunisti e ha rimesso sull'altare I doveri dell'uomo. Ma Balbino Giuliano è essenzialmente un maestro; pertanto vuole che la sua esperienza individuale non vada perduta. Ed ecco che la esperienza individuale di B. G. diventa "universale concreto", teoreticamente, e genera una norma d'azione pratica: o giovani, che per pigrizia mentale o per sofistica avvocatesca, "credete" ancora nel socialismo, ricredetevi, la vostra energia di pensiero dedicatela alla purificazione interiore e allo studio dei problemi concreti! Credo che Balbino Giuliano abbia "creduto" nel socialismo, non credo che B. G. "sia stato" socialista. La storia spirituale (o la cronaca spirituale) di B. G. come di Gaetano Salvemini, come di tutti gli intellettuali che hanno "creduto" nel socialismo, è anch'essa un momento della storia della società moderna capitalistica: è la dolorosa storia della piccola borghesia, di questa classe media che in Inghilterra e in Francia è arrivata al potere dello Stato, ma che in Italia e in Russia non ha potuto svolgere alcun compito preciso ed è stata rivoluzionaria fino a quando la classe lavoratrice, debole e scompaginata, teorizzava la dialettica della sua specifica funzione sociale ed era per gli intellettuali dato esteriore per costruire miti ideologici; e si è convertita all'"ordine", appena la classe lavoratrice, compostasi in unità sociale, divenuta una potenza, ha incominciato ad attuare, coi metodi e coi procedimenti propri, il proprio divenire specifico, rompendo ogni schema prestabilito intellettualisticamente dalle mosche cocchiere della piccola borghesia. Il socialismo è stato per B. G. atto di fede in una legge naturale che trascende lo spirito. Il suo socialismo non è stato quindi un atto di vita, ma un puro riflesso di sentimento, una mistica, non una pratica. Egli non ha neppure oggi superato criticamente questo momento del suo spirito; è avvenuto in lui un semplice spostamento, una sostituzione di contenuto empirico, ma l'immaturità non è divenuta maturità nonostante l'uso e l'abuso della fraseologia idealistica. Il determinismo economico, prima che essere fondamento scientifico dell'azione politica ed economica della classe lavoratrice, è autocoscienza storica della classe lavoratrice, è norma d'azione, è dovere morale. La dottrina della lotta di classe sarà meno viva e meno alta della dottrina mazziniana, ma è questa una valutazione astratta, puramente intellettuale: storicamente, concretamente, la dottrina della lotta di classe è superiore al mazzinianismo di quanto la critica è superiore al sentimento, di quanto la volontà critica è superiore all'arbitrio puerile, di quanto la necessità divenuta consapevolezza è superiore alla vacua fraseologia umanitaria, che si illude basti proporre un fine sublime perché esso sia morale e sia sublime. Balbino Giuliano è un astrattista, non un realista, è un cattolico, non un idealista. Egli consiglia ai giovani lo studio dei "problemi concreti", e sostiene la quistione sociale essere quistione morale, quistione di educazione spirituale. Ma i suoi "problemi concreti" sono semplicemente problemi di politica empirica; la concretezza non è altro che limitazione empirica nel tempo e nello spazio, puro tecnicismo materialistico, che nell'arte ci riporterebbe ai generi letterari e alla estetica del contenuto. Concretezza è organicità, e l'organicità dei problemi sociali si ritrova nella politica, che è l'atto creativo dello spirito pratico. Il "sapere" e il "volere" individuali devono sostanziarsi in "potere", se hanno un fine concreto, se sono "galantomismo" e "lealtà". Il problema concreto non si risolve che nello Stato, e pertanto non si è "concreti" senza una concezione generale dell'essenza e dei limiti dello Stato. E poiché lo Stato è una sovranità organizzata in potere, non si è concreti senza una concezione generale del concetto di sovranità, senza un'adeguazione della propria energia individuale all'atto universale che opera attraverso la sovranità e si esprime in tutto il complesso meccanismo dell'amministrazione statale. Il Giuliano non è un idealista; è un positivista all'inglese, con una incipriatura di fraseologia idealistica. La quistione sociale è vista, da buon puritano, come quistione morale, di purificazione interiore, da raggiungere attraverso la cultura e l'educazione individuale. La quistione sociale non è più un problema storico, un momento necessario dello sviluppo progressivo della società umana, da superare storicamente, sostanziando di potenza materiale e spirituale la classe lavoratrice che porrà a base della sovranità e dello Stato l'atto produttivo di beni nel quale tutti gli uomini raggiungeranno una nobiltà spirituale, sostituendo quest'atto all'empiria del "maggior numero" democratico che si organizza attraverso la violenza e l'inganno demagogico, ma ridiventa il problema del male come lo concepiscono i cattolici, e lo concepiscono gli epigoni dell'illuminismo enciclopedista annidatisi nelle università popolari. Per un idealista, così posto, il problema è una vacuità fraseologica ed è irrisolvibile "politicamente"; è un travestimento buffo dello spirito cristiano; è una cattiva azione, è una scaturigine di pervertimento sociale e di scetticismo individuale, è l'arresto della vita storica per un ascetismo che ha i suoi cenobi nelle biblioteche e il suo rito nelle giostre oratorie e nelle polemiche rivistaiole. Se il Giuliano avesse non "creduto" nel socialismo, ma fosse stato socialista, se la immaturità della percezione intellettuale fosse divenuta maturità nell'atto creativo di consapevolezza teoretica e di norma pratica, altri problemi concreti avrebbe proposto alla meditazione e alla soluzione-azione. Perché anche la dottrina del materialismo storico ha i suoi problemi concreti educativi e spirituali. Perché gli intellettuali del socialismo hanno dei doveri immediati, quando traducono in pratica la meditazione filosofica. A questi doveri il Giuliano non ha obbedito, e la sua mancata adesione al dovere giustifica col fallimento delle dottrine. La dottrina del materialismo storico è l'organizzazione critica del sapere sulle necessità storiche che sostanziano il processo di sviluppo della società umana, non è l'accertamento di una legge naturale, che si svolge "assolutamente" trascendendo lo spirito umano. è autocoscienza stimolo all'azione, non scienza naturale che esaurisca i suoi fini nell'apprendimento del vero. Se la "necessità" storica trascende l'arbitrio dell'individuo posto come pura ragione, come cellula empirica della società, è immanente in ogni individuo, momento concreto dello spirito universale che attua l'essenziale legge del suo sviluppo: è quindi "prassi", superamento continuo, adeguazione continua dell'individuo empirico alla universalità spirituale. Il Giuliano non è stato "fedele" allo spirito universale, egli che aveva, da socialista, il compito educativo di adeguare gli operai e i contadini alle necessità storiche universali quali si concretano e si definiscono nella funzione storica della classe lavoratrice. I problemi concreti sarebbero stati allora per lui, l'educare gli spiriti immaturi della classe lavoratrice all'esercizio concreto della sovranità del lavoro, alla fondazione del nuovo Stato che ordini la sua attività sull'atto produttivo, sul dinamismo del lavoro, sostituendo lo Stato capitalista, condizionato dalla proprietà privata dei mezzi di produzione e di scambio, adorante il vitello d'oro, mostruoso Moloch che sacrifica la vita per spostare individualmente e nazionalmente la proprietà privata. Il problema concreto, oggi, dopo che la guerra, distruggendo e isterilendo le fonti della ricchezza, ha fatto diventare frenetici gli uomini prospettando il pericolo che mezza umanità sia condannata a morire di esaurimento, per l'impossibilità fisiologica che il regime individualistico di libera concorrenza restauri le macerie e dia nuove possibilità di vita — il problema concreto, oggi, in piena catastrofe sociale, quando tutto è stato dissolto e ogni gerarchia autoritaria è scardinata irrimediabilmente — è quello di aiutare la classe lavoratrice ad assumere il potere politico, è quello di studiare e ricercare i mezzi adeguati perché la traslazione del potere dello Stato avvenga con effusione minima di sangue, perché lo Stato nuovo comunista si attui diffusamente dopo un breve periodo di terrore rivoluzionario. Ma questa concretezza sfugge agli illuministi dell'astratta ragione ragionante. Essi, i profondi studiosi dei problemi concreti, reputano il bolscevismo (nel numero scorso, Energie Nove ha pubblicato un articolo di P. Ballario sul bolscevismo. Un ufficiale italiano ritornato da Mosca pochi mesi fa, racconta che il Soviet di Mosca in ogni assemblea, si fa tradurre i giudizi e le impressioni latine e anglosassoni sul bolscevismo e sui Soviet. L'ufficiale italiano era umiliato dalla gioconda ilarità di quei delegati operai per le scempiaggini che la cronaca europea scrive sulla loro attività politica ed economica; era umiliato ed avvilito, perché la guerra, apportatrice in Russia di un ordine, che coincide con la coscienza e la volontà della totale società russa, e si sviluppa di un secolo ogni anno perché condizionato dalla sola volontà buona degli uomini, non avesse nei nostri paesi contribuito che a moltiplicare la già vasta tribù degli scemi, che confondono la vita e il pensiero con l'arte di fare sberleffi) un fenomeno "russo", hanno ucciso l'uomo per il concetto, hanno ucciso lo Stato per il "problema" e "l'ordine", nel processo di immiserimento della coscienza storica, può finire, identificandosi in un delegato di pubblica sicurezza. Leninismo e marxismo di Rodolfo Mondolfo(63) Si racconta che un professore tedesco di scuole medie, riuscito stranamente a innamorarsi, così combinasse insieme la pedagogia e la tenerezza: — Mi ami tu, tesoretto mio? — Si. — No, nella risposta deve essere ripetuta la domanda in questo modo: Si, ti amo, topolino mio! Rodolfo Mondolfo è quel professore; il suo amore per la rivoluzione è amore grammaticale. Egli interroga e si indispone per le risposte. Domanda: Marx? Gli si risponde: Lenin. Ciò non è scientifico, poveri noi, non può soddisfare il senso filologico dell'erudito e dell'archeologo. E con una serietà cattedratica che intenerisce, il Mondolfo boccia, boccia, boccia: zero in grammatica, zero in scienza comparata, zero nella prova pratica di magistero. La serietà professorale sappiamo essere solo una parvenza di serietà: è pedanteria, è filisteismo, spesso è incomprensione assoluta. Il Mondolfo fa un processo d'intenzioni, e attribuisce ai comunisti russi intenzioni che, o non hanno mai avuto, o non hanno alcun valore storico reale. L'essenziale fatto della rivoluzione russa è l'instaurazione di un tipo nuovo di Stato: lo Stato dei Consigli. Ad esso deve rivolgersi la critica storica. Tutto il resto è contingenza, condizionata dalla vita politica internazionale che per la rivoluzione russa significa: blocco economico, guerra su fronti di migliaia di chilometri contro gli invasori, guerra interna contro i sabotatori. Inezie, per il Mondolfo, che non ne tiene conto alcuno. Egli vuole precisione grammaticale da uno Stato che tutto il suo potere e i suoi mezzi è costretto a impiegare per sussistere, per saldare la sua esistenza alla rivoluzione internazionale. Il Mondolfo rivolge tutto il suo acume per spremere un senso antimarxista da una novellina di Massimo Gorki, Lampadine. La novellina è stata pubblicata dalle Isvestia, di Pietrogrado (il Mondolfo forse ignora questo particolare), dal giornale ufficiale della Comune del Nord, cioè. Perché è suggestiva, perché rende con sufficiente chiarezza il processo di sviluppo del comunismo russo. Il Mondolfo, che non tiene conto del fatto essenziale della rivoluzione russa, lo Stato dei Soviet, non ha compreso la novellina. Intanto il suo testo non è esatto: è stato tradotto dal tedesco, mentre il Mercure de France ne ha pubblicato una diretta traduzione dal russo. Nel Mercure, i mugik del contado di Omsk effettuano un atto reale di lotta di classe: non è un villaggio che espropria un altro villaggio, ma le requisizioni avvengono nel Belo, cioè nel centro campagnolo dove abita la borghesia, i ricconi (come il mugik siberiano chiama la borghesia); nel "castello" come si esprimerebbe un contadino meridionale d'Italia. E la novellina descrive come avvengano i contatti tra l'industria moderna e l'agricoltura patriarcale, come cioè i bolscevichi riescano a suscitare, nell'interesse degli uni e degli altri, l'unità tra i contadini e gli operai. E descrive come avvenga, in regime comunista, l'accumulamento del capitale (necessario per il progresso economico) che, essendo amministrato dal Soviet, dal potere dello Stato, e non da privati individui, dimostra una possibilità di sviluppo sociale nella rivoluzione russa, che sfugge completamente al Mondolfo, come al grammatico sfugge sempre l'anima della poesia. Il Mondolfo ha rimproverato ai tedeschi la schiavitù dello spirito. Ahimè, quanti papi infallibili tiranneggiano la coscienza degli uomini liberi e inaridiscono in loro ogni sorgente di umanità. L'internazionale comunista(64) L'Internazionale comunista è nata e si sviluppa dalle rivoluzioni proletarie e con le rivoluzioni proletarie. Già tre grandi Stati proletari: le Repubbliche soviettiste di Russia, di Ucraina e di Ungheria ne formano la base reale storica. In una lettera a Sorge del 12 settembre 1874, Federico Engels scrisse a proposito della I Internazionale in via di sfacelo: "L'Internazionale ha dominato dieci anni di storia europea e può con fierezza guardare l'opera sua. Ma essa è sopravvissuta nella sua forma antiquata. Credo che la prossima Internazionale sarà, dopo che gli scritti di Marx avranno operato per qualche anno, direttamente comunista e instaurerà i nostri princìpi". La II Internazionale non realizzò la fede dell'Engels; dopo la guerra, invece, e dopo le esperienze positive della Russia, si sono disegnati nettamente i contorni dell'Internazionale rivoluzionaria, dell'Internazionale di realizzazione comunista. La nuova Internazionale ha per base l'accettazione di queste tesi fondamentali, che sono elaborate secondo il programma della Lega Spartaco di Germania e del Partito comunista (bolscevico) di Russia: 1) L'epoca attuale è l'epoca della decomposizione e del fallimento dell'intero sistema mondiale capitalista, ciò che significherà il fallimento della civiltà europea se il capitalismo non verrà soppresso con tutti i suoi antagonismi irrimediabili. 2) Il compito del proletariato nell'ora attuale consiste nella conquista dei poteri dello Stato. Questa conquista significa: soppressione dell'apparato governativo della borghesia e organizzazione di un apparato governativo proletario. 3) Questo nuovo governo proletario è la dittatura del proletariato industriale e dei contadini poveri, che deve essere lo strumento della soppressione sistematica delle classi sfruttatrici e della loro espropriazione. Il tipo di Stato proletario non è la falsa democrazia borghese, forma ipocrita della dominazione oligarchica finanziaria, ma la democrazia proletaria che realizzerà la libertà delle masse lavoratrici; non il parlamentarismo, ma l'autogoverno delle masse attraverso i propri organi elettivi; non la burocrazia di carriera, ma organi amministrativi creati dalle masse stesse, con la partecipazione reale delle masse all'amministrazione del paese e all'opera socialista di costruzione. La forma concreta dello Stato proletario è il potere dei Consigli o di organizzazioni consimili. 4) La dittatura del proletariato è la leva dell'espropriazione immediata del capitale e della soppressione del diritto di proprietà privata sui mezzi di produzione, che devono essere trasformati in proprietà della nazione intera. La socializzazione della grande industria e dei suoi centri organizzatori, le banche; la confisca delle terre dei proprietari fondiari e la socializzazione della produzione agricola capitalista (comprendendo per socializzazione la soppressione della proprietà privata, il passaggio della proprietà allo Stato proletario e lo stabilimento dell'amministrazione socialista a mezzo della classe operaia); il monopolio del grande commercio; la socializzazione dei grandi palazzi nelle città e dei castelli nelle campagne; l'introduzione dell'amministrazione operaia e l'accentramento delle funzioni economiche nelle mani degli organi della dittatura proletaria, ecco il còmpito del governo proletario. 5) Al fine di assicurare la difesa della rivoluzione socialista contro i nemici interni ed esterni, e il soccorso ad altre frazioni nazionali del proletariato in lotta, è necessario di disarmare completamente la borghesia e i suoi agenti, e di armare tutto il proletariato, senza eccezione. 6) La situazione mondiale nell'ora presente esige il massimo contatto fra le differenti frazioni del proletariato rivoluzionario, come pure il blocco completo dei paesi nei quali la rivoluzione socialista è gia vittoriosa. 7) Il metodo principale di lotta è l'azione delle masse del proletariato fino al conflitto aperto contro i poteri dello Stato capitalista. Tutto il movimento proletario e socialista mondiale si orienta decisamente verso l'Internazionale comunista. Gli operai e i contadini sentono tutti, anche se confusamente e vagamente, che le Repubbliche soviettiste di Russia, Ucraina e Ungheria sono le cellule di una nuova società che realizza tutte le aspirazioni e le speranze degli oppressi del mondo. L'idea della difesa delle rivoluzioni proletarie dagli assalti del capitalismo mondiale deve servire a stimolare i fermenti rivoluzionari delle masse: su questo piano è necessario concertare un'azione energica e simultanea dei partiti socialisti di Inghilterra, di Francia e di Italia che imponga l'arresto di ogni offensiva contro la repubblica dei Soviet. La vittoria del capitalismo occidentale sul proletariato russo significherebbe l'Europa gettata per un ventennio in braccio alla più feroce e spietata reazione. Nessun sacrificio può essere grande se si riuscirà a impedire che ciò avvenga, se si riuscirà a rafforzare l'Internazionale comunista, che sola darà al mondo la pace nel lavoro e nella giustizia. Einaudi o dell'utopia liberale(65) Nella Nuova Rivista Storica Umberto Ricci ha proposto che fossero raccolti in volume gli innumerevoli articoli coi quali il prof. Luigi Einaudi ha, durante un ventennio, erudito il popolo italiano, dalle colonne della Stampa e del Corriere della Sera, sui problemi della nostra vita economica nazionale. Ci associamo alla proposta del Ricci e la integriamo: la direzione del Partito faccia compilare un'epitome del volume e la diffonda; sarà un efficace contributo alla propaganda comunista, un documento di prim'ordine dell'utopia liberale. Einaudi rimarrà nella storia economica come uno degli scrittori che più hanno lavorato a edificare sulla sabbia. Serio come un bambino che s'interessa al gioco, ha tessuto un'infinita tela di Penelope che la crudele realtà gli ha quotidianamente disfatto. Costante ed imperterrito ha sempre continuato a distendere i suoi articoli sobri, saggi, pazienti per spiegare, per rischiarare, per incitare la classe dirigente italiana, i capitalisti italiani, industriali ed agrari, a seguire i loro veri interessi. Miracolo strano e stupefacente: i capitalisti non vollero mai saperne dei veri interessi, continuarono per la loro scorciatoia melmosa e spinosa, invece di saldamente [tenersi sulla strada] maestra della libertà commerciale totalmente applicata. E gli scritti dell'Einaudi ne diventano un eterno rimpianto, un gemito sommesso che strazia le viscere: ah! se avessero fatto questo, ah! se il Parlamento..., ah! se gli industriali!... Ah! se gli operai..., ah, se i contadini..., ha! se la scuola..., ah! se i giornali..., ah! se i giovani!... Da vent'anni è la stessa elegia che risuona dall'Alpi al Lilibeo; e gli uomini non hanno cambiato, e la vita economica non ha spostato il suo asse che impercettibilmente, e la corruzione, l'imbroglio, l'illusione demagogica, il ricatto, la truffa parlamentare, l'anchilosi burocratica sono rimaste le supreme idee conduttrici dell'attività economica nazionale. Einaudi è antimarxista implacabile; non riconosce al Marx merito alcuno; recentemente gli ha negato persino, in polemica con Benedetto Croce, il merito affatto esteriore di aver dato impulso alle ricerche economiche nello studio della storia. Per Einaudi, Marx non è uno scienziato, non è uno studioso che proceda sistematicamente dal riconoscimento della realtà effettuale economica; è un giocoliere della fantasia, un acrobata del dilettantismo. Le sue tesi sono arbitrarie, le sue dimostrazioni sono sofistiche, la sua documentazione è parziale. Eppure, il reale sviluppo della storia dà ragione a Marx; le tesi marxiane si attuano rigidamente, mentre la scienza di Einaudi va in pezzi e il mondo liberale si disfà, in Inghilterra con maggior schiamazzo che altrove. La verità è che la scienza economica liberale ha solo la parvenza della serietà, e il suo rigore sperimentale non è che una superficiale illusione. Studia i "fatti" e trascura gli "uomini"; i processi storici sono visti come regolati da leggi perpetuamente simili, immanenti alla realtà dell'economia che è concepita avulsa dal processo storico generale della civiltà. La produzione e lo scambio delle merci vi diventano fine a se stessi; si svolgono in un meccanismo di cifre rigide e autonome, che può venir "turbato" dagli uomini, ma non ne è determinato e vivificato. Questa scienza è, insomma, uno schema, un piano prestabilito, una via della provvidenza, una utopia astratta e matematica, che non ha mai avuto, non ha e non avrà mai riscontro alcuno nella realtà storica. I suoi addetti hanno tutta la mentalità dei sacerdoti: sono queruli e scontenti sempre, perché le forze del male impediscono che la città di Dio venga da loro costruita in questo basso mondo. Accusano Marx di astrattismo perché le sue teorie del plusvalore evadono dal dominio del rigore scientifico. Rigore scientifico significa formulario della dottrina scientifica. Marx stabilisce un paragone tra l'economia capitalistica e il comunismo: un paragone, che è arbitrario, perché il comunismo è un'ipotesi vana senza soggetto. Ma tutta l'economia liberale non è un paragone tra la realtà antiscientifica e uno schema dottrinario? Dove esiste la perfetta società liberale? Quando si è realizzata nella storia del genere umano? E se non si è realizzata, non significa che è irrealizzabile, che riveste i caratteri rivelatori dell'utopia? Ma essa verrà, dicono i sacerdoti. Lavoriamo, siamo pazienti, non turbiamoci: le forze del male saranno sgominate, la verità rifulgerà agli uomini illusi e pervertiti. Intanto la guerra ha distrutto tutte le conquiste dell'ideologia liberale. La libertà, economica e politica, è scomparsa nella vita interna degli Stati e nei rapporti internazionali. Lo Stato è apparso nella sua funzione essenziale di distributore di ricchezza ai privati capitalisti; la concorrenza politica per il potere è soppressa con l'abolizione dei parlamenti. La burocrazia si è estesa, diventando più greve e impacciante. Il militarismo, improduttivo secondo l'economia liberale, è diventato il mezzo più potente di accumulare e conservare il profitto, col saccheggio delle economie estere e il terrore bianco all'interno. Il monopolio si è rafforzato in tutte le attività, assoggettando tutto il mondo agli interessi egoistici di pochi capitalisti anglosassoni. Gli schemi del liberalismo sono disfatti: le tesi marxiane si attuano. Il comunismo è umanismo integrale: studia, nella storia, tanto le forze economiche che le forze spirituali, le studia nelle interferenze reciproche, nella dialettica che si sprigiona dai cozzi inevitabili tra la classe capitalista, essenzialmente economica, e la classe proletaria, essenzialmente spirituale, tra la conservazione e la rivoluzione. La demagogia, l'illusione, la menzogna, la corruzione della società capitalistica non sono accidenti secondari della sua struttura, sono inerenti al disordine, allo scatenamento di brutali passioni, alla feroce concorrenza in cui e per cui la società capitalistica vive. Non possono essere abolite, senza abolire la struttura che la genera. Le prediche, gli stimoli, le moralità, i ragionamenti, la scienza, i "se..." sono inutili e ridicoli. La proprietà privata capitalistica dissolve ogni rapporto d'interesse generale, rende cieche e torbide le coscienze. Il lucro singolo finisce sempre col trionfare di ogni buon proposito, di ogni idealità superiore, di ogni programma morale; per guadagnare centomila lire si affama una città; per guadagnare un miliardo si distruggono venti milioni di vite umane e duemila miliardi di ricchezza. La vita degli uomini, le conquiste della civiltà, il presente, l'avvenire sono in continuo pericolo. Queste alee, questo correr sempre l'avventura, potrà soddisfare i dilettanti della vita e chi può mettersi in salvo coi suoi; ma la grande massa ne diventa schiava, e si organizza per liberarsi, per conquistare il potere di rendere sicura la vita e la civiltà, di vedere l'avvenire, di lavorare e produrre per il benessere e la felicità e non per l'avventura e la perversione. Ecco perché lo sviluppo del capitalismo, culminato nella distruzione della guerra, ha determinato il costituirsi delle immense organizzazioni proletarie, unite da uno stesso pensiero, da una stessa fede, da una stessa volontà; il comunismo, istaurato attraverso lo Stato dei Consigli operai e contadini, che è l'umanismo integrale, come lo concepì Carlo Marx, che trionfa di tutti gli schemi astratti e giacobini dell'utopia liberale. La taglia della storia(66) Cosa domanda ancora la storia al proletariato russo per legittimare e rendere permanenti le sue conquiste? Quale altra taglia di sangue e di sacrifizio pretende ancora questa sovrana assoluta del destino degli uomini? Le difficoltà e le obbiezioni che la rivoluzione proletaria deve superare si sono rivelate immensamente superiori a quelle di ogni altra rivoluzione del passato. Queste tendevano solo a correggere la forma della proprietà privata e nazionale dei mezzi di produzione e di scambio; toccavano una parte limitata degli aggregati umani. La rivoluzione proletaria è la massima rivoluzione: poiché vuole abolire la proprietà privata e nazionale, e abolire le classi, essa coinvolge tutti gli uomini, non una sola parte di essi. Obbliga tutti gli uomini a muoversi, a intervenire nella lotta, a parteggiare esplicitamente. Trasforma la società fondamentalmente: da organismo unicellulare (di individui-cittadini) la trasforma in organismo pluricellulare; pone a base della società nuclei già organici di società stessa. Costringe tutta la società a identificarsi con lo Stato, vuole che tutti gli uomini siano consapevolezza spirituale e storica. Perciò la rivoluzione proletaria e sociale: perciò deve superare difficoltà e obbiezioni inaudite, perciò la storia domanda per il suo buon riuscimento taglie mostruose come quelle che il popolo russo è costretto a pagare. La rivoluzione russa ha trionfato finora di tutte le obbiezioni della storia. Ha rivelato al popolo russo una aristocrazia di statisti che nessun'altra nazione possiede; sono un paio di migliaia di uomini che tutta la vita hanno dedicato allo studio (sperimentale) delle scienze politiche ed economiche, che durante decine d'anni d'esilio hanno analizzato e sviscerato tutti i problemi della rivoluzione, che nella lotta, nel duello impari contro la potenza dello zarismo, si sono temprati un carattere d'acciaio, che, vivendo a contatto di tutte le forme della civiltà capitalista d'Europa, d'Asia, d'America, immergendosi nelle correnti mondiali dei traffici e della storia, hanno acquistato una coscienza di responsabilità esatta e precisa, fredda e tagliente come la spada dei conquistatori d'imperi. I comunisti russi sono un ceto dirigente di primo ordine. Lenin si è rivelato, testimoni tutti quelli che lo hanno avvicinato, il più grande statista dell'Europa contemporanea; l'uomo che sprigiona il prestigio, che infiamma e disciplina i popoli; l'uomo che riesce, nel suo vasto cervello, a dominare tutte le energie sociali del mondo che possono essere rivolte a benefizio della rivoluzione; che tiene in iscacco e batte i più raffinati e volpini statisti della routine borghese. Ma altro è la dottrina comunista, il partito politico che la propugna, la classe operaia che la incarna consapevolmente, e altro è l'immenso popolo russo, disfatto, disorganizzato, gettato in un cupo abisso di miseria, di barbarie, di anarchia, di dissoluzione da una guerra lunga e disastrosa. La grandezza politica, il capolavoro storico dei bolscevichi in ciò appunto consiste: nell'aver risollevato il gigante caduto, nell'aver ridato (o dato per la prima volta) una forma concreta e dinamica a questo sfacelo, a questo caos; nell'aver saputo saldare la dottrina comunista con la coscienza collettiva del popolo russo, nell'aver gettato le solide fondamenta sulle quali la società comunista ha iniziato il suo processo di sviluppo storico, nell'avere, in una parola, tradotto storicamente nella realtà sperimentale la formula marxista della dittatura del proletariato. La rivoluzione è tale e non una vuota gonfiezza della retorica demagogica, quando si incarna in un tipo di Stato, quando diventa un sistema organizzato del potere. Non esiste società se non in uno Stato, che è la sorgente e il fine di ogni diritto e di ogni dovere, che è garanzia di permanenza e di successo di ogni attività sociale. La rivoluzione proletaria è tale quando dà vita e s'incarna in uno Stato tipicamente proletario, custode del diritto proletario, che svolge le sue funzioni essenziali come emanazione della vita e della potenza proletaria. I bolscevichi hanno dato forma statale alle esperienze storiche e sociali del proletariato russo, che sono le esperienze della classe operaia e contadina internazionale; hanno sistemato in organismo complesso e agilmente articolato la sua vita più intima, la sua tradizione e la sua storia spirituale e sociale più profonda e amata. Hanno rotto col passato, ma hanno continuato il passato; hanno spezzato una tradizione, ma hanno sviluppato e arricchito una tradizione: hanno rotto col passato della storia dominato dalla classe possidente, hanno continuato, sviluppato, arricchito la tradizione vitale della classe proletaria, operaia e contadina. In ciò sono stati rivoluzionari, perciò hanno instaurato l'ordine e la disciplina nuovi. La rottura è irrevocabile, perché tocca l'essenziale della storia, è senza possibilità di ritorni indietro, ché altrimenti un immane disastro piomberebbe sulla società russa. Ed ecco iniziarsi un formidabile duello con tutte le necessità della storia, dalle più elementari alle più complesse, che occorreva incorporare nel nuovo Stato proletario, dominare, infrenare nelle funzioni del nuovo Stato proletario. Bisognava conquistare al nuovo Stato la maggioranza leale del popolo russo. Bisognava rivelare al popolo russo che il nuovo Stato era il suo Stato, la sua vita, il suo spirito, la sua tradizione, il suo patrimonio più prezioso. Lo Stato dei Soviet aveva un ceto dirigente, il Partito comunista bolscevico; aveva l'appoggio di una minoranza sociale rappresentante la consapevolezza di classe, degli interessi vitali e permanenti di tutta la classe, gli operai dell'industria. Esso è divenuto lo Stato di tutto il popolo russo e ciò hanno ottenuto la tenace perseveranza del Partito comunista, la fede e la lealtà entusiastiche degli operai, l'assidua e incessante opera di propaganda, di rischiaramento, di educazione degli uomini eccezionali del comunismo russo, condotti dalla volontà chiara e rettilinea del maestro di tutti, Nicola Lenin. Il Soviet si è dimostrato immortale come la forma di società organizzata che aderisce plasticamente ai multiformi bisogni (economici e politici) permanenti e vitali della grande massa del popolo russo, che incarna e soddisfa le aspirazioni e le speranze di tutti gli oppressi del mondo. La guerra lunga e disgraziata aveva lasciato una triste eredità di miseria, di barbarie, di anarchia; l'organizzazione dei servizi sociali era sfatta; la compagine umana stessa si era ridotta a un'orda nomade di senza lavoro, senza volontà, senza disciplina, materia opaca di una immensa decomposizione. Il nuovo Stato raccoglie dalle macerie i frantumi logori della società e li ricompone, li rinsalda: ricrea una fede, una disciplina, un'anima, una volontà di lavoro e di progresso. Compito che potrebbe essere gloria di un'intera generazione. Non basta. La storia non è contenta di questa prova. Nemici formidabili si drizzano implacabilmente contro il nuovo Stato. Si batte moneta falsa per corrompere il contadino, si stuzzica il suo stomaco affamato. La Russia viene tagliata da ogni sbocco al mare, da ogni traffico, da ogni solidarietà: viene privata dell'Ucraina, del bacino del Donetz, della Siberia, di ogni mercato di materie prime e di viveri. Su un fronte di diecimila chilometri bande di armati minacciano l'invasione: sollevazioni, tradimenti, vandalismi, atti di terrorismo e di sabotaggio vengono pagati. Le vittorie più clamorose si tramutano, per il tradimento, in rovesci subitanei. Non importa. Il potere dei Soviet resiste: dal caos della disfatta crea un esercito potente che diviene la spina dorsale dello Stato proletario. Premuto da forze antagonistiche immani trova in sé il vigore intellettuale e la plasticità storica per adattarsi alle necessità della contingenza, senza snaturarsi, senza compromettere il felice processo di sviluppo verso il comunismo. Lo Stato dei Soviet dimostra così di essere un momento fatale ed irrevocabile del processo fatale della civiltà umana, di essere il primo nucleo di una società nuova. Poiché gli altri Stati non possono convivere con la Russia proletaria e sono impotenti a distruggerla, poiché i mezzi enormi di cui il capitale dispone — il monopolio delle informazioni, la possibilità della calunnia, la corruzione, il blocco terrestre e marittimo, il boicottaggio, il sabotaggio, la slealtà spudorata (Prinkipo), la violazione del diritto delle genti (guerra senza dichiarazione), la pressione militare con mezzi tecnici superiori — sono impotenti contro la fede di un popolo, è necessario storicamente che gli altri Stati spariscano o si trasformino omogeneamente alla Russia. Lo scisma del genere umano non può durare a lungo. L'umanità tende all'unificazione interiore ed esteriore, tende a organarsi in un sistema di convivenza pacifica che permetta la ricostruzione del mondo. La forma del regime deve farsi capace di soddisfare i bisogni della umanità. La Russia, dopo una guerra disastrosa, col blocco, senza aiuti, sola con le proprie forze, ha vissuto per due anni; gli Stati capitalisti, con l'aiuto di tutto il mondo, esasperando lo sfruttamento coloniale per la vita propria, continuano a decadere, aggiungono rovine a rovine, distruzione a distruzione. La storia è dunque in Russia, la vita è dunque in Russia, solo nel regime dei Consigli trovano la loro adeguata soluzione i problemi di vita o di morte che incombono sul mondo. La Rivoluzione russa ha pagato la sua taglia alla storia, taglia di morte, di miseria, di fame, di sacrifizio, di volontà indomata. Oggi il duello arriva al suo culmine: il popolo russo si è levato tutto in piedi, gigante terribile nella sua magrezza ascetica, dominando la folla di pigmei che furiosamente l'aggrediscono. Si è armato tutto per la sua Valmy. Non può essere vinto; ha pagato la sua taglia. Deve essere difeso contro le orde di mercenari briachi, di avventurieri, di banditi che vogliono addentargli il cuore rosso e vivo. Gli alleati suoi naturali, i suoi compagni di tutto il mondo, devono fargli sentire un urlo guerriero che renda il suo urto irresistibile e gli apra le vie per rientrare nella vita del mondo. Walt Whitman(67) Abbiamo voluto commemorare, nel numero scorso, il primo centenario della nascita di Walt Whitman (31 maggio 1819) nel modo più degno: traducendo e stampando uno dei più bei canti del grandissimo poeta americano A un rivoluzionario vinto d'Europa. L'ufficio torinese revisione stampa ha imbiancato inesorabilmente la poesia: ci ha imposto persino di sopprimere la nota bibliografica nella quale offendevamo le leggi statutarie e i decreti della patria scrivendo che la poesia era stata pubblicata la prima volta nel 1856 col titolo Inno di libertà per l'Asia, l'Europa, l'Africa e l'America e ripubblicata poi, con aggiunte e correzioni, negli anni 1867 e 1871, col titolo A un rivoluzionario vinto d'Europa. I delegati di pubblica sicurezza, gli avvocati e i giornalisti smessi che esercitano l'ufficio di censura per delegazione dello Stato democratico-parlamentare-burocratico-poliziesco, non sono tenuti a sapere che Walt Whitman non è mai stato un agitatore, un uomo d'azione, un "sobillatore", per il quale la poesia fosse un mezzo di propaganda rivoluzionaria; essi hanno offeso la poesia, hanno sconciamente ingiuriato la bellezza e la grazia. Come scimmie ubbriache si sono sfogate oscenamente sulla bellezza, sulla pura creazione della fantasia artistica. Non riusciamo a vincere l'ira che ci gonfia il petto nel ricordare questa miserabile azione dei censori, per scriverne ora. Tanto più l'ira ci vince, in quanto pensiamo al pregiudizio, diffuso tra i cosiddetti intellettuali, che il movimento operaio e il comunismo siano nemici della bellezza e dell'arte. Invece, amico dell'arte, favorevole alla creazione e alla contemplazione disinteressata della bellezza sarebbe il regime attuale, di mercanti avidi di ricchezza e di sfruttamento che esplicano la loro attività essenziale nel distruggere barbaramente la vita e la bellezza, il regime dei trafficanti che apprezzano il genio quando si è convertito in valore monetario, che hanno elevato la falsificazione dei capolavori a industria nazionale, che hanno soggiogato la poesia alle loro leggi dell'offerta e della domanda e mentre artificialmente "lanciano" avventurieri della letteratura, lasciano morire d'inedia e di disperazione artisti di prim'ordine "che i posteri rivendicheranno poiché i valori reali si impongono o prima o dopo" (consolazione estetico-liberale che assolve i droghieri, i salsamentari e i delegati di pubblica sicurezza, esponenti del regime, dai delitti che si commettono contro i viventi creatori della bellezza). No, il comunismo non oscurerà la bellezza e la grazia: bisogna comprendere lo slancio con cui gli operai si sentono portati alla contemplazione dell'arte, alla creazione dell'arte, come profondamente si sentono offesi nella loro umanità per il fatto che la schiavitù del salario e del lavoro li taglia fuori da un mondo che integra la vita dell'uomo, che la rende degna di essere vissuta. Lo sforzo che i comunisti russi hanno fatto per moltiplicare le scuole e i teatri di prosa e di musica, per rendere accessibili alle folle le gallerie; il fatto che i villaggi e le fabbriche che si distinguono nella produzione vengono premiati con l'assegnazione di godimenti culturali ed estetici, dimostrano come il proletariato arrivato al potere tende a instaurare il regno della bellezza e della grazia, tende a elevare la dignità e la libertà dei creatori di bellezza. In Russia i due commissari del popolo dell'Istruzione pubblica finora assunti in carica sono stati un finissimo esteta, Lunaciarski, e un grandissimo poeta, Massimo Gorki. In Italia alla Minerva si succedono massoni e trafficanti come Credaro e Daneo e Berenini e si lascia ai delegati di pubblica sicurezza il potere di imbiancare i canti di Walt Whitman. Democrazia operaia(68) Un problema si impone oggi assillante a ogni socialista che senta vivo il senso della responsabilità storica che incombe sulla classe lavoratrice e sul Partito che della missione di questa classe rappresenta la consapevolezza critica e operante. Come dominare le immense forze sociali che la guerra ha scatenato? Come disciplinarle e dar loro una forma politica che contenga in sé la virtù di svilupparsi normalmente, di integrarsi continuamente, fino a diventare l'ossatura dello Stato socialista nel quale si incarnerà la dittatura del proletariato? Come saldare il presente all'avvenire, soddisfacendo le urgenti necessità del presente e utilmente lavorando per creare e "anticipare" l'avvenire? Questo scritto vuole essere uno stimolo a pensare e ad operare; vuole essere un invito ai migliori e più consapevoli operai perché riflettano e, ognuno nella sfera della propria competenza e della propria azione, collaborino alla soluzione del problema, facendo convergere sui termini di esso l'attenzione dei compagni e delle associazioni. Solo da un lavoro comune e solidale di rischiaramento, di persuasione e di educazione reciproca nascerà l'azione concreta di costruzione. Lo Stato socialista esiste già potenzialmente negli istituti di vita sociale caratteristici della classe lavoratrice sfruttata. Collegare tra di loro questi istituti, coordinarli e subordinarli in una gerarchia di competenze e di poteri, accentrarli fortemente, pur rispettando le necessarie autonomie e articolazioni, significa creare già fin d'ora una vera e propria democrazia operaia, in contrapposizione efficiente e attiva con lo Stato borghese, preparata già fin d'ora a sostituire lo Stato borghese in tutte le sue funzioni essenziali di gestione e di dominio del patrimonio nazionale. Il movimento operaio è oggi diretto dal Partito socialista e dalla Confederazione del lavoro; ma l'esercizio del potere sociale del Partito e della Confederazione si attua, per la grande massa lavoratrice, indirettamente, per forza di prestigio e di entusiasmo, per pressione autoritaria, per inerzia persino. La sfera di prestigio del Partito si amplia quotidianamente, attinge strati popolari finora inesplorati, suscita consenso e desiderio di lavorare proficuamente per l'avvento del comunismo in gruppi e individui finora assenti dalla lotta politica. è necessario dare una forma e una disciplina permanente a queste energie disordinate e caotiche, assorbirle, comporle e potenziarle, fare della classe proletaria e semiproletaria una società organizzata che si educhi, che si faccia una esperienza, che acquisti una consapevolezza responsabile dei doveri che incombono alle classi arrivate al potere dello Stato. Il Partito socialista e i sindacati professionali non possono assorbire tutta la classe lavoratrice, che attraverso un lavorìo di anni e di diecine di anni. Essi non si identificheranno immediatamente con lo Stato proletario; nelle Repubbliche comuniste infatti essi continuano a sussistere indipendentemente dallo Stato, come istituti di propulsione (il Partito) o di controllo e di realizzazione parziale (i sindacati). Il Partito deve continuare a essere l'organo di educazione comunista, il focolare della fede, il depositario della dottrina, il potere supremo che armonizza e conduce alla mèta le forze organizzate e disciplinate della classe operaia e contadina. Appunto per svolgere rigidamente questo suo ufficio, il Partito non può spalancare le porte alla invasione di nuovi aderenti, non abituati all'esercizio della responsabilità e della disciplina. Ma la vita sociale della classe lavoratrice è ricca di istituti, si articola in molteplici attività. Questi istituti e queste attività bisogna appunto sviluppare, organizzare complessivamente, collegare in un sistema vasto e agilmente articolato che assorba e disciplini l'intera classe lavoratrice. L'officina con le sue commissioni interne, i circoli socialisti, le comunità contadine, sono i centri di vita proletaria nei quali occorre direttamente lavorare. Le commissioni interne sono organi di democrazia operaia che occorre liberare dalle limitazioni imposte dagli imprenditori, e ai quali occorre infondere vita nuova ed energia. Oggi le commissioni interne limitano il potere del capitalista nella fabbrica e svolgono funzioni di arbitrato e di disciplina. Sviluppate e arricchite, dovranno essere domani gli organi del potere proletario che sostituisce il capitalista in tutte le sue funzioni utili di direzione e di amministrazione. Già fin d'oggi gli operai dovrebbero procedere alla elezione di vaste assemblee di delegati, scelti tra i migliori e più consapevoli compagni, sulla parola d'ordine: "Tutto il potere dell'officina ai comitati d'officina", coordinata all'altra: "Tutto il potere dello Stato ai Consigli operai e contadini". Un vasto campo di propaganda concreta rivoluzionaria si aprirebbe per i comunisti organizzati nel Partito e nei circoli rionali. I circoli, d'accordo con le sezioni urbane, dovrebbero fare un censimento delle forze operaie della zona; e diventare la sede del Consiglio rionale dei delegati dell'officina, il ganglio che annoda e accentra tutte le energie proletarie del rione. I sistemi elettorali potrebbero variare a seconda della vastità delle officine; si dovrebbe cercare però di far eleggere un delegato ogni quindici operai divisi per categoria (come si fa nelle officine inglesi), arrivando, per elezioni graduali, a un comitato di delegati di fabbrica che comprenda rappresentanti di tutto il complesso del lavoro (operai, impiegati, tecnici). Nel comitato rionale dovrebbe tendersi a incorporare delegati anche delle altre categorie, di lavoratori abitanti nel rione: camerieri, vetturini, tranvieri, ferrovieri, spazzini, impiegati privati, commessi, ecc. Il comitato rionale dovrebbe essere emanazione di tutta la classe lavoratrice abitante nel rione, emanazione legittima e autorevole, capace di far rispettare una disciplina, investita del potere, spontaneamente delegato, ed ordinare la cessazione immediata e integrale di ogni lavoro in tutto il rione. I comitati rionali si ingrandirebbero in commissariati urbani, controllati e disciplinati dal Partito socialista e dalle federazioni di mestiere. Un tale sistema di democrazia operaia (integrato con organizzazioni equivalenti di contadini) darebbe una forma e una disciplina permanente alle masse, sarebbe una magnifica scuola di esperienza politica e amministrativa, inquadrerebbe le masse fino all'ultimo uomo, abituandole alla tenacia e alla perseveranza, abituandole a considerarsi come un esercito in campo che ha bisogno di una ferma coesione se non vuole essere distrutto e ridotto in schiavitù. Ogni fabbrica costruirebbe uno o più reggimenti di questo esercito, coi suoi caporali, coi suoi servizi di collegamento, con la sua ufficialità, col suo stato maggiore, poteri delegati per libera elezione, non imposti autoritariamente. Attraverso i comizi, tenuti nell'interno dell'officina, con l'opera incessante di propaganda e di persuasione sviluppata dagli elementi più consapevoli, si otterrebbe una trasformazione radicale della psicologia operaia, si renderebbe la massa meglio preparata e capace all'esercizio del potere, si diffonderebbe una coscienza dei doveri e dei diritti del compagno e del lavoratore, concreta ed efficiente perché generata spontaneamente dall'esperienza viva e storica. Abbiamo già detto: questi rapidi appunti si propongono solo di stimolare al pensiero ed all'azione. Ogni aspetto del problema meriterebbe una vasta e profonda trattazione, delucidazioni, integrazioni sussidiarie e coordinate. Ma la soluzione concreta e integrale dei problemi di vita socialista può essere data solo dalla pratica comunista: la discussione in comune, che modifica simpaticamente le coscienze unificandole e colmandole di entusiasmo operoso. Dire la verità, arrivare insieme alla verità, è compiere azione comunista e rivoluzionaria. La formula "dittatura del proletariato" deve finire di essere solo una formula, un'occasione per sfoggiare fraseologia rivoluzionaria. Chi vuole il fine, deve anche volere i mezzi. La dittatura del proletariato è l'instaurazione di un nuovo Stato, tipicamente proletario, nel quale confluiscono le esperienze istituzionali della classe oppressa, nel quale la vita sociale della classe operaia e contadina diventa sistema diffuso e fortemente organizzato. Questo Stato non si improvvisa: i comunisti bolscevichi russi per otto mesi lavorarono a diffondere e far diventare concreta la parola d'ordine: tutto il potere ai Soviet, ed i Soviet erano noti agli operai russi fin dal 1905. I comunisti italiani devono far tesoro dell'esperienza russa ed economizzare tempo e lavoro: l'opera di ricostruzione domanderà per sé tanto tempo e tanto lavoro, che ogni giorno e ogni atto dovrebbe poterle essere destinato. Lo Stato e il socialismo(69) Pubblichiamo questo articolo di For Ever nonostante esso sia una farragine di spropositi marchiani e di amenità fraseologiche. Per For Ever, lo Stato di Weimar è uno Stato marxista; noi dell'Ordine Nuovo siamo statolatri, vogliamo lo Stato ab aeterno (For Ever voleva dire in aeternum, evidentemente); lo Stato socialista è una cosa medesima col socialismo di Stato; sono esistiti uno Stato cristiano e uno Stato plebeo di Caio Gracco; il Soviet di Saratov potrebbe vivere senza coordinare la sua produzione e la sua attività di difesa rivoluzionaria col sistema generale dei Soviet russi ecc. Tante affermazioni, tante corbellerie, che vengono presentate come una difesa dell'anarchia. Tuttavia pubblichiamo l'articolo di For Ever. For Ever non è solo un individuo: è un tipo sociale. Da questo punto di vista non deve essere trascurato: deve essere conosciuto, studiato, di-, scusso e superato. Lealmente, amichevolmente (l'amicizia non può essere disgiunta dalla verità, e da tutte le asprezze che la verità comporta). For Ever è un pseudo-rivoluzionario: chi basa la propria azione sulla mera fraseologia ampollosa, sulla frenesia parolaia, sull'entusiasmo romantico è solo un demagogo, non è un rivoluzionario. Sono necessari, per la rivoluzione, uomini dalla mente sobria, uomini che non facciano mancare il pane nelle panetterie, che facciano viaggiare i treni, che provvedano le officine di materie prime e trovino da scambiare i prodotti industriali coi prodotti agricoli, che assicurino l'integrità e la libertà personale dalle aggressioni dei malviventi, che facciano funzionare il complesso dei servizi sociali e non riducano alla disperazione e alla pazza strage internecina il popolo. L'entusiasmo verbale e la sfrenatezza fraseologica fanno ridere (o piangere) quando uno solo di questi problemi deve essere risolto anche in un villaggio di cento abitanti. Ma For Ever, pur essendo un tipo, non è tutti i libertari. Nella redazione dell'Ordine Nuovo contiamo un comunista libertario: Carlo Petri. Col Petri la discussione è su un piano superiore: coi comunisti libertari come il Petri il lavoro in comune è necessario e indispensabile: essi sono una forza della rivoluzione. Leggendo l'articolo del Petri pubblicato nel numero scorso e quello di For Ever che pubblichiamo in questo numero — per fissare i termini dialettici dell'idea libertaria: l'essere e il non essere — abbiamo steso queste osservazioni. Naturalmente i compagni Empedocle e Caesar, ai quali il Petri direttamente si riferisce, sono liberi di rispondere per conto loro. I Il comunismo si realizza nell'Internazionale proletaria. Il comunismo sarà solo quando e in quanto sarà internazionale. In tal senso il movimento socialista e proletario è contro lo Stato, perché è contro gli Stati nazionali capitalistici, perché è contro le economie nazionali, che hanno la loro sorgente di vita e traggono forma dallo Stato nazionale. Ma se nell'Internazionale comunista verranno soppressi gli Stati nazionali, non verrà soppresso lo Stato, inteso come "forma" concreta della società umana. La società come tale è una pura astrazione. Nella storia, nella realtà viva e corporea della civiltà umana in isviluppo, la società è sempre un sistema e un equilibrio di Stati, un sistema e un equilibrio di istituzioni concrete, nelle quali la società acquista consapevolezza del suo esistere e del suo svilupparsi, e per le quali soltanto esiste e si sviluppa. Ogni conquista della civiltà diventa permanente, è storia reale e non episodio superficiale e caduco, in quanto si incarna in una istituzione e trova una forma nello Stato. L'idea socialista è rimasta un mito, una evanescente chimera, un mero arbitrio della fantasia individuale fin quando non si è incarnata nel movimento socialista e proletario, nelle istituzioni di difesa e di offesa del proletariato organizzato: in esse e per esse ha preso forma storica e ha progredito; da esse ha generato lo Stato socialista nazionale, disposto e organizzato in modo da essere capace di ingranarsi con gli altri Stati socialisti: condizionato anzi in modo tale da essere capace di vivere e di svilupparsi solo in quanto aderisca agli altri Stati socialisti per realizzare l'Internazionale comunista nella quale ogni Stato, ogni istituzione, ogni individuo troverà la sua pienezza di vita e di libertà. In questo senso il comunismo non è contro lo "Stato", anzi si oppone implacabilmente ai nemici dello Stato, agli anarchici e ai sindacalisti anarchici, denunziando la loro propaganda come utopistica e pericolosa alla rivoluzione proletaria. Si è costruito uno schema prestabilito secondo il quale il socialismo sarebbe una "passerella" all'anarchia; è questo un pregiudizio scemo, una arbitraria ipoteca del futuro. Nella dialettica delle idee, l'anarchia continua il liberalismo, non il socialismo; nella dialettica della storia, l'anarchia viene espulsa dal campo della realtà sociale insieme col liberalismo. Quanto più la produzione dei beni materiali si industrializza e alla concentrazione del capitale corrisponde una concentrazione di masse lavoratrici, tanto meno aderenti ha l'idea libertaria. Il movimento libertario è ancora diffuso dove continua a prevalere l'artigianato e il feudalismo terriero; nelle città industriali e nelle campagne a cultura agraria meccanica, gli anarchici tendono a sparire come movimento politico, sopravvivendo come fermento ideale. In tal senso l'idea libertaria avrà un suo compito da svolgere ancora per un pezzo: essa continuerà la tradizione liberale in quanto ha imposto e ha realizzato conquiste umane che non devono morire col capitalismo. Oggi, nel trambusto sociale determinato dalla guerra, pare che l'idea libertaria abbia moltiplicato il numero dei suoi aderenti. Non crediamo che sia una gloria dell'idea. Il fenomeno è di regressione: nelle città sono immigrati elementi nuovi, senza cultura politica, non allenati alla lotta di classe nella forma complessa che la lotta di classe ha assunto con la grande industria. La fraseologia virulenta degli agitatori anarchici ha facile presa su queste coscienze istintive e antelucane; ma niente di profondo e di permanente crea la fraseologia pseudo-rivoluzionaria. E chi domina, chi imprime alla storia il ritmo del progresso, chi determina l'avanzata sicura e incoercibile della civiltà comunista, non sono i "ragazzacci", non è il Lumpenproletariat, non sono i bohémiens, i dilettanti, i romantici capelluti e frenetici, ma sono le masse profonde degli operai di classe, i ferrei battaglioni del proletariato consapevole e disciplinato. Tutta la tradizione liberale è contro lo Stato. La letteratura liberale è tutta una polemica contro lo Stato. La storia politica del capitalismo è caratterizzata da una continua e furiosa lotta tra il cittadino e lo Stato. Il Parlamento è l'organo di questa lotta; e il Parlamento tende appunto ad assorbire tutte le funzioni dello Stato, cioè a sopprimerlo, svuotandolo di ogni potere effettivo poiché la legislazione popolare è rivolta a liberare gli enti locali e gli individui da ogni servitù e controllo del potere centrale. Questa azione liberale rientra nell'attività generale del capitalismo rivolto ad assicurarsi più solide e garantite condizioni di concorrenza: La concorrenza è la nemica più acerrima dello Stato. La stessa idea dell'Internazionale è d'origine liberale; Marx la assunse dalla scuola di Cobden e dalla propaganda per il libero scambio, ma criticamente. I liberali sono impotenti a realizzare la pace e l'Internazionale, perché la proprietà privata e nazionale genera scissioni, confini, guerre, Stati nazionali in conflitto permanente tra di loro. Lo Stato nazionale è un organo di concorrenza : sparirà quando la concorrenza sarà soppressa e un nuovo costume economico sarà stato suscitato attraverso le esperienze concrete degli Stati socialisti. La dittatura del proletariato è ancora uno Stato nazionale e uno Stato di classe. I termini della concorrenza e della lotta di classe sono spostati, ma la concorrenza e le classi sussistono. La dittatura del proletariato deve risolvere gli stessi problemi dello Stato borghese: di difesa esterna ed interna. Queste sono le condizioni reali obbiettive con le quali dobbiamo fare i conti: ragionare e operare come esistesse già l'Internazionale comunista, come fosse già superato il periodo della lotta tra Stati socialisti e Stati borghesi, della concorrenza spietata tra le economie nazionali comuniste e quelle capitalistiche, sarebbe un errore disastroso per la rivoluzione proletaria. La società umana subisce un processo rapidissimo di decomposizione coordinato al processo dissolutivo dello Stato borghese. Le condizioni reali obbiettive in cui si eserciterà la dittatura proletaria saranno condizioni di un tremendo disordine, di una spaventosa indisciplina. Si rende necessaria la organizzazione di uno Stato socialista saldissimo, che arresti quanto prima la dissoluzione e l'indisciplina, che ridìa una forma concreta al corpo sociale, che difenda la rivoluzione dalle aggressioni esterne e dalle ribellioni interne. La dittatura proletaria deve, per le sue necessità di vita e di sviluppo, assumere un carattere accentuato militare. Ecco perché il problema dell'esercito socialista diventa uno dei più essenziali da risolvere; e diventa urgente, in questo periodo prerivoluzionario, cercare di distruggere le sedimentazioni di pregiudizio determinate dalla passata propaganda socialista contro tutte le forme della dominazione borghese. Dobbiamo, oggi, rifare l'educazione del proletariato: abituato all'idea che per sopprimere lo Stato nell'Internazionale è necessario un tipo di Stato idoneo al conseguimento di questo fine, che per sopprimere il militarismo può essere necessario un tipo nuovo di esercito. Ciò significa addestrare il proletariato all'esercizio della dittatura, all'autogoverno. Le difficoltà da superare saranno moltissime e il periodo in cui queste difficoltà rimarranno vive e pericolose non si può prevedere come di breve durata. Ma se anche lo Stato proletario dovesse esistere per un giorno solo, dobbiamo lavorare affinché esso trovi condizioni di esistenza idonee allo svolgimento del suo compito, la soppressione della proprietà privata e delle classi. Il proletariato è poco esperto dell'arte di governare e di dirigere; la borghesia opporrà una resistenza formidabile, aperta o subdola, violenta o passiva allo Stato socialista. Solo un proletariato educato politicamente, che non si abbandoni alla disperazione e alla sfiducia per i rovesci possibili e inevitabili, che rimanga fedele e leale al suo Stato nonostante gli errori che singoli individui possono commettere e i passi indietro che le condizioni reali della produzione possono imporre, solo un simile proletariato potrà esercitare la dittatura, liquidare l'eredità malefica del capitalismo e della guerra e realizzare l'Internazionale comunista. E per la sua natura, lo Stato socialista domanda una lealtà e una disciplina diverse ed opposte a quelle che domanda lo Stato borghese. A differenza dello Stato borghese che è tanto più forte all'interno e all'esterno quanto meno i cittadini controllano e seguono l'attività dei poteri, lo Stato socialista domanda la partecipazione attiva e permanente dei compagni alla vita delle sue istituzioni. Bisogna inoltre ricordare che lo Stato socialista è il mezzo per mutamenti radicali, non si muta di Stato con la semplicità con cui si muta il governo. Un ritorno alle istituzioni passate vorrà dire la morte collettiva, lo sfrenarsi di un terrore bianco senza limiti di sangue: nelle condizioni create dalla guerra, la classe borghese avrebbe interesse a sopprimere con le armi i tre quarti dei lavoratori, per ridare elasticità al mercato dei viveri e rimettersi in condizioni privilegiate nella lotta per la vita agiata cui ha fatto l'abitudine. Non possono essere ammessi pentimenti di nessuna specie, per nessuna ragione. Dobbiamo fin da oggi formarci e formare questo senso di responsabilità tagliente e implacabile come la spada di un giustiziere. La rivoluzione è una cosa grande e tremenda, non è un gioco da dilettanti o una avventura romantica. Vinto nella lotta di classe, il capitalismo lascerà un residuo impuro di fermentazioni antistatali o che si diranno tali perché individui e gruppi vorranno esonerarsi dai servigi e dalla disciplina indispensabili al successo della rivoluzione. Caro compagno Petri, lavoriamo a evitare ogni urto sanguinoso tra le frazioni sovversive, a evitare allo Stato socialista la necessità crudele di imporre con la forza armata la disciplina e la fedeltà, di sopprimere una parte per salvare il corpo sociale dallo sfacelo e dalla depravazione. Lavoriamo, svolgendo la nostra attività di cultura per dimostrare che la esistenza dello Stato socialista è un anello essenziale della catena di sforzi che il proletariato deve compiere per la sua emancipazione, per la sua libertà. Il lavoro di propaganda(70) Alcuni compagni di Torino e della regione piemontese (dove specialmente la nostra rassegna è diffusa) ci informano che il lavoro di propaganda da loro svolto per la diffusione dell'Ordine Nuovo tra gli operai e contadini, non dà quei risultati permanenti che essi vorrebbero, perché molti compagni trovano che gli articoli da noi pubblicati sono "difficili". Dalle conversazioni avute con questi amici dell'Ordine Nuovo, abbiamo tratto queste conclusioni: — Psicologicamente, il periodo della propaganda elementare, cosiddetta "evangelica", è superato. Le idee fondamentali del comunismo sono state assimilate anche dai ceti più arretrati della classe lavoratrice. è incredibile quanto abbia contribuito a ciò la guerra, la vita di caserma e la necessità in cui si è trovata la gerarchia militare di sviluppare una sistematica ed assillante propaganda anticomunista, che ha diffuso e inchiodato nei cervelli più refrattari i termini elementari della polemica ideale tra capitalisti e proletari. I primi princìpi debbono ormai ritenersi sottintesi: dall'"evangelo" bisogna passare alla critica e alla ricostruzione. Le esperienze comuniste di Russia e di Ungheria attraggono irresistibilmente l'attenzione. Si è avidi di notizie, di dimostrazioni logiche (siamo pronti in Italia? saremo all'altezza del nostro compito? quali errori è possibile evitare? ecc.), di critica, di critica, di critica, e di concetti pratici sperimentali. Ma qui si rivela la povertà di cultura politica — nel senso di esperienza "costituzionale" — del popolo italiano: il Parlamento italiano è stato sempre una cosa morta; mai in Italia si sono avute grandi battaglie tra le istituzioni popolari dello Stato (Camera dei deputati, enti locali) e le istituzioni rappresentanti la Corona o le classi più conservatrici (Senato, Ordine giudiziario, potere esecutivo), che si sono invece verificate in Inghilterra e in Francia. Questa crisi in cui si dibatte il proletariato italiano, preso tra l'ardente desiderio di sapere e l'incapacità di soddisfarlo individualmente, deve essere e può essere risolta. E può essere e deve essere risolta col metodo che è proprio della classe degli operai e contadini, col metodo comunista, col metodo dei Soviet. La conquista delle otto ore lascia un margine di tempo libero che dev'essere dedicato al lavoro di cultura in comune. Bisogna convincere gli operai e i contadini che è loro interesse sottoporsi a una disciplina permanente di cultura, e farsi una concezione del mondo, del complesso e intricato sistema di relazioni umane, economiche e spirituali, che dà una forma alla vita sociale del globo. Questi Soviet di cultura proletaria dovrebbero essere promossi, presso i circoli e i fasci giovanili, dagli amici dell'Ordine Nuovo e diventare focolari di propaganda comunista concreta e realizzatrice: vi si dovrebbero studiare i problemi locali e regionali, vi si dovrebbero raccogliere elementi per compilare statistiche sulla produzione agricola e industriale, per conoscere le necessità urgenti, per conoscere la psicologia dei piccoli proprietari ecc. ecc. Riflettano i compagni su queste considerazioni: la rivoluzione ha bisogno, oltre che di eroismo generoso, anche e specialmente di tenace, minuto, perseverante lavoro. La conquista dello Stato(71) La concentrazione capitalistica, determinata dal modo di produzione, produce una corrispondente concentrazione di masse umane lavoratrici. In questo fatto bisogna cercare l'origine di tutte le tesi rivoluzionarie del marxismo, bisogna cercare le condizioni del costume nuovo proletario, dell'ordine nuovo comunista destinato a sostituire il costume borghese, il disordine capitalistico generato dalla libera concorrenza e dalla lotta di classe. Nella sfera dell'attività generale capitalistica, anche il lavoratore opera sul piano della libera concorrenza, è un individuo-cittadino. Ma le condizioni di partenza della lotta non sono uguali per tutti, nello stesso tempo: l'esistenza della proprietà privata pone la minoranza sociale in condizioni di privilegio, rende impari la lotta. Il lavoratore è continuamente esposto ai rischi più micidiali: la sua vita stessa elementare, la sua cultura, la vita e l'avvenire della sua famiglia sono esposti ai contraccolpi bruschi delle variazioni del mercato di lavoro. Il lavoratore tenta allora di uscire dalla sfera della concorrenza e dell'individualismo. Il principio associativo e solidaristico diventa essenziale della classe lavoratrice, muta la psicologia e i costumi degli operai e contadini. Sorgono istituti e organi nei quali questo principio si incarna; sulla base di essi si inizia il processo di sviluppo storico che conduce al comunismo dei mezzi di produzione e di scambio. L'associazionismo può e deve essere assunto come il fatto essenziale della rivoluzione proletaria. Dipendentemente da questa tendenza storica sono sorti nel periodo precedente all'attuale (che possiamo chiamare periodo della I e II Internazionale o periodo di reclutamento) e si sono sviluppati i Partiti socialisti e i sindacati professionali. Lo sviluppo di queste istituzioni proletarie e di tutto il movimento proletario in genere non fu però autonomo, non ubbidiva a leggi proprie immanenti nella vita e nella esperienza storica della classe lavoratrice sfruttata. Le leggi della storia erano dettate dalla classe proprietaria organizzata nello Stato. Lo Stato è sempre stato il protagonista della storia, perché nei suoi organi si accentra la potenza della classe proprietaria, nello Stato la classe proprietaria si disciplina e si compone in unità, sopra i dissidi e i cozzi della concorrenza, per mantenere intatta la condizione di privilegio nella fase suprema della concorrenza stessa: la lotta di classe per il potere, per la preminenza nella direzione e nel disciplinamento della società. In questo periodo il movimento proletario fu solo una funzione della libera concorrenza capitalistica. Le istituzioni proletarie dovettero assumere una forma non per legge interna, ma per legge esterna, sotto la pressione formidabile di avvenimenti e di coercizioni dipendenti dalla concorrenza capitalistica. Da ciò hanno tratto origine gli intimi conflitti, le deviazioni, i tentennamenti, i compromessi che caratterizzano tutto il periodo di vita del movimento proletario precedente all'attuale, e che hanno culminato nella bancarotta della II Internazionale. Alcune correnti del movimento socialista e proletario avevano posto esplicitamente come fatto essenziale della rivoluzione l'organizzazione operaia di mestiere, e su questa base fondavano la loro propaganda e la loro azione. Il movimento sindacalista parve, per un momento, essere il vero interprete del marxismo, vero interprete della verità. L'errore del sindacalismo consiste in ciò: nell'assumere come fatto permanente, come forma perenne dell'associazionismo, il sindacato professionale nella forma e con le funzioni attuali, che sono imposte e non proposte, e quindi non possono avere una linea costante e prevedibile di sviluppo. Il sindacalismo, che si presentò come iniziatore di una tradizione liberista "spontaneista", è stato in verità uno dei tanti camuffamenti dello spirito giacobino e astratto. Da ciò gli errori della corrente sindacalista, che non riuscì a sostituire il Partito socialista nel compito di educare alla rivoluzione la classe lavoratrice. Gli operai e i contadini sentivano che, per tutto il periodo in cui la classe proprietaria e lo Stato democratico-parlamentare dettano le leggi della storia, ogni tentativo di evasione dalla sfera di queste leggi è inane e ridicolo. è certo che nella configurazione generale assunta dalla società colla produzione industriale, ogni uomo può attivamente partecipare alla vita e modificare l'ambiente solo in quanto opera come individuo-cittadino, membro dello Stato democratico-parlamentare. L'esperienza liberale non è vana e non può essere superata se non dopo averla fatta. L'apoliticismo degli apolitici fu solo una degenerazione della politica: negare e combattere lo Stato è fatto politico tanto quanto inserirsi nella attività generale storica che si unifica nel Parlamento e nei comuni, istituzioni popolari dello Stato. Varia la qualità del fatto politico: i sindacalisti lavoravano fuori della realtà, e quindi la loro politica era fondamentalmente errata; i socialisti parlamentaristi lavoravano nell'intimo delle cose, potevano sbagliare (commisero anzi molti e pesanti sbagli), ma non errarono nel senso della loro azione e perciò trionfarono nella "concorrenza"; le grandi masse, quelle che con il loro intervento modificano obbiettivamente i rapporti sociali, si organizzarono intorno al Partito socialista. Nonostante tutti gli sbagli e le manchevolezze, il Partito riuscì, in ultima analisi, nella sua missione: far diventare qualcosa il proletario che prima era nulla, dargli una consapevolezza, dare al movimento di liberazione un senso diritto e vitale che corrispondeva, nelle linee generali, al processo di sviluppo storico della società umana. Lo sbaglio più grave del movimento socialista è stato di natura simile a quello dei sindacalisti. Partecipando all'attività generale della società umana nello Stato, i socialisti dimenticarono che la loro posizione doveva mantenersi essenzialmente di critica, di antitesi. Si lasciarono assorbire dalla realtà, non la dominarono. I comunisti marxisti devono caratterizzarsi per una psicologia che possiamo chiamare "maieutica". La loro azione non è di abbandono al corso degli avvenimenti determinati dalle leggi della concorrenza borghese, ma di aspettazione critica. La storia è un continuo farsi, è quindi essenzialmente imprevedibile. Ma ciò non significa che "tutto" sia imprevedibile nel farsi della storia, che cioè la storia sia dominio dell'arbitrio e del capriccio irresponsabile. La storia è insieme libertà e necessità. Le istituzioni, nel cui sviluppo e nella cui attività la storia si incarna, sono sorte e si mantengono perché hanno un compito e una missione da realizzare. Sono sorte e si sono sviluppate determinate condizioni obbiettive di produzione dei beni materiali e di consapevolezza spirituale degli uomini. Se queste condizioni obbiettive, che per la loro natura meccanica sono commensurabili quasi matematicamente, mutano, muta anche la somma di rapporti che regolano e informano la società umana, muta il grado di consapevolezza degli uomini; la configurazione sociale si trasforma, le istituzioni tradizionali si immiseriscono, sono inadeguate al loro compito, diventano ingombranti e micidiali. Se nel farsi della storia l'intelligenza fosse incapace a cogliere un ritmo, a stabilire un processo, la vita della civiltà sarebbe impossibile: il genio politico si riconosce appunto da questa capacità di impadronirsi del maggior numero possibile di termini concreti necessari e sufficienti per fissare un processo di sviluppo e dalla capacità quindi di anticipare il futuro prossimo e remoto e sulla linea di questa intuizione impostare l'attività di uno Stato, arrischiare la fortuna di un popolo. In questo senso Carlo Marx è stato di gran lunga il più grande dei geni politici contemporanei. I socialisti hanno, supinamente spesso, accettato la realtà storica prodotto dell'iniziativa capitalistica; sono caduti nell'errore di psicologia degli economisti liberali: credere alla perpetuità delle istituzioni dello Stato democratico, alla loro fondamentale perfezione. Secondo loro la forma delle istituzioni democratiche può essere corretta, qua e là ritoccata, ma deve essere rispettata fondamentalmente. Un esempio di questa psicologia angustamente vanitosa è dato dal giudizio minossico di Filippo Turati, secondo il quale il Parlamento sta al Soviet come la città all'orda barbarica. Da questa errata concezione del divenire storico, dalla pratica annosa del compromesso e da una tattica "cretinamente" parlamentarista, nasce la formula odierna sulla "conquista dello Stato". Noi siamo persuasi, dopo le esperienze rivoluzionarie della Russia, dell'Ungheria e della Germania, che lo Stato socialista non può incarnarsi nelle istituzioni dello Stato capitalista, ma è una creazione fondamentalmente nuova per rispetto ad esse, se non per rispetto alla storia del proletariato. Le istituzioni dello Stato capitalista sono organizzate ai fini della libera concorrenza: non basta mutare il personale per indirizzare in un altro senso la loro attività. Lo Stato socialista non è ancora il comunismo, cioè l'instauramento di una pratica e di un costume economico solidaristico, ma è lo Stato di transizione che ha il compito di sopprimere la concorrenza con la soppressione della proprietà privata, delle classi, delle economie nazionali: questo compito non può essere attuato dalla democrazia parlamentare. La formula "conquista dello Stato" deve essere intesa in questa senso: creazione di un nuovo tipo di Stato, generato dalla esperienza associativa della classe proletaria, e sostituzione di esso allo Stato democratico-parlamentare. E qui ritorniamo al punto di partenza. Abbiamo detto che le istituzioni del movimento socialista e proletario del periodo precedente all'attuale, non si sono sviluppate autonomamente, ma come risultato della configurazione generale della società umana dominata dalle leggi sovrane del capitalismo. La guerra ha capovolto la situazione strategica della lotta di classe. I capitalisti hanno perduto la preminenza; la loro libertà è limitata; il loro potere è annullato. La concentrazione capitalistica è arrivata al massimo sviluppo consentitole, realizzando il monopolio mondiale della produzione e degli scambi. La corrispondente concentrazione delle masse lavoratrici ha dato una potenza inaudita alla classe proletaria rivoluzionaria. Le istituzioni tradizionali del movimento sono diventate incapaci a contenere tanto rigoglio di vita rivoluzionaria. La loro stessa forma è inadeguata al disciplinamento delle forze inseritesi nel processo storico consapevole. Esse non sono morte. Nate come funzione della libera concorrenza, devono continuare a sussistere fino alla soppressione di ogni residuo di concorrenza, fino alla completa soppressione delle classi e dei partiti, fino alla fusione delle dittature proletarie nazionali nell'Internazionale comunista. Ma accanto ad esse devono sorgere e svilupparsi istituzioni di tipo nuovo, di tipo statale, che appunto sostituiranno le istituzioni private e pubbliche dello Stato democratico parlamentare. Istituzioni che sostituiscano la persona del capitalista nelle funzioni amministrative e nel potere industriale, e realizzino l'autonomia del produttore nella fabbrica; istituzioni capaci di assumere il potere direttivo di tutte le funzioni inerenti al complesso sistema di rapporti di produzione e di scambio che legano i reparti di una fabbrica tra di loro, costituendo l'unità economica elementare, che legano le varie attività dell'industria agricola, che per piani orizzontali e verticali devono costituire l'armonioso edilizio della economia nazionale e internazionale, liberato dalla tirannia ingombrante e parassitaria dei privati proprietari. Mai la spinta e l'entusiasmo rivoluzionario sono stati più fervidi nel proletariato dell'Europa occidentale. Ma ci pare che alla coscienza lucida ed esatta del fine non si accompagni una coscienza altrettanto lucida ed esatta dei mezzi idonei, nel momento attuale, al raggiungimento del fine stesso. Si è ormai radicata la convinzione nelle masse che lo Stato proletario è incarnato in un sistema di Consigli di operai, contadini e soldati. Non si è ancora formata una concezione tattica che assicuri obbiettivamente la creazione di questo Stato. è necessario perciò creare fin d'ora una rete d'istituzioni proletarie, radicate nella coscienza delle grandi masse, sicure della disciplina e della fedeltà permanente delle grandi masse, nelle quali la classe degli operai e dei contadini, nella sua totalità, assuma una forma ricca di dinamismo e di possibilità di sviluppo. è certo che se oggi, nelle condizioni attuali di organizzazione proletaria, un movimento di masse si verificasse con carattere rivoluzionario, i risultati si consoliderebbero in una pura correzione formale dello Stato democratico, si risolverebbe[ro] in un aumento di potere della Camera dei deputati (attraverso una assemblea costituente) e nella assunzione al potere dei socialisti pasticcioni anticomunisti. L'esperienza germanica e austriaca deve insegnare qualcosa. Le forze dello Stato democratico e della classe capitalistica sono ancora immense: non bisogna dissimularsi che il capitalismo si regge specialmente per l'opera dei suoi sicofanti e dei suoi lacchè, e la semenza di tale genìa non è certo sparita. La creazione dello Stato proletario non è, insomma, un atto taumaturgico: è anch'essa un farsi, è un processo di sviluppo. Presuppone un lavoro preparatorio di sistemazione e di propaganda. Bisogna dare maggior sviluppo e maggiori poteri alle istituzioni proletarie di fabbrica già esistenti, farne sorgere di simili nei villaggi, ottenere che gli uomini che le compongono siano dei comunisti consapevoli della missione rivoluzionaria che l'istituzione deve assolvere. Altrimenti tutto il nostro entusiasmo, tutta la fede delle masse lavoratrici non riuscirà a impedire che la rivoluzione si componga miseramente in un nuovo Parlamento di imbroglioni, di fatui e di irresponsabili, e che nuovi e più spaventosi sacrifizi siano resi necessari per l'avvento dello Stato dei proletari. Lo sciopero generale del 20-21 sarà eminentemente rivoluzionario. Non perché esso riuscirà a rovesciare lo Stato capitalistico (abbiamo dimostrato che la conquista dello Stato da parte dei proletari avverrà solo quando gli operai e i contadini avranno creato un sistema di istituzioni statali capaci di sostituire le istituzioni dello Stato democratico-parlamentare), ma perché inizierà un periodo di profondi rivolgimenti nella struttura economica attuale. La crisi del dopoguerra si inizierà il 20-21. Finora i capitalisti, premuti dal governo, hanno concesso facilmente: hanno acconsentito a mantenere la produzione su un piano antieconomico per evitare la disoccupazione e la rivolta dei disperati. Non vorranno piú continuare, non potranno piú continuare. Lo sciopero diventerà la giustificazione di tutta una serie di misure di polizia industriale tendenti a ridare alla produzione la capacità di esprimere un profitto sicuro e abbondante. E naturalmente i giornali addosseranno ai socialisti rivoluzionari la responsabilità dei licenziamenti e delle serrate, e cercheranno di rompere la formidabile unità del proletariato. È necessario quindi realizzare durante lo sciopero il massimo di disciplina e di compattezza. Lo sciopero deve terminare alla mezzanotte del 21. Gli operai comunisti devono essere l’elemento coesivo di questa disciplina e di questa compattezza; nessuno può dubitare che essi non siano rivoluzionari, che essi siano dei «pompieri». Gli operai comunisti sanno che un movimento insurrezionale, oggi, significherebbe solo un rafforzamento dell’istituto parlamentare, e una repressione feroce nelle città rivoluzionarie simile alle repressioni di Noske a Berlino, di Mannerheim in Finlandia, di Hoffman a Monaco di Baviera. Cosa possono opporre al Parlamento gli operai e i contadini comunisti? Nessuna istituzione comunista è ancora sorta capace di sostituire permanentemente e fortemente il potere del Parlamento. In questi giorni appunto gli operai comunisti devono intensificare la propaganda perché il sorgere di istituzioni comuniste sia promosso e nel piú breve tempo possibile avvenga un congresso nazionale di delegati d’officina e di villaggio comunisti in maggioranza. Allora si potrà parlare di rivoluzione comunista, con serietà e responsabilità. I comunisti vogliono appunto creare lo Stato dei competenti e dei responsabili: devono in ogni occasione mantenersi lucidi e freddi, non lasciarsi trasportare dall’esaltazione e dalla faciloneria. Purtroppo, con l’eroismo generoso e la passione non si creano gli Stati: occorre disciplina, perseveranza, coesione, e disprezzo per gli irresponsabili. Operai e contadini(2) Durante la guerra e per le necessità della guerra, lo Stato italiano ha assunto nelle sue funzioni la regolamentazione della produzione e della distribuzione dei beni materiali. Si è realizzata una forma di trust dell’industria e del commercio, una forma di concentrazione dei mezzi di produzione e di scambio e un eguagliamento delle condizioni di sfruttamento delle masse proletarie e semiproletarie che hanno determinato i loro effetti rivoluzionari. Non è possibile comprendere il carattere essenziale del periodo attuale, se non si tiene conto di questi fenomeni e delle conseguenze psicologiche da essi prodotte. Nei paesi ancora capitalisticamente arretrati come la Russia, l’Italia, la Francia e la Spagna, esiste una netta separazione tra la città e la campagna, tra gli operai e i contadini. Nell’agricoltura sono sopravvissute forme economiche prettamente feudali, e una corrispondente psicologia. L’idea dello Stato moderno liberale-capitalistico è ancora ignorata; le istituzioni economiche e politiche non sono concepite come categorie storiche, che hanno avuto un principio, hanno subíto un processo di sviluppo, e possono dissolversi, dopo aver creato le condizioni per superiori forme di convivenza sociale: sono concepite invece come categorie naturali, perpetue, irriducibili. In realtà la grande proprietà terriera è rimasta fuori dalla libera concorrenza: e lo Stato moderno ne ha rispettato l’essenza feudale, escogitando formule giuridiche come quella del fedecommesso, che continuano di fatto le investiture e i privilegi del regime feudale. La mentalità del contadino è rimasta perciò quella del servo della gleba, che si rivolta violentemente contro i «signori» in determinate occasioni, ma è incapace di pensare se stesso come membro di una collettività (la nazione per i proprietari e la classe per i proletari) e di svolgere un’azione sistematica e permanente rivolta a mutare i rapporti economici e politici della convivenza sociale. La psicologia dei contadini era, in tali condizioni, incontrollabile; i sentimenti reali rimanevano occulti, implicati e confusi in un sistema di difesa contro gli sfruttamenti, meramente egoistica, senza continuità logica, materiata in gran parte di sornioneria e di finto servilismo. La lotta di classe si confondeva col brigantaggio, col ricatto, con l’incendio dei boschi, con lo sgarrettamento del bestiame, col ratto dei bambini e delle donne, con l’assalto al municipio: era una forma di terrorismo elementare, senza conseguenze stabili ed efficaci. Obbiettivamente quindi la psicologia del contadino si riduceva a una piccolissima somma di sentimenti primordiali dipendenti dalle condizioni sociali create dallo Stato democratico-parlamentare: il contadino era lasciato completamente in balía dei proprietari e dei loro sicofanti e dei funzionari pubblici corrotti, e la preoccupazione maggiore della sua vita era quella di difendersi corporalmente dalle insidie della natura elementare, dai soprusi e dalla barbarie crudele dei proprietari e dei funzionari pubblici. Il contadino è vissuto sempre fuori dal dominio della legge, senza personalità giuridica, senza individualità morale: è rimasto un elemento anarchico, l’atomo indipendente di un tumulto caotico, infrenato solo dalla paura del carabiniere e del diavolo. Non comprendeva l’organizzazione, non comprendeva lo Stato, non comprendeva la disciplina; paziente e tenace nella fatica individuale di strappare alla natura scarsi e magri frutti, capace di sacrifici inauditi nella vita famigliare, era impaziente e violento selvaggiamente nella lotta di classe, incapace di porsi un fine generale d’azione e di perseguirlo con la perseveranza e la lotta sistematica. Quattro anni di trincea e di sfruttamento del sangue hanno radicalmente mutato la psicologia dei contadini. Questo mutamento si è verificato specialmente in Russia ed è una delle condizioni essenziali della rivoluzione. Ciò che non aveva determinato l’industrialismo col suo normale processo di sviluppo, è stato prodotto dalla guerra. La guerra ha costretto le nazioni piú arretrate capitalisticamente, e quindi meno dotate di mezzi meccanici, ad arruolare tutti gli uomini disponibili, per opporre masse profonde di carne viva agli strumenti bellici degli Imperi centrali. Per la Russia la guerra ha significato la presa di contatto di individui prima sparsi in un vastissimo territorio, ha significato una concentrazione umana durata ininterrottamente per anni e anni nel sacrificio, col pericolo sempre immediato della morte, sotto una disciplina uguale e ugualmente feroce: gli effetti psicologici del perdurare di condizioni simili di vita collettiva per tanto tempo sono stati immensi e ricchi di conseguenze imprevedute. Gli istinti individuali egoistici si sono smussati, un’anima comune unitaria si è modellata, i sentimenti si sono conguagliati, si è formato un abito di disciplina sociale: i contadini hanno concepito lo Stato nella sua complessa grandiosità, nella sua smisurata potenza, nella sua complicata costruzione. Hanno concepito il mondo, non piú come una cosa indefinitamente grande come l’universo e angustamente piccola come il campanile del villaggio, ma nella sua concretezza di Stati e di popoli, di forze e di debolezze sociali, di eserciti e di macchine, di ricchezze e di povertà. Legami di solidarietà si sono annodati che altrimenti solo decine e decine d’anni di esperienza storica e di lotte intermittenti avrebbero suscitati; in quattro anni, nel fango e nel sangue delle trincee, un mondo spirituale è sorto avido di affermarsi in forme e istituti sociali permanenti e dinamici. Cosí sono nati sul fronte russo i Consigli dei delegati militari, cosí i soldati contadini hanno potuto attivamente partecipare alla vita dei Soviet di Pietrogrado, di Mosca, e degli altri centri industriali russi, e hanno acquistato coscienza della unità della classe lavoratrice; cosí è avvenuto che, a mano a mano l’esercito russo si smobilizzava e i soldati tornavano alle loro sedi di lavoro, tutto il territorio dell’Impero, dalla Vistola al Pacifico, si andasse coprendo di una fitta rete di Consigli locali, organi elementari della ricostruzione statale del popolo russo. Su questa nuova psicologia si fonda la propaganda comunista irradiata dalle città industriali e si fondano le gerarchie sociali liberamente promosse e accettate attraverso le esperienze di vita collettiva rivoluzionaria. Le condizioni storiche dell’Italia non erano e non sono molto differenti da quelle russe. Il problema della unificazione di classe degli operai e dei contadini si presenta negli stessi termini: essa avverrà nella pratica dello Stato socialista e si fonderà sulla nuova psicologia creata dalla vita comune in trincea. L’agricoltura italiana deve radicalmente trasformare i suoi procedimenti per uscire dalla crisi determinata dalla guerra. La distruzione del bestiame impone l’introduzione delle macchine, impone un rapido passaggio alla cultura industriale accentrata con la disponibilità di istituzioni tecniche ricche di mezzi. Ma una tale trasformazione non può avvenire in regime di proprietà privata senza determinare un disastro: è necessario che essa avvenga in uno Stato socialista, nell’interesse dei contadini e degli operai, associati in unità comuniste di lavoro. L’introduzione delle macchine nel processo di produzione ha sempre suscitato profonde crisi di disoccupazione, superate solo lentamente per la elasticità del mercato di lavoro. Oggi le condizioni del lavoro sono turbate radicalmente: la disoccupazione agraria è già diventata problema irrisolvibile per l’effettiva impossibilità di emigrare: la trasformazione industriale della agricoltura può solo avvenire col consenso dei contadini poveri, attraverso una dittatura del proletariato che si incarni in Consigli di operai industriali e di contadini poveri. Gli operai d’officina e i contadini poveri sono le due energie della rivoluzione proletaria. Per loro specialmente il comunismo rappresenta una necessità esistenziale: il suo avvento significa la vita e la libertà, il permanere della proprietà privata significa il pericolo immanente di essere stritolati, di tutto perdere fino alla vita fisica. Essi sono l’elemento irriducibile, la continuità dell’entusiasmo rivoluzionario, la ferrea volontà di non accettare compromessi, di proseguire implacabilmente fino alle realizzazioni integrali, senza demoralizzarsi per gli insuccessi parziali e transitori, senza farsi troppe illusioni per i facili successi. Sono la spina dorsale della rivoluzione, i ferrei battaglioni dell’esercito proletario che avanza, rovesciando con l’impeto gli ostacoli o assediandoli con le sue maree umane che sgretolano, corrodono con opera paziente, con indefesso sacrifizio. Il comunismo è la loro civiltà, è il sistema di condizioni storiche nelle quali acquisteranno una personalità, una dignità, una cultura, per il quale diventeranno spirito creatore di progresso e di bellezza. Ogni lavoro rivoluzionario ha probabilità di buona riuscita solo in quanto si fonda sulle necessità della loro vita e sulle esigenze della loro cultura. Ciò è indispensabile comprendano i leaders del movimento proletario e socialista. Ed è necessario comprendano come urga il problema di dare a questa forza incoercibile della rivoluzione la forma adeguata alla sua psicologia diffusa. Nelle condizioni arretrate dell’economia capitalistica di prima della guerra non era stato possibile il sorgere e lo svilupparsi di vaste e profonde organizzazioni contadine, nelle quali i lavoratori dei campi si educassero a una concezione organica della lotta di classe e alla disciplina permanente necessaria per la ricostruzione dello Stato dopo la catastrofe capitalistica. Le conquiste spirituali realizzate durante la guerra, le esperienze comunistiche accumulate in quattro anni di sfruttamento del sangue, subíto collettivamente, stando gomito a gomito nelle trincee fangose e insanguinate, possono andare perdute se non si riesce a inserire tutti gli individui in organi di vita nuova collettiva, nel funzionamento e nella pratica dei quali le conquiste possano solidificarsi, le esperienze possano svilupparsi, integrarsi, essere rivolte consapevolmente al raggiungimento di un fine storico concreto. Cosí organizzati i contadini diventeranno un elemento di ordine e di progresso; abbandonati a se stessi, nell’impossibilità di svolgere una azione sistematica e disciplinata, essi diventeranno un tumulto incomposto, un disordine caotico di passioni esasperate fino alla barbarie piú crudele dalle sofferenze inaudite che si vanno profilando sempre piú spaventosamente. La rivoluzione comunista è essenzialmente un problema di organizzazione e di disciplina. Date le condizioni reali obbiettive della società italiana, della rivoluzione saranno protagoniste le città industriali, con le loro masse compatte e omogenee di operai d’officina. Bisogna dunque rivolgere la massima attenzione alla vita nuova che la nuova forma della lotta di classe suscita nell’interno della fabbrica e nel processo di produzione industriale. Ma con le sole forze degli operai d’officina la rivoluzione non potrà affermarsi stabilmente e diffusamente: è necessario saldare la città alla campagna, suscitare nella campagna istituzioni di contadini poveri sulle quali lo Stato socialista possa fondarsi e svilupparsi, attraverso le quali sia possibile allo Stato socialista promuovere l’introduzione delle macchine e determinare il grandioso processo di trasformazione dell’economia agraria. In Italia quest’opera è meno difficile di quanto si pensi: durante la guerra sono entrate nella fabbrica cittadina ingenti quantità di popolazione rurale: su essa la propaganda comunista ha rapidamente attecchito; essa deve servire di cemento tra la città e la campagna, deve essere utilizzata per svolgere nella campagna una fitta opera di propaganda che distrugga le diffidenze e i rancori, deve essere utilizzata perché, valendosi della sua profonda conoscenza della psicologia rurale e della fiducia che gode, inizi appunto l’attività necessaria per determinare il sorgere e lo svilupparsi delle istituzioni nuove che incorporino nel movimento comunista le vaste forze dei lavoratori dei campi. Cultura e propaganda socialista(3) Pubblichiamo, in altra parte della rassegna, la relazione «Cultura e propaganda socialista» presentata dal compagno Mario Montagnana al Congresso dei giovani socialisti piemontesi. Le tesi sostenute dal Montagnana e approvate dal Congresso, sono le tesi da noi proposte e sostenute: la discussione, che i congressisti ne hanno fatto, ci riguarda molto da vicino. La relazione Montagnana è stata approvata all’unanimità (132 delegati investiti di 4.400 poteri). Vennero presentati tre ordini del giorno di solidarietà con la nostra rassegna; fu unanimemente approvato questo: «I giovani socialisti piemontesi, riuniti in congresso, plaudendo all’iniziativa dei compagni che hanno promosso la pubblicazione dell’Ordine Nuovo, s’impegnano affinché venga diffuso nella regione fra le masse operaie e contadine, per quella propaganda di ricostruzione che ritengono necessaria». Le osservazioni mosse alla rassegna riguardano la «non popolarità elementare» degli articoli inseritivi. Il compagno Montagnana ha risposto che la propaganda spicciola da svolgersi oggi deve essere diversa da quella tradizionale. Oggi dobbiamo diffondere la persuasione che i problemi economici e morali scatenati dalla guerra possono risolversi solo nella Internazionale comunista, intesa come un sistema mondiale di dittature proletarie. Dobbiamo diffondere nozioni esatte sul concetto di dittatura proletaria, intesa come sistema nazionale di Consigli operai e contadini organizzato in potere statale e rivolto alla soppressione delle classi e della proprietà privata, generatrice dei conflitti e del disordine attuale. Dobbiamo educare i proletari alla gestione della fabbrica comunista e all’autogoverno. Ma questo compito che i socialisti si propongono non può essere svolto simultaneamente per tutti gli strati della classe lavoratrice: è necessario promuovere il formarsi di gerarchie di cultura, il formarsi di una aristocrazia dei comunisti d’avanguardia, dei giovani piú volenterosi e piú capaci di lavoro e di sacrificio. A essi appunto spetterà il compito di rendere popolari i concetti rivoluzionari, di svolgerli tra le masse locali adattandoli alle differenti psicologie, investendo del loro spirito i problemi particolari delle regioni, dei differenti ceti proletari e semiproletari. L’Ordine Nuovo si era proposto questo compito: promuovere la nascita di gruppi liberamente costituiti in seno al movimento socialista e proletario per lo studio e la propaganda dei problemi della rivoluzione comunista. In tre mesi di vita ha ottenuto ingenti risultati: la proposta Montagnana per la costituzione di commissioni di cultura in seno ai fasci giovanili è uno di questi risultati; il movimento iniziatosi nelle officine torinesi per la trasformazione delle vecchie commissioni interne in commissioni di delegati di reparto, che in questi giorni si è concretato nelle officine della Fiat-Centro (la prima officina italiana che avrà il nuovo istituto proletario) è un altro di questi risultati. Sistemare questa propaganda iniziata dagli amici dell’Ordine Nuovo è il compito attuale; già una riunione in proposito è stata tenuta, altre se ne terranno: informeremo i lettori delle deliberazioni che vi saranno prese. Ai commissari di reparto delle officine Fiat Centro e Brevetti(4) Compagni! La nuova forma che la commissione interna ha assunto nella vostra officina con la nomina dei commissari di reparto e le discussioni che hanno preceduto e accompagnato questa trasformazione non sono passate inavvertite nel campo operaio e padronale torinese. Da una parte si accingono a imitarvi le maestranze di altri stabilimenti della città e della provincia, dall’altra i proprietari e i loro agenti diretti, gli organizzatori delle grandi imprese industriali, guardano a questo movimento con interesse crescente e si chiedono e chiedono a voi quale può essere lo scopo cui esso tende, quale il programma che la classe operaia torinese si propone di realizzare. Noi sappiamo che a determinare questo movimento il nostro giornale ha non poco contribuito. In esso la questione è stata esaminata da un punto di vista teorico e generale, non solo, ma sono stati raccolti ed esposti i risultati delle esperienze di altri paesi, per fornire gli elementi per lo studio delle applicazioni pratiche. Noi sappiamo però che l’opera nostra ha avuto un valore in quanto essa ha soddisfatto un bisogno, ha favorito il concretarsi di un’aspirazione che era latente nella coscienza delle masse lavoratrici. Per questo cosí rapidamente ci siamo intesi, per questo cosí sicuramente si è potuto passare dalla discussione alla realizzazione. Il bisogno, l’aspirazione da cui trae la sua origine il movimento rinnovatore dell’organizzazione operaia da voi iniziato, sono, crediamo noi, nelle cose stesse, sono una conseguenza diretta del punto cui è giunto, nel suo sviluppo, l’organismo sociale ed economico basato sull’appropriazione privata dei mezzi di scambio e di produzione. Oggigiorno l’operaio dell’officina e il contadino delle campagne, il minatore inglese e il mugik russo, i lavoratori tutti del mondo intiero, intuiscono in modo piú o meno sicuro, sentono in modo piú o meno diretto quella verità che uomini di studio avevano previsto, e di cui vengono acquistando certezza sempre maggiore, quando osservano gli eventi di questo periodo della storia dell’umanità: siamo giunti al punto in cui la classe lavoratrice, se vuole non venir meno al compito di ricostruzione che è nei suoi fatti e nella sua volontà, deve incominciare a ordinarsi in modo positivo e adeguato al fine da raggiungere. E se è vero che la società nuova sarà basata sul lavoro e sul coordinamento delle energie dei produttori, i luoghi dove si lavora, dove i produttori vivono e operano in comune, saranno domani i centri dell’organismo sociale e dovranno prendere il posto degli enti direttivi della società odierna. Come, nei primi tempi della lotta operaia, l’organizzazione per mestiere era quella che meglio si prestava agli scopi di difesa, alle necessità delle battaglie per il miglioramento economico e disciplinare immediato, cosí oggi, che incominciano a delinearsi e sempre maggior consistenza vengono prendendo nelle menti degli operai gli scopi ricostruttivi, è necessario sorga, accanto e in sostegno della prima, una organizzazione per fabbrica, vera scuola delle capacità ricostruttive dei lavoratori. La massa operaia deve prepararsi effettivamente all’acquisto della completa padronanza di se stessa, e il primo passo su questa via sta nel suo piú saldo disciplinarsi, nell’officina, in modo autonomo, spontaneo e libero. Né si può negare che la disciplina che col nuovo sistema verrà instaurata condurrà a un miglioramento della produzione, ma questo non è altro che il verificarsi di una delle tesi del socialismo: quanto piú le forze produttrici umane, emancipandosi dalla schiavitú cui il capitalismo le vorrebbe per sempre condannare, prendono coscienza di sé, si liberano e liberamente si organizzano, tanto migliore tende a diventare il modo della loro utilizzazione: l’uomo lavorerà sempre meglio dello schiavo. A coloro poi che obbiettano che in questo modo si viene a collaborare coi nostri avversari, con i proprietari delle aziende, noi rispondiamo che invece questo è l’unico mezzo di far loro sentire concretamente che prossima è la fine del loro dominio, perché la classe operaia concepisce ormai la possibilità di fare da sé e di fare bene; anzi, essa acquista di giorno in giorno piú chiara la certezza di essere sola capace di salvare il mondo intiero dalla rovina e dalla desolazione. Perciò ogni azione che voi imprenderete, ogni battaglia che sarà data sotto la vostra guida sarà illuminata dalla luce del fine ultimo che è negli animi e nelle intenzioni di tutti voi. Un grandissimo valore acquisteranno quindi anche gli atti apparentemente di poca importanza nei quali si esplicherà il mandato a voi conferito. Eletti da una maestranza nella quale sono ancora numerosi gli elementi disorganizzati, vostra prima cura sarà certamente quella di farli entrare nelle file dell’organizzazione, opera che del resto vi sarà facilitata dal fatto che essi troveranno in voi chi sarà sempre pronto a difenderli, a guidarli, ad avviarli alla vita della fabbrica. Voi mostrerete loro con l’esempio che la forza dell’operaio è tutta nell’unione e nella solidarietà coi suoi compagni. Cosí pure a voi spetterà l’invigilare affinché nei reparti vengano rispettate le regole di lavoro fissate dalle federazioni di mestiere e accettate nei concordati, poiché in questo campo anche una lieve deroga ai principi stabiliti può talora costituire una offesa grave ai diritti e alla personalità dell’operaio, di cui voi sarete rigidi e tenaci difensori e custodi. E siccome in mezzo agli operai e al lavoro voi stessi vivrete di continuo, potrete essere in grado di conoscere le modificazioni che via via sarà necessario portare ai regolamenti, modificazioni imposte e dal progresso tecnico della produzione e dalla progredita coscienza e capacità dei lavoratori stessi. In questo modo si verrà costituendo un costume di officina, germe primo della vera ed effettiva legislazione del lavoro, cioè delle leggi che i produttori elaboreranno e daranno a se stessi. Noi siamo certi che l’importanza di questo fatto non vi sfugge, che esso è evidente davanti alle menti di tutte le maestranze che con prontezza ed entusiasmo hanno compreso il valore e il significato dell’opera che voi vi proponete di fare: si inizia l’intervento attivo, nel campo tecnico e in quello disciplinare, delle forze stesse del lavoro. Nel campo tecnico voi potrete da un lato compiere un utilissimo lavoro informativo, raccogliendo dati e materiali preziosi sia per le federazioni di mestiere che per gli enti centrali e direttivi delle nuove organizzazioni di officina. Voi curerete inoltre che gli operai del reparto acquistino una sempre maggiore capacità, e farete sparire i meschini sentimenti di gelosia professionale che ancora li fanno essere divisi e discordi; li allenerete cosí per il giorno in cui, dovendo lavorare non piú per il padrone ma per sé, sarà loro necessario essere uniti e solidali, per accrescere la forza del grande esercito proletario, di cui essi sono le cellule prime. Perché non potreste fare sorgere, nell’officina stessa, appositi reparti di istruzione, vere scuole professionali, ove ogni operaio, sollevandosi dalla fatica che abbrutisce, possa aprire la mente alla conoscenza dei processi di produzione, e migliorare se stesso? Certamente, per fare tutto ciò sarà necessaria della disciplina, ma la disciplina che voi richiederete alla massa operaia sarà ben diversa da quella che il padrone imponeva e pretendeva, forte del diritto di proprietà che costituisce a lui una posizione di privilegio. Voi sarete forti di un altro diritto, quello del lavoro che dopo essere stato per secoli strumento nelle mani dei suoi sfruttatori oggi vuole redimersi, vuole dirigersi da se stesso. Il vostro potere, opposto a quello dei padroni e dei suoi ufficiali, rappresenterà, di fronte alle forze del passato, le libere forze dell’avvenire, che attendono la loro ora, e la preparano, sapendo che essa sarà l’ora della redenzione da ogni schiavitú. E cosí gli organi centrali che sorgeranno per ogni gruppo di reparti, per ogni gruppo di fabbriche, per ogni città, per ogni regione, fino a un supremo Consiglio operaio nazionale, proseguiranno, allargheranno, intensificheranno l’opera di controllo, di preparazione e di ordinamento della classe intiera a scopi di conquista e di governo. Il cammino non sarà né breve, né facile, lo sappiamo: molte difficoltà sorgeranno e vi saranno opposte, e per superarle occorrerà fare uso di grande abilità, occorrerà forse talora fare appello alla forza della classe organizzata, occorrerà sempre essere animati e spinti all’azione da una grande fede, ma quello che piú importa, o compagni, è che gli operai, sotto la guida vostra e di coloro che vi imiteranno, acquistino la viva certezza di camminare ormai, sicuri della meta, sulla grande via dell’avvenire. Socialisti e anarchici(5) Viene spesso rimproverato agli anarchici di dedicare la loro attività di propaganda piú alla lotta contro gli organismi politici e corporativi del proletariato, che non alla lotta contro la classe dominante. Obbiettivamente il fatto è inconfutabile. Il problema da studiare è però questo: gli anarchici possono fare diversamente? potrebbero svolgere una qualsiasi attività permanente e organica se non esistesse l’organizzazione socialista e proletaria? Esiste una dottrina anarchica? Esiste solo un complesso di aforismi, di sentenze generali, di affermazioni perentorie, che gli anarchici chiamano la loro «dottrina»: e il metodo che gli anarchici seguono nello svolgere la loro azione consiste nell’accettare, ecletticamente ed empiricamente, tutte le critiche all’ordinamento attuale che reputano capaci di promuovere uno stato di disagio e di malessere psicologico e su di esse fondare le loro affermazioni, i loro aforismi, le loro sentenze. Gli anarchici non hanno una concezione organica del mondo e della storia: vedono gli effetti, i fenomeni vistosi, non le cause, non la continuità del processo storico che si rivela, solo come mero indizio, in questi effetti e in questi fenomeni. Perciò hanno bisogno di inserirsi in una forza reale - l’organizzazione politica e corporativa dei lavoratori - che aderisce plasticamente al processo storico: da ciò traggono l’illusione di essere - e di essere una forza diffusa e organica, e questa illusione è la loro ragion d’essere. La «dottrina» anarchica vale per tutti i tempi e per tutti i luoghi, essa è basata sulla «natura» umana, la quale dovrebbe essere governata da leggi fisse e immutabili, quali sono appunto le cosiddette «leggi della natura». La natura umana è lo spirito; la legge costante che governa lo spirito nella sua piú alta manifestazione - il pensiero - determina una ricerca continua di libertà, una continua lotta contro i pregiudizi, contro le angustie, contro i limiti imposti dalla tradizione, dalla religione, dalla mancanza di spirito critico. La «dottrina» anarchica è un riflesso cristallizzato e immiserito in formule dogmatiche e incoerenti di una tendenza filosofica non ancora giunta a una maturità e a una sistemazione organica. Nel momento della sua maturità, questa dottrina filosofica ha dimostrato che la filosofia e la storia coincidono: nel fenomeno di simbiosi anarchico-socialista possiamo constatare la verità obbiettiva di questa dimostrazione. Nel regime di concorrenza determinata dalla proprietà privata, le correnti sociali tendono a impersonare una manifestazione storica generale: i socialisti si richiamano alle manifestazioni profonde della vita sociale, alla struttura economica che condiziona tutte le forme della vita sociale: gli anarchici si richiamano alle leggi costanti dello spirito, alla libertà, al pensiero («anarchico è il pensiero ecc. ecc.»); - insieme dovrebbero tendere a realizzare obbiettivamente l’unità del pensiero e dell’azione, della storia e della filosofia. Invece sono avversari, e lo sono in quanto gli anarchici sono avversari permanenti dei socialisti (- i socialisti sono avversari del capitalismo e combattono gli anarchici solo quando essi si rivelano inconsci strumenti della forza capitalistica -), sebbene si nutrano e vivano solo perché inseriti nel tessuto storico che i socialisti hanno organizzato pazientemente e tenacemente. I socialisti, o comunisti critici, hanno invece una dottrina salda e organica e hanno un metodo, il metodo dialettico. Poiché hanno una dottrina, hanno una personalità ben distinta e un dominio proprio ben definito. La legge essenziale dell’uomo è il ritmo della libertà, la storia del genere umano è un processo ininterrotto e indefinito di liberazione. Ma la libertà non è qualcosa di fisso, di immutabile nel tempo e nello spazio. Individualmente la libertà è un rapporto di pensiero, condizionato dalla cultura dell’individuo: tanto piú uno è libero quanto piú è «ricco» di sapienza e di saggezza, quanto piú grande è il «patrimonio» suo di esperienze storiche e spirituali, quanto maggior ordine esiste nei suoi pensieri, quanto piú perfetta è la sua organizzazione interiore. Individualmente quindi il processo di sviluppo della libertà coincide col processo di sviluppo della cultura individuale, e in questo senso gli anarchici sono i meno liberi di tutti i proletari appunto perché non hanno una concezione organica del mondo e della storia, appunto perché non hanno una dottrina coerente ma solo una mole incomposta e contradditoria di massime, di sentenze e di assiomi. Essi sono schiavi del disordine loro spirituale, sono mancipii delle formule fisse: se la storia è sviluppo, è divenire, è dialettica continua, chi ha una «dottrina» basata sulla fissità non comprende la storia, è uno schiavo degli avvenimenti, non è un creatore, non è un uomo libero come invece è l’operaio socialista che vive una dottrina, che ha una concezione del mondo fondata sulla critica e sulla dialettica. Nella convivenza umana, come rapporto tra individui, la libertà è un equilibrio di forze e si concreta in una organizzazione, in un ordine. In regime di proprietà privata la libertà politica (e in regime di proprietà privata la libertà può essere solo politica, perché rapporto tra individui, tra cittadini e non tra comunità di produttori, tra associazioni, come sarà in regime comunista) è condizionata dal possesso dei beni materiali, o dall’essere al servizio di chi possiede i beni materiali. Non si può dire quindi che il regime borghese non sia un regime di libertà; tutta la storia è un succedersi di regimi di libertà, ma di libertà individuale o politica, cioè libertà formale per tutti e libertà effettiva per i possessori dei mezzi di produzione e di scambio. Quando lo Stato era «possesso» individuale, era libero solo il tiranno e i suoi sicofanti; quando lo Stato divenne possesso dei proprietari capitalistici e terrieri, divennero liberi i proprietari capitalistici e terrieri. Quando lo Stato sarà «posseduto» dai lavoratori, i lavoratori diventeranno liberi. La parola «Stato» fa inalberare gli anarchici. Perché essi vedono nello Stato solo l’«immutabile» principio d’autorità. I socialisti distinguono nello Stato due aspetti. Lo Stato è per i socialisti l’apparato del potere politico, ma è anche un apparato di produzione e di scambio. Come principio industriale di organizzazione della economia di un paese, lo Stato deve essere conservato e sviluppato: tutti gli strumenti di produzione e di scambio che il capitalismo lascerà al proletariato devono essere conservati e sviluppati per conservare e dare incremento al benessere comune. Se l’accentramento è domandato dalle necessità della produzione industriale, esso deve essere mantenuto e sviluppato, fino a diventare mondiale; sarebbe pazzesco e criminoso distruggere uno strumento di produzione, sull’esistenza del quale si fonda il benessere e spesso l’elementare possibilità di vita della popolazione attuale del mondo, solo perché cinquanta anni fa un uomo, e sia pur grande quanto Bakunin, ha affermato che accentramento significa «morte dell’autonomia e della libertà». I socialisti sono «statali» quindi, solo in quanto il processo di sviluppo della produzione industriale ha creato apparati economici che coincidono con l’apparato del potere politico e ne formano l’intima struttura. Come principio di potere politico, lo Stato si dissolverà tanto piú rapidamente quanto piú i lavoratori saranno compatti e disciplinati nell’ordinarsi socialmente, nel fondersi cioè in gruppi accomunati dal lavoro, coordinati e sistemati tra loro secondo i momenti della produzione: dal nucleo elementare del mestiere in un reparto, al reparto in una fabbrica, alla fabbrica in una città, in una regione, nelle unità sempre piú vaste fino al mondo intero. L’Internazionale è lo «Stato» dei lavoratori, cioè la base vera e propria del progresso nella storia specificatamente comunista e proletaria. Lo Stato rimarrà apparato di potere politico fin quando esisteranno le classi, fin quando, cioè, i lavoratori armati non saranno riusciti - attraverso lo Stato politico (o Dittatura) attrezzato dai capitalisti come una bardatura dell’organismo economico - a dominare e possedere realmente l’apparato nazionale di produzione e a farne la condizione permanente della loro libertà. Le parole «Stato», «legalità», «autoritarismo» ecc., con le quali gli anarchici si riempiono la bocca, hanno un determinato valore, fin quando sussistono i rapporti di proprietà individuale: hanno un valore politico. Ne acquistano un altro se concepiti come rapporti puramente industriali. Gli operai dell’industria conoscono questi rapporti per esperienza diretta, e perciò sono socialisti, hanno una psicologia dialettica; non sono anarchici, cioè cristallizzati in una formula. L’unità nazionale(6) La borghesia italiana è nata e si è sviluppata affermando e realizzando il principio dell’unità nazionale. Poiché l’unità nazionale ha rappresentato nella storia italiana, come nella storia degli altri paesi, la forma di una organizzazione tecnicamente piú perfetta dell’apparato mercantile di produzione e di scambio, la borghesia italiana è stata lo strumento storico di un progresso generale della società umana. Oggi, per gli intimi, insanabili conflitti creati dalla guerra nella sua compagine, la borghesia tende a disgregare la nazione, a sabotare e a distruggere l’apparato economico cosí pazientemente costruito. Gabriele D’Annunzio, servo smesso della massoneria anglo-francese, si ribella ai suoi vecchi burattinai, racimola una compagnia di ventura, occupa Fiume, se ne dichiara «padrone assoluto» e costituisce un governo provvisorio. Il gesto di D’Annunzio aveva inizialmente un mero valore letterario: D’Annunzio preparava e viveva gli argomenti di un futuro poema epico, di un futuro romanzo di psicologia sessuale e di una futura collezione di «Bollettini di guerra» del comandante Gabriele D’Annunzio. Niente di straordinario e di mostruoso nell’avventura letteraria di Gabriele D’Annunzio: è possibile che in una classe, sana politicamente e spiritualmente perché coesa e organizzata economicamente, esistano dei singoli, pazzi politicamente perché dissestati, perché non inscritti in una realtà economica concreta. Ma il colonnello D’Annunzio trova dei seguaci, ottiene che una parte della classe borghese assuma una forma imperniando la sua attività nel gesto di Fiume. Il governo di Fiume viene contrapposto al governo centrale, la disciplina armata al potere del governo di Fiume viene contrapposta alla disciplina legale del governo di Roma. Il gesto letterario diventa un fenomeno sociale. Come in Russia i governi di Omsk, di Ekaterinodar, di Arcangelo ecc., in Italia il governo di Fiume viene assunto come la base di una riorganizzazione dello Stato, come l’energia sana, che rappresenta il «vero» popolo, la «vera» volontà, i «veri» interessi, la quale deve scacciare dalla capitale gli usurpatori. D’Annunzio sta a Nitti come Kornilov a Kerenski. Il gesto letterario ha scatenato in Italia la guerra civile. La guerra civile è stata scatenata proprio dalla classe borghese che tanto la depreca, a parole. Perché guerra civile significa appunto urto dei due poteri che si disputano a mano armata il governo dello Stato, urto che si verifica, non in campo aperto tra due eserciti ben distinti, schierati regolarmente, ma nel seno stesso della società, come scontro di gruppi raccogliticci, come molteplicità caotica di conflitti armati in cui non è possibile, alla grande massa di cittadini, orizzontarsi, in cui la sicurezza individuale e dei beni sparisce e le succede il terrore, il disordine, l’«anarchia». In Italia, come in tutti gli altri paesi, come in Russia, come in Baviera, come in Ungheria, è la classe borghese che ha scatenato la guerra civile, che immerge la nazione nel disordine, nel terrore, nell’«anarchia». La rivoluzione comunista, la dittatura del proletariato sono state, in Russia, in Baviera, in Ungheria e saranno in Italia, il tentativo supremo delle energie sane del paese per arrestare la dissoluzione, per ripristinare la disciplina e l’ordine, per impedire che la società si inabissi nella barbarie bestiale inerente alla fame determinata dalla cessazione del lavoro utile durante il periodo del terrorismo borghese. Poiché ciò è successo, poiché il gesto letterario ha dato inizio alla guerra civile, poiché l’avventura dannunziana ha rivelato e dato forma politica a uno stato di coscienza diffuso e profondo, se ne conclude che la borghesia è morta come classe, che il cemento economico che la rendeva coesa è stato corroso e distrutto dai trionfanti antagonismi di casta, di gruppo, di ceto, di regione; se ne conclude che lo Stato parlamentare non riesce piú a dare forma concreta alla realtà obbiettiva della vita economica e sociale dell’Italia. E l’unità nazionale, che si riassumeva in questa forma, scricchiola sinistramente. Chi si meraviglierebbe leggendo domani la notizia che a Cagliari, a Sassari, a Messina, a Cosenza, a Taranto, ad Aosta, a Venezia, ad Ancona... un generale, un colonnello o anche un semplice tenente degli arditi è riuscito a far ammutinare dei reparti di truppa, ha dichiarato di aderire al governo di Fiume e ha decretato che i cittadini della sua giurisdizione non devono piú pagare le imposte al governo di Roma? Oggi lo Stato centrale, il governo di Roma, rappresenta i debiti di guerra, rappresenta la servitú verso la finanza internazionale, rappresenta una passività di cento miliardi. Ecco il reagente che corrode l’unità nazionale e la compagine della classe borghese; ecco la causa sotterranea che illumina il fatto del come ogni atto di indisciplina «borghese», di indisciplina nell’àmbito della proprietà privata, di insurrezione «reazionaria» contro il governo centrale trovi aderenze, simpatie, giornali, quattrini. Se un tenente degli arditi fonda un governo a Cagliari, a Messina, a Cosenza, a Taranto, ad Aosta, ad Ancona, a Udine, contro il governo centrale, egli diventa il perno di tutte le diffidenze, di tutti gli egoismi dei ceti proprietari del luogo, egli trova simpatie, adesioni, quattrini, perché questi proprietari odiano lo Stato centrale, vorrebbero esonerarsi dal pagamento delle imposte che lo Stato centrale dovrà imporre per pagare le spese di guerra. I governi locali, dissidenti sulla questione di Fiume, diventeranno l’organizzazione di questi antagonismi irriducibili; essi tenderanno a mantenersi, a creare Stati permanenti, come è avvenuto nell’ex Impero russo e nella monarchia austro-ungarica. I proprietari di Sardegna, di Sicilia, di Valdaosta, del Friuli, ecc. dimostreranno che i popoli sardo, siciliano, valdostano, friulano ecc. non sono italiani, che già da tempo aspiravano all’indipendenza, che l’opera di italianizzazione forzata che il governo di Roma ha condotto, con l’insegnamento obbligatorio della lingua italiana, è fallita, e manderanno memoriali a Wilson, a Clemenceau, a Lloyd George... e non pagheranno le imposte. In tali condizioni è stata ridotta la nazione italiana dalla classe borghese, che in ogni sua attività tende solo ad accumulare profitto. L’Italia è psicologicamente nelle stesse condizioni di prima del ’59: ma non è piú la classe borghese che oggi ha interessi unitari in economia e in politica. Storicamente la classe borghese italiana è già morta, schiacciata da una passività di cento miliardi, disciolta dagli acidi corrosivi dei suoi interni dissidi, dei suoi inguaribili antagonismi. Oggi la classe «nazionale» è il proletariato, è la moltitudine degli operai e contadini, dei lavoratori italiani, che non possono permettere il disgregamento della nazione, perché la unità dello Stato è la forma dell’organismo di produzione e di scambio costruito dal lavoro italiano, è il patrimonio di ricchezza sociale che i proletari vogliono portare nell’Internazionale comunista. Solo lo Stato proletario, la dittatura proletaria, può oggi arrestare il processo di dissoluzione della unità nazionale, perché è l’unico potere reale che possa costringere i borghesi faziosi a non turbare l’ordine pubblico, imponendo loro di lavorare, se vogliono mangiare. Giorgio Sorel(7) Giorgio Sorel, nel Resto del Carlino del 5 ottobre afferma: «La legislazione bolscevica ci offre una traduzione pragmatica del comunismo; essa ha istituito dei Consigli di controllo delle fabbriche nominati dagli operai. Che questi, anziché domandare a Kautsky ed ai suoi emuli il disegno della città futura, compiano la loro educazione industriale conquistando piú estesi poteri nelle officine e svolgeranno opera di comunisti! L’esperienza che si compie nelle officine Fiat ha maggiore importanza di tutti gli scritti pubblicati sotto gli auspici della Neue Zeit (la rivista del marxismo dottrinario tedesco)». Il giudizio del Sorel concorda con quello che Lenin dà dell’importanza dei Consigli dei commissari di reparto, aggiungendo che i teorici della III Internazionale non hanno fatto altro che metter sulla carta ciò che già era acquisito alla coscienza delle masse. In fondo, dunque, noi troviamo in questi giudizi un riconoscimento della maturità del proletariato torinese che si è messo per questa via. Sarà bene intendersi, però, circa il valore che noi diamo alle parole del Sorel. Non vi par già di sentire mormorare, o affermare decisamente che, per amor di successo, noi ci facciamo anche sindacalisti? Non abbiamo finora avuto occasione di parlare per disteso del Sorel e dell’opera sua. Certo è che in essa siamo ben lontani dall’accettare tutto. Non accettiamo la teoria sindacalista, cosí come vollero presentarla allievi e applicatori e come forse non era da principio nella mente del maestro, che pure parve poi consentire ad essa. Non abbiamo nessuna simpatia per quelle abitudini di sbrigliatezza e di rilucente vanità mentale, che si introdussero nel nostro paese col nome di sindacalismo teorico. Ma, mentre i discepoli o quelli che si vantavano per tali, si isterilivano in un giuoco di pirotecnica intellettuale, o, entrati nella pratica della politica e dell’organizzazione, annegavano infine, sotto pretesto di interventismo, nella melma democratica e bloccarda, il Sorel era temperamento troppo finemente critico per adattarsi a schematizzazioni arbitrarie e affrettate, ed era poi animato da un troppo sincero amore della causa del proletariato per perdere ogni contatto con la vita, ogni intelligenza della storia di esso. Il rigore e la precisione del ragionamento e l’impetuosità polemica erano e sono in lui accompagnate da una immediata e limpida intuizione dei bisogni della vita operaia, e della sua fresca originalità. Nelle migliori cose sue egli pare riscuotere in sé un poco delle virtú dei due suoi maestri: l’aspra logica di Marx, e la commossa e plebea eloquenza di Proudhon. Ed egli non si è chiuso in nessuna formula, e oggi, conservando quanto vi era di vitale e di nuovo nella sua dottrina, cioè l’affermata esigenza che il moto proletario si esprima in forme proprie, dia vita a proprie istituzioni, oggi egli può seguire non solo con occhio pieno di intelligenza, ma con animo pieno di comprensione, il movimento realizzatore iniziato dagli operai e dai contadini russi, e può chiamare ancora «compagni» i socialisti d’Italia che vogliono seguire quell’esempio. Noi sentiamo che Giorgio Sorel è veramente rimasto quello che l’aveva fatto Proudhon, cioè un amico disinteressato del proletariato. Perciò la sua parola non può lasciare indifferenti gli operai torinesi, quegli operai che hanno cosí ben compreso che le istituzioni proletarie debbono essere create «di lunga mano, se non si vuole che la prossima rivoluzione non sia altro che un colossale inganno». Sindacati e Consigli(8) L’organizzazione proletaria che si riassume, come espressione totale della massa operaia e contadina, negli uffici centrali della Confederazione del lavoro, attraversa una crisi costituzionale simile per natura alla crisi in cui vanamente si dibatte lo Stato democratico parlamentare. La crisi è crisi di potere e di sovranità. La soluzione dell’una sarà la soluzione dell’altra, poiché, risolvendo il problema della volontà di potenza nell’àmbito della loro organizzazione di classe, i lavoratori arriveranno a creare l’impalcatura organica del loro Stato e vittoriosamente lo contrapporranno allo Stato parlamentare. Gli operai sentono che il complesso della «loro» organizzazione è diventato tale enorme apparato, che ha finito per ubbidire a leggi proprie, intime alla sua struttura e al suo complicato funzionamento, ma estranee alla massa che ha acquistato coscienza della sua missione storica di classe rivoluzionaria. Sentono che la loro volontà di potenza non riesce a esprimersi, in un senso netto e preciso, attraverso le attuali gerarchie istituzionali. Sentono che anche in casa loro, nella casa che hanno costruito tenacemente, con sforzi pazienti, cementandola col sangue e le lacrime, la macchina schiaccia l’uomo, il funzionarismo isterilisce lo spirito creatore e il dilettantismo banale e verbalistico tenta invano di nascondere l’assenza di concetti precisi sulle necessità della produzione industriale e la nessuna comprensione della psicologia delle masse proletarie. Gli operai si irritano per queste condizioni di fatto, ma sono individualmente impotenti a modificarle; le parole e le volontà dei singoli uomini sono troppo piccola cosa in confronto delle leggi ferree inerenti alla struttura funzionale dell’apparato sindacale. I leaders dell’organizzazione non si accorgono di questa crisi profonda e diffusa. Quanto piú chiaramente appare che la classe operaia non è composta in forme aderenti alla sua reale struttura storica, quanto piú risulta che la classe operaia non è inquadrata in una configurazione che incessantemente si adatti alle leggi che governano l’intimo processo di sviluppo storico reale della classe stessa; tanto piú questi leaders si ostinano nella cecità e si sforzano di comporre «giuridicamente» i dissidi e i conflitti. Spiriti eminentemente burocratici, essi credono che una condizione obbiettiva, radicata nella psicologia quale si sviluppa nelle esperienze vive dell’officina, possa essere superata con un discorso che muova gli affetti, e con un ordine del giorno votato all’unanimità in un’assemblea abbrutita dal frastuono e dalle lungaggini oratorie. Oggi essi si sforzano di porsi all’«altezza dei tempi» e, tanto per dimostrare che sono anche capaci di «meditare aspramente», rivogano le vecchie e logore ideologie sindacaliste, insistendo penosamente nello stabilire rapporti di identità tra il Soviet e il sindacato, insistendo penosamente nell’affermare che il sistema attuale di organizzazione sindacale costituisce già l’impalcatura della società comunista, costituisce il sistema di forze in cui deve incarnarsi la dittatura proletaria. Il sindacato, nella forma in cui esiste attualmente nei paesi dell’Europa occidentale, è un tipo di organizzazione non solo diverso essenzialmente dal Soviet, ma diverso anche, e in modo notevole, dal sindacato quale sempre piú viene sviluppandosi nella Repubblica comunista russa. I sindacati di mestiere, le Camere del lavoro, le federazioni industriali, la Confederazione generale del lavoro sono il tipo di organizzazione proletaria specifico del periodo di storia dominato dal capitale. In un certo senso si può sostenere che esso è parte integrante della società capitalistica, e ha una funzione che è inerente al regime di proprietà privata. In questo periodo, nel quale gli individui valgono in quanto sono proprietari di merce e commerciano la loro proprietà, anche gli operai hanno dovuto ubbidire alle leggi ferree della necessità generale e sono diventati mercanti dell’unica loro proprietà, la forza-lavoro e l’intelligenza professionale. Piú esposti ai rischi della concorrenza, gli operai hanno accumulato la loro proprietà in «ditte» sempre piú vaste e comprensive, hanno creato questo enorme apparato di concentrazione di carne da fatica, hanno imposto prezzi e orari e hanno disciplinato il mercato. Hanno assunto dal di fuori o hanno espresso dal loro seno un personale d’amministrazione di fiducia, esperto in questo genere di speculazione, in grado di dominare le condizioni del mercato, capace di stipular contratti, di valutare le alee commerciali, di iniziare operazioni economicamente utili. La natura essenziale del sindacato è concorrentista, non è comunista. Il sindacato non può essere strumento di rinnovazione radicale della società: esso può offrire al proletariato dei provetti burocrati, degli esperti tecnici in quistioni industriali d’indole generale, non può essere la base del potere proletario. Esso non offre nessuna possibilità di scelta delle individualità proletarie capaci e degne di dirigere la società, da esso non possono esprimersi le gerarchie in cui si incarni lo slancio vitale, il ritmo di progresso della società comunista. La dittatura proletaria può incarnarsi in un tipo di organizzazione che sia specifico della attività propria dei produttori e non dei salariati, schiavi del capitale. Il Consiglio di fabbrica è la cellula prima di questa organizzazione. Poiché nel Consiglio tutte le branche del lavoro sono rappresentate, proporzionalmente al contributo che ogni mestiere e ogni branca di lavoro dà alla elaborazione dell’oggetto che la fabbrica produce per la collettività, l’istituzione è di classe, è sociale. La sua ragion d’essere è nel lavoro, è nella produzione industriale, in un fatto cioè permanente e non già nel salario, nella divisione delle classi, in un fatto cioè transitorio e che appunto si vuole superare. Perciò il Consiglio realizza l’unità della classe lavoratrice, dà alle masse una coesione e una forma che sono della stessa natura della coesione e della forma che la massa assume nella organizzazione generale della società. Il Consiglio di fabbrica è il modello dello Stato proletario. Tutti i problemi che sono inerenti all’organizzazione dello Stato proletario, sono inerenti all’organizzazione del Consiglio. Nell’uno e nell’altro il concetto di cittadino decade, e subentra il concetto di compagno: la collaborazione per produrre bene e utilmente sviluppa la solidarietà, moltiplica i legami di affetto e di fratellanza. Ognuno è indispensabile, ognuno è al suo posto, e ognuno ha una funzione e un posto. Anche il piú ignorante e il piú arretrato degli operai, anche il piú vanitoso e il piú «civile» degli ingegneri finisce col convincersi di questa verità nelle esperienze dell’organizzazione di fabbrica: tutti finiscono per acquistare una coscienza comunista per comprendere il gran passo in avanti che l’economia comunista rappresenta sull’economia capitalistica. Il Consiglio è il piú idoneo organo di educazione reciproca e di sviluppo del nuovo spirito sociale che il proletariato sia riuscito a esprimere dall’esperienza viva e feconda della comunità di lavoro. La solidarietà operaia che nel sindacato si sviluppava nella lotta contro il capitalismo, nella sofferenza e nel sacrifizio, nel Consiglio è positiva, è permanente, è incarnata anche nel piú trascurabile dei momenti della produzione industriale, è contenuta nella coscienza gioiosa di essere un tutto organico, un sistema omogeneo e compatto che lavorando utilmente, che producendo disinteressatamente la ricchezza sociale, afferma la sua sovranità, attua il suo potere e la sua libertà creatrice di storia. L’esistenza di una organizzazione, nella quale la classe lavoratrice sia inquadrata nella sua omogeneità di classe produttrice, e la quale renda possibile una spontanea e libera fioritura di gerarchie e di individualità degne e capaci, avrà riflessi importanti e fondamentali nella costituzione e nello spirito che anima l’attività dei sindacati. Il Consiglio di fabbrica si fonda anch’esso sul mestiere. In ogni reparto gli operai si distinguono in isquadre e ogni squadra è una unità di lavoro (di mestiere): il Consiglio è costituito appunto dai commissari che gli operai eleggono per mestiere (squadra) di reparto. Ma il sindacato si basa sull’indirizzo, il Consiglio si basa sull’unità organica e concreta del mestiere che si attua nel disciplinamento del processo industriale. La squadra (il mestiere) sente di essere distinta nel corpo omogeneo della classe, ma nel momento stesso si sente ingranata nel sistema di disciplina e di ordine che rende possibile, con l’esatto e preciso suo funzionamento, lo sviluppo della produzione. Come interesse economico e politico il mestiere è parte indistinta e solidale perfettamente col corpo della classe; se ne distingue come interesse tecnico e come sviluppo del particolare strumento che adopera nel lavoro. Allo stesso modo tutte le industrie sono omogenee e solidali nel fine di realizzare una perfetta produzione, distribuzione e accumulazione sociale della ricchezza; ma ogni industria ha interessi distinti per quanto riguarda la organizzazione tecnica della sua specifica attività. L’esistenza del Consiglio dà agli operai la diretta responsabilità della produzione, li conduce a migliorare il loro lavoro, instaura una disciplina cosciente e volontaria, crea la psicologia del produttore, del creatore di storia. Gli operai portano nel sindacato questa nuova coscienza e dalla semplice attività di lotta di classe, il sindacato si dedica al lavoro fondamentale di imprimere alla vita economica e alla tecnica del lavoro una nuova configurazione, si dedica a elaborare la forma di vita economica e di tecnica professionale che è propria della civiltà comunista. In questo senso i sindacati, che sono costituiti con gli operai migliori e piú consapevoli, attuano il momento supremo della lotta di classe e della dittatura del proletariato: essi creano le condizioni obbiettive in cui le classi non possono piú esistere né rinascere. Questo fanno in Russia i sindacati di industria. Essi sono diventati gli organismi in cui tutte le singole imprese di una certa industria si amalgamano, si connettono, si articolano, formando una grande unità industriale. Le concorrenze sperperatrici vengono eliminate, i grandi servizi amministrativi, di rifornimento, di distribuzione e di accumulamento, vengono unificati in grandi centrali. I sistemi di lavoro, i segreti di fabbricazione, le nuove applicazioni diventano immediatamente comuni a tutta l’industria. La molteplicità di funzioni burocratiche e disciplinari inerente ai rapporti di proprietà privata e alla impresa individuale, viene ridotta alle pure necessità industriali. L’applicazione dei princípi sindacali all’industria tessile ha permesso in Russia una riduzione di burocrazia da 100.000 impiegati a 3.500. La organizzazione per fabbrica compone la classe (tutta la classe) in una unità omogenea e coesa che aderisce plasticamente al processo industriale di produzione e lo domina per impadronirsene definitivamente. Nell’organizzazione per fabbrica si incarna dunque la dittatura proletaria, lo Stato comunista che distrugge il dominio di classe nelle superstrutture politiche e nei suoi ingranaggi generali. I sindacati di mestiere e di industria sono le solide vertebre del gran corpo proletario. Essi elaborano le esperienze individuali e locali, e le accumulano, attuando quel conguagliamento nazionale delle condizioni di lavoro e di produzione sul quale concretamente si basa la uguaglianza comunista. Ma perché sia possibile imprimere ai sindacati questa direzione positivamente classista e comunista è necessario che gli operai rivolgano tutta la loro volontà e la loro fede al consolidamento e alla diffusione dei Consigli, all’unificazione organica della classe lavoratrice. Su questo fondamento omogeneo e solido fioriranno e si svilupperanno tutte le superiori strutture della dittatura e dell’economia comunista. La Russia e l’Europa(9) La storia sta già per sbarrare col catenaccio del fatto compiuto le porte della Conferenza e il trio politico Wilson-Lloyd George-Clemenceau è sul punto di sciogliersi. Però è anche assai probabile che non sia lontano il giorno del disinganno piú amaro per gli uomini che si sono presi l’assunto di mettere la camicia di forza all’Europa, nella speranza forse di guarirla dall’accesso di follia omicida, in cui l’ha gettata la passione nazionalistica che infuria da oltre un secolo, fiancheggiata, spalleggiata ed aizzata da prepotenti ed oculati interessi di predominio economico, nelle classi dirigenti della società europea, o se non nella speranza di guarirla, in quella almeno di metterla nella impossibilità di rinnovare a breve scadenza i suoi disperati atti di strage e di distruzione perpetrati con tanto tristo successo sotto i nostri occhi. È anzi quasi certo, ch’essi cominciano già fin d’ora a guardare con una certa diffidenza la loro opera appena compiuta, e debbono confessare a se medesimi nel segreto delle coscienze, d’aver lavorato invano. Questo sembra essere appunto lo stato d’animo dei maggiori statisti, che hanno a Versailles gettato sulla carta i fondamenti della Europa novella, e in procinto di separarsi, dando uno sguardo all’edifizio a gran pena costrutto, presentono la precarietà dell’opera e disperano del suo avvenire. Né in verità si può dar loro torto, ché a dimostrazione perentoria dell’inanità dei loro sforzi ricostruttivi, sta soprattutto la situazione orientale. Là è la causa del maggior turbamento, là il punctum pruriens dell’intero organismo, di là nell’ora presente si drizza il piú enimmatico spettro sul sanguigno orizzonte della nostra civiltà. Pretendere di dar pace ed ordine all’Europa, finché non sia pacificato e ordinato l’immenso tratto di terre orientali che dal Baltico al Mar Nero, che dagli Urali alla Vistola e ai Carpazi, abbraccia piú che la metà dell’intero continente, è piú che una illusione, è una sfacciata menzogna. Se è vero, come dicesi, che Clemenceau abbia in un crocchio di intimi pronunciato queste parole: «la questione russa avvelena tutte le mie gioie e mi dà le maggiori preoccupazioni sull’avvenire della Francia», bisogna riconoscere che il vecchio giacobino ha tuttora un intuito finissimo della realtà politica, e non si fa molte illusioni sulla reale portata dei suoi successi diplomatici. Ed ha ragione, e le sue mortali angoscie di patriota francese, mentre ci commuovono pochissimo, vengono a confermare una tesi, che in questo quarto d’ora storico deve essere massimamente cara a noi tutti socialisti, tesi che nella sua stessa espressione paradossale, contiene una gran somma di verità storica e che può enunciarsi cosí: da oltre due secoli il destino dell’Europa è legato alla situazione politica della Russia, per modo che i maggiori avvenimenti che interessano la nostra storia di popoli occidentali, sono quasi il contraccolpo dei fatti e degli atteggiamenti del grande colosso orientale. Molto piú che dall’Inghilterra, la quale come suol dirsi comunemente, avendo il sea-power, avrebbe nelle sue mani le sorti del continente, queste invece dipendono dalla enorme massa di terre e di umanità, che lo preme dall’est, e i cui movimenti sian pur lenti, sian pur tardigradi, son quelli che in definitiva determinano i risultati piú imponenti e decisivi nella restante parte delle contrade europee. Chi tien d’occhio la successione dei fatti verificatisi tra il XVII e il XX secolo nell’assetto generale del continente, vi scopre sempre piú o men chiara, ma comunque decisiva, l’azione russa. Da quando Pietro il Grande spostò l’asse politico del nord, facendo passare dalla Svezia dei Vasa alla Russia dei Romanoff il primato di quel Mediterraneo settentrionale, che è il Baltico, da quando nel bacino orientale del Mediterraneo classico, e nelle regioni adiacenti dei maggiori fiumi europei, alla possanza indiscussa dell’Islam si contrappose vittoriosa quella dei moscoviti - e i due grandi fatti coincidono press’a poco nel tempo - questa nuova linea di forza, che va dal Baltico al Mar Nero, questa ch’io chiamerei la linea dei mari interni, che sono poi i vitali polmoni del continente, è dominata dall’attività politica ed economica del nuovo corpo sociale della Russia moderna, e quindi tutta la costituzione politica ed economica europea non ha cessato d’allora di sentire l’influsso della nuova formidabile potenza, che agiva e premeva dall’oriente. Prova ne sia che le maggiori e piú importanti guerre di successione e di equilibrio combattute in Europa negli ultimi secoli, sono state impegnate e decise sotto questa pressione, e il sistema nefasto delle alleanze, che ha scagliato troppo spesso i vari gruppi delle nazioni europee in cosí tragici e micidiali conflitti, è interamente dominato dal prevalente peso della potenza russa. Questo si è massimamente visto due volte nella recente storia d’Europa, nella guerra dei sette anni, che deve la sua soluzione all’atteggiamento definitivo della Russia di Pietro III e di Caterina II, e nella gran lotta franco-inglese dell’età rivoluzionaria ed imperiale, che si chiude in due tempi, sempre per effetto della carta russa, che giuoca il colpo finale della partita, nel 1807 a Tilsit a favore della Francia, e nel 1814-15 a Vienna in pro’ degli inglesi. E a guardar bene anche la conflagrazione europea del 1914-18 è stata determinata nei suoi momenti fondamentali dalla situazione russa, sebbene scaturisse essenzialmente dalla rivalità economica della Gran Bretagna e della Germania, sulla quale s’era innestata l’inimicizia ereditaria franco-tedesca. Senza l’alleanza russa l’Inghilterra non avrebbe mai affrontato la lotta, mentre poi solo il crollo russo determinò l’efficace e positivo intervento americano. E terminato il conflitto armato, la rivoluzione russa ha per cosí dire preso il posto della guerra, come fatto caratteristico e dominante dell’attuale situazione europea. La parte decisiva, che la rivoluzione russa ha avuto sul corso degli ultimi avvenimenti militari e politici, co’ quali si è chiusa la guerra, è già stata messa in rilievo da varie parti. La vittoria definitiva dell’Intesa sugli Imperi centrali è dovuta alla Russia. Lo scoppio della rivoluzione in Germania e nell’Austria-Ungheria non è che il contraccolpo del piú vasto movimento del mondo slavo, messo in convulsione dalla guerra. La strategia diplomatica di Trotzki a Brest-Litowski si e dimostrata superiore a quella militare di Foch. Ludendorff ed Hoffmann hanno riconosciuto la demoralizzazione dell’esercito tedesco, frutto della propaganda bolscevica, come causa prima della disfatta e della caduta dell’Impero germanico. Ma c’è di piú! Prima di Wilson la rivoluzione russa della fase Kerenski proclamò la revisione degli scopi di guerra compendiata nella formola: né contribuzioni né annessioni, mentre poi Trotzki gettando al vento della pubblicità i trattati segreti dello zarismo, condannava irrimediabilmente la diplomazia tradizionale, causa della tragedia attuale. Cosicché per una parte la Russia rivoluzionaria contribuiva infinitamente piú che non la tanto celebrata talassocrazia britannica a far precipitare le sorti delle potenze militari del Centro, ma dall’altra la stessa Russia rivoluzionaria molto piú che la conclamata vittoria dell’Intesa è destinata ad influire sull’assestamento generale dell’Europa e sulle nuove direttive della sua vita internazionale. Il proletariato dei due mondi guarda oggi alla Russia, come ad un faro. Potrebbe anche essere un miraggio, come affermano non soltanto le interessate voci del coro borghese, che commenta, sul metro dei propri desideri e delle proprie paure, il gran dramma umano, che si svolge in quest’ora solenne della storia sul teatro di un continente vasto quanto la metà dell’Europa, ma anche pur troppo non poche Cassandre di parte nostra, che abbondano di saggezza, forse appunto perché difettano di fede. Ma la sollecitudine, che le borghesie dell’occidente mettono a diffamare il moto bolscevico e a soffocarne il focolaio, basterebbe se non altro a dimostrare ch’esse intuiscono chiaramente l’enormità del pericolo che le minaccia. L’incendio acceso nella Russia è di cosí gran mole, e cosí intenso, e cosí durevole, che non può essere per nulla paragonabile con altri analoghi atti che si possono segnalare nella storia. Tumulto dei Ciompi, jacquerie del Medioevo francese, moti anabattisti di Germania, Comune parigina del ’71 sono innocenti fuochi fatui in suo confronto. Il proletariato dei due mondi ha istintivamente preso coscienza della assoluta novità e dell’importanza decisiva dell’esperimento russo. Il suo destino come classe ne dipende: de re sua agitur. Questo spiega la profonda commozione che pervade l’anima della folla lavoratrice dinanzi alla maggior tragedia sociale della storia. Accadde qualche cosa di simile negli spiriti delle medie e colte classi europee di fronte agli avvenimenti della Francia rivoluzionaria che segnavano la riscossa del terzo stato contro gli ordini privilegiati e l’assolutismo monarchico. Perfino nei paesi anglo-sassoni, perfino nella democrazia nord-americana, le masse operaie staccandosi dal corporativismo tradizionale, accennano a gettarsi nella mischia sociale, sventolando ben altre bandiere di lotta e di rivendicazione. Ciò che nel sistema politico antebellico fu per l’Europa borghese la Russia degli zar, sarà domani per l’Europa proletaria la Russia dei Soviet. I popolari(10) I popolari costituiscono un partito politico? (esiste il Partito popolare italiano?) Cosa vogliono i popolari? Quale programma d’azione concreta unitaria propongono essi alla volontà sociale delle masse italiane? La costituzione del Partito popolare ha una grande importanza e un grande significato nella storia della nazione italiana. Con essa il processo di rinnovazione spirituale del popolo italiano, che rinnega e supera il cattolicismo, che evade dal dominio del mito religioso e si crea una cultura e fonda la sua azione storica su motivi umani, su forze reali immanenti e operanti nel seno stesso della società, assume una forma organica, si incarna diffusamente nelle grandi masse. La costituzione del Partito popolare equivale per importanza alla Riforma germanica, è l’esplosione inconscia irresistibile della Riforma italiana. Il Partito popolare non è nato dal nulla, per un atto taumaturgico del dio degli eserciti. Accanto alle istituzioni religiose del cattolicismo erano venute nascendo, da qualche decina di anni, numerosissime istituzioni di carattere meramente terreno, proponentisi fini meramente materiali. Esiste in Italia una fitta rete di scuole fiorentissime, di mutue, di cooperative, di piccole banche di credito agrario, di corporazioni di mestiere, gestite da cattolici, controllate, direttamente e indirettamente, dalla gerarchia ecclesiastica. Il cattolicismo, espulso violentemente dalle pubbliche cose, privato di ogni influsso diretto nella gestione dello Stato, si rifugiò nelle campagne, si incarnò negli interessi locali e nella piccola attività sociale di quella parte della massa popolare italiana che continuava a vivere, materialmente e spiritualmente, in pieno regime feudale. Si verificò per il cattolicismo un fenomeno per molti aspetti simile a quello verificatosi per gli ebrei: esclusi a ogni diritto di proprietà immobiliare, gli ebrei divennero i piú grandi detentori di valori mobili della cristianità e riuscirono a taglieggiare, con la immensa loro potenza finanziaria, gli Stati confessionali dai quali erano oppressi politicamente e spiritualmente; privati del loro potere pubblico dai liberali, i cattolici oggi, dopo essersi incarnati in una molteplicità di interessi economici locali, si organizzano in un sistema di forze sociali e taglieggiano lo Stato aconfessionale che li aveva oppressi spiritualmente e li aveva espulsi dalla storia della civiltà. Il cattolicismo riappare alla luce della storia, ma quanto modificato, quanto «riformato». Lo spirito si è fatto carne, e carne corruttibile come le forme umane, sottoposta alle stesse leggi storiche di sviluppo e di superamento che sono immanenti nelle istituzioni umane. Il cattolicismo, che si incarnava in una chiusa e rigidamente angusta gerarchia irraggiante dall’alto, dominatrice assoluta e incontrollata delle folle fedeli, diventa la folla stessa, diventa emanazione delle folle, si incarna in una gerarchia che domanda il consenso delle folle, che può essere revocata e distrutta dal capriccio delle folle, incarna la sua sorte nella buona e nella cattiva riuscita dell’azione politica ed economica di uomini che promettono beni terreni, che vogliono guidare alla felicità terrena e non solo, e non piú alla città di Dio. Il cattolicismo entra cosí in concorrenza, non già col liberalismo, non già con lo Stato laico; esso entra in concorrenza col socialismo, esso si pone sullo stesso terreno del socialismo, si rivolge alle masse come il socialismo, e sarà sconfitto, sarà definitivamente espulso dalla storia dal socialismo. I popolari rappresentano una fase necessaria del processo di sviluppo del proletariato italiano verso il comunismo. Essi creano l’associazionismo, creano la solidarietà dove il socialismo non potrebbe farlo, perché mancano le condizioni obbiettive dell’economia capitalista: creano almeno l’aspirazione all’associazionismo e alla solidarietà. Dànno una prima forma al vago smarrimento di una parte delle masse lavoratrici che sentono di essere ingranate in una grande macchina storica che non comprendono, che non riescono a concepire perché non ne hanno l’esempio, il modello nella grande officina moderna che ignorano. Questo smarrimento, questo panico sociale, che è caratteristico dell’attuale periodo, spinge anche gli individui piú arretrati storicamente a uscire dal loro isolamento, a cercare conforto, speranza, fiducia nella comunità, nel sentirsi vicini, nell’aderire fisicamente e spiritualmente ad altri corpi e altre anime interrorite. Come potrebbe, per quali vie potrebbe la concezione socialista del mondo dare una forma a questo tumulto, a questo brulichío di forze elementari? Il cattolicismo democratico fa ciò che il socialismo non potrebbe: amalgama, ordina, vivifica e si suicida. Assunta una forma, diventate una potenza reale, queste folle si saldano con le masse socialiste consapevoli, ne diventano la continuazione normale. Ciò che sarebbe stato impossibile per gli individui, diventa possibile per le vaste formazioni. Diventati società, acquistata coscienza della loro forza reale, questi individui comprenderanno la superiorità del motto socialista: «l’emancipazione del proletariato sarà opera del proletariato stesso», e vorranno far da sé, e svolgeranno da se stessi le proprie forze e non vorranno piú intermediari, non vorranno piú pastori per autorità, ma comprenderanno di muoversi per impulso proprio: diventeranno uomini, nel senso moderno della parola, uomini che attingono nella propria coscienza i princípi della propria azione, uomini che spezzano gli idoli, che decapitano Dio. Perciò non fa paura ai socialisti l’avanzata impetuosa dei popolari, non fa paura il nuovo partito che ai sessanta mila tesserati del Partito socialista contrappone i suoi seicento mila tesserati. I popolari stanno ai socialisti come Kerenski a Lenin; la XXV legislatura del Parlamento italiano vedrà la disfatta delle rapide formazioni politiche basate sulla impulsiva fame di potere dei contadini, come la vide la Costituzione della Repubblica democratica russa. Il primo passo(11) - Avete «valorizzato» i crumiri, avete dato lo stesso potere agli organizzati e ai disorganizzati... - I commissari di reparto hanno iniziato nelle officine un’opera di «repulisti» che non sarà senza risultati decisivi nella creazione di un nuovo costume operaio, nella creazione di una piú stretta solidarietà tra i lavoratori; i commissari di reparto controllano tutta la massa d’officina; non è piú possibile nessun imboscamento per i miserabili che negano le quote di solidarietà negli scioperi, per i traditori della classe che seminano lo sconforto nella massa, che fanno propaganda antiproletaria, che, nei momenti di maggior tensione, cercano spezzare la compagine operaia. Oggi ci sono occhi per vedere, volontà per agire; e i commissari dànno fuoco alle code di paglia delle volpicelle piú astute e piú subdole. Per i disorganizzati... è probabile che tra breve non ci siano piú disorganizzati nelle officine torinesi; le domande di ammissione nella federazione affluiscono. I commissari hanno, tra l’altro, un interesse... personale a organizzare tutti gli operai della loro industria; essi vogliono dimostrare che l’istituto operaio che si incarna oggi nelle loro persone e nelle loro volontà non è tale da ottundere lo spirito di sacrificio delle masse, ma anzi è appunto il piú idoneo a suscitare fede ed entusiasmo tra i lavoratori. Mai le organizzazioni hanno avuto maggior numero di propagandisti instancabili ed efficaci. Le organizzazioni erano giunte a un punto morto del loro processo di sviluppo; erano pletoriche, nel senso che la massa degli organizzati era ridotta all’impossibilità assoluta di partecipare in un qualsiasi modo alla vita del suo sindacato, alla sua vita. Un giorno... si scoprirà che l’istituto del Consiglio di fabbrica era fatale nel processo di sviluppo del sindacato, poiché il processo di incremento quantitativo diventa, in una sua fase, processo qualitativo, determina mutamenti di forma. Allora si dirà che nell’Ordine Nuovo si era incarnato il dito divino, la volontà cieca del destino... - Ma voi fate del piemontesimo, del regionalismo, siete campanilisti, non internazionalisti... - L’Internazionale vive anche a Torino, anche nel Piemonte; per fare è necessario incominciare. In Russia il Consiglio di fabbrica ha iniziato la sua esistenza a Sestroretz, prima di diventare istituto della classe lavoratrice russa e diventare la base delle esperienze proletarie che hanno culminato nello Stato dei Soviet. In Italia l’esistenza del Consiglio ha incominciato a Torino, nell’industria metallurgica; è un particolare che nell’avvenire sarà ricordato dagli eruditi. Gli operai torinesi non ambiscono a nessun primato, a nessun brevetto, a nessuna medaglia commemorativa. Da buoni internazionalisti, ambiscono al lavoro concreto rivoluzionario; e nessuno potrà mai convincerli che, se è necessario ancora molto lavorare e molto sacrificarsi e molto chiarire e molto migliorare, non perciò si è fatto meno un passo in avanti; la prima rottura, il primo passo ha pure la sua importanza, e gli operai torinesi l’hanno fatto. Sindacalismo e Consigli(12) Siamo noi sindacalisti? Il movimento, iniziatosi a Torino, dei commissari di reparto, è nient’altro che l’ennesima incarnazione localistica della teoria sindacalista? È davvero esso il piccolo turbo che preannunzia le devastazioni del ciclone sindacalista marca indigena, di quel conglomerato di demagogia, di enfatico verbalismo pseudorivoluzionario, di spirito indisciplinato e irresponsabile, di maniaco esagitarsi di pochi individui dall’intelligenza limitata (poco cervello e molta gola) che sono finora riusciti, qualche volta, a saccheggiare la volontà delle masse, il quale rimarrà negli annali del movimento operaio italiano contrassegnato dalla etichetta: sindacalismo italiano? La teoria sindacalista ha completamente fallito nell’esperienza concreta delle rivoluzioni proletarie. I sindacati hanno dimostrato la loro organica incapacità a incarnare la dittatura proletaria. Lo sviluppo normale del sindacato è segnato da una linea di decadenza dello spirito rivoluzionario delle masse: aumenta la forza materiale, illanguidisce o svanisce del tutto lo spirito di conquista, si fiacca lo slancio vitale, all’intransigenza eroica succede la pratica dell’opportunismo, la pratica «del pane e del burro». L’incremento quantitativo determina un impoverimento qualitativo e un facile accomodarsi nelle forme sociali capitalistiche, determina il sorgere di una psicologia operaia pidocchiosa, angusta, da piccola e media borghesia. Eppure compito elementare del sindacato è quello di reclutare «tutta» la massa, è quello di assorbire nei suoi quadri tutti i lavoratori dell’industria e dell’agricoltura. Il mezzo non è dunque idoneo al fine, e poiché il mezzo non è che un momento del fine che si realizza, che si fa, si deve concludere che il sindacalismo non è mezzo alla rivoluzione, non è un momento della rivoluzione proletaria, non è la rivoluzione che si realizza, che si fa: il sindacalismo non è rivoluzionario che per la possibilità grammaticale di accoppiare le due espressioni. Il sindacalismo si è rivelato nient’altro che una forma della società capitalistica, non un potenziale superamento della società capitalistica. Esso organizza gli operai non come produttori, ma come salariati, cioè come creature del regime capitalistico di proprietà privata, come venditori della merce lavoro. Il sindacalismo unisce gli operai secondo lo strumento di lavoro o secondo la materia da trasformare, cioè il sindacalismo unisce gli operai a seconda della forma che loro imprime il regime capitalista, il regime dell’individualismo economico. Il servirsi di uno strumento di lavoro piuttosto che di un altro, il modificare una determinata materia piuttosto che un’altra, rivela capacità e attitudini disparate alla fatica e al guadagno; l’operaio si fissa in questa sua capacità e in questa sua attitudine e la concepisce non come un momento della produzione, ma come un puro mezzo di guadagno. Il sindacato di mestiere o di industria, unendolo con i suoi compagni di quel mestiere o di quell’industria, con quelli che nel lavoro usano il suo stesso strumento o che trasformano la stessa materia che egli trasforma, contribuisce a rinsaldare questa psicologia, contribuisce ad allontanarlo sempre piú da un suo possibile concepirsi come produttore, e lo porta a considerarsi «merce» di un mercato nazionale e internazionale che stabilisce, col gioco della concorrenza, il proprio prezzo, il proprio valore. L’operaio può concepire se stesso come produttore, solo se concepisce se stesso come parte inscindibile di tutto il sistema di lavoro che si riassume nell’oggetto fabbricato, solo se vive l’unità del processo industriale che domanda la collaborazione del manovale, del qualificato, dell’impiegato di amministrazione, dell’ingegnere, del direttore tecnico. L’operaio può concepire se stesso come produttore se, dopo essersi inserito psicologicamente nel particolare processo produttivo di una determinata officina (per es. a Torino, di una officina automobilistica) e dopo essersi pensato come un momento necessario e insopprimibile dell’attività di un complesso sociale che produce l’automobile, supera questa fase e vede tutta l’attività torinese dell’industria produttrice di automobili, e concepisce Torino come una unità di produzione che è caratterizzata dall’automobile e concepisce una grande parte dell’attività generale del lavoro torinese come esistente e sviluppantesi solo perché esiste e si sviluppa l’industria dell’automobile, e quindi concepisce i lavoratori di queste molteplici attività generali come anch’essi produttori della industria dell’automobile, perché creatori delle condizioni necessarie e sufficienti per la esistenza di questa industria. Muovendo da questa cellula, la fabbrica, vista come unità, come atto creatore di un determinato prodotto, l’operaio assurge alla comprensione di sempre piú vaste unità, fino alla nazione, che è nel suo insieme un gigantesco apparato di produzione, caratterizzato dalle sue esportazioni, dalla somma di ricchezza che scambia con una equivalente somma di ricchezza confluente da ogni parte del mondo, dai molteplici altri giganteschi apparati di produzione in cui si distingue il mondo. Allora l’operaio è produttore, perché ha acquistato coscienza della sua funzione nel processo produttivo, in tutti i suoi gradi, dalla fabbrica alla nazione, al mondo; allora egli sente la classe, e diventa comunista, perché la proprietà privata non è funzione della produttività, e diventa rivoluzionario perché concepisce il capitalista, il privato proprietario, come un punto morto, come un ingombro, che bisogna eliminare. Allora concepisce lo «Stato», concepisce una organizzazione complessa della società, una forma concreta della società, perché essa non è che la forma del gigantesco apparato di produzione che riflette, con tutti i rapporti e le relazioni e le funzioni nuove e superiori domandate dalla sua immane grandezza, la vita dell’officina, che rappresenta il complesso, armonizzato e gerarchizzato, delle condizioni necessarie perché la sua industria, perché la sua officina, perché la sua personalità di produttore viva e si sviluppi. La pratica italiana del sindacalismo pseudorivoluzionario è negata dal movimento torinese dei commissari di reparto cosí come la pratica del sindacalismo riformista: è negata in doppio grado, poiché il sindacalismo riformista rappresenta il superamento del sindacalismo pseudorivoluzionario. Infatti, se il sindacato può solo dare agli operai «pane e burro», se il sindacato può solo, in regime borghese, assicurare uno stabile mercato dei salari e può eliminare alcune delle alee piú pericolose per l’integrità fisica e morale dell’operaio, è evidente che la pratica riformista meglio di quella pseudo-rivoluzionaria ha ottenuto questi risultati. Se a uno strumento si domanda piú di quanto può dare, se si fa credere che uno strumento possa dare di piú di quanto la sua natura consente, si commettono solo spropositi, si esplica un’azione puramente demagogica. I sindacalisti pseudo-rivoluzionari d’Italia sono condotti spesso a discutere se non convenga fare del sindacato (per esempio, del sindacato ferroviario) un cerchio chiuso, comprendente solo i «rivoluzionari», la minoranza audace che trascini le masse fredde e indifferenti; essi cioè sono condotti a rinnegare il principio elementare del sindacalismo, l’organizzazione di tutta la massa. Perché intimamente e inconsapevolmente intuiscono l’inanità della «loro» propaganda, l’incapacità del sindacato a dare una forma concretamente rivoluzionaria alla coscienza dell’operaio. Perché non si sono mai prospettati con chiarezza e precisione il problema della rivoluzione proletaria, perché, essi, i seguaci della teoria dei «produttori» non hanno mai avuto coscienza di produttori; essi sono dei demagoghi, non dei rivoluzionari, degli agitatori di... sangue messo in tumulto dal fuoco fatuo dei discorsi, non degli educatori, non dei formatori di coscienze. Il movimento dei commissari sarebbe nato e si svilupperebbe solo per sostituire Borghi a Buozzi o a D’Aragona? Il movimento dei commissari è la negazione di ogni forma di individualismi e di personalismi. Esso è l’inizio di un grande processo storico, nel quale la massa lavoratrice acquista coscienza della sua inscindibile unità basata sulla produzione, basata sull’atto concreto del lavoro, e dà una forma organica a questa sua coscienza, costruendosi una gerarchia, esprimendo questa gerarchia dalla sua intimità piú profonda, perché essa sia se stessa come volontà consapevole di un preciso fine da raggiungere, di un grande processo storico che irresistibilmente, nonostante gli errori che individui possono commettere, nonostante le crisi che le condizioni nazionali e internazionali possono determinare, irresistibilmente culminerà nella dittatura proletaria, nell’Internazionale comunista. La teoria sindacalista non ha mai espresso una simile concezione del produttore e del processo di sviluppo storico della società dei produttori; non ha mai indicato che all’organizzazione dei lavoratori si dovesse imprimere questa direzione e questo senso. Ha teorizzato una particolare forma dell’organizzazione, il sindacato di mestiere e di industria, e ha costruito, sí, su una realtà, ma su una realtà che aveva una forma impressa dal regime capitalistico di libera concorrenza della proprietà privata della forza-lavoro; ha costruito quindi solo una utopia, un gran castello di astrazioni. La concezione del sistema dei Consigli, fondato sulla potenza della massa lavoratrice organizzata per sede di lavoro, per unità di produzione, trae le sue origini dalle esperienze storiche concrete del proletariato russo, è il risultato dello sforzo teorico dei compagni comunisti russi, non sindacalisti, ma socialisti rivoluzionari. I rivoluzionari e le elezioni(13) Cosa attendono dalle elezioni i rivoluzionari consapevoli, gli operai e contadini che giudicano il Parlamento dei deputati eletti a suffragio universale (dagli sfruttatori e dagli sfruttati) e secondo circoscrizioni territoriali, come la maschera della dittatura borghese? Non attendono certo la conquista della metà piú uno dei seggi e una legislatura che sia caratterizzata da una serqua di decreti e di leggi che tendono a smussare gli angoli e a rendere piú facile e piú comoda la convivenza delle due classi, quella degli sfruttatori e quella degli sfruttati. Attendono invece che lo sforzo elettorale del proletariato riesca a far entrare in Parlamento un buon nerbo di militanti del Partito socialista, e che esso sia abbastanza numeroso e agguerrito per rendere impossibile a ogni leader della borghesia di costituire un governo stabile e forte, per costringere quindi la borghesia a uscire dall’equivoco democratico, a uscire dalla legalità e determinare una sollevazione degli strati piú profondi e vasti della classe lavoratrice contro l’oligarchia degli sfruttatori. I rivoluzionari consapevoli, gli operai e contadini che sono ormai persuasi che la rivoluzione comunista avverrà solo attraverso la dittatura proletaria incarnantesi in un sistema di Consigli operai e contadini, hanno lottato per mandare molti deputati socialisti nel Parlamento, perché hanno ragionato in questo modo: La rivoluzione comunista non può essere realizzata con un colpo di mano. Se anche una minoranza rivoluzionaria riuscisse, con la violenza, a impadronirsi del potere, questa minoranza sarebbe il giorno dopo rovesciata dal colpo di ritorno delle forze mercenarie del capitalismo, perché la maggioranza non assorbita lascerebbe massacrare il fiore della potenza rivoluzionaria, lascerebbe straripare tutte le cattive passioni e le barbarie suscitate dalla corruzione e dall’oro capitalistico. È necessario dunque che l’avanguardia proletaria organizzi materialmente e spiritualmente questa maggioranza di ignavi e di torpidi, è necessario che l’avanguardia rivoluzionaria susciti, coi suoi mezzi e i suoi sistemi, le condizioni materiali e spirituali in cui la classe proprietaria non riesca piú a governare pacificamente le grandi masse di uomini, ma sia costretta, per la intransigenza dei deputati socialisti controllati e disciplinati dal partito, a interrorire le grandi masse, a colpire ciecamente e a farle rivoltare. Un fine di tal genere può solo essere perseguito oggi attraverso l’azione parlamentare, intesa come azione che tende a immobilizzare il Parlamento, a strappare la maschera democratica dalla faccia equivoca della dittatura borghese e farla vedere in tutto il suo orrore e la sua bruttezza ripugnante. La rivoluzione comunista è una necessità in Italia piú per ragioni internazionali che per ragioni inerenti al processo di sviluppo dell’apparato di produzione nazionale. I riformisti e tutta la banda degli opportunisti hanno ragione quando dicono che in Italia non esistono le condizioni obbiettive della rivoluzione: essi hanno ragione in quanto pensano e parlano da nazionalisti, in quanto concepiscono l’Italia come un organismo indipendente dal resto del mondo, e concepiscono il capitalismo italiano come un fenomeno puramente italiano. Essi non concepiscono l’internazionalismo come realtà vivente e operante nella storia tanto del capitalismo quanto del proletariato. Ma se invece si concepisce la realtà italiana come inserita in un sistema internazionale, come dipendente da questo sistema internazionale, allora il giudizio storico cambia e la conclusione pratica cui deve giungere ogni socialista consapevole, ogni operaio e contadino che senta la responsabilità della missione rivoluzionaria della sua classe, è questa: bisogna essere preparati, bisogna essere armati per la conquista del potere sociale. Il fatto che la rivoluzione è imposta dalle condizioni del sistema internazionale capitalistico rende piú complicato e difficile il compito dell’avanguardia rivoluzionaria italiana, ma queste complicazioni e queste difficoltà devono spingere a meglio essere agguerriti e preparati, non devono spingere all’illusione e allo scetticismo. Appunto: la rivoluzione trova le grandi masse popolari italiane ancora informi, ancora polverizzate in un brulichío animalesco di individui senza disciplina e senza cultura, ubbidienti solo agli stimoli del ventre e delle passioni barbariche. Appunto perciò i rivoluzionari consapevoli hanno accettato la lotta elettorale: per creare una unità e una forma primordiale in questa moltitudine, per legarla con un vincolo all’azione del Partito socialista, per dare un senso e un barlume di coscienza politica ai suoi istinti e alle sue passioni. Ma anche perciò la avanguardia rivoluzionaria non vuole che queste moltitudini siano illuse, che si faccia loro credere che sia possibile superare la crisi attuale con l’azione parlamentare, con l’azione riformistica. È necessario incrudire il distacco delle classi, è necessario che la borghesia dimostri la sua assoluta incapacità a soddisfare i bisogni delle moltitudini, è necessario che queste si persuadano sperimentalmente che sussiste un dilemma netto e crudo: o la morte per fame, la schiavitú di un tallone straniero sulla nuca che costringa l’operaio e il contadino a crepare sulla macchina e sulla zolla di terra, o uno sforzo eroico, uno sforzo sovrumano degli operai e contadini italiani per creare un ordine proletario, per sopprimere la classe proprietaria ed eliminare ogni ragione di sperpero, di improduttività, di indisciplina, di disordine. Solo per questi motivi rivoluzionari l’avanguardia cosciente del proletariato italiano è scesa nella lizza elettorale, si è solidamente piantata nella fiera parlamentare. Non per un’illusione democratica, non per un intenerimento riformista: per creare le condizioni del trionfo del proletariato, per assicurare la buona riuscita dello sforzo rivoluzionario che è diretto a instaurare la dittatura proletaria incarnantesi nel sistema dei Consigli, fuori e contro il Parlamento. I risultati che attendiamo(14) L’Italia è entrata in guerra per la volontà pervicace di un pugno di facinorosi e di avventurieri. Ma costoro non sono stati che l’espressione vivente di una situazione storica generale. L’Italia era attanagliata dalla necessità capitalistica europea: la sua vita era una vita di riflesso, in economia e in politica. I partiti politici non nascevano da condizioni inerenti alla struttura dell’apparato di produzione industriale e agricola della nazione. I partiti politici nascevano piuttosto dalla necessità di sistemare la posizione dell’Italia nell’internazionale capitalista, e la loro azione era rivolta a costringere l’apparato nazionale di produzione nella forma imposta dagli imperialismi economici stranieri. Da queste condizioni morbose di vita economico-politica è stata determinata la fortuna del pugno di facinorosi e di avventurieri che precipitò l’Italia in guerra. Durante la guerra si è verificata, nel corpo sociale della popolazione italiana, una serie di fenomeni di una gravità e una portata storica eccezionali. Le forze politiche organizzate, che dominavano e imprimevano una forma alla società italiana, hanno subíto un processo di disintegrazione totale, hanno perduto ogni contatto gerarchico con le masse. E le masse sono entrate in movimento. Premute, tiranneggiate, sfruttate, affamate dalla implacabile macchina dello Stato borghese, le masse hanno acquistato un senso e una direzione. L’individualismo animalesco, proprio delle popolazioni arretrate e senza cultura, è morto. Gli uomini si sono aggruppati, l’umanità italiana è diventata società, finalmente. Ma qual è il senso e la direzione delle masse? È un solo senso e una sola direzione, cosciente in tutto il corpo sociale, o è solo ancora una molteplicità di movimenti incomposti di chi cerca se stesso, di chi sente la propria inorganicità e cerca diventare un organismo unitario, una compattezza, una disciplina? Ecco uno dei risultati che i socialisti attendono dalle elezioni, e non dei meno importanti. Ed ecco perché i socialisti consapevoli del processo di sviluppo della rivoluzione hanno voluto che il partito partecipasse attivamente alle elezioni. Una delle condizioni di trionfo della rivoluzione è l’organicità unitaria e accentrata della psicologia popolare, è quindi l’esistenza della società umana con una sua configurazione reale e precisa. Era necessario un avvenimento prerivoluzionario che facesse convergere simultaneamente l’attenzione delle folle sugli stessi problemi e sulle soluzioni che di questi problemi propongono le varie correnti politiche. Era necessario che la classe dirigente da una parte e le moltitudini dall’altra fossero costrette ad assumere una fisonomia, a uscire dall’indistinto generico e tumultuoso prodotto della guerra, a distinguersi, a differenziarsi in tendenze e in correnti unitarie. Le elezioni daranno una prima risposta a queste attese. Da questo punto di vista esse hanno una importanza storica di prim’ordine, esse segnano una svolta decisiva nella vita del popolo italiano, perché riveleranno all’uomo politico il senso e la direzione delle masse e perché reagiranno sulle masse stesse, dando loro consapevolezza unitaria del loro essere e del movimento d’insieme. La rivoluzione uscirà indubbiamente rinforzata dalle elezioni. Questo risultato è interdipendente col primo. Il Partito socialista si rivelerà l’unico partito storico panitaliano. La guerra ha livellato l’Italia; ha sottoposto tutta la popolazione italiana allo stesso sfruttamento iniquo e spietato. Il socialismo è invocato da tutte le masse italiane come il salvatore, come il liberatore. Si può affermare che la stragrande maggioranza dei deputati saranno stati eletti in quanto avranno detto di essere socialisti anche loro, anzi di essere i «veri» socialisti, i socialisti «migliori». Cattolici, riformisti, ex combattenti democratici, tutta la ventraia degli aspiranti a direttori politici e spirituali della nazione, hanno cercato di conformarsi a questa incoercibile aspirazione delle masse, hanno promesso, hanno millantato, hanno esagerato; tutti questi avventurieri, tutte queste mosche cocchiere del carrozzone capitalistico, hanno abusato delle condizioni arretrate di cultura delle masse italiane, dell’assenza di spirito critico, del facile entusiasmo che suscitano ancora l’enfasi e la fraseologia demagogica. L’opera del Partito socialista italiano sarà nettamente tracciata dal risultato delle elezioni. Bisogna legare con vincoli piú stretti e piú forti le masse al partito. Bisogna diffondere sempre piú la convinzione rivoluzionaria che i proletari stessi possono e devono essere gli artefici della loro emancipazione. Bisogna distruggere implacabilmente i residui di cretinismo parlamentare, le illusioni riformistiche e opportunistiche. Bisogna dire incessantemente la verità, mettere le masse dinanzi al crudo ed atroce sogghigno della morte che le attende se non si organizzano, se non si uniscono materialmente e spiritualmente per esprimere dalla loro piú intima e originale ragione di essere nella storia, il lavoro, l’impalcatura organica dello Stato degli operai e contadini, nel quale stringersi e disciplinarsi ferreamente per eliminare lo sfruttamento capitalista, per ristorare l’ordine nella società dissoluta e imbarbarita dalla guerra imperialista. Le elezioni(15) I risultati della lotta elettorale non modificano solo radicalmente i rapporti di forza politica (demagogica) tra il Partito socialista, il partito degli operai e contadini, e i vari partiti delle casseforti; essi modificheranno indubbiamente anche i rapporti di forza tra le istituzioni in cui si incarna la lotta di classe, in cui si incarna oggi il processo di sviluppo della rivoluzione proletaria. Questo aspetto del problema politico nel momento attuale deve specialmente attrarre l’attenzione degli operai d’avanguardia, dei rivoluzionari piú consapevoli e responsabili. Il problema essenziale della rivoluzione è problema di rapporti di forza tra istituzioni: ma prima che tra istituzioni proletarie e istituzioni borghesi, è problema di forza tra le varie istituzioni stesse del proletariato. Il costituirsi di un gruppo di centocinquanta deputati socialisti incomincia con lo spostare dai sindacati al Parlamento l’azione di resistenza delle masse operaie e contadine. I sindacati ne vengono svalutati come strumento della lotta di classe, e quindi perderanno una gran parte del loro prestigio e della loro forza d’attrazione. Se gli operai d’avanguardia non resisteranno a questo reagente dissolutore, uno degli strumenti tecnicamente piú importanti della rivoluzione comunista sarà spezzato. Potrà invece avvenire una sopravvalutazione degli uomini che oggi dirigono i sindacati, le federazioni, la Confederazione del lavoro, le cooperative, per la costituzione di Consigli nazionali, o parlamenti del lavoro, o commissioni tecniche ecc. ecc. La massa elettorale ha votato i socialisti perché si aspetta che il gruppo parlamentare risolva i problemi piú urgenti e piú assillanti del dopoguerra. I leaders della Confederazione non verificheranno i poteri parlamentari, non domanderanno se alle elezioni hanno solo partecipato gli operai e i contadini organizzati, come fanno per i Consigli di fabbrica, i leaders sindacalisti sono per la democrazia borghese, non per la democrazia operaia; essi cercheranno in tutti i modi di rivolgere la forza parlamentare a favore dell’azione sindacale, anzi di sostituire l’una all’altra, e passare cosí di vittoria in vittoria. Lo stesso passaggio di potere potrebbe avvenire dalla direzione del partito al gruppo parlamentare. La direzione rappresenta solo i tesserati del partito; il gruppo rappresenterà qualche milione di elettori, e automaticamente sarà portato, non solo nella sua parte riformista e centrista (che poi si rivelerà la maggioranza del gruppo stesso) ma anche in moltissimi elementi della parte rivoluzionaria, a sopravvalutare i problemi contingenti di risoluzione immediata. La volontà di conservare l’unione tra le tendenze e le istituzioni del movimento politico ed economico del proletariato, può condurre a compromessi deleteri per la compagine rivoluzionaria del proletariato. Per la volontà popolare, il Partito socialista è diventato partito di governo. Le masse aspettano dal partito una azione positiva di realizzazione. Il processo rivoluzionario è giunto a una fase critica, decisiva. Il partito deve superare i conflitti che vanno profilandosi nel movimento socialista e proletario. Deve superarli organicamente, non con patti e promesse: essi sono nella realtà, risultano incoercibilmente dalle condizioni obbiettive e psicologiche delle masse popolari italiane, non possono essere composti, quindi, giuridicamente, sulla carta o sulle parole degli uomini di buona volontà. Le masse popolari hanno votato i socialisti perché vogliono un governo di socialisti, perché vogliono che un governo socialista rivolga a loro vantaggio l’apparato amministrativo, giudiziario, militare e d’approvvigionamento dello Stato. Bisogna convincere queste masse che la risoluzione dei problemi tremendi del periodo attuale non è possibile fino a quando lo Stato è fondato sulla proprietà privata e sulla proprietà nazionale-burocratica, fino a quando la produzione industriale e agricola è fondata sulla iniziativa individuale, concorrentista, dei capitalisti e dei grandi proprietari terrieri. Bisogna convincerle che la soluzione radicale deve essere cercata dalle masse stesse, organizzate in modo idoneo per costituire un apparato di potere sociale, per costituire l’apparato dello Stato operaio e contadino, dello Stato dei produttori. Ma non deve essere una convinzione astratta, una convinzione inerte. Il partito deve indicare un lavoro positivo, un lavoro di ricostruzione: il partito deve dare l’impulso perché i Consigli operai e contadini diventino carne e ossa e non rimangano morte parole di una risoluzione di congresso. Solo attuando energicamente la costituzione dei Consigli, il partito riuscirà a superare i conflitti che oggi si profilano minacciosi. Le masse verranno inquadrate organicamente, e si otterrà: 1) di rompere l’incanto parlamentaristico; 2) di liberare i compagni deputati da quel complesso di pressioni dirette e indirette che li imprigionerebbe e li costringerebbe, con la morte nell’anima, a prendere troppo sul serio la carica di cui li ha investiti la sovranità popolare. Il controllo sulle masse rimarrà invece al partito, che nei Consigli otterrà indubbiamente la maggioranza dei mandati per i suoi iscritti e per i suoi simpatizzanti. I sindacati potranno diventare finalmente organi tecnici per la riorganizzazione dell’apparato industriale e agricolo, e finiranno di essere un partito nel partito, di fare una loro politica nella politica del partito. Il gruppo parlamentare, con l’imponenza della sua forza, deve lottare per ottenere: 1) che siano disarmati i sicari delle casseforti; 2) che siano fondate le condizioni sufficienti e necessarie in cui la classe dei produttori possa costruire l’apparato del suo potere sociale, possa costruire gli organismi di amministrazione del capitale nazionale, coi suoi metodi e per i suoi fini. Il problema del potere(16) La posizione storica attualmente raggiunta dalla classe italiana degli sfruttati si riassume in questi termini generali: Ordine pubblico. Uno schieramento di circa tre milioni e mezzo di operai, contadini e impiegati, corrispondenti a circa quindici milioni della popolazione italiana, rappresentato in Parlamento da centocinquantacinque deputati socialisti. Nell’ordine politico la classe italiana dei produttori che non posseggono gli strumenti di lavoro e i mezzi di produzione e di scambio dell’apparato economico nazionale, è riuscita ad attuare una concentrazione di forze che pone un termine alla funzionalità del Parlamento come base del potere statale, come forma costituzionale del governo politico; la classe italiana degli sfruttati è riuscita quindi a infliggere un colpo tremendo all’apparato politico della supremazia capitalistica, che si fonda sulla circolazione dei partiti conservatori e democratici, sull’alternarsi, al governo, delle varie ditte politiche che verniciano di colori svariati il brigantaggio capitalistico, il dominio delle casseforti. Ordine economico. Il movimento corporativo nelle sue varie tendenze: il movimento degli operai industriali d’avanguardia perché salariati dell’industria moderna piú progredita, e degli operai agricoli delle zone a coltura intensiva, che si concentra nella Confederazione generale del lavoro; il movimento degli operai industrialmente arretrati, quindi eternamente inquieti e indisciplinati, che all’azione concreta permanente rivoluzionaria sostituiscono la fraseologia rivoluzionaria, e si accampa sotto le tende nomadi dell’Unione sindacale italiana; il Sindacato dei ferrovieri, massa amorfa di operai industriali di avanguardia, di impiegati piccolo-borghesi, di tecnici menefreghisti, e di una somma incerta e indistinta di stipendiati e salariati, attaccata alla retribuzione di Stato come solo può esserlo il piccolo borghese e il piccolo contadino italiano; i sindacati cattolici di contadini; essi stanno ai lavoratori della terra confederati nello stesso rapporto degli operai dell’Unione sindacale agli operai confederati: masse di elementi proletari arretrati, che introducono nel sindacalismo principi estranei o contraddittori (la religione; la vaga e caotica aspirazione libertaria); leghe di contadini e Camere del lavoro sparse qua e là in tutta l’Italia, ma specialmente nell’Italia meridionale e nelle isole; esse sono una caratteristica della mancanza di coesione dell’apparato economico e politico nazionale; sono nate per spinta individuale, e vivacchiano alla giornata, esaurendo la loro attività in movimenti caotici e senza indirizzo permanente concreto; leghe proletarie dei mutilati e reduci di guerra, associazioni libere di reduci ed ex combattenti; rappresentano il primo, grandioso tentativo di organizzazione delle masse contadine; il movimento corporativo, in queste sue varie tendenze e forme, ha concentrato una massa di almeno sei milioni di lavoratori italiani (corrispondenti a circa venticinque milioni della popolazione nazionale) e ha determinato la sparizione dal campo economico del «libero» lavoratore, ha determinato cioè la paralisi del mercato capitalistico del lavoro. La conquista delle otto ore e dei minimi di salario sono dipendenti da queste condizioni generali del mercato del lavoro. L’ordine capitalistico di produzione ne è stato profondamente turbato, la «libertà» di sfruttamento, la libertà di prelevare plusvalore dalla forza-lavoro (profitto o rendita al capitalista e al proprietario fondiario, imposte per lo Stato, tributo ai giornali e ai sicari delle casseforti) è stata limitata, è stata sottoposta in modo indiretto, sia pure, al controllo proletario; le basi economiche dell’organizzazione capitalistica, che culmina nell’associazione piú alta del capitalismo, lo Stato parlamentare-burocratico, è stata disgregata, per il sabotaggio della fonte prima della potenza capitalistica: la libertà di prelevare plusvalore. Il trionfo elettorale del Partito socialista, l’invio in Parlamento di centocinquantacinque deputati socialisti che immobilizzano la funzionabilità del Parlamento come forma costituzionale del governo politico, è un semplice riflesso di questo fondamentale e primordiale fenomeno economico, per il quale è stata immobilizzata la funzionabilità del mercato della forza-lavoro come forma costituzionale del governo economico-capitalistico, del potere dei capitalisti sul processo di produzione e di scambio. Gli operai e contadini d’avanguardia hanno intuito che una situazione di questo genere si era venuta formando in Italia durante la guerra e si è consolidata in questo primo periodo post-bellico. Hanno intuito che le conquiste raggiunte possono essere mantenute solo se si procede innanzi; se le otto ore diventano legge degli operai e contadini, diventano «costume» diffuso della società comunista; se i minimi di salario diventano una legge che riconosce agli operai e contadini il diritto di poter soddisfare, col frutto del lavoro, tutte le esigenze di un determinato tenore di vita civile e intellettuale, legge che emani dal potere degli operai e contadini, il quale potere, a sua volta, sia il riflesso politico di un rinnovato ordine del processo di produzione industriale e agricola; se il controllo delle masse coalizzate operaie e contadine sulla scaturigine del potere borghese (la formazione del plusvalore) esce dalla forma attuale, bruta e indistinta, della pressione di massa, della resistenza di massa, per diventare tecnica economica e politica, per incarnarsi in una gerarchia di istituti economici e politici che culminino nello Stato degli operai e contadini, nel governo degli operai e contadini, in un potere centrale degli operai e contadini; se la conquista della terra da parte dei contadini diventa, da semplice possesso dello strumento elementare di lavoro, conquista dei frutti che lo strumento può produrre, e cioè controllo delle forme in cui la merce prodotta circola, e controllo degli organismi economici che rappresentano le tappe di questa circolazione: le banche, le unioni bancarie, le centrali commerciali, la rete dei trasporti ferroviari, fluviali e marittimi. Se uno Stato operaio non assicura ai contadini l’immunità dagli assalti predaci del capitalismo e dell’alta finanza, la guerra sarà pagata attraverso una «grandiosa» rivoluzione agraria condotta dallo Stato borghese e dalle minori organizzazioni capitalistiche: la introduzione delle macchine nell’agricoltura, con l’espropriazione dei contadini e la loro riduzione al rango di operai agricoli salariati, senza esperienza sindacale e quindi piú duramente sfruttati ed espropriati della loro ricchezza di forza-lavoro che non siano gli operai dell’industria urbana. Progredire nella via della rivoluzione fino alla espropriazione degli espropriatori e alla fondazione di uno Stato comunista è interesse immediato dei due ordini piú numerosi della classe dei produttori italiani: significa per gli operai di città conservare le conquiste attuate finora e non vederle travolte in una bancarotta dell’apparato di produzione industriale e in uno scompaginarsi della società fino al disordine e al terrorismo in permanenza, senza sbocco prevedibile; oltre al significare la presa di possesso dell’apparecchio di produzione nazionale per rivolgerlo al fine del benessere e del miglioramento spirituale della classe lavoratrice: significa per i contadini conservare la terra conquistata, ampliare i propri fondi, liberare la terra dai gravami ipotecari e fiscali capitalistici e iniziare la rivoluzione industriale coi metodi e i sistemi comunistici, in stretta collaborazione con gli operai urbani. Gli operai e contadini d’avanguardia hanno intuito queste necessità immanenti nella situazione economica attuale, nell’equilibrio catastrofico delle forze e degli organismi di produzione. E hanno fatto tutto ciò che potevano fare in una società democratica, in una società configurata politicamente; hanno indicato il Partito socialista, che rappresenta le idee e il programma da attuare, come loro naturale gerarchia politica e hanno indicato al partito la via del potere, la via del governo, che si basi costituzionalmente non sul Parlamento eletto a suffragio universale, dagli sfruttati e dagli sfruttatori, ma sul sistema dei Consigli di operai e contadini, che incarnino tanto il governo del potere industriale, quanto il governo del potere politico, che siano cioè strumenti dell’espulsione dei capitalisti dal processo di produzione e strumenti della soppressione della borghesia, come classe dominante da tutte le istituzioni di controllo e di centralizzazione economica della nazione. Il problema concreto immediato del Partito socialista è quindi il problema del potere, è il problema dei modi e delle forme per cui sia possibile organizzare tutta la massa dei lavoratori italiani in una gerarchia che organicamente culmini nel partito, è il problema della costruzione di un apparecchio statale, che nel suo àmbito interno funzioni democraticamente, cioè garantisca a tutte le tendenze anticapitalistiche la libertà e la possibilità di diventare partiti di governo proletario, e verso l’esterno sia come una macchina implacabile che stritoli gli organismi del potere industriale e politico del capitalismo. Esiste la grande massa del popolo lavoratore italiano. Oggi esso si distingue politicamente in due tendenze prevalenti: la massa dei socialisti marxisti e la massa dei socialisti cattolici - e in una molteplicità di tendenze secondarie: la sindacalista-anarchica, quella degli ex combattenti democratico-sociali, e i vari aggruppamenti localistici a tendenze rivoluzionarie. Questa massa rappresenta piú di venticinque milioni della popolazione italiana, cioè una base stabile e sicura dell’apparecchio proletario. Esiste una serie di organismi sindacali e di associazioni semiproletarie, che rappresentano una distinzione di capacità tecnica e politica nella grande massa del popolo lavoratore. Esiste il Partito socialista, e nel partito la tendenza comunista rivoluzionaria, che rappresenta la fase di maturità della consapevolezza storica attuale della massa proletaria. Il problema concreto massimo del momento attuale, per i rivoluzionari, è questo: 1) fissare la grande massa del popolo lavoratore in una configurazione sociale che aderisca al processo di produzione industriale e agricolo (costituzione dei Consigli di fabbrica e di villaggio con diritto al voto a tutti i lavoratori); 2) ottenere che nei Consigli la maggioranza sia rappresentata dai compagni del partito, delle organizzazioni operaie e dai compagni simpatizzanti, ma senza escludere che essa, transitoriamente, nei primi momenti di incertezza e di immaturità possa cadere in mano ai popolari, ai sindacalisti anarchici, ai riformisti, in quanto siano lavoratori salariati e vengano eletti, nella loro sede di lavoro, e in quanto aderiscano allo Stato operaio. Nelle gerarchie superiori urbane e distrettuali (per le campagne), la rappresentanza nel Consiglio urbano o di distretto dovrà essere data, oltre che ai centri di produzione, cioè oltre che alla massa lavoratrice come tale, anche alle sezioni del partito, ai circoli, ai sindacati, alle associazioni proletarie, alle cooperative. La maggioranza socialista sarebbe notevole in questi poteri locali e sarebbe schiacciante nelle grandi città industriali, cioè laddove lo Stato operaio sarà veramente dittatura proletaria (degli operai d’officina) e dovrà superare le difficoltà piú ardue, perché dovrà impadronirsi delle centrali capitalistiche, degli organismi capitalistici che vibrano i loro tentacoli su tutta la nazione. Gli avvenimenti del 2-3 dicembre 1919(17) Piccola borghesia Gli avvenimenti del 2-3 dicembre sono un episodio culminante della lotta delle classi. La lotta non fu tra proletari e capitalisti (questa lotta si svolge organicamente, come lotta per i salari e per gli orari e come lavorío tenace e paziente per la creazione di un apparecchio di governo della produzione e delle masse di uomini che sostituisca l’attuale apparecchio di Stato borghese); fu tra proletari e piccoli e medi borghesi. La lotta è stata, in ultima analisi, per la difesa dello Stato liberale democratico, per la liberazione dello Stato liberale democratico dalle strettoie in cui lo tiene prigioniero una parte della classe borghese, la peggiore, la piú vile, la piú inutile, la piú parassitaria: la piccola e media borghesia, la borghesia «intellettuale» (detta «intellettuale» perché entrata in possesso, attraverso la facile e scorrevole carriera della scuola media, di piccoli e medi titoli di studi generali), la borghesia dei funzionari pubblici padre-figlio, dei bottegai, dei piccoli proprietari industriali e agricoli, commercianti in città, usurai nelle campagne. Questa lotta si è svolta nell’unica forma in cui poteva svolgersi: disordinatamente, tumultuosamente, come una razzia condotta per le strade e per le piazze al fine di liberare le strade e le piazze da una invasione di locuste putride e voraci. Ma questa lotta, indirettamente sia pure, era connessa all’altra lotta, alla superiore lotta di classi tra proletari e capitalisti: la piccola e media borghesia è infatti la barriera di umanità corrotta, dissoluta, putrescente con cui il capitalismo difende il suo potere economico e politico, umanità servile, abietta, umanità di sicari e di lacchè, divenuta oggi la «serva padrona» che vuole prelevare sulla produzione taglie superiori non solo alla massa di salario percepita dalla classe lavoratrice, ma alle stesse taglie prelevate dai capitalisti; espellerla dal campo sociale, come si espelle una volata di locuste da un campo semidistrutto, col ferro e col fuoco, significa alleggerire l’apparato nazionale di produzione e di scambio da una plumbea bardatura che lo soffoca e gli impedisce di funzionare, significa purificare l’ambiente sociale e trovarsi contro l’avversario specifico: la classe dei capitalisti proprietari dei mezzi di produzione e di scambio. La guerra ha messo in valore la piccola e media borghesia. Nella guerra e per la guerra, l’apparecchio capitalistico di governo economico e di governo politico si è militarizzato: la fabbrica è diventata una caserma, la città è diventata una caserma, la nazione è diventata una caserma. Tutte le attività di interesse generale sono state nazionalizzate, burocratizzate, militarizzate. Per attuare questa mostruosa costruzione lo Stato e le minori associazioni capitalistiche fecero la mobilitazione in massa della piccola e media borghesia. Senza che avessero una preparazione culturale e spirituale, decine e decine di migliaia di individui furono fatti affluire dal fondo dei villaggi e delle borgate meridionali, dai retrobottega degli esercizi paterni, dai banchi invano scaldati delle scuole medie e superiori, dalle redazioni dei giornali di ricatto, dalle rigatterie dei sobborghi cittadini, da tutti i ghetti dove marcisce e si decompone la poltroneria, la vigliaccheria, la boria dei frantumi e dei detriti sociali depositati da secoli di servilismo e di dominio degli stranieri e dei preti sulla nazione italiana: e fu loro dato uno stipendio da indispensabili e da insostituibili, e fu loro affidato il governo delle masse di uomini, nelle fabbriche, nelle città, nelle caserme, nelle trincee del fronte [quattordici righe censurate]. Le elezioni parlamentari hanno mostrato che le masse di uomini vogliono essere guidate e governate da socialisti, che le masse di uomini vogliono una costituzione sociale in cui chi non produce, chi non lavora, non mangia. Questi signori, che continuano a prelevare sul reddito della produzione nazionale e sul credito estero dello Stato una taglia di un miliardo al mese, che gridano sui tetti la loro passione nazionalista e si fanno mantenere dalla patria; [due righe censurate] questi signori, interroriti per l’imminente pericolo, hanno organizzato subito il pogrom contro i deputati socialisti. E dalle officine, dai cantieri, dai laboratori, dagli arsenali di tutte le città italiane, subito, come a una parola d’ordine, appunto come succedeva in Russia e in Polonia quando i Cento Neri tentavano scatenare pogroms contro gli ebrei, per annegare in una palude di barbarie e di dissolutezza ogni piccolo anelito di libertà - subito gli operai irruppero nelle vie centrali della città e spazzarono via le locuste piccolo-borghesi, gli organizzatori di pogroms, i professionisti della poltroneria. È stato questo un episodio, in fondo, di «liberalismo». Si era formato un modo di guadagno senza lavoro, senza responsabilità, senza alee; oggi questo modo di guadagno ha anch’esso le sue alee, le sue preoccupazioni, i suoi pericoli. Ipotesi... E se fosse riuscita?... L’ipotesi non è astratta. Nelle grandi città settentrionali, nei giorni dello sciopero, non sono mancati i momenti nei quali anche uomini calmi e temperati avevano la sensazione che da un istante all’altro sarebbero potuti avvenire fatti decisivi, che un incidente qualunque sarebbe stato sufficiente a dare agli eventi tutt’altro corso, ad arrovesciare i termini del rapporto di forza tra autorità e popolo, a far sboccare la sommossa nella rivoluzione. È questo il miglior indice del fatto che viviamo in periodo rivoluzionario: si sente che qualcosa di diverso e di nuovo potrebbe anche avvenire, si aspetta, si interroga l’ignoto, si conta anche un poco sul caso [tre righe censurate]. È vero, la rivolta è fatta per gran parte di elementi imponderabili e la rivolta deve anche contare sul caso, sul gruppo di ragazzacci che vanno al di là dell’intenzione di tutti, sul teppista che due giorni dopo bisognerà forse fucilare perché si sarà dato al saccheggio e alla strage. L’elemento ordinatore è fornito dalla esistenza di gruppi di rivoluzionari nel senso vero della parola, cioè di nuclei di persone che non abbiano paura degli eventi, dell’imprevisto e dell’insperato, che abbiano una volontà e uno scopo preciso, che siano pronti, che siano capaci di far valere questa loro volontà. La sommossa rappresenta il dissolvimento di una forma dell’organismo sociale, la rivoluzione comincia quando, per l’impulso coraggioso dei coscienti e dei capaci, l’organismo sociale si avvia ad acquistare una forma nuova. Il momento, che è puramente negativo, della sommossa, avrà una durata tanto piú lunga quanto maggiore sarà la difficoltà che i gruppi di avanguardia dovranno superare per farsi avanti, per mettersi alla testa, per dare forma organica alle masse che il moto di rivolta ha reso fluide e informi. In Russia questo periodo di transizione è durato, si può dire, otto lunghi mesi, i mesi che corrono tra la rivoluzione di marzo e quella di ottobre, tra la rivoluzione dei piccoli borghesi e quella degli operai e contadini, otto mesi che sono riempiti dagli sforzi dei piccoli borghesi intellettuali per mantenersi alla testa del movimento delle masse sempre piú scontente e sfiduciate dell’opera di questi capi malfidi, otto mesi nei quali i capitalisti e i proprietari di terre cercano con tutti i mezzi, dal sabotaggio della fabbrica alla controrivoluzione militare, di costringere di nuovo entro la vecchia forma di oppressione e di schiavitú la massa umana che il moto di rivolta ha portato alla luce e ha reso attrice della storia, sommovendo i piú profondi strati della società. E in questi mesi la grande maggioranza del popolo si educa a fare la rivoluzione, sente immediatamente, anche prima di averne la convinzione teorica, la necessità di formare gli organi del suo potere, si stacca dai capi democratici e si stringe intorno ai comunisti, costituisce un organismo di controllo e di autogoverno che viene eliminando automaticamente e spogliando di ogni autorità gli organi del vecchio potere, del potere dei padroni, dei generali, dei politicanti e dei traditori. Nell’ottobre 1917 il comitato esecutivo del Congresso dei Soviet, mentre ancora era in piedi il governo di Kerenski, dava ordini che erano eseguiti da masse di operai e contadini ordinati e organizzati in modo ferreo, chiamava sulla piazza e dirigeva i movimenti di reggimenti intieri, di intiere maestranze d’officina inquadrate e armate, era a capo insomma di un apparecchio che agiva con la precisione e la regolarità implacabile di una macchina. Sarebbe assurdo pretendere oggi, in Italia, di non muoversi prima di essere giunti a questo punto, ma bisogna cercare di giungervi attraverso all’esperienza di movimenti come quello del 2 e 3 dicembre e altri simili che indubbiamente succederanno a questo. Questi movimenti debbono servire a spezzare il legame apparentemente legalitario che ancora tiene unita la maggioranza della popolazione nella forma degli istituti borghesi, debbono rendere fluida la massa umana che ancora si adagia, per abitudine o per timore, nel vecchio schema sociale; debbono servire a imporre a tutti il problema di prepararsi a fare la rivoluzione. Non abbiamo avuto e non avremo forse una rivoluzione di marzo che ci apra la via, iniziando il periodo degli sconvolgimenti, dell’incertezza, del contrasto aperto al di fuori dell’orbita legale tra le forze che vogliono dominare il mondo della economia e della politica. La azione parlamentare negativa può e deve sostituire negli effetti questo strappo iniziale. Perciò i movimenti di piazza sono una sua integrazione necessaria... E intanto, bisogna porsi anche il problema cui accennavo prima, il problema del «poi», il problema che ci si sarebbe imposto ieri, se i fatti di Mantova fossero capitati a Milano o a Torino, dove esiste una massa di operai rivoluzionari che è disposta ad andare fino in fondo. È una ipotesi, ma, se siamo dei rivoluzionari, dobbiamo ben fare anche questa ipotesi, che un giorno o l’altro la rivoluzione possa riuscire... Lotta di classe, guerra di contadini Il caso ha voluto che le giornate di sciopero generale e di gravi tumulti in tutta l’Italia superiore o media coincidessero con lo scoppio spontaneo di una insurrezione di popolo in una zona tipica dell’Italia meridionale, nel territorio di Andria. L’attenzione che si è prestata alla insurrezione del proletariato delle città contro quella parte della casta piccolo-borghese che ha acquistato durante la guerra una fisionomia militaristica, e ora non vuol perderla, e contro la polizia, ha deviato gli sguardi da Andria, ha impedito che si desse l’esatto rilievo agli avvenimenti di laggiú, che essi fossero apprezzati nel loro giusto valore. Noi speriamo di poter fornire ai nostri lettori importanti dati di osservazione diretta delle cause e dello svolgimento dei fatti, e ci limitiamo per ora a notare come il caso, facendo coincidere le due sommosse, abbia fornito quasi un modello di ciò che dovrà essere la rivoluzione italiana. Da una parte il proletariato nel senso stretto della parola, cioè gli operai dell’industria e dell’agricoltura industrializzata, dall’altra i contadini poveri: ecco le due ali dell’esercito rivoluzionario. Gli operai di città sono rivoluzionari per educazione, li ha resi tali lo svolgimento della coscienza e la formazione della persona nella fabbrica, cellula dello sfruttamento del lavoro; gli operai di città guardano oggi alla fabbrica come al luogo in cui si deve iniziare la liberazione, al centro di irradiazione del movimento di riscossa: perciò il loro movimento è sano, è forte e sarà vittorioso. Gli operai sono destinati a essere, nella insurrezione cittadina, l’elemento estremo e ordinatore a un tempo, quello che non lascerà che la macchina messa in moto si arresti e la terrà sulla giusta via; essi rappresentano sin d’ora l’intervento nella rivoluzione delle grandi masse, e personificano in modo vivente l’interesse e la volontà delle masse stesse. Nelle campagne dobbiamo contare soprattutto sull’azione e sull’appoggio dei contadini poveri, dei «senza terra». Essi saranno spinti a muoversi dal bisogno di risolvere il problema della vita, come ieri i contadini di Andria, dal bisogno di lottare per il pane, non solo, ma dallo stesso continuo bisogno, dal pericolo sempre incombente della morte per fame o per piombo, saranno obbligati a far pressione sulle altre parti della popolazione agricola, per costringerle a creare anche nelle campagne un organismo di controllo collettivo della produzione. Questo organismo di controllo, il Consiglio dei contadini, pur lasciando sussistere le forme intermedie di appropriazione privata del terreno (piccola proprietà), farà opera di coesione e di trasformazione psicologica e tecnica, sarà la base della vita comune nelle campagne, il centro attraverso il quale gli elementi rivoluzionari potranno far valere in modo continuo e concreto la loro volontà. Oggi bisogna che anche i contadini sappiano quello che vi è da fare, che l’azione loro getti radici profonde e tenaci, aderendo, come quella degli operai, al processo produttivo della ricchezza. Come gli uni guardano alla fabbrica, gli altri debbono incominciare a guardare al campo come alla futura comunità di lavoro. La sommossa di Andria ci dice che il problema è maturo: è il problema, in fondo, di tutto il Mezzogiorno italiano, il problema della effettiva conquista della terra da parte di chi la lavora. Il nostro Partito ha l’obbligo di porselo e di risolverlo. La conquista della terra si prepara oggi con le stesse armi con le quali gli operai preparano la conquista della fabbrica, cioè formando gli organismi che permettano alla massa che lavora di governarsi da sé, sul luogo del suo lavoro. Il movimento degli operai e quello dei contadini confluiscono naturalmente in una sola direzione, nella creazione degli organi del potere proletario. La rivoluzione russa ha trovato appunto la sua forza e la sua salvezza nel fatto che in Russia operai e contadini, partendo da punti opposti, mossi da sentimenti diversi, si trovarono riuniti per uno scopo comune, in una lotta unica, perché entrambi si convinsero alla prova di non potersi liberare dall’oppressione dei padroni, se non dando alla propria organizzazione di conquista una forma che permettesse di eliminare direttamente lo sfruttatore dal campo della produzione. Questa forma fu il Consiglio, fu il Soviet. La lotta di classe e la guerra dei contadini unirono in tal modo le loro sorti in modo inscindibile ed ebbero un esito comune nella costituzione di un organismo direttivo di tutta la vita del paese. Da noi il problema si pone negli stessi termini. L’operaio e il contadino debbono collaborare in modo concreto inquadrando le loro forze in uno stesso organismo. La sommossa li ha trovati uniti, forse per caso, la rivoluzione deve trovarli coscientemente uniti e concordi. Il controllo della fabbrica e la conquista delle terre debbono essere un problema unico. Settentrione e Mezzogiorno debbono compiere insieme lo stesso lavoro, preparare insieme la trasformazione della nazione in comunità produttiva. Deve apparire sempre piú chiaro che soltanto i lavoratori sono oggi in grado di risolvere e in modo «unitario» il problema del Mezzogiorno; il problema della unità che tre generazioni borghesi hanno lasciato insoluto, verrà risolto dagli operai e dai contadini collaboranti in una forma politica comune, nella forma politica nella quale essi riusciranno a organizzare e a rendere vittoriosa la loro dittatura. Il rivoluzionario qualificato(18) La lettera di Lenin al compagno Serrati e ai comunisti italiani ha riscosso un coro di approvazioni entusiastiche. Un malinconico scrittore della Stampa ha trovato immediatamente che Lenin è... un giolittiano; al Congresso della Camera del lavoro di Torino e provincia si è trionfalmente sventolata la lettera di Lenin per convincere i delegati che... non bisogna dare il voto ai disorganizzati nella elezione dei commissari di reparto. A noi la lettera di Lenin ha fatto ricordare una vecchia tesi di Lenin sul rivoluzionario «qualificato». I rivoluzionari devono conoscere la «macchina» della rivoluzione, i rivoluzionari devono conoscere il processo di sviluppo della rivoluzione, i rivoluzionari devono essere uomini politici responsabili e non essere solamente degli agitatori. I comunisti italiani hanno finora brancolato nel buio. Le masse proletarie italiane, come tutte le masse proletarie del mondo, hanno compreso che la «macchina» della rivoluzione è il sistema dei Consigli, hanno compreso che il processo di sviluppo della rivoluzione è segnato dal sorgere dei Consigli, dal coordinarsi e dal sistemarsi dei Consigli: hanno compreso che il processo di sviluppo della rivoluzione è segnato dal fatto che le masse popolari riconoscono nel sistema dei Consigli l’organo di governo delle masse d’uomini e della produzione industriale e agricola e determinano con la loro indifferenza, con questo loro passaggio di psicologia politica, l’atrofia delle forme politiche attuali, la morte storica della democrazia borghese. Il Partito socialista ha aderito alla III Internazionale, ha aderito alla concezione della III Internazionale secondo la quale la lotta di classe, nel periodo attuale, deve incarnarsi nei Consigli e deve essere rivolta alla conquista del potere; ma il Partito socialista non ha neppur tentato di uscire dal dominio delle affermazioni verbali, non ha indicato agli operai e ai contadini la via concreta delle realizzazioni costituzionali. Per la III Internazionale, «fare» la rivoluzione significa «dare» il potere ai Soviet, significa lottare per conquistare la maggioranza comunista nei Soviet; per la III Internazionale essere rivoluzionari significa uscire dal dominio del corporativismo sindacale e del settarismo di partito e vedere il movimento nelle masse umane che cercano una forma, e lavorare affinché questa forma sia il sistema dei Consigli. Finora ben poco si è fatto dai comunisti italiani in questo senso. I comunisti italiani sono «meno» III Internazionale degli indipendenti tedeschi che oggi finalmente hanno riconosciuto la lotta di classe rivoluzionaria poter solo essere combattuta nel seno dei Consigli operai e dover tendere all’instaurazione della dittatura proletaria, che hanno discusso sulla funzione dei sindacati e hanno riconosciuto non potersi dare ai sindacati una missione rivoluzionaria se non... dopo la rivoluzione. I comunisti italiani hanno lavorato poco per diventare «rivoluzionari qualificati»; essi si muovono tra i giganteschi ingranaggi della storia come un campagnolo che visita una grande officina e si avventura, tra lo spavaldo e il «trepido», nel frastuono e nel movimento delle grandi macchine. La lettera di Lenin è la sanzione di una situazione di fatto poco lieta e poco rassicurante: barcolliamo tra la catastrofe e... la Costituente, cioè tra una catastrofe e un’altra catastrofe peggiore, poiché non può immaginarsi nell’Italia la resistenza necessaria per entrare in un periodo indefinito e buio di crisi e di disperazione. La scuola di cultura(19) Il primo corso della scuola di cultura e propaganda socialista ha avuto principio la settimana scorsa, con la prima lezione di teoria e la prima esercitazione pratica, e in modo che non ha mancato di riempirci di soddisfazione. Dal principio ci riteniamo autorizzati a nutrire le migliori speranze per l’esito. Perché negare che alcuni di noi dubitavano? Dubitavamo che, trovandoci appena una o due volte la settimana, stanchi ognuno del proprio lavoro, ci fosse impossibile trovare in tutti quella freschezza senza la quale le menti non possono comunicare, gli animi non possono aderire, e la scuola non può compiersi, come serie di atti educativi vissuti e sentiti in comune. Forse ci rendeva scettici l’esperienza delle scuole borghesi, la tediosa esperienza di allievi, l’esperienza dura di insegnanti: l’ambiente freddo, opaco ad ogni luce, resistente ad ogni sforzo di unificazione ideale, quei giovani uniti in quelle aule non dal desiderio di migliorarsi e di capire, ma dallo scopo, forse non detto eppure chiaro e unico in tutti, di farsi avanti, di conquistarsi un «titolo», di collocare là propria vanità e la propria pigrizia, di ingannar oggi se stessi e gli altri domani. E abbiamo visto intorno a noi, affollati, stretti l’uno all’altro nei banchi scomodi e nello spazio angusto, questi allievi insoliti, per la maggior parte non piú giovani, fuori quindi dell’età in cui l’apprendere è cosa semplice e naturale, tutti poi affaticati da una giornata di officina o di ufficio, seguire con l’attenzione piú intensa il corso della lezione, sforzarsi di segnarlo sulla carta, far sentire in modo concreto che tra chi parla e chi ascolta si è stabilita una corrente vivace di intelligenza e di simpatia. Ciò non sarebbe possibile se in questi operai il desiderio di apprendere non sorgesse da una concezione del mondo che la vita stessa ha loro insegnato e ch’essi sentono il bisogno di chiarire, per possederla completamente, per poterla pienamente attuare. È una unità che preesiste e che l’insegnamento vuole rinsaldare, è una vivente unità che nelle scuole borghesi invano si cerca di creare. La nostra scuola è viva perché voi, operai, portate in essa la miglior parte di voi, quella che la fatica della officina non può fiaccare: la volontà di rendervi migliori. Tutta la superiorità della vostra classe in questo torbido e tempestoso momento, noi la vediamo espressa in questo desiderio che anima una parte sempre piú grande di voi, desiderio di acquistar conoscenza, di diventare capaci, padroni del vostro pensiero e dell’azione vostra, artefici diretti della storia della vostra classe. La nostra scuola continuerà, e porterà i frutti che le sarà possibile: essa è aperta a tutti gli eventi, un caso qualunque potrà allontanare e disperdere domani tutti noi che oggi ci raduniamo attorno ad essa e le comunichiamo e prendiamo da essa un poco del calore, della fede che ci è necessaria per vivere e per lottare; i conti li faremo poi, ma per ora segnamo questo, all’attivo, segnamo questa impressione di fiducia che ci viene dalle prime lezioni, dal primo contatto. Con lo spirito di queste prime lezioni vogliamo andare avanti. Il Partito e la rivoluzione(20) Il Partito socialista, con la sua rete di sezioni (che nei grandi centri industriali sono, alla loro volta, il perno di un compatto e potente sistema di circoli rionali), con le sue federazioni provinciali, saldamente unificate dalle correnti di idee e di attività irraggianti dalle sezioni urbane, coi suoi congressi annuali, che attuano la sovranità piú alta del Partito, esercitata dalla massa degli inscritti attraverso delegazioni ben definite e limitate di potere, congressi convocati sempre per discutere e risolvere problemi immediati e concreti, con la sua direzione, che emana direttamente dal congresso e ne costituisce il comitato permanente esecutivo e di controllo, il Partito socialista costituisce un apparecchio di democrazia proletaria che, nella fantasia politica, può facilmente essere visto come «esemplare». Il Partito socialista è un modello di società «libertaria» disciplinata volontariamente, per un atto esplicito di coscienza; immaginare tutta la società umana come un colossale Partito socialista, con le sue domande di ammissione e le sue dimissioni, non può non solleticare il pregiudizio contrattualista di molti spiriti sovversivi, educatisi piú su G. G. Rousseau e sugli opuscoli anarchici, che sulle dottrine storiche ed economiche del marxismo. La Costituzione della Repubblica russa dei Soviet si fonda su princípi identici a quelli sui quali si fonda il Partito socialista; il governo della sovranità popolare russa funziona in forme suggestivamente identiche alle forme di governo del Partito socialista. Non è davvero strano che da questi motivi di analogie e di aspirazioni istintive sia nato il mito rivoluzionario, per il quale si concepisce l’instaurazione del potere proletario come una dittatura del sistema di sezioni del Partito socialista. Questa concezione è per lo meno altrettanto utopistica di quella che riconosce nei sindacati e nelle Camere del lavoro le forme del processo di sviluppo rivoluzionario. La società comunista può esser solo concepita come una formazione «naturale» aderente allo strumento di produzione e di scambio; e la rivoluzione può essere concepita come l’atto di riconoscimento storico della «naturalezza» di questa formazione. Il processo rivoluzionario si identifica quindi solamente con uno spontaneo movimento delle masse lavoratrici, determinato dal cozzo delle contraddizioni inerenti alla convivenza umana in regime di proprietà capitalista. Prese nella tenaglia dei conflitti capitalisti, minacciate di una condanna senza appello alla perdita dei diritti civili e spirituali, le masse si distaccano dalle forme della democrazia borghese, escono dalla legalità della costituzione borghese. La società andrebbe in dissoluzione, ogni produzione di ricchezza utile cadrebbe, e gli uomini precipiterebbero in un cupo abisso di miseria, di barbarie, di morte, senza una reazione della coscienza storica delle masse popolari che ritrovano un nuovo inquadramento, che attuano un nuovo ordine nel processo di produzione e di distribuzione della ricchezza. Gli organismi di lotta del proletariato sono gli «agenti» di questo colossale movimento di masse; il Partito socialista è indubbiamente il massimo «agente» di questo processo di sfacelo e di neoformazione, ma non è e non può essere concepito come la forma di questo processo, forma malleabile e plasmabile ad arbitrio dei dirigenti. La socialdemocrazia germanica (intesa nel suo complesso di movimento sindacale e politico) ha attuato il paradosso di costringere violentemente il processo della rivoluzione proletaria tedesca nelle forme della sua organizzazione e ha creduto di dominare la storia. Ha creato i suoi Consigli, d’autorità, con la maggioranza sicura dei suoi uomini; ha impastoiato la rivoluzione, l’ha addomesticata. Oggi ha perduto ogni contatto con la realtà storica, che non sia il contatto del pugno di Noske con la nuca dell’operaio, e il processo rivoluzionario segue un suo corso incontrollato, misterioso ancora, che affiorerà per ignote scaturigini di violenza e di dolore. Il Partito socialista, con la sua azione intransigente nel dominio politico, provoca gli stessi risultati che i sindacati attuano nel campo economico: pone fine alla libera concorrenza. Il Partito socialista, col suo programma rivoluzionario, sottrae all’apparecchio di Stato borghese la sua base democratica del consenso dei governanti. Esso influenza sempre piú profonde masse popolari e le assicura che lo stato di disagio in cui si dibattono non è una frivolezza, non è un malessere senza uscita, ma corrisponde a una necessità obbiettiva, è il momento ineluttabile di un processo dialettico che deve sboccare in una lacerazione violenta, in una rigenerazione della società. Ecco che il Partito si viene cosí identificando con la coscienza storica delle masse popolari e ne governa il movimento spontaneo, irresistibile: questo governo è incorporeo, funziona attraverso milioni e milioni di legami spirituali, è una irradiazione di prestigio, che solo in momenti culminanti può diventare un governo effettivo: per un appello in piazza, per uno schieramento corporeo di forze militanti, disposte alla lotta per allontanare un pericolo, per dissolvere una nube di violenza reazionaria. Ottenuto il risultato di paralizzare il funzionamento del governo legale delle masse popolari, si inizia per il Partito la fase di attività piú difficile e piú delicata: la fase di attività positiva. Le concezioni diffuse dal Partito operano autonomamente nelle coscienze individue e determinano configurazioni sociali nuove, aderenti a queste concezioni, determinano organismi che funzionano per intima legge, determinano embrionali apparecchi di potere, nei quali la massa attua il suo governo, nei quali la massa acquista coscienza della sua responsabilità storica e della sua precisa missione di creare le condizioni del comunismo rigeneratore. Il Partito, come formazione compatta e militante di una idea, influenza questo intimo lavorío di nuove strutture, questa operosità di milioni e milioni di infusori sociali che preparano i rossi banchi coralliferi che un giorno non lontano, affiorando, spezzeranno gl’impeti della burrasca oceanica, ricondurranno la pace nelle onde, fisseranno nuovamente un equilibrio nelle correnti e nei climi; ma questo influsso è organico, è nel circolare delle idee, è nel mantenersi intatto l’apparecchio di governo spirituale, è nel fatto che i milioni e milioni di lavoratori, fondando le nuove gerarchie, istituendo gli ordini nuovi, sanno che la coscienza storica che li muove ha una incarnazione vivente nel Partito socialista, è giustificata da una dottrina, la dottrina del Partito socialista, ha un baluardo potente, la forza politica del Partito socialista. Il Partito rimane la superiore gerarchia di questo irresistibile movimento di masse, il Partito esercita la piú efficace delle dittature, quella che nasce dal prestigio, che è l’accettazione cosciente e spontanea di una autorità che si riconosce indispensabile per la buona riuscita dell’opera intrapresa. Guai se per una concezione settaria dell’ufficio del Partito nella rivoluzione si pretende materializzare questa gerarchia, si pretende fissare in forme meccaniche di potere immediato l’apparecchio di governo delle masse in movimento, si pretende costringere il processo rivoluzionario nelle forme del Partito; si riuscirà a deviare una parte degli uomini, si riuscirà a «dominare» la storia; ma il processo reale rivoluzionario sfuggirà al controllo e all’influsso del Partito, divenuto inconsapevolmente organismo di conservazione. La propaganda del Partito socialista insiste oggi su queste tesi inconfutabili: I rapporti tradizionali di appropriazione capitalistica del prodotto del lavoro umano sono stati radicalmente mutati. Prima della guerra, il lavoro italiano consentiva, senza gravi scosse repentine, la appropriazione, da parte dell’esigua minoranza capitalistica e da parte dello Stato, del 60 per cento della ricchezza prodotta dal lavoro, mentre le decine di milioni di popolazione lavoratrice dovevano accontentarsi, per soddisfare le esigenze della vita elementare e della superiore vita culturale, di uno scarso 40 per cento. Oggi, dopo la guerra, si verifica questo fenomeno: la società italiana produce solo la metà della ricchezza che consuma; lo Stato addebita al lavoro futuro somme colossali, cioè rende sempre piú schiavo della plutocrazia internazionale il lavoro italiano. Ai due prelevatori di taglie sulla produzione (i capitalisti e lo Stato) se ne è aggiunto un terzo, puramente parassitario: la piccola borghesia della casta militare-burocratica formatasi durante la guerra. Essa preleva appunto quella metà di ricchezza non prodotta che viene addebitata al lavoro futuro: la preleva direttamente come stipendi e pensioni, la preleva indirettamente perché la sua funzione parassitaria presuppone l’esistenza di tutto un apparato parassitario. Se la società italiana produce solo 15 miliardi di ricchezza mentre ne consuma 30, e questi 15 miliardi sono prodotti da otto ore di lavoro quotidiano delle decine di milioni di popolazione lavoratrice che riceve 6-7 miliardi di salario, il bilancio capitalistico può essere normalmente riassestato in un solo modo: costringendo le decine di milioni di popolazione lavoratrice, per la stessa massa di salario, a dare una, due, tre, quattro, cinque ore di lavoro in piú, di lavoro non pagato, di lavoro che vada a impinguare il capitale, perché riacquisti la sua funzione di accumulamento, che vada allo Stato perché paghi i suoi debiti, che consolidi la situazione economica della piccola borghesia pensionata e la premi dei servizi resi con le armi, allo Stato e al capitale, per costringere la popolazione lavoratrice a schiattare sulla macchina e sulla zolla di terra. In questa situazione generale dei rapporti capitalistici, la lotta di classe non può essere rivolta ad altro scopo che alla conquista del potere di Stato da parte della classe operaia, per rivolgere questo immane potere contro i parassiti e costringerli a rientrare nell’ordine del lavoro e abolire d’un colpo la taglia mostruosa oggi prelevata. A questo scopo tutta la massa lavoratrice deve cooperare, tutta la massa lavoratrice deve assumere forma consapevole secondo l’ordine che essa assume nel processo di produzione e di scambio: cosí ogni operaio, ogni contadino è chiamato nel Consiglio, a collaborare allo sforzo di rigenerazione, è chiamato a costituire l’apparecchio del governo industriale e della dittatura: nel Consiglio si incarna la forma attuale della lotta di classe tendente al potere. E si profila cosí la rete di istituzioni in cui il processo rivoluzionario si svolge: il Consiglio, il sindacato, il Partito socialista. Il Consiglio, formazione storica della società, determinato dalla necessità di dominare l’apparato di produzione, formazione nata dalla conquistata coscienza di sé da parte dei produttori. Il sindacato e il Partito, associazioni volontarie, strumenti di propulsione del processo rivoluzionario, «agenti» e «gerenti» della rivoluzione; il sindacato che coordina le forze produttive e imprime all’apparato industriale la forma comunistica; il Partito socialista, modello vivente e dinamico di una convivenza sociale che fa aderire la disciplina alla libertà, e fa rendere allo spirito umano tutta l’energia e l’entusiasmo di cui è capace. Studi «difficili»(21) L’Humanité, organo ufficiale del Partito socialista francese, nel suo numero del 27 dicembre scorso, riporta nei suoi punti essenziali la mozione per la costituzione dei Consigli di fabbrica votata al Congresso camerale di Torino da 38 mila operai organizzati e la commenta in modo molto favorevole. In essa, e nel fatto che in tutta Italia ormai la quistione dei Consigli è posta e aspetta da parte delle masse una soluzione, l’Humanité vede un segno della maturità politica del proletariato italiano che, mentre l’istituto parlamentare viene progressivamente decomponendosi, inizia i primi esperimenti per la creazione degli organi attraverso i quali i lavoratori potranno assumere la direzione della società che la gestione borghese ha portato allo sfacelo, discute l’estensione delle loro attribuzioni, cerca di determinare con esattezza il loro compito e i rapporti loro con gli organismi esistenti. Informando il pubblico francese sul movimento italiano, l’Humanité ha anche parole per noi lusinghiere di elogio. La nostra rivista e il tono elevato delle discussioni che in essa si fanno sono portati come esempio dell’alto grado di sviluppo intellettuale, della buona educazione politica e sociale dei lavoratori che la leggono e la sostengono. È certo che noi non rifuggiamo, come dice lo scrittore dell’Humanité, dall’entrare in particolari di carattere teorico, dal richiedere al nostro lettore uno sforzo sostenuto e prolungato di attenzione, e ciò facciamo con piena convinzione di agire onestamente e da buoni socialisti, se non proprio da giornalisti accorti e studiosi di popolarità e diffusione. Sí, è vero, abbiamo pubblicato articoli «lunghi», studi «difficili», e continueremo a farlo, ogni qualvolta ciò sarà richiesto dall’importanza e dalla gravità degli argomenti, ciò è nella linea del nostro programma: non vogliamo nascondere nessuna difficoltà, crediamo bene che la classe lavoratrice acquisti fin d’ora coscienza dell’estensione e della serietà dei compiti che le incomberanno domani, crediamo onesto trattare i lavoratori come uomini cui si parla apertamente, crudamente, delle cose che li riguardano. Purtroppo gli operai e i contadini sono stati considerati a lungo come dei bambini che hanno bisogno di essere guidati dappertutto, in fabbrica e sul campo, dal pugno di ferro del padrone che li stringe alla nuca, nella vita politica dalla parola roboante e melliflua dei demagoghi incantatori. Nel campo della cultura poi, operai e contadini sono stati e sono ancora considerati dai piú come una massa di negri che si può facilmente accontentare con della paccottiglia, con delle perle false e con dei fondi di bicchiere, riserbando agli eletti i diamanti e le altre merci di valore. Non v’è nulla di piú inumano e antisocialista di questa concezione. Se vi è nel mondo qualcosa che ha un valore per sé, tutti sono degni e capaci di goderne. Non vi sono né due verità, né due diversi modi di discutere. Non vi è nessun motivo per cui un lavoratore debba essere incapace di giungere a gustare un canto di Leopardi piú di una chitarrata, supponiamo, di Felice Cavallotti o di un altro poeta «popolare», una sinfonia di Beethoven piú di una canzone di Piedigrotta. E non vi è nessun motivo per cui, rivolgendosi a operai e contadini, trattando i problemi che li riguardano cosí da vicino come quelli dell’organizzazione della loro comunità, si debba usare un tono minore, diverso da quello che a siffatti problemi si conviene. Volete che chi è stato fino a ieri uno schiavo diventi un uomo? Incominciate a trattarlo, sempre, come un uomo, e il piú grande passo in avanti sarà già fatto. Primo: rinnovare il Partito(22) Il Partito socialista è il partito degli operai e dei contadini poveri. Sorto nel campo della democrazia liberale (nel campo della concorrenza politica, che è una proiezione del processo di sviluppo del capitalismo) come una delle forze sociali che tendono a crearsi una base di governo e a conquistare il potere di Stato per rivolgerlo a beneficio dei loro, la sua missione consiste nell’organizzare gli operai e i contadini poveri in classe dominante, nello studiare e promuovere le condizioni favorevoli per l’avvento di una democrazia proletaria. Il Partito socialista italiano è riuscito ad attuare la piú facile ed elementare parte del suo compito storico: è riuscito ad agitare le masse fin negli strati piú profondi, è riuscito ad accentrare l’attenzione del popolo lavoratore sul suo programma di rivoluzione e di Stato operaio, è riuscito a costruire un apparecchio di governo di tre milioni di cittadini che, se consolidato e materializzato in istituti permanenti rivoluzionari, sarebbe stato sufficiente per impadronirsi del potere di Stato. Il Partito socialista non è riuscito nella parte essenziale del suo compito storico: non è riuscito a dare una forma permanente e solida all’apparecchio che era riuscito a suscitare agitando le masse. Non è riuscito a progredire e perciò è caduto in una crisi di marasma e di letargia. Costruito per conquistare il potere, costruito come schieramento di forze militanti decise a dare battaglia, l’apparecchio di governo del Partito socialista va in pezzi, si disgrega; il Partito perde ogni giorno piú il contatto con le grandi masse in movimento; gli avvenimenti si svolgono e il Partito ne è assente; il paese è percorso da brividi di febbre, le forze dissolventi della democrazia borghese e del regime capitalista continuano a operare implacabili e spietate e il Partito non interviene, non illumina le grandi masse degli operai e contadini, non giustifica il suo fare e il suo non fare, non lancia parole d’ordine che calmino le impazienze, che impediscano le demoralizzazioni, che mantengano serrati i ranghi e forte la compagine delle armate operaie e contadine. Il Partito, che era diventato la piú grande energia storica della nazione italiana, è caduto in una crisi di infantilismo politico, è oggi la piú grande delle debolezze sociali della nazione italiana. Non fa meraviglia davvero che in tali propizie condizioni, i germi di dissoluzione della compagine rivoluzionaria: il nullismo opportunista e riformista e la fraseologia pseudorivoluzionaria anarchica (due aspetti della tendenza piccolo-borghese) pullulino e si sviluppino con rapidità impressionante. Le condizioni internazionali e nazionali della rivoluzione proletaria si profilano sempre piú nette e precise e si consolidano. Ed ecco, proprio nel momento che potrebbe essere decisivo, lo strumento massimo della rivoluzione proletaria italiana, il Partito socialista, si decompone, aggredito e avviluppato insidiosamente dai politicanti parlamentari e dai funzionari confederali, da individui che rivendicano un potere rappresentativo che non ha base seria e concreta, che si fonda sull’equivoco, che si fonda sull’assenza di ogni continuità d’azione e sulla poltroneria mentale che è propria degli operai come di tutti gli altri italiani. E dalla parte comunista, dalla parte rivoluzionaria, dalla parte degli enti direttivi nominati dalla maggioranza rivoluzionaria, nessuna azione d’insieme per arginare questa decomposizione, per disinfettare il Partito per organizzarlo in compagine omogenea, per organizzarlo come sezione della III Internazionale, inserita fortemente nel sistema mondiale di forze rivoluzionarie che intendono seriamente attuare le tesi comuniste. La resistenza del blocco imperialista, che era riuscito a soggiogare il mondo a poche casseforti, è spezzata, è disgregata dalle vittorie militari dello Stato operaio russo. Il sistema della rivoluzione proletaria internazionale, che si impernia sull’esistenza e sullo sviluppo come potenza mondiale dello Stato operaio russo, possiede oggi un esercito di due milioni di baionette, esercito pieno di entusiasmo guerriero perché vittorioso e perché consapevole di essere il protagonista della storia contemporanea. Le vittorie e le avanzate dell’esercito della III Internazionale scuotono le basi del sistema capitalista, accelerano il processo di decomposizione degli Stati borghesi, acuiscono i conflitti nel seno delle democrazie occidentali. Gli inglesi si preoccupano per l’India, la Turchia, la Persia, l’Afganistan, la Cina dove si moltiplicano i focolari di rivolta, e con una lieve pressione fanno sparire Clemenceau dalla scena politica. La caduta del pupazzo antibolscevico rivela immediatamente le incrinature del blocco reazionario francese, e inizia il disgregamento dello Stato politico: la tendenza comunista e intransigente si rafforza nel movimento operaio. La quistione russa pone di fronte l’opportunismo di Lloyd George e l’intransigenza controrivoluzionaria di Winston Churchill, ma il terreno della democrazia britannica, già magnifico campo di manovra per la demagogia radicale lloydgeorgiana, è completamente mutato: la struttura della classe operaia inglese continua a svilupparsi, lentamente, ma sicuramente, verso forme superiori: gli operai vogliono intervenire piú spesso e piú direttamente nella deliberazione dei programmi d’azione: i congressi delle Trade Unions si moltiplicano e i rivoluzionari sempre piú spesso e piú efficacemente vi fanno sentire la loro voce; l’ufficio permanente dei congressi sindacali si trasferisce dalle mani del gruppo parlamentare laburista nelle mani di un Comitato centrale operaio. In Germania il governo di Scheidemann si decompone, sente venirsi meno ogni consenso popolare, il terrore bianco imperversa brutalmente: gli operai comunisti e indipendenti hanno riacquistato una certa libertà di movimento e si diffonde la persuasione che solo la dittatura proletaria può salvare la nazione tedesca dallo sfacelo economico e dalla reazione militarista. Il sistema internazionale controrivoluzionario si dissolve, per l’acuirsi delle contraddizioni intime della democrazia borghese e dell’economia capitalistica e per le gigantesche spinte del proletariato russo. Lo Stato borghese italiano va in pezzi per gli scioperi colossali nei servizi pubblici, per il fallimento fraudolento e ridicolo della politica estera ed interna. Le condizioni sufficienti e necessarie per la rivoluzione proletaria si attuano e nel campo internazionale e nel campo nazionale. Ed ecco: il Partito socialista viene meno a se stesso e alla sua missione; partito di agitatori, di negatori, di intransigenti nelle quistioni di tattica generale, di apostoli delle teorie elementari, non riesce a organizzare e a inquadrare le grandi masse in movimento, non riesce a riempire i minuti e le giornate, non riesce a trovare un campo di azione che in ogni momento lo tenga a contatto con le grandi masse. Non riesce a organizzare la propria intima compagine, non ha una disciplina teorica e pratica che gli consenta di rimanere sempre aderente alla realtà proletaria nazionale e internazionale per dominarla, per controllare gli avvenimenti e non esserne travolto e stritolato. Partito degli operai e dei contadini rivoluzionari, lascia che l’esercito permanente della rivoluzione, i sindacati operai, rimanga sotto il controllo di opportunisti che ne incantano, a loro piacere, il congegno di manovra, che sistematicamente sabotano ogni azione rivoluzionaria, che sono un partito nel Partito, e il partito piú forte, perché padroni dei gangli motori del corpo operaio. Due scioperi, che potevano essere micidiali per lo Stato, si sono svolti e lasceranno lunghi strascichi di recriminazioni e di aggressioni polemiche da parte degli anarchici, senza che il Partito avesse una parola da dire, un metodo da affermare che non sia quello vieto e logoro della piú vieta e logora II Internazionale: il distinguo tra sciopero economico e sciopero politico. E cosí, mentre lo Stato subiva una crisi acutissima, mentre la borghesia armata e piena di odio avrebbe potuto iniziare un’offensiva contro la classe operaia, mentre si profilava il colpo di mano militarista, i centri rivoluzionari operai furono lasciati in balía di se stessi, senza parola d’ordine generale; la classe operaia si trovò rinchiusa e imprigionata in un sistema di compartimenti stagni, smarrita, disillusa, esposta a tutte le tentazioni anarcoidi. Siamo noi scoraggiati e demoralizzati? No, ma è necessario dire la verità nuda e cruda, è necessario rivelare una situazione che può, che deve essere mutata. Il Partito socialista deve rinnovarsi, se non vuole essere travolto e stritolato dagli avvenimenti incalzanti; deve rinnovarsi, perché la sua disfatta significherebbe la disfatta della rivoluzione. Il Partito socialista deve essere sul serio una sezione della III Internazionale, e deve incominciare con attuarne le tesi nel suo seno, nel seno della compagine degli operai organizzati. Le masse organizzate devono diventare padrone dei loro organismi di lotta, devono «organizzarsi in classe dirigente» prima di tutto nei loro propri istituti, devono fondersi col Partito socialista. Gli operai comunisti, i rivoluzionari consapevoli delle tremende responsabilità del periodo attuale, devono essi rinnovare il Partito, dargli una figura precisa e una direzione precisa; devono impedire che gli opportunisti piccolo-borghesi lo riducano al livello dei tanti partiti del paese di Pulcinella. L’operaio di fabbrica(23) Ogni società vive e si sviluppa perché aderisce a una produzione storicamente determinata: dove non esiste produzione, dove non esiste lavoro organizzato (sia pure in modo elementare), non esiste società, non esiste vita storica. La società moderna ha vissuto e si è sviluppata fino alla fase attuale perché aderiva a un sistema di produzione: a quel sistema di produzione storicamente determinato dall’esistenza di due classi, la classe capitalistica, proprietaria dei mezzi di produzione e la classe lavoratrice, al servizio della prima, aggiogata alla prima dal vincolo del salario dal vincolo della minaccia incombente di morte per fame. Nello stadio attuale la classe capitalista è rappresentata da un ceto... d’avanguardia, la plutocrazia; la linea di sviluppo storico della classe capitalista è un processo di corruzione, un processo di decomposizione. Le funzioni tradizionali della classe capitalista nel campo della produzione sono passate nelle mani di un medio ceto irresponsabile senza vincoli né di interesse né psicologici con la produzione stessa: burocrati del tipo «impiegati dello Stato» venali, avidi, corrotti, agenti di borsa, politicanti senza arte né parte, gentarella che vive alla giornata, saziando bassi desideri e proponendosi scopi ideali adeguati alla sua psicologia crapulona: possedere molte donne, avere molti quattrini da spendere nelle alcove delle prostitute d’alto rango, nei bal tabarin e nello sfarzo vistoso e grossolano, avere una particella del potere di tormentare e far soffrire altri uomini sottoposti. La classe lavoratrice è andata invece sviluppandosi verso un tipo di umanità storicamente originale e nuovo: l’operaio di fabbrica, il proletario che ha perduto ogni residuo psicologico delle sue origini contadinesche o artigiane, il proletario che vive la vita della fabbrica, la vita della produzione intensa e metodica, disordinata e caotica, nei rapporti sociali esterni alla fabbrica, nei rapporti politici di distribuzione della ricchezza, ma nell’interno della fabbrica, ordinata, precisa, disciplinata, secondo il ritmo delle grandi macchine, secondo il ritmo di una raffinata ed esatta divisione del lavoro, la piú grande macchina della produzione industriale. La classe proprietaria del capitale si è allontanata dal lavoro e dalla produzione, si è disgregata, ha perduto la coscienza della sua primitiva unità che era unità dialettica, unità nella lotta individualistica per la concorrenza del profitto: l’unità della classe capitalista si è identificata in una istituzione dello Stato, il governo; l’individuo ha rimesso le sue funzioni di lotta e di conquista nelle mani di una banda di avventurieri e politicanti mercenari, per ricadere nella bestialità primordiale e barbarica che nutre gli istinti piú abbietti della crapula. La classe operaia si è identificata con la fabbrica, si è identificata con la produzione: il proletario non può vivere senza lavorare, e senza lavorare metodicamente e ordinatamente. La divisione del lavoro ha creato l’unità psicologica della classe proletaria, ha creato nel mondo proletario quel corpo di sentimenti, di istinti, di pensieri, di costumi, di abitudini, di affetti che si riassumono nell’espressione: solidarietà di classe. Nella fabbrica ogni proletario è condotto a concepire se stesso come inseparabile dai suoi compagni di lavoro: potrebbe la materia informe accatastata nei magazzini circolare nel mondo come oggetto utile alla vita degli uomini in società, se un solo anello mancasse al sistema di lavoro nella produzione industriale? Quanto piú il proletario si specializza in un gesto professionale, tanto piú sente l’indispensabilità dei compagni, tanto piú sente di essere la cellula di un corpo organizzato, di un corpo intimamente unificato e coeso; tanto piú sente la necessità dell’ordine, del metodo, della precisione, tanto piú sente la necessità che tutto il mondo sia come una sola immensa fabbrica, organizzata con la stessa precisione, lo stesso metodo, lo stesso ordine che egli verifica essere vitale nella fabbrica dove lavora; tanto piú sente la necessità che l’ordine, la precisione, il metodo che vivificano la fabbrica siano proiettati nel sistema di rapporti che lega una fabbrica a un’altra, una città a un’altra, una nazione a un’altra nazione. Per questa sua originale psicologia, per questa sua particolare concezione del mondo l’operaio di fabbrica, il proletario della grande industria urbana è il campione del comunismo, è la forza rivoluzionaria che incarna la missione di rigenerare la società degli uomini, è un fondatore di nuovi Stati. In questo senso (e non in quello balordissimamente contraffatto dagli scrittori della Stampa) abbiamo affermato che Torino è la fucina della rivoluzione comunista: perché la classe lavoratrice di Torino è in maggioranza di proletari, di operai di fabbrica, di rivoluzionari del tipo previsto da Carlo Marx, non di rivoluzionari piccolo-borghesi, quarantottardi, del tipo caro ai democratici e agli arruffoni dell’anarchismo. In questo senso anche abbiamo sostenuto che la Confederazione generale del lavoro è costituita di masse operaie piú «rivoluzionarie» delle masse organizzate nell’Unione sindacale: perché la Confederazione abbraccia gli operai delle industrie meglio specificate e organizzate, delle industrie «piú rivoluzionarie» e d’avanguardia, mentre l’Unione sindacale è un disorganismo che non riesce a uscire dallo stadio gelatinoso e indistinto, dallo stadio della concezione del mondo propria dei piccoli borghesi che non sono diventati capitalisti, propria degli artigiani o dei contadini che non sono diventati proletari. Ogni società vive e si sviluppa perché esiste una produzione, perché si produce piú del consumo, anche se la distribuzione per il consumo e per il risparmio avvenga in modo iniquo: la società vive e si sviluppa nella nequizia, - essa muore, anche se è stato attuato il regno della giustizia, se non si produce. La società borghese muore perché non si produce, perché il lavoro dei produttori coi rapporti nuovi di distribuzione creati dalla guerra e dalla conseguitane fase plutoburocratica del capitalismo, non è sufficiente neppure al consumo oltre a non permettere piú nessun accumulamento. La ricchezza di materiale viene annientata progressivamente: aumenta invece il cumulo di titoli all’appropriazione della ricchezza materiale, la carta moneta: il sistema capitalista di distribuzione è diventato un saccheggio a mano armata perpetrato dai detentori del potere governativo. Il capitalista si è allontanato dal campo della produzione; il governo dell’industria è caduto in mano di inetti e di irresponsabili; la classe operaia è rimasta sola ad amare il lavoro, ad amare la macchina. La classe operaia domina oggi la produzione, è il padrone della società, perché può recidere, incrociando le braccia, gli ultimi nervi che la fanno vibrare ancora, perché solo uno sforzo eroico di produttività potrebbe infonderle nuova vita e nuova virtú di sviluppo. Gli apostoli salariati, gli staffieri del capitale, gli avidi Lazzari della dispensa borghese credono di potere, con le loro gonfiezze patriottiche o umanitarie da romanzo d’appendice, incitare questo eroismo produttivo del proletariato, come sono riusciti a incitarne l’eroismo guerriero. Il bel gioco riesce una volta sola: e non è possibile, in questo caso, farsi dare una mano dai carabinieri, per ben riuscire! Bisognerà adattarsi, con le buone o con un «pizzico» di guardie rosse: il proletariato aumenterà la produzione per il comunismo, per attuare la sua concezione del mondo, per rendere storia la sua «filosofia», non per procurare nuovi ozi o nuovi sperperi ai detentori di carta moneta: aumenterà la produzione quando l’arma del suo potere di Stato sfronderà l’albero della vita dei moltissimi rami secchi: questa potatura di per se stessa determinerà un aumento di produzione, cioè una migliore distribuzione e la possibilità di un risparmio. Partito di governo e classe di governo(24) Il Partito socialista è un partito di governo, è un partito che dovrà esercitare il potere politico. Il Partito socialista è l’espressione degli interessi della classe proletaria, della classe costituita dagli operai di fabbrica, che non hanno proprietà e che non diventeranno mai proprietari. Su questi interessi il Partito socialista basa la sua azione reale, sugli interessi di chi non ha proprietà e di chi è matematicamente sicuro che non potrà diventare mai proprietario. La classe lavoratrice non è solo di operai industriali; ma tutta la classe lavoratrice è destinata a diventare come il proletariato di fabbrica, a diventare una classe che non ha proprietà e che è matematicamente certa di non arrivare mai a possedere; perciò il Partito socialista si rivolge a tutta la classe lavoratrice, agli impiegati, ai contadini poveri, ai piccoli proprietari, e volgarizza la sua dottrina, la dottrina marxista, e dimostra come tutto il popolo dei lavoratori, manuali e intellettuali, sarà ridotto nelle condizioni della classe operaia, come tutte le illusioni democratiche sulla possibilità che ognuno diventi proprietario siano appunto illusioni, puerilità e sogni piccolo-borghesi. Il Partito liberale, il partito degli industriali, il partito della concorrenza economica, è il partito tipico della società capitalista, è il partito di governo della classe capitalista: attraverso la concorrenza esso tende a industrializzare tutto il lavoro organizzato della società, esso tende a ridurre tutta la classe proprietaria al tipo del suo cliente economico, l’industriale capitalista. Il Partito comunista, il partito dei proletari, il partito dell’economia socializzata e internazionalizzata, è il partito tipico della società proletaria, è il partito di governo della classe operaia: attraverso un Consiglio centrale di economia nazionale, che coordina e unifica le iniziative di produzione, esso tende a socializzare tutto il lavoro che i capitalisti hanno industrializzato e tende a industrializzare socialisticamente tutte le altre zone di lavoro non ancora assorbite dall’industrialismo capitalistico: esso tende a ridurre tutti gli uomini in società al tipo del proletario, ma del proletario emancipato e rigenerato, del proletario che non possiede privatamente la ricchezza, ma amministra la ricchezza comune e ne trae quel godimento e quella sicurezza di vita che gli spettano per il lavoro dato alla produzione. Questa posizione storica impone dei doveri precisi al Partito socialista: esso è partito di governo in quanto rappresenta essenzialmente il proletariato, la classe degli operai industriali. La proprietà privata minaccia di strangolare il proletario, minaccia di farlo morire di fame e di freddo: la concorrenza economica che è caratteristica della proprietà capitalistica, dopo aver condotto alla sopraproduzione, ha condotto al monopolio nazionale, all’imperialismo, all’urto feroce tra gli Stati imperialisti, ad una distruzione smisurata della ricchezza, alla carestia, alla disoccupazione, alla morte per fame e per freddo. La classe dei senza proprietà, di coloro che non potranno mai diventare proprietari, ha un interesse vitale e permanentemente vitale alla socializzazione, all’avvento del comunismo. Dagli altri ceti della popolazione lavoratrice possono invece nascere sviluppi per un nuovo capitalismo: da quelle forme di produzione, che il capitalismo non ha ancora industrializzato, possono minacciosamente irrompere ampliamenti di proprietà e sfruttamenti dell’uomo sull’uomo. Spezzato lo Stato borghese, spezzato l’apparecchio di cui il capitalismo finanziario si serve per monopolizzare ai suoi interessi tutto il lavoro e tutta la produzione, l’artigiano può tentare di servirsi del governo socialista per sviluppare la sua bottega, assumere operai a salario, diventare un industriale; se il governo proletario non glielo permetterà, l’artigiano può diventare un ribelle, dichiararsi anarchico, individualista, o che so io, e formare la base politica per un partito di opposizione al governo proletario: il piccolo proprietario (o il contadino povero del regime agrario a latifondo, a cultura estensiva) può abusare del fatto che, transitoriamente, fin quando durano le condizioni annonarie create dalla guerra, un chilo di patate può valere piú di una ruota di automobile, un pane può valere piú di un metro cubo di muratura, per domandare in cambio del suo lavoro non industrializzato e perciò economicamente povero, un lavoro dieci volte superiore del proletario: e se il governo proletario non permette al contadino di sostituirsi al capitalista nello sfruttare l’operaio, ecco che il contadino può ribellarsi, e trovare tra gli agenti della borghesia il gruppo che si costituisce partito politico dei contadini contro i proletari. Da tutte queste zone di lavoro, che non possono non avere diritti politici nello Stato operaio, da queste zone di lavoro nelle quali l’industrialismo capitalistico non è ancora riuscito a creare le condizioni del lavoratore proletario, del lavoratore che non è proprietario ed è matematicamente certo di non diventare mai proprietario, possono nascere, dopo la rivoluzione, forze politiche antiproletarie, forze politiche che tendono a far rinascere la proprietà capitalistica e lo sfruttamento della classe operaia. Il Partito socialista, in quanto rappresenta gli interessi economici della classe operaia minacciata di morte dalla proprietà privata del capitale, sarà dalla classe operaia mandato al governo rivoluzionario della nazione. Ma il Partito socialista sarà partito di governo solo in quanto riuscirà a far superare alla classe tutte queste difficoltà, solo in quanto riuscirà a ridurre tutti gli uomini in società al tipo fondamentale del proletario emancipato e rigenerato dalla schiavitú del salario, solo in quanto riuscirà a fondare la società comunista, cioè l’Internazionale delle nazioni senza Stato. Il Partito socialista diventerà partito di governo rivoluzionario solo quando porrà dei fini concreti alla rivoluzione, quando dirà: la rivoluzione proletaria risolverà in tali e tali modi questi e questi problemi della vita moderna che assillano e fanno disperare le masse umane. La rivoluzione come tale è oggi il programma massimo del Partito socialista: essa deve diventare il programma minimo: programma massimo deve essere quello che indica le forme e i modi con cui la classe operaia giunge, col suo ordinato e metodico lavoro proletario, a sopprimere ogni antagonismo e ogni conflitto che può emergere dalle condizioni in cui il capitalismo lascia la società, e a fondare la società comunista. Preparare la classe operaia, che ha interesse vitale a fondare il comunismo, a raggiungere il suo fine storico, significa appunto organizzare il proletariato in classe dominante: il proletariato deve farsi una psicologia simile a quella della classe borghese attuale, simile per l’arte del governare, per l’arte di saper condurre a buon termine una iniziativa, un’azione generale dello Stato operaio, non certo per l’arte dello sfruttare. Del resto, anche se volesse, il proletario non potrebbe farsi una psicologia di sfruttatore; il proletario non può diventare proprietario, a meno che non distrugga le officine e le macchine e diventi proprietario dei pezzi di ferro reso inutile, per morirci sopra il giorno dopo: appunto perché non può, date le condizioni tecniche della produzione industriale, diventare proprietario e sfruttare, il proletario è chiamato dalla storia a fondare il comunismo, a liberare tutti gli oppressi e gli sfruttati. Il Partito socialista non diventerà effettivamente partito di governo rivoluzionario se il proletariato non arriva a concepire i suoi problemi immediatamente vitali come risolvibili solo da un suo governo di classe, che ha raggiunto il potere rivoluzionariamente. La classe operaia sa che solo producendo essa domina la società e la conduce al comunismo: anche per la classe operaia problema fondamentale e permanente è quello della produzione e dell’aumento della produzione. Ma per la classe operaia il problema della produzione e dell’aumento della produzione si pone in questi termini: come ottenere che la classe operaia possa continuare a produrre e sia in grado fisicamente di aumentare la produzione. Come ottenere che la classe operaia non sia piú assillata dal problema dei viveri, che la classe operaia si rigeneri fisicamente e culturalmente e possa dedicarsi, con tutto il suo entusiasmo rivoluzionario, al lavoro industriale, alla produzione, alla ricerca e all’attuazione di nuovi modi di lavoro, di nuovi modi di produzione che siano tanti anelli saldati della catena storica che deve condurre al comunismo. I problemi immediati della classe operaia si riducono essenzialmente a uno: al problema dei viveri, al problema di instaurare un sistema di forze politiche in cui l’appropriazione dei viveri non sia piú lasciata libera, in balía della proprietà privata, ma dipenda dalle necessità del lavoro e della produzione. Il principio proletario: «Chi non lavora non mangia!» acquista ogni giorno piú significato storico concreto; appare come il principio non abbia in sé nulla di giacobino, nulla di mistico, non possa essere neppure lontanamente paragonato alla formula della rivoluzione borghese: «Eguaglianza, fraternità, libertà!». Il principio proletario è il riconoscimento esplicito di una necessità immediata, di una necessità organica della società umana che minaccia di scompaginarsi e di decomporsi insieme allo Stato borghese. Bisogna produrre, e per produrre bisogna che esista una classe operaia capace fisicamente e intellettualmente di esercitare uno sforzo eroico di lavoro: perciò è necessario che le disponibilità annonarie siano specialmente dedicate a sostenere la classe operaia, la classe dei produttori, ed è necessario che esista un potere in grado di imporre questa necessità, in grado di assicurare alla classe operaia le condizioni di nutrizione e di benessere che permettono uno sforzo di lavoro, un incremento della produzione. Se esiste solo una disponibilità media di 200 grammi di pane quotidiano per cittadino, è necessario esista un governo che ne assicuri 300 grammi agli operai e costringa i non produttori ad accontentarsi di 100 grammi o anche meno, o anche di nulla se non lavorano, se non producono: un governo di tal genere può essere solo un governo operaio, governo della classe operaia divenuta classe di governo, divenuta classe dominante. Non può esistere governo operaio se la classe operaia non è in grado di diventare, nella sua totalità, il potere esecutivo dello Stato operaio. Le leggi dello Stato operaio devono essere poste in esecuzione dagli operai stessi: solo cosí lo Stato operaio non corre il rischio di cadere in mano di avventurieri e politicanti, non corre il rischio di diventare una contraffazione dello Stato borghese. Perciò la classe operaia deve addestrarsi, deve educarsi alla gestione sociale, deve acquistare la cultura e la psicologia di una classe dominante, deve acquistarle con i suoi mezzi e con i suoi sistemi, coi comizi, coi congressi, con le discussioni, con l’educazione reciproca. I Consigli di fabbrica sono stati una prima forma di queste esperienze storiche della classe operaia italiana che tende all’autogoverno nello Stato operaio. Un secondo passo, e dei piú importanti, sarà il primo congresso dei Consigli di fabbrica: ad esso saranno invitate tutte le fabbriche italiane: il congresso sarà di tutta la classe proletaria italiana, rappresentata dai suoi delegati eletti espressamente e non da funzionari sindacali. Il congresso dovrebbe impostare i problemi essenziali del proletariato italiano e dovrebbe tentarne la soluzione: problemi interni della classe come quello dell’unità proletaria, dei rapporti tra Consigli e sindacati, dell’adesione alla III Internazionale, dell’accettazione delle singole tesi della III Internazionale (dittatura proletaria, sindacati d’industria, ecc.), dei rapporti tra sindacalisti-anarchici e comunisti-socialisti; problemi della lotta delle classi: controllo operaio sull’industria, le otto ore, i salari, sistema Taylor, la disciplina del lavoro, ecc. Già fin d’ora i compagni dovrebbero discutere in assemblee di fabbrica questi problemi; tutta la massa operaia dovrebbe essere interessata a queste discussioni, dovrebbe dare un contributo di esperienza e di intelligenza alla soluzione di questi problemi. In tutte le assemblee di fabbrica dovrebbero essere discusse e poste ai voti mozioni diffuse e sorrette da argomentazioni su questi problemi e al congresso le relazioni dovrebbero essere il coordinamento delle discussioni fatte nelle assemblee di fabbrica, il coordinamento del lavoro intellettuale di ricerca della verità e della concretezza fatto da tutta la massa operaia. Allora sí, il congresso dei Consigli torinese sarebbe un grandioso avvenimento di somma importanza storica: gli operai venuti da tutta Italia avrebbero un documento luminoso di quanto può fare il Consiglio di fabbrica per condurre la classe operaia alla sua emancipazione, alla sua vittoria: la classe operaia torinese sarebbe, ancor piú di quanto non sia oggi, portata a esempio di entusiasmo rivoluzionario, di metodico e ordinato lavoro proletario per elevarsi, per educarsi, per fondare le condizioni di trionfo e di stabilità della società comunista. La rivoluzione tedesca(25) La «dittatura militare» ha dato l’assalto alla «democrazia» tedesca e ha cozzato non contro le organizzazioni dello Stato parlamentare, che non esistevano all’infuori della stessa dittatura militare, non contro le milizie fedeli del suffragio universale e della Costituente, che non esistevano all’infuori dei quadri della dittatura militare, ma contro la classe operaia che d’un colpo ha arrestato la vita economica della Germania, contro la classe operaia insorta con le armi in pugno per difendere la sua libertà e il suo avvenire storico. La «democrazia» non ha resistito un solo momento, è scappata al primo strepito minaccioso dei reggimenti di Ludendorff in marcia; la democrazia tedesca era spietatamente forte solo con la classe operaia, si faceva rispettare solo con la classe operaia, trovava armi sicure e milizie fedeli solo quando la classe operaia rivendicava una libertà e un diritto proletario; la democrazia non era che uno strumento in mano della dittatura militare, uno strumento di guerra civile che viene smesso quando non serve piú, quando diventa ingombrante e minaccia di cadere in mano dell’avversario. La sconfitta di Ludendorff non è dunque la semplice sconfitta della sola casta militare germanica: è una delle fasi piú importanti nel processo di sviluppo della rivoluzione tedesca, perché indica il prevalere della potenza proletaria sulla potenza dello Stato borghese, perché indica che in Germania l’equilibrio delle forze si è spostato a vantaggio della classe operaia. La rivoluzione tedesca riprende il suo ritmo di violenza, dopo la parentesi democratica: si è conchiusa una fase essenziale della rivoluzione proletaria, europea e mondiale, poiché il proletariato germanico rimane protagonista della storia mondiale, come ne era stata protagonista la borghesia germanica. Questo anno di stasi democratica in Germania aveva fatto nascere molte illusioni e molte speranze. Si attendeva che in Germania maturasse la prova che la rivoluzione russa era solamente e puramente la rivoluzione russa e non già un momento della rivoluzione proletaria mondiale, si attendeva la dimostrazione che la dittatura della classe operaia era stata in Russia il prodotto di condizioni materiali proprie della Russia e di un’ideologia politica che poteva nascere solo in Russia, come reazione al dispotismo zarista. Alla Germania era stata assegnata la missione di europeizzare la rivoluzione russa, di europeizzare il sistema dei Consigli. La piccola borghesia occidentale ha facilmente occupato la nuova posizione di classe media tra il proletariato comunista e il capitalismo divenuto conservatore, reazionario, militarista; la nuova posizione che nel campo delle ideologie è caratterizzata dal socialriformismo. La piccola borghesia, collocatasi perfettamente in questa nuova posizione storica, ha subito creato una nuova teoria costituzionale, ha subito costruito un nuovo tipo di Stato. Si trattava di conciliare il potere borghese col potere proletario, il Parlamento eletto a suffragio universale col sistema dei Consigli: si pensò di riprodurre nei rapporti tra borghesia e proletariato lo stesso equilibrio che le rivoluzioni borghesi avevano determinato nei rapporti di classe tra la nobiltà terriera e la democrazia dei fabbricanti capitalisti: come l’Inghilterra era giunta a costruire lo Stato moderno borghese con le due Camere, dei Lords e dei Comuni, dando il modello per la costruzione degli Stati europei continentali, cosí la Germania avrebbe dovuto costruire lo Stato modernissimo, con due Camere: il parlamento politico e il parlamento economico, il parlamento dei proprietari e il sistema dei Consigli operai. La piccola borghesia era persuasa di dare la felicità a tutte le classi sociali: la classe operaia avrebbe avuto il suo dominio, avrebbe avuto campo di discutere, di chiacchierare, di preparare progetti di legge e di riforme «radicali»; la classe proprietaria avrebbe riacquistato la tranquillità e avrebbe visto rifiorire il profitto per una maggiore produttività determinata nella classe operaia dalla disciplina spontanea e dalla «gioia del lavoro» create dal Consiglio di azienda, dalla «compartecipazione» al potere industriale; e la intelligente piccola borghesia avrebbe anch’essa vendemmiato nel comune gaudio, poiché la creazione e la sistemazione dei nuovi organismi avrebbero moltiplicato i posti di fiducia, le cariche, le deputazioni, gli uffici, le commissioni speciali. Un grande sforzo è stato compiuto dai teorici della Internazionale comunista per distruggere questa ideologia, per espellere dal campo del proletariato tedesco gli assertori di questa ideologia, per martellare nei cervelli del proletariato tedesco la persuasione che non può esistere convivenza pacifica tra il Parlamento e il sistema dei Soviet, tra la dittatura borghese e la dittatura proletaria. La prima rivoluzione aveva lasciato in Germania come conquista solida della classe operaia il Consiglio di fabbrica: la lotta tra i rivoluzionari e gli opportunisti piccolo-borghesi s’imperniò sulla quistione dei Consigli di fabbrica e si inasprí fino al conflitto a mano armata. La classe operaia non volle permettere che fosse stroncato dal Parlamento lo slancio vitale rivoluzionario del Consiglio di fabbrica, che fosse soffocato il germe del potere di controllo sulla produzione industriale da parte della classe operaia. L’autocrazia del capitalista nella fabbrica è il presupposto economico del militarismo e dell’imperialismo; se il privilegio della classe proprietaria sulla produzione viene limitato, viene controllato, tutto lo Stato borghese ne soffre, il potere della borghesia scade, il militarismo sente mancarsi il terreno sotto i piedi. Il militarismo tedesco ha reagito violentemente contro la minaccia, ha svuotato di ogni potere lo Stato parlamentare che permetteva discussioni e azioni cosí pericolose per l’ordine costituito, ha cercato di imporre esplicitamente la sua dittatura. Cosí si è chiuso il periodo di stasi democratica in Germania: la guerra civile nuovamente divampa e il proletariato tedesco si trova in posizioni enormemente piú favorevoli che nel gennaio 1919. Le esperienze storiche che la piccola borghesia occidentale si attendeva dal «popolo» tedesco, le attende oggi il proletariato occidentale dal proletariato tedesco: la elaborazione e la costruzione del sistema dei Soviet come forma della dittatura proletaria, come strumento dell’aspra lotta che la classe operaia dovrà combattere per attuare la società comunista. Per un rinnovamento del Partito socialista(26) La seguente relazione fu presentata al Consiglio nazionale di Milano dai rappresentanti della Sezione socialista e della Federazione provinciale torinese e serví come base alla critica dell’opera e dell’indirizzo della direzione del Partito. 1) La fisionomia della lotta delle classi è in Italia caratterizzata nel momento attuale dal fatto che gli operai industriali e agricoli sono incoercibilmente determinati, su tutto il territorio nazionale, a porre in modo esplicito e violento la quistione della proprietà sui mezzi di produzione. L’imperversare delle crisi nazionali e internazionali che annientano progressivamente il valore della moneta dimostra che il capitale è stremato; l’ordine attuale di produzione e di distribuzione non riesce piú a soddisfare neppure le elementari esigenze della vita umana e sussiste solo perché ferocemente difeso dalla forza armata dello Stato borghese; tutti i movimenti del popolo lavoratore italiano tendono irresistibilmente ad attuare una gigantesca rivoluzione economica, che introduca nuovi modi di produzione, un nuovo ordine nel processo produttivo e distributivo, che dia alla classe degli operai industriali e agricoli il potere di iniziativa nella produzione, strappandolo dalle mani dei capitalisti e dei terrieri. 2) Gli industriali e i terrieri hanno realizzato il massimo concentramento della disciplina e della potenza di classe: una parola d’ordine lanciata dalla Confederazione generale dell’industria italiana trova immediata attuazione in ogni singola fabbrica. Lo Stato borghese ha creato un corpo armato mercenario predisposto a funzionare da strumento esecutivo della volontà di questa nuova forte organizzazione della classe proprietaria che tende, attraverso la serrata applicata su larga scala e il terrorismo, a restaurare il suo potere sui mezzi di produzione, costringendo gli operai e i contadini a lasciarsi espropriare di una moltiplicata quantità di lavoro non pagato. La serrata ultima negli stabilimenti metallurgici torinesi è stata un episodio di questa volontà degli industriali di mettere il tallone sulla nuca della classe operaia: gli industriali hanno approfittato della mancanza di coordinamento e di concentrazione rivoluzionaria nelle forze operaie italiane per tentare di spezzare la compagine del proletariato torinese e annientare nella coscienza degli operai il prestigio e l’autorità delle istituzioni di fabbrica (Consigli e commissari di reparto) che avevano iniziato la lotta per il controllo operaio. Il prolungarsi degli scioperi agricoli nel Novarese e in Lomellina dimostra come i proprietari terrieri siano disposti ad annientare la produzione per ridurre alla disperazione e alla fame il proletariato agricolo e soggiogarlo implacabilmente alle piú dure e umilianti condizioni di lavoro e di esistenza. 3) La fase attuale della lotta di classe in Italia è la fase che prevede: o la conquista del potere politico da parte del proletariato rivoluzionario per il passaggio a nuovi modi di produzione e di distribuzione che permettano una ripresa della produttività; o una tremenda reazione da parte della classe proprietaria e della casta governativa. Nessuna violenza sarà trascurata per soggiogare il proletariato industriale e agricolo a un lavoro servile: si cercherà di spezzare inesorabilmente gli organismi di lotta politica della classe operaia (Partito socialista) e di incorporare gli organismi di resistenza economica (i sindacati e le cooperative) negli ingranaggi dello Stato borghese. 4) Le forze operaie e contadine mancano di coordinamento e di concentrazione rivoluzionaria perché gli organismi direttivi del Partito socialista hanno rivelato di non comprendere assolutamente nulla della fase di sviluppo che la storia nazionale e internazionale attraversa nell’attuale periodo, e di non comprendere nulla della missione che incombe agli organismi di lotta del proletariato rivoluzionario. Il Partito socialista assiste da spettatore allo svolgersi degli eventi, non ha mai una opinione sua da esprimere, che sia in dipendenza delle tesi rivoluzionarie del marxismo e della Internazionale comunista, non lancia parole d’ordine che possano essere raccolte dalle masse, dare un indirizzo generale, unificare e concentrare l’azione rivoluzionaria. Il Partito socialista, come organizzazione politica della parte d’avanguardia della classe operaia, dovrebbe sviluppare un’azione d’insieme atta a porre tutta la classe operaia in grado di vincere la rivoluzione e di vincere in modo duraturo. Il Partito socialista, essendo costituito da quella parte della classe proletaria che non si è lasciata avvilire e prostrare dall’oppressione fisica e spirituale del sistema capitalistico, ma è riuscita a salvare la propria autonomia e lo spirito d’iniziativa cosciente e disciplinata, dovrebbe incarnare la vigile coscienza rivoluzionaria di tutta la classe sfruttata. Il suo compito è quello di accentrare in sé l’attenzione di tutta la massa, di ottenere che le sue direttive diventino le direttive di tutta la massa, di conquistare la fiducia permanente di tutta la massa in modo da diventarne la guida e la testa pensante. Perciò è necessario che il Partito viva sempre immerso nella realtà effettiva della lotta di classe combattuta dal proletariato industriale e agricolo, che ne sappia comprendere le diverse fasi, i diversi episodi, le molteplici manifestazioni, per trarre l’unità dalla diversità molteplice, per essere in grado di dare una direttiva reale all’insieme dei movimenti e infondere la persuasione nelle folle che un ordine è immanente nello spaventoso attuale disordine, un ordine che, sistemandosi, rigenererà la società degli uomini e renderà lo strumento di lavoro idoneo a soddisfare le esigenze della vita elementare e del progresso civile. Il Partito socialista è rimasto, anche dopo il Congresso di Bologna, un mero partito parlamentare, che si mantiene immobile entro i limiti angusti della democrazia borghese, che si preoccupa solo delle superficiali affermazioni politiche della casta governativa; esso non ha acquistato una sua figura autonoma di partito caratteristico del proletariato rivoluzionario e solo del proletariato rivoluzionario. 5) Dopo il Congresso di Bologna gli organismi centrali del Partito avrebbero immediatamente dovuto iniziare e svolgere fino in fondo una energica azione per rendere omogenea e coesa la compagine rivoluzionaria del Partito, per dargli la fisionomia specifica e distinta di Partito comunista aderente alla III Internazionale. La polemica coi riformisti e cogli opportunisti non fu neppure iniziata; né la direzione del Partito né l’Avanti! contrapposero una propria concezione rivoluzionaria alla propaganda incessante che i riformisti e gli opportunisti andavano svolgendo in Parlamento e negli organismi sindacali. Nulla si fece da parte degli organi centrali del Partito per dare alle masse una educazione politica in senso comunista; per indurre le masse a eliminare i riformisti e gli opportunisti dalla direzione delle istituzioni sindacali e cooperative, per dare alle singole sezioni e ai gruppi di compagni piú attivi un indirizzo e una tattica unificati. Cosí è avvenuto che mentre la maggioranza rivoluzionaria del Partito non ha avuto una espressione del suo pensiero e un esecutore della sua volontà nella direzione e nel giornale, gli elementi opportunisti invece si sono fortemente organizzati e hanno sfruttato il prestigio e l’autorità del Partito per consolidare le loro posizioni parlamentari e sindacali. La direzione ha permesso loro di concentrarsi e di votare risoluzioni contraddittorie con i principi e la tattica della III Internazionale e ostili all’indirizzo del Partito; la direzione ha lasciato assoluta autonomia a organismi subordinati di svolgere azioni e diffondere concezioni contrarie ai principi e alla tattica della III Internazionale: la direzione del Partito è stata assente sistematicamente dalla vita e dall’attività delle sezioni, degli organismi, dei singoli compagni. La confusione che esisteva nel Partito prima del Congresso di Bologna e che poteva spiegarsi col regime di guerra, non è sparita, ma si è anzi accresciuta in modo spaventoso; è naturale che in tali condizioni il Partito sia scaduto nella fiducia delle masse e che in molti luoghi le tendenze anarchiche abbiano tentato di prendere il sopravvento. Il Partito politico della classe operaia è giustificato solo in quanto, accentrando e coordinando fortemente l’azione proletaria, contrappone un potere rivoluzionario di fatto al potere legale dello Stato borghese e ne limita la libertà di iniziativa e di manovra: se il Partito non realizza l’unità e la simultaneità degli sforzi, se il Partito si rivela un mero organismo burocratico, senza anima e senza volontà, la classe operaia istintivamente tende a costituirsi un altro partito e si sposta verso le tendenze anarchiche che appunto aspramente e incessantemente criticano l’accentramento e il funzionarismo dei partiti politici. 6) Il Partito è stato assente dal movimento internazionale. La lotta di classe va assumendo in tutti i paesi del mondo forme gigantesche; i proletari sono spinti da per tutto a rinnovare i metodi di lotta, e spesso, come in Germania dopo il colpo di forza militarista, a insorgere con le armi in pugno. Il Partito non si cura di spiegare al popolo lavoratore italiano questi avvenimenti, di giustificarli alla luce della concezione della Internazionale comunista, non si cura di svolgere tutta un’azione educativa rivolta a rendere consapevole il popolo lavoratore italiano della verità che la rivoluzione proletaria è un fenomeno mondiale e che ogni singolo avvenimento deve essere considerato e giudicato in un quadro mondiale. La III Internazionale si è riunita già due volte nell’Europa occidentale, nel dicembre 1919 in una città tedesca, nel febbraio 1920 ad Amsterdam: il Partito italiano non era rappresentato in nessuna delle due riunioni: i militanti del Partito non sono stati neppure informati dagli organismi centrali delle discussioni avvenute e delle deliberazioni prese nelle due conferenze. Nel campo della III Internazionale fervono le polemiche sulla dottrina e sulla tattica della Internazionale comunista: esse (come in Germania) hanno condotto persino a scissioni interne. Il Partito italiano è completamente tagliato fuori da questo rigoglioso dibattito ideale in cui si temprano le coscienze rivoluzionarie e si costruisce l’unità spirituale e d’azione dei proletariati di tutti i paesi. L’organo centrale del Partito non ha corrispondenti propri né in Francia, né in Inghilterra, né in Germania e neppure in Isvizzera: strana condizione per il giornale del Partito socialista che in Italia rappresenta gli interessi del proletariato internazionale e strana condizione fatta alla classe operaia italiana che deve informarsi attraverso le notizie delle agenzie e dei giornali borghesi, monche e tendenziose. L’Avanti!, come organo del Partito, dovrebbe essere organo della III Internazionale: nell’Avanti! dovrebbero trovare posto tutte le notizie, le polemiche, le trattazioni di problemi proletari che interessano la III Internazionale; nell’Avanti! dovrebbe essere condotta, con spirito unitario, una polemica incessante contro tutte le deviazioni e i compromessi opportunistici: invece l’Avanti! mette in valore manifestazioni del pensiero opportunista, come il recente discorso parlamentare dell’on. Treves, che era intessuto su una concezione dei rapporti internazionali piccolo-borghese e svolgeva una teoria controrivoluzionaria e disfattista delle energie proletarie. Questa assenza, negli organi centrali, di ogni preoccupazione di informare il proletariato sugli avvenimenti e sulle discussioni teoriche che si svolgono in seno alla III Internazionale si può osservare anche nell’attività della Libreria Editrice. La libreria continua a pubblicare opuscoli senza importanza o scritti per diffondere concezioni e opinioni proprie della II Internazionale, mentre trascura le pubblicazioni della III Internazionale. Scritti di compagni russi, indispensabili per comprendere la rivoluzione bolscevica, sono stati tradotti in Svizzera, in Inghilterra, in Germania e sono ignorati in Italia: valga per tutti il volume di Lenin Stato e Rivoluzione; gli opuscoli tradotti sono poi tradotti pessimamente, spesso incomprensibili per le storture grammaticali e di senso comune. 7) Dall’analisi precedente risulta già quale sia l’opera di rinnovamento e di organizzazione che noi riteniamo indispensabile venga attuata nella compagine del Partito. Il Partito deve acquistare una sua figura precisa e distinta: da partito parlamentare piccolo-borghese deve diventare il partito del proletariato rivoluzionario che lotta per l’avvenire della società comunista attraverso lo Stato operaio, un partito omogeneo, coeso, con una sua propria dottrina, una sua tattica, una disciplina rigida e implacabile. I non comunisti rivoluzionari devono essere eliminati dal Partito e la direzione, liberata dalla preoccupazione di conservare l’unità e l’equilibrio tra le diverse tendenze e tra i diversi leaders, deve rivolgere tutta la sua energia per organizzare le forze operaie sul piede di guerra. Ogni avvenimento della vita proletaria nazionale e internazionale deve essere immediatamente commentato in manifesti e circolari della direzione per trarne argomenti di propaganda comunista e di educazione delle coscienze rivoluzionarie. La direzione, mantenendosi sempre a contatto con le sezioni, deve diventare il centro motore della azione proletaria in tutte le sue esplicazioni. Le sezioni devono promuovere in tutte le fabbriche, nei sindacati, nelle cooperative, nelle caserme la costituzione di gruppi comunisti che diffondano incessantemente in seno alle masse le concezioni e la tattica del Partito, che organizzino la creazione dei Consigli di fabbrica per l’esercizio del controllo sulla produzione industriale e agricola, che svolgano la propaganda necessaria per conquistare in modo organico i sindacati, le Camere del lavoro e la Confederazione generale del lavoro, per diventare gli elementi di fiducia che la massa delegherà per la formazione dei Soviet politici e per l’esercizio della dittatura proletaria. L’esistenza di un Partito comunista coeso e fortemente disciplinato, che attraverso i suoi nuclei di fabbrica, di sindacato, di cooperativa coordini e accentri nel suo Comitato esecutivo centrale tutta l’azione rivoluzionaria del proletariato, è la condizione fondamentale e indispensabile per tentare qualsiasi esperimento di Soviet; nell’assenza di una tale condizione ogni proposta di esperimento deve essere rigettata come assurda e utile solo ai diffamatori dell’idea soviettista. Allo stesso modo deve essere rigettata la proposta del parlamentino socialista, che diventerebbe rapidamente uno strumento in mano della maggioranza riformista e opportunista del gruppo parlamentare per diffondere utopie democratiche e progetti controrivoluzionari. 8) La direzione deve immediatamente studiare, compilare e diffondere un programma di governo rivoluzionario del Partito socialista, nel quale siano prospettate le soluzioni reali che il proletariato, divenuto classe dominante, darà a tutti i problemi essenziali - economici, politici, religiosi, scolastici ecc. - che assillano i diversi strati della popolazione lavoratrice italiana. Basandosi sulla concezione che il Partito fonda la sua potenza e la sua azione solo sulla classe degli operai industriali e agricoli che non hanno nessuna proprietà privata e considera gli altri strati del popolo lavoratore come ausiliari della classe schiettamente proletaria, il Partito deve lanciare un manifesto nel quale la conquista rivoluzionaria del potere politico sia posta in modo esplicito, nel quale il proletariato industriale e agricolo sia invitato a prepararsi e ad armarsi e nel quale siano accennati gli elementi delle soluzioni comuniste per i problemi attuali: controllo proletario sulla produzione e sulla distribuzione, disarmo dei corpi armati mercenari, controllo dei municipi esercitato dalle organizzazioni operaie. 9) La sezione socialista torinese si propone, sulla base di queste considerazioni, di promuovere un’intesa coi gruppi di compagni che in tutte le sezioni vorranno costituirsi per discuterle e approvarle; intesa organizzata che prepari a breve scadenza un congresso dedicato a discutere i problemi di tattica e di organizzazione proletaria e nel frattempo controlli l’attività degli organismi esecutivi del Partito. Superstizione e realtà(27) «È passato il tempo, già da un pezzo, in cui la superstizione attribuiva le rivoluzioni alla perversità di un pugno di agitatori. Oggi tutti sanno che in fondo a ogni convulsione rivoluzionaria deve esistere un qualche bisogno sociale che le istituzioni invecchiate impediscono sia soddisfatto. È possibile che questo bisogno non si faccia ancora sentire abbastanza profondamente e abbastanza diffusamente per assicurare un successo immediato, ma ogni tentativo per soffocarlo violentemente riuscirà solo a farlo irrompere con maggior forza finché abbia spezzato i suoi ceppi. Se dunque noi siamo stati sconfitti è nostro dovere ricominciare da capo: l’intervallo di sosta, breve probabilmente, che ci è consentito tra la fine del primo e l’inizio del secondo atto, fortunatamente ci lascia tempo per un lavoro quanto mai utile: lo studio delle cause che determinarono, col loro confluire, la recente rivoluzione e la sua sconfitta; cause che non debbono essere ricercate negli sforzi, nella genialità, nelle colpe, negli errori o nei “tradimenti” di alcuni capi, ma nello stato generale della società e nella condizione di esistenza di ciascuna nazione sconvolta.»(28) La superstizione attribuisce lo sciopero generale di Torino e del Piemonte, attribuisce un movimento durato dieci giorni di vita intensissima, che ha coinvolto mezzo milione di operai e contadini, che ha determinato rotture micidiali nell’apparecchio del potere di Stato borghese, che ha dimostrato la sua forza d’espansione nelle simpatie e nei consensi attivi suscitati in tutta la classe proletaria italiana, attribuisce un tale movimento alla boria regionale di un pugno di «irresponsabili», alla fallace illusione di un gruppetto di estremisti «scalmanati», alle tenebrose elucubrazioni «russe» di alcuni elementi intellettuali che complottano nell’anonimia del famigerato comitato di studio dei Consigli torinesi. Dopo settant’anni da che Carlo Marx poteva presumere «passato già da un pezzo il tempo», la superstizione trova devoti non solo tra i minori scrittori del Corriere della Sera e del Giornale d’Italia, non solo nell’on. Edoardo Giretti ma anche nell’ufficio di direzione e di gerenza dell’organo della Confederazione generale del lavoro, che abbraccia due milioni di proletari italiani e presume attuare la prassi del marxismo in Italia. La classe operaia torinese è stata sconfitta. Tra le condizioni che hanno determinato la sconfitta è anche la «superstizione», la cortezza di mente dei responsabili del movimento operaio italiano. Tra le condizioni mediate di secondo grado che hanno determinato la sconfitta è quindi anche la mancanza di coesione rivoluzionaria dell’intero proletariato italiano che non riesce a esprimere dal suo seno, organicamente e disciplinatamente, una gerarchia sindacale che sia un riflesso dei suoi interessi e del suo spirito rivoluzionario. Tra le condizioni mediate di primo grado che hanno determinato la sconfitta sono quindi da ritenersi lo stato generale della società italiana e le condizioni di esistenza di ogni regione e di ogni provincia che costituisce una cellula sindacale della Confederazione generale del lavoro. È certo insomma che la classe operaia torinese è stata sconfitta perché in Italia non esistono, non sono ancora maturate le condizioni necessarie e sufficienti per un organico e disciplinato movimento di insieme della classe operaia e contadina. Di questa immaturità, di questa insufficienza del popolo lavoratore italiano è indubbio documento la «superstizione» e la cortezza di mente dei capi responsabili del movimento organizzato del popolo lavoratore italiano. Il 7 marzo si tiene a Milano un convegno nazionale degli industriali. Il comm. Silvestri, presidente della Confederazione generale dell’industria, pronunzia al convegno un discorso violentissimo contro le otto ore, contro gli aumenti di salario, contro il governo pusillanime che non ha difeso il capitale a Pont Canavese, a Torre Pellice, ad Asti (invasione dei cotonifici Mazzonis e della segheria di Asti), contro il governo pusillanime che non sa difendere il regime individualista borghese dagli assalti dei comunisti. L’onorevole Gino Olivetti, segretario confederale, riferisce al convegno sulla quistione dei Consigli di fabbrica e conclude proclamando che i Consigli operai torinesi devono essere schiacciati implacabilmente; la concezione capitalistica espressa dall’Olivetti viene applicata dagli industriali torinesi nell’offensiva contro i Consigli operai ed è riassunta nelle due massime che i manifesti dei capitalisti urlano vittoriosamente in tutte le vie della città, dopo la sconfitta proletaria: «Nelle ore di lavoro si lavora e non si discute. Nelle fabbriche non ci può essere che un’unica autorità». Dopo il convegno di Milano gli industriali riescono ad avere dal governo assicurazioni precise: a Torino sta per succedere qualcosa di nuovo e di inaudito: il direttore del Giornale d’Italia ha fiutato, nei ministeri romani, odore di sangue e spicca un corrispondente speciale a Torino, che si precipita nelle redazioni dei giornali e nelle direzioni delle fabbriche a domandare: - Ma che succede dunque a Torino? Perché si ha tanta paura a Roma degli operai torinesi? Perché il mio direttore mi ha mandato a Torino a fare un’inchiesta sul movimento operaio e sui Consigli di fabbrica? - E subito ecco le notizie pervenire al comitato di studio: ieri sono giunte mille nuove guardie regie; oggi altre mille; forze militari ingenti si accampano nel tale e nel tal altro paese dei dintorni; piazzano batterie nei tali e tal altri punti della collina; in queste chiese, sui tetti di questi palazzi hanno appostato mitragliatrici; si lasciano costituire depositi di armi per le associazioni sussidiate dagli industriali; queste associazioni si sono messe direttamente a contatto con gli ufficiali aderenti che comandano reparti nella provincia. Intanto il corrispondente del Giornale d’Italia annunzia nelle sue lettere da Torino che gli industriali sono decisi a fiaccare la classe operaia, che gli industriali hanno giurato di sostenersi solidalmente nella lotta fino alla serrata generale, che gli industriali torinesi saranno strenuamente sostenuti da tutta la classe capitalistica italiana, che il cozzo tra operai e industriali avverrà a breve scadenza. Tutto questo movimento della classe capitalistica e del potere di Stato per asserragliare Torino, per cogliere la classe operaia torinese in una fossa da lupi, non fu neppure percepito dai capi responsabili della classe operaia italiana organizzata. La vasta offensiva capitalistica fu minuziosamente preparata senza che lo «stato maggiore» della classe operaia organizzata se ne accorgesse, se ne preoccupasse: e questa assenza delle centrali dell’organizzazione divenne una condizione della lotta, un’arma tremenda in mano agli industriali e al potere di Stato, una fonte di debolezza per i dirigenti locali della sezione metallurgica. Gli industriali condussero l’azione con estrema abilità. Gli industriali sono divisi tra loro per il profitto, sono divisi tra loro per la concorrenza economica e politica, ma di fronte alla classe operaia essi sono un blocco d’acciaio: non esiste il disfattismo nel loro seno, non esiste chi sabota l’azione generale, chi semina lo sconforto e il panico. Gli industriali, avviluppata la città in un perfetto sistema militare, trovarono un «naso di Cleopatra» che mutasse faccia alla storia: alle officine «Industrie metallurgiche», per una manomissione senza conseguenze dell’orologio, gli industriali domandarono l’ineleggibilità per un anno dei compagni della Commissione interna, domandarono cioè che sei compagni fossero per un anno privati dei diritti civili proletari. Il movimento si iniziò da questo punto e si aggravò a mano a mano che gli industriali spiegavano con accortezza e con metodo tutta la loro manovra; i delegati operai per le trattative erano dei giocattoli nelle mani degli industriali, e sapevano di esserlo, e gli industriali sapevano che gli operai sapevano. Gli operai erano persuasi che le trattative erano vane, ma dovevano continuare a trattare, perché un arresto, uno scoraggiamento, un moto impulsivo avrebbe provocato il cozzo sanguinoso che era voluto dagli industriali, dalla polizia, dalla casta militare, dai circoli reazionari: i delegati operai conoscevano perfettamente le condizioni generali di armamento in cui gli eventi si svolgevano, e dovettero per giorni e giorni macerare il loro cervello e il loro cuore per attendere, per superare il giorno, per vedere dove sarebbe giunta l’offensiva avversaria, perché gli avversari dovessero giungere fino al punto in cui fosse impossibile non toccare princípi che costringessero gli organismi centrali a pronunziarsi e a scendere in campo. Cosí si giunse allo sciopero generale, al grandioso schieramento delle forze proletarie piemontesi, cosí si giunse fino al punto in cui, per le dimostrazioni di solidarietà attiva date dai ferrovieri, dai marinari, dagli scaricatori del porto, dimostrazioni che misero in rilievo l’intima debolezza dell’apparecchio statale borghese, si poté anche credere alla possibilità di una insurrezione generale del proletariato italiano contro il potere di Stato, insurrezione che si pensava già destinata a fallire nel suo fine ultimo, la composizione di un governo rivoluzionario, perché tutto lo svolgersi del movimento aveva dimostrato che in Italia non esistono le energie rivoluzionarie organizzate capaci di centralizzare un movimento vasto e profondo, capaci di dare sostanza politica a un irresistibile e potente sommovimento della classe oppressa, capaci di creare uno Stato e di imprimergli un dinamismo rivoluzionario. La classe operaia torinese è stata sconfitta e non poteva che essere sconfitta. La classe operaia torinese è stata trascinata nella lotta; essa non aveva libertà di scelta, non poteva rimandare il giorno del conflitto perché l’iniziativa della guerra delle classi appartiene ancora ai capitalisti e al potere dello Stato borghese. Chi parla di «illusioni fallaci» sottintende necessariamente che la classe operaia deve sempre piegare il collo dinanzi ai capitalisti, sottintende necessariamente che la classe operaia deve persuadersi di essere solo una mandra di bestiame, un’accolta di bruti senza coscienza e senza volontà, che la classe operaia deve persuadersi di essere incapace di avere una propria concezione da contrapporre alla concezione borghese, di avere nozioni, sentimenti, aspirazioni, interessi contraddittori con le nozioni, i sentimenti, le aspirazioni, gli interessi della classe borghese. La classe operaia torinese è stata sconfitta. Continuano ad esistere in Torino le grandi officine meccaniche, nelle quali la raffinata divisione del lavoro e il continuo perfezionamento degli automatismi spinge i capitalisti alle forme piú sordide e piú irritanti di oppressione dell’uomo sull’uomo. Da queste condizioni del lavoro gli operai erano spinti incessantemente a ricercare forme di organizzazione e metodi di lotta in cui ritrovare la loro potenza e la loro figura di classe rivoluzionaria che piú non trovavano nel sindacato professionale: le stesse condizioni determineranno gli stessi impulsi rivoluzionari anche dopo la sconfitta politica. Gli industriali continueranno nei tentativi di suscitare artificialmente la concorrenza tra gli operai, suddividendoli in categorie arbitrarie, e ogni categoria in altre categorie, quando il perfezionamento degli automatismi ha ucciso questa concorrenza; continueranno nei tentativi di inasprire i tecnici contro gli operai e gli operai contro i tecnici, quando i sistemi di lavoro tendono ad affratellare questi due fattori della produzione, e li spingono a unirsi politicamente; gli operai continueranno a sentire di non poter essere difesi dai sindacati professionali nella lotta contro la molteplicità e la imprevedibilità delle insidie che i capitalisti, favoriti dai nuovi modi di produzione, loro incessantemente tendono, e non saranno mai queti, non lavoreranno mai con tranquillità, sentiranno piú aspramente il loro stato di oppressione, saranno piú facili agli impulsi e agli scatti di collera. Da queste nuove condizioni di lavoro, maturate durante la guerra, era stata determinata a Torino la formazione dei Consigli di fabbrica: le condizioni permangono, permane il bisogno nella coscienza degli operai, bisogno acuito e reso intelligente dall’educazione politica, e solo il Consiglio di fabbrica e il sistema dei Consigli potranno soddisfarlo. La classe operaia, per lo sviluppo della civiltà industriale, per lo sviluppo dei mezzi di oppressione e di sfruttamento, è condotta ad attuare azioni, a porsi e a tentare fini, ad applicare metodi, che non vengono compresi dagli uomini freddi e senza entusiasmo che il meccanismo burocratico ha posto nelle cariche direttive delle sue organizzazioni di lotta. Cinquecentomila operai e contadini sono trascinati nella lotta: contro di loro sono accampate l’intera classe capitalistica e le forze del potere di Stato. L’intervento energico delle centrali del movimento operaio organizzato potrebbe equilibrare le forze e, se non determinare una vittoria, mantenere e consolidare le conquiste fatte dagli operai con un lavoro paziente e tenace di organizzazione, con centinaia e migliaia di piccole azioni nelle officine e nei reparti. Da chi dipende questo intervento? Da un organismo eletto dagli operai, continuamente controllato, i cui membri possono essere revocabili a ogni istante? No, da impiegati giunti a quel posto per vie burocratiche, per amicizie; da impiegati di corta mente che non vedono neppure ciò che gli industriali e lo Stato preparano, che non conoscono la vita della fabbrica e i bisogni degli operai, e sono «superstiziosi» come un pastore protestante e vanitosi come l’usciere di un ministero. La classe operaia torinese ha già dimostrato di non essere uscita dalla lotta con la volontà spezzata, con la coscienza disfatta. Continuerà nella lotta: su due fronti. Lotta per la conquista del potere industriale; lotta per la conquista delle organizzazioni sindacali e per l’unità proletaria. Lo sciopero generale ha dimostrato quanto sia espansivo il movimento «letterario» sorto nel campo industriale torinese. Nell’Ordine Nuovo dell’11 ottobre 1919 il malessere che serpeggiava sordamente in mezzo alle masse organizzate era cosí tratteggiato: «Gli operai sentono che il complesso della loro organizzazione è diventato tale enorme apparato, che ha finito per ubbidire a leggi proprie, intime alla sua struttura e al suo complicato funzionamento, ma estranee alla massa che ha acquistato coscienza della sua missione storica di classe rivoluzionaria. Sentono che la loro volontà di potenza non riesce a esprimersi, in senso netto e preciso, attraverso le attuali gerarchie istituzionali. Sentono che anche in casa loro, nella casa che hanno costruito tenacemente, con sforzi pazienti, cementandola con il sangue e le lacrime, la macchina schiaccia l’uomo, il funzionarismo isterilisce lo spirito creatore e il dilettantismo banale e verbalistico tenta invano di nascondere l’assenza di concetti precisi sulle necessità della produzione industriale e la nessuna comprensione della psicologia delle masse proletarie. Gli operai si irritano per queste condizioni di fatto, ma sono individualmente impotenti a modificarle». Il movimento per i Consigli dette una forma e un fine concreto al malessere che si compose nell’azione disciplinata e cosciente. Bisogna coordinare Torino con le forze sindacali rivoluzionarie di tutta Italia, per impostare un piano organico di rinnovazione dell’apparato sindacale che permetta alla volontà delle masse di esprimersi e spinga i sindacati nel campo di lotta della III Internazionale comunista. Un programma di governo(29) Il programma di governo, esposto dall’on. Giolitti nella sua intervista alla Tribuna deve essere esaminato e giudicato da un doppio punto di vista. Qual è il valore intrinseco, la portata politica del programma di governo dell’on. Giolitti? È attuabile in sé e per sé? Costituisce, o può costituire un reale passo in avanti nella storia del popolo italiano, nello sviluppo delle istituzioni pubbliche della nazione italiana? Nel campo della democrazia parlamentare esistono forze politiche efficienti in tal misura da poter diventare la base di un tale programma? Nel campo della produzione gestita dai privati proprietari degli strumenti di lavoro esistono le forze economiche capaci di sostenere un tal programma, tali cioè da trovare nella esplicazione di un tal programma le condizioni esterne politiche necessarie e indispensabili per il loro miglior sviluppo? L’on. Giolitti si propone di restaurare il potere dell’assemblea elettiva e di estenderlo, limitando il potere dell’esecutivo, limitando le prerogative della Corona. Il programma dell’on. Giolitti, in questo senso, implica che il Parlamento sia investito dei poteri di una Costituente o implica lo scioglimento del Parlamento e la convocazione di una Assemblea costituente eletta dalla nazione in vista di una nuova, radicale riorganizzazione dell’apparecchio di Stato. In questa parte del suo programma l’on. Giolitti muove da presupposti superficialissimi; dalla constatazione che il Parlamento è screditato e che l’azione legislativa viene esercitata dal governo sotto forma di decreti legge. Ma questo discredito del Parlamento come deve essere considerato? Il discredito del Parlamento è causa o effetto della crisi generale in cui si dibatte il paese? Il Parlamento è la forma dello Stato borghese; la sostanza dello Stato borghese è costituita dai rapporti di forza delle classi, e questi rapporti sono determinati dall’efficienza e dall’importanza delle forze reali della produzione. Il Parlamento è screditato per il fatto che l’economia capitalistica è passata dall’epoca del liberalismo all’epoca del monopolio, e nessun uomo politico ha in Italia contribuito come l’on. Giolitti a facilitare questo passaggio. L’on. Giolitti è sempre stato in Italia l’esponente dell’alta banca, l’esponente della plutocrazia siderurgica, l’agente del protezionismo doganale. L’on. Giolitti passerà nella storia dello Stato borghese italiano come «ministro della mala vita» appunto perché la sua azione è sempre stata preponderante nel senso di soffocare, con la violenza della polizia, con la corruzione, con la pressione amministrativa, ogni potere legislativo dell’assemblea elettiva, nel senso di annientare ogni partecipazione del popolo italiano al governo della cosa politica. Il regime di monopolio non è stato creato dalla guerra: la guerra è stata il periodo di assestamento di questo regime, la guerra, nel campo internazionale come nel campo nazionale, è stata una fase organica, necessaria di questo regime, che non può essere abolito dagli stessi uomini politici che ne furono e ne rimangono gli agenti parlamentari, che non può esser abolito da nessuna forza politica borghese, ma può solo essere superato da un regime proletario, da uno Stato operaio. Nell’esposizione dell’on. Giolitti vi è un accenno ai «lavoratori della terra». Potrebbe supporsi che per l’attuazione del suo programma l’on. Giolitti voglia appoggiarsi sulla classe dei contadini, che egli voglia diventare il leader del Partito popolare. Ma questa supposizione non ha consistenza politica. I grandi proprietari terrieri fanno parte integrale dell’apparecchio di governo economico che prende forma nell’alta banca; la rendita fondiaria è legata strettamente al profitto capitalistico, è anzi determinata dal profitto capitalistico: il paese va in sfacelo appunto per questo fenomeno. In Italia l’agricoltura, ancora in maggioranza estensiva, accentrandosi in un organismo unitario con la grande produzione industriale monopolizzata, non può che determinare un continuo aumento del prezzo della vita. L’agricoltura senza macchine, senza divisione del lavoro, senza impianti per l’irrigazione, equipara la sua rendita al profitto capitalistico, distillato dal lavoro dell’operaio che lavora nell’officina meccanica, che lavora nelle condizioni di piú alta produttività e di maggior rendimento. In questa coesistenza - nello stesso apparecchio di governo accentrato e monopolizzato - di due forme cosí distanti di produzione, è da ricercare l’origine della crisi italiana, l’origine dello scadimento degli istituti pubblici, l’origine della degradazione e della dissolutezza del costume. La forma assunta dall’apparecchio nazionale di produzione e di scambio non assicura la vita elementare delle grandi masse della popolazione, perché è rivolta unicamente ad assicurare alti profitti e grasse rendite ai capitalisti, ai proprietari terrieri, ai banchieri. Essa tende ad accentrarsi sempre piú, tende ad arricchire sempre piú la minoranza di filibustieri e di banditi che ne costituisce il capo, al prezzo della fame e della disperazione delle grandi masse popolari. Bisogna decapitare questo apparecchio, bisogna eliminare questa minoranza dal campo della vita politica ed economica. Il programma dell’on. Giolitti pare tenda appunto a ciò. Ma il metodo dell’on. Giolitti corrisponde alla sapienza medica di un empirico che propina un tamarindo al sofferente di tifo. Nel campo della democrazia parlamentare non esistono le forze politiche, come nel campo della produzione capitalistica non esistono le forze economiche capaci di condurre a compimento un’azione di tal genere. La produzione assume la forma del monopolio accentrato nella banca non per caso, non per ragioni contingenti, non in conseguenza della guerra: è questa la sua tendenza organica, è la sua normalità. Decapitare l’apparecchio di sfruttamento della nazione è impossibile in regime di proprietà privata, in regime di suffragio universale, in regime di democrazia borghese: il programma di governo dell’on. Giolitti, nella migliore delle ipotesi, è una utopia piccolo-borghese; dato l’uomo e il suo passato, è il tentativo di sostituire a un’oligarchia un’altra oligarchia, a un gruppo un altro gruppo. La crisi in cui si dibatte l’Italia può essere risolta solo dallo Stato operaio. Il proletariato industriale, base dello Stato operaio, supera l’accentramento plutocratico, non lo distrugge: la macchina amministrativa, creata dai capitalisti e dai banchieri per soggiogare e sfruttare le forze produttive del paese, viene espropriata e socializzata dallo Stato operaio, viene rivolta dallo Stato operaio alla liberazione delle forze produttive oggi compresse. La classe operaia è l’unica che abbia interesse a eguagliare realmente le condizioni di lavoro e di produzione dell’agricoltura alle condizioni di lavoro e di produzione industriale, perché la classe operaia si esaurisce e decade fisicamente per la mancanza di viveri; la classe operaia chiamerà la classe contadina a collaborare alla riorganizzazione dello Stato italiano, su basi nuove, originali, sulla fabbrica socializzata, sulla grande azienda agricola socializzata, sul campo non piú sottoposto alla banca e all’usura capitalistica. La Costituente proletaria dovrà decidere su questi problemi vitali, che vengono assunti nelle mani da forze politiche ed economiche reali; l’on. Giolitti vuole una caricatura di Costituente che studi il modo migliore di galvanizzare i cadaveri, che studi ed escogiti il modo migliore di perpetrare l’ultima truffa del ministro della mala vita ai danni della nazione italiana. Il Consiglio di fabbrica(30) La rivoluzione proletaria non è l’atto arbitrario di una organizzazione che si afferma rivoluzionaria o di un sistema di organizzazioni che si affermano rivoluzionarie. La rivoluzione proletaria è un lunghissimo processo storico che si verifica nel sorgere e nello svilupparsi di determinate forze produttive (che noi riassumiamo nell’espressione: «proletariato») in un determinato ambiente storico (che noi riassumiamo nelle espressioni: «modo di proprietà individuale, modo di produzione capitalistico, sistema di fabbrica, modo di organizzazione della società nello Stato democratico-parlamentare»). In una determinata fase di questo processo, le forze produttive nuove non possono piú svilupparsi e sistemarsi in modo autonomo negli schemi ufficiali in cui si svolge la convivenza umana; in questa determinata fase avviene l’atto rivoluzionario, che consiste in uno sforzo diretto a spezzare violentemente questi schemi, diretto a distruggere tutto l’apparecchio di potere economico e politico, in cui le forze produttive rivoluzionarie erano contenute oppressivamente, che consiste in uno sforzo diretto a infrangere la macchina dello Stato borghese e a costituire un tipo di Stato nei cui schemi le forze produttive liberate trovino la forma adeguata per il loro ulteriore sviluppo, per la loro ulteriore espansione, nella cui organizzazione esse trovino il presidio e le armi necessarie e sufficienti per sopprimere i loro avversari. Il processo reale della rivoluzione proletaria non può essere identificato con lo sviluppo e l’azione delle organizzazioni rivoluzionarie di tipo volontario e contrattualista quali sono il partito politico e i sindacati professionali: organizzazioni nate nel campo della democrazia borghese, nate nel campo della libertà politica, come affermazioni e come sviluppo della libertà politica. Queste organizzazioni, in quanto incarnano una dottrina che interpreta il processo rivoluzionario e ne prevede (entro certi limiti di probabilità storica) lo sviluppo, in quanto sono riconosciute dalle grandi masse come un loro riflesso e un loro embrionale apparecchio di governo, sono attualmente e sempre piú diventeranno gli agenti diretti e responsabili dei successivi atti di liberazione che l’intiera classe lavoratrice tenterà nel corso del processo rivoluzionario. Ma tuttavia esse non incarnano questo processo, esse non superano lo Stato borghese, esse non abbracciano e non possono abbracciare tutto il molteplice pullulare di forze rivoluzionarie che il capitalismo scatena nel suo procedere implacabile di macchina da sfruttamento e da oppressione. Nel periodo di predominio economico e politico della classe borghese lo svolgimento reale del processo rivoluzionario avviene sotterraneamente, nell’oscurità della fabbrica e nell’oscurità della coscienza delle moltitudini sterminate che il capitalismo assoggetta alle sue leggi: esso non è controllabile e documentabile, lo sarà in avvenire quando gli elementi che lo costituiscono (i sentimenti, le velleità, le abitudini, i germi di iniziativa e di costume) si saranno sviluppati e purificati con lo svilupparsi della società, con lo svilupparsi della situazione che la classe operaia viene ad occupare nel campo della produzione. Le organizzazioni rivoluzionarie (il partito politico e il sindacato professionale) sono nate nel campo della libertà politica, nel campo della democrazia borghese, come affermazione e sviluppo della libertà e della democrazia in generale, in un campo in cui sussistono i rapporti di cittadino a cittadino: il processo rivoluzionario si attua nel campo della produzione, nella fabbrica, dove i rapporti sono di oppressore a oppresso, di sfruttatore a sfruttato, dove non esiste libertà per l’operaio, dove non esiste democrazia; il processo rivoluzionario si attua dove l’operaio è nulla e vuol diventare tutto, dove il potere del proprietario è illimitato, è potere di vita e di morte sull’operaio, sulla donna dell’operaio, sui figli dell’operaio. Quando noi diciamo che il processo storico della rivoluzione operaia, che è immanente nella convivenza umana in regime capitalista, che ha le leggi in se stesso e si svolge necessariamente per il confluire di una molteplicità di azioni incontrollabili perché create da una situazione che non è voluta dall’operaio e non è prevedibile dall’operaio, quando noi diciamo che il processo storico della rivoluzione operaia è affiorato alla luce, è diventato controllabile e documentabile? Noi diciamo questo quando tutta la classe operaia è diventata rivoluzionaria, non piú nel significato che essa rifiuta genericamente di collaborare agli istituti di governo della classe borghese, non piú nel senso che essa rappresenta una opposizione nel campo della democrazia, ma nel senso che tutta la classe operaia, quale si ritrova in una fabbrica, inizia un’azione che deve necessariamente sboccare nella fondazione di uno Stato operaio, che deve necessariamente condurre a configurare la società umana in una forma che è assolutamente originale, in una forma universale, che abbraccia tutta l’Internazionale operaia e quindi tutta l’umanità. E noi diciamo che il periodo attuale è rivoluzionario appunto perché constatiamo che la classe operaia, in tutte le nazioni, tende a creare, tende con tutte le sue energie - pur tra gli errori, i tentennamenti, gli impacci propri di una classe oppressa, che non ha esperienza storica, che deve tutto fare originalmente - a esprimere dal suo seno istituti di tipo nuovo nel campo operaio, istituti a base rappresentativa, costruiti entro una schema industriale; noi diciamo che il periodo attuale è rivoluzionario perché la classe operaia tende con tutte le sue forze, con tutta la sua volontà a fondare il suo Stato. Ecco perché noi diciamo che la nascita dei Consigli operai di fabbrica rappresenta un grandioso evento storico, rappresenta l’inizio di una nuova èra nella storia del genere umano: per essa il processo rivoluzionario è affiorato alla luce, entra nella fase in cui può essere controllato e documentato. Nella fase liberale del processo storico della classe borghese e della società dominata dalla classe borghese, la cellula elementare dello Stato era il proprietario che nella fabbrica soggioga al suo profitto la classe operaia. Nella fase liberale il proprietario era anche imprenditore, era anche industriale: il potere industriale, la fonte del potere industriale era nella fabbrica, e l’operaio non riusciva a liberare la sua coscienza dalla persuasione della necessità del proprietario, la cui persona si identificava con la persona dell’industriale, con la persona del gestore responsabile della produzione e quindi anche del suo salario, del suo pane, del suo abito, del suo tetto. Nella fase imperialista del processo storico della classe borghese, il potere industriale di ogni fabbrica si stacca dalla fabbrica e si accentra in un trust, in un monopolio, in una banca, nella burocrazia statale. Il potere industriale diventa irresponsabile e quindi piú autocratico, piú spietato, piú arbitrario: ma l’operaio, liberato dalla soggezione del «capo», liberato dallo spirito servile di gerarchia, spinto anche dalle nuove condizioni generali in cui la società si trova dipendentemente dalla nuova fase storica, l’operaio attua inapprezzabili conquiste di autonomia e di iniziativa. Nella fabbrica la classe operaia diventa un determinato «strumento di produzione» in una determinata costituzione organica; ogni operaio entra «casualmente» a far parte di questo corpo costituito casualmente per ciò che riguarda la sua volontà, ma non casualmente per ciò che riguarda la sua destinazione di lavoro, poiché egli rappresenta una necessità determinata del processo di lavoro e di produzione e solo per ciò viene assunto, solo per ciò può guadagnarsi il pane: egli è un ingranaggio della macchina-divisione del lavoro, della classe operaia determinatasi in uno strumento di produzione. Se l’operaio acquista coscienza chiara di questa sua «necessità determinata» e la pone a base di un apparecchio rappresentativo a tipo statale (cioè non volontario, contrattualista, per via di tessera, ma assoluto, organico, aderente ad una realtà che è necessario riconoscere se si vuole avere assicurati il pane, il vestito, il tetto, la produzione industriale): se l’operaio, se la classe operaia fa questo, essa fa una cosa grandiosa, essa inizia una storia nuova, essa inizia l’èra degli Stati operai che dovranno confluire alla formazione della società comunista, del mondo organizzato sulla base e sul tipo della grande officina meccanica, della Internazionale comunista nella quale ogni popolo, ogni parte di umanità acquista figura in quanto esercita una determinata produzione preminente e non piú in quanto è organizzata in forma di Stato e ha determinate frontiere. In quanto costruisce questo apparecchio rappresentativo, in realtà la classe operaia compie l’espropriazione della prima macchina, del piú importante strumento di produzione: la classe operaia stessa, che si è ritrovata, che ha acquistato coscienza della sua unità organica e che unitariamente si contrappone al capitalismo. La classe operaia afferma cosí che il potere industriale, che la fonte del potere industriale deve ritornare alla fabbrica, pone nuovamente la fabbrica, dal punto di vista operaio, come forma in cui la classe operaia si costituisce in corpo organico determinato, come cellula di un nuovo Stato, lo Stato operaio, come base di un nuovo sistema rappresentativo, il sistema dei Consigli. Lo Stato operaio, poiché nasce secondo una configurazione produttiva, crea già le condizioni del suo sviluppo, del suo dissolversi come Stato, del suo incorporarsi organico in un sistema mondiale, l’Internazionale comunista. Come oggi, nel Consiglio di una grande officina meccanica, ogni squadra di lavorazione (di mestiere) si amalgama, dal punto di vista proletario, con le altre squadre di un reparto, ogni momento della produzione industriale si fonde, dal punto di vista proletario, con gli altri momenti e pone in rilievo il processo produttivo, cosí nel mondo, il carbone inglese si fonde col petrolio russo, il grano siberiano con lo zolfo di Sicilia, il riso del Vercellese col legname della Stiria... in un organismo unico, sottoposto a una amministrazione internazionale che governa la ricchezza del globo in nome dell’intera umanità. In questo senso il Consiglio operaio di fabbrica è la prima cellula di un processo storico che deve culminare nell’Internazionale comunista, non piú come organizzazione politica del proletariato rivoluzionario, ma come riorganizzazione dell’economia mondiale e come riorganizzazione di tutta la convivenza umana, nazionale e mondiale. Ogni azione attuale rivoluzionaria ha valore, è reale storicamente, in quanto aderisce a questo processo, in quanto è concepita ed è un atto di liberazione di questo processo dalle soprastrutture borghesi che lo costringono e lo inceppano. I rapporti che devono intercorrere tra il partito politico e il Consiglio di fabbrica, tra il sindacato e il Consiglio di fabbrica risultano già implicitamente da questa esposizione: il partito e il sindacato non devono porsi come tutori o come superstrutture già costituite di questa nuova istituzione, in cui prende forma storica controllabile il processo storico della rivoluzione, essi devono porsi come agenti consapevoli della sua liberazione dalle forze di compressione che si riassumono nello Stato borghese, devono proporsi di organizzare le condizioni esterne generali (politiche) in cui il processo [della] rivoluzione abbia la sua massima celerità, in cui le forze produttive liberate trovino la massima espansione. Sindacati e Consigli(31) Il sindacato non è questa o quella definizione del sindacato: il sindacato diventa una determinata definizione e cioè assume una determinata figura storica in quanto le forze e la volontà operaie che lo costituiscono gli imprimono quell’indirizzo e pongono alla sua azione quel fine che sono affermati nella definizione. Obbiettivamente il sindacato è la forma che la merce-lavoro assume e sola può assumere in regime capitalista quando si organizza per dominare il mercato: questa forma è un ufficio costituito di funzionari, tecnici (quando sono tecnici) dell’organizzazione, specialisti (quando sono specialisti) nell’arte di concentrare e di guidare le forze operaie in modo da stabilire con la potenza del capitale un equilibrio vantaggioso alla classe operaia. Lo sviluppo dell’organizzazione sindacale è caratterizzato da questi due fatti: 1) il sindacato abbraccia una sempre maggior quantità di effettivi operai, cioè incorpora nella disciplina della sua forma una sempre maggior quantità di effettivi operai; 2) il sindacato concentra e generalizza la sua forma fino a riporre in un ufficio centrale il potere della disciplina e del movimento: esso cioè si stacca dalle masse che ha irreggimentato, si pone fuori dal gioco dei capricci, delle velleità, delle volubilità che sono proprie delle grandi masse tumultuose. Cosí il sindacato diventa capace a contrarre patti, ad assumersi impegni: cosí esso costringe l’imprenditore ad accettare una legalità nei suoi rapporti con l’operaio, legalità che è condizionata dalla fiducia che l’imprenditore ha nella solvibilità del sindacato, dalla fiducia che l’imprenditore ha nella capacità del sindacato di ottenere da parte delle masse operaie il rispetto degli obblighi contratti. L’avvento di una legalità industriale è stata una grande conquista della classe operaia, ma essa non è l’ultima e definitiva conquista: la legalità industriale ha migliorato le condizioni della vita materiale della classe operaia, ma essa non è piú che un compromesso, che è stato necessario compiere, che sarà necessario sopportare fin quando i rapporti di forza saranno sfavorevoli alla classe operaia. Se i funzionari dell’organizzazione sindacale considerano la legalità industriale come un compromesso necessario ma non perpetuamente, se essi rivolgono tutti i mezzi di cui il sindacato può disporre per migliorare i rapporti di forza in senso favorevole alla classe operaia, se essi svolgono tutto il lavoro di preparazione spirituale e materiale necessario perché la classe operaia possa in un momento determinato iniziare un’offensiva vittoriosa contro il capitale e sottometterlo alla sua legge, allora il sindacato è uno strumento rivoluzionario, allora la disciplina sindacale, pur quando è rivolta a far rispettare dagli operai la legalità industriale, è disciplina rivoluzionaria. I rapporti che devono intercorrere tra sindacato e Consiglio di fabbrica debbono essere considerati da questo punto di vista: dal giudizio che si dà sulla natura e il valore della legalità industriale. Il Consiglio è la negazione della legalità industriale, tende ad annientarla in ogni istante, tende incessantemente a condurre la classe operaia alla conquista del potere industriale, a far diventare la classe operaia la fonte del potere industriale. Il sindacato è un elemento della legalità, e deve proporsi di farla rispettare dai suoi organizzati. Il sindacato è responsabile verso gli industriali, ma è responsabile verso gli industriali in quanto è responsabile verso i suoi organizzati: esso garantisce la continuità del lavoro e del salario, e cioè del pane e del tetto, all’operaio e alla famiglia dell’operaio. Il Consiglio tende, per la sua spontaneità rivoluzionaria, a scatenare in ogni momento la guerra delle classi; il sindacato, per la sua forma burocratica, tende a non lasciare che la guerra di classe venga mai scatenata. I rapporti tra le due istituzioni devono tendere a creare una situazione in cui non avvenga che un impulso capriccioso del Consiglio determini un passo indietro della classe operaia, determini una sconfitta della classe operaia, una situazione cioè in cui il Consiglio accetti e faccia propria la disciplina del sindacato, e a creare una situazione in cui il carattere rivoluzionario del Consiglio abbia un influsso sul sindacato, sia un reagente che dissolva la burocrazia e il funzionarismo sindacale. Il Consiglio vorrebbe uscire, in ogni momento, dalla legalità industriale: il Consiglio è la massa, sfruttata, tiranneggiata, costretta al lavoro servile, e perciò tende a universalizzare ogni ribellione, a dare valore e portata risolutiva a ogni suo atto di potere. Il sindacato, come ufficio responsabile in solido della legalità, tende a universalizzare e perpetuare la legalità. I rapporti tra sindacato e Consiglio devono creare le condizioni in cui l’uscita dalla legalità, l’offensiva della classe operaia, avvenga nel momento piú opportuno per la classe operaia, avvenga quando la classe operaia ha quel minimo di preparazione che si ritiene indispensabile per vincere durevolmente. I rapporti tra sindacato e Consiglio non possono essere stabiliti da altro legame che non sia questo: la maggioranza o una parte cospicua degli elettori del Consiglio sono organizzati nel sindacato. Ogni tentativo di legare con rapporti di dipendenza gerarchica i due istituti non può condurre che all’annientamento di entrambi. Se la concezione che fa del Consiglio un mero strumento di lotta sindacale si materializza in una disciplina burocratica e in una facoltà di controllo diretto del sindacato sul Consiglio, il Consiglio si isterilisce come espansione rivoluzionaria, come forma dello sviluppo reale della rivoluzione proletaria che tende spontaneamente a creare nuovi modi di produzione e di lavoro, nuovi modi di disciplina, che tende a creare la società comunista. Poiché il Consiglio nasce dipendentemente dalla posizione che la classe operaia è venuta acquistando nel campo della produzione industriale, poiché il Consiglio è una necessità storica della classe operaia, il tentativo di subordinarlo gerarchicamente al sindacato determinerebbe prima o poi un cozzo tra le due istituzioni. La forza del Consiglio consiste nel fatto che esso aderisce alla coscienza della massa operaia, è la stessa coscienza della massa operaia che vuole emanciparsi autonomamente, che vuole affermare la sua libertà di iniziativa nella creazione della storia: tutta la massa partecipa alla vita del Consiglio e sente di essere qualcosa per questa sua attività. Alla vita del sindacato partecipa un numero ristrettissimo di organizzati; la forza reale del sindacato è in questo fatto, ma in questo fatto è anche una debolezza che non può essere messa alla prova senza gravissimi pericoli. Se d’altronde il sindacato poggiasse direttamente sui Consigli, non per dominarli, ma per diventarne la forma superiore, si rifletterebbe nel sindacato la tendenza propria dei Consigli a uscire in ogni istante dalla legalità industriale, a scatenare in qualsiasi momento l’azione risolutiva della guerra di classe. Il sindacato perderebbe la sua capacità a contrarre impegni, perderebbe il suo carattere di forza disciplinatrice e regolatrice delle forze impulsive della classe operaia. Se gli organizzati stabiliscono nel sindacato una disciplina rivoluzionaria, stabiliscono una disciplina che appaia alla massa come una necessità per il trionfo della rivoluzione operaia e non come una servitú verso il capitale, questa disciplina verrà indubbiamente accettata e fatta propria dal Consiglio, diverrà la forma naturale dell’azione svolta dal Consiglio. Se l’ufficio del sindacato diventa un organismo di preparazione rivoluzionaria, e tale appare alle masse per l’azione che riesce a svolgere, per gli uomini che lo compongono, per la propaganda che sviluppa, allora il suo carattere concentrato e assoluto sarà visto dalle masse come una maggiore forza rivoluzionaria, come una condizione in piú (e delle piú importanti) per il successo della lotta impegnata a fondo. Nella realtà italiana, il funzionario sindacale concepisce la legalità industriale come una perpetuità. Egli troppo spesso la difende da un punto di vista che è lo stesso punto di vista del proprietario. Egli vede solo caos e arbitrio in tutto quanto succede tra la massa operaia: egli non universalizza l’atto di ribellione dell’operaio alla disciplina capitalistica come ribellione, ma come materialità dell’atto che può essere in sé e per sé triviale. Cosí è avvenuto che la storiella dell’«impermeabile del facchino» abbia avuto la stessa diffusione e sia stata interpretata dalla stupidità giornalistica allo stesso modo della storiella sulla «socializzazione delle donne in Russia». In queste condizioni la disciplina sindacale non può essere che un servizio reso al capitale; in queste condizioni ogni tentativo di subordinare il Consiglio al sindacato non può essere giudicato che reazionario. I comunisti, in quanto vogliono che l’atto rivoluzionario sia, per quanto è possibile, cosciente e responsabile, vogliono che la scelta, per quanto può essere scelta, del momento di scatenare l’offensiva operaia rimanga alla parte piú cosciente e responsabile della classe operaia, a quella parte che è organizzata nel Partito socialista e che piú attivamente partecipa alla vita dell’organizzazione. Per ciò i comunisti non possono volere che il sindacato perda della sua energia disciplinatrice e della sua concentrazione sistematica. I comunisti, costituendosi in gruppi organizzati permanentemente nei sindacati e nelle fabbriche, devono trasportare nei sindacati e nelle fabbriche le concezioni, le tesi, la tattica della III Internazionale, devono influenzare la disciplina sindacale e determinarne i fini, devono influenzare le deliberazioni dei Consigli di fabbrica e far diventare coscienza e creazione rivoluzionaria gli impulsi alla ribellione che scaturiscono dalla situazione che il capitalismo crea alla classe operaia. I comunisti del Partito hanno il maggiore interesse, perché su di essi pesa la maggiore responsabilità storica, a suscitare, con la loro azione incessante, tra i diversi istituti della classe operaia, rapporti di compenetrazione e di naturale interdipendenza che vivifichino la disciplina e l’organizzazione con lo spirito rivoluzionario. Dove va il Partito socialista?(32) L’azione diretta delle masse non può essere che eminentemente distruttiva. Se le masse raccolgono una parola d’ordine che le indirizza all’esercizio del controllo sull’attività pubblica e privata della classe capitalistica, la loro azione non può che giungere fino alla distruzione completa di tutta la macchina statale. Il proletariato ha raccolto la parola d’ordine: bisogna controllare i traffici perché non partano armi e munizioni destinate ai nemici della rivoluzione russa, perché non partano merci destinate all’Ungheria dei magnati terrieri, perché non avvengano movimenti di truppe destinate a riaccendere la guerra nei Balcani e in tutta Europa; era ineluttabile che si arrivasse fino ai fatti di Ancona, fino all’insurrezione armata. L’azione diretta delle masse operaie è rivoluzionaria appunto perché eminentemente distruttiva. Poiché la classe operaia non ha nessun potere sul governo industriale, è naturale riveli l’acquistata potenza economica tentando distruggere la disciplina industriale e tutta la disciplina industriale; poiché la classe operaia occupa nell’esercito la stessa posizione che occupa nella fabbrica, poiché tanto nella fabbrica come nell’esercito la classe operaia deve subire una disciplina e una legge che non ha contribuito a stabilire, è naturale che essa tenda a distruggere la disciplina dell’esercito, e a distruggerla completamente; poiché tutto l’apparecchio dello Stato borghese è completamente estraneo ed ostile alle masse proletarie, è naturale che ogni azione rivolta a controllare direttamente l’attività governativa giunga fino alla distruzione completa dell’apparecchio di Stato borghese, fino all’insurrezione armata. I comunisti sono ben persuasi che cosí debba avvenire, che non possa avvenire altrimenti di cosí; perciò i comunisti non hanno paura dell’azione diretta delle masse e delle distruzioni che ineluttabilmente essa porta con sé. Si ha paura dell’imprevedibile e dell’imprevisto, non di ciò che si attende come una necessità e che si cerca di promuovere: che si cerca di promuovere per essere in grado di dominare la realtà che si prevede sia per scaturirne, per ottenere che la distruzione contenga già coscientemente gli elementi e la volontà di ricostruzione, per ottenere che la violenza non sia sterile scatenamento di furori ciechi, ma sia potenza economica e politica che libera se stessa e pone le condizioni del suo sviluppo. La parola d’ordine per il controllo dell’attività governativa ha portato agli scioperi ferroviari, agli scioperi generali scaturiti dagli scioperi ferroviari, ha portato all’insurrezione di Ancona. Poiché la Confederazione generale del lavoro (idest il facente funzione di segretario) ha sul controllo operaio una concezione da giardiniere inglese, poiché la Confederazione generale del lavoro vuole un controllo operaio ben educato, che rispetti la libertà, l’ordine e la democrazia, la Confederazione ha subito diramato questa circolare: «Per l’Ungheria e per la Russia dobbiamo far quel che si può (!?!) e non quello che si desidererebbe. Ci sembra che lo spiombamento di tutti i carri sia, oltre che difficile praticamente, tale da portare conseguenze (!) e complicazioni (!?!). La vostra azione perciò deve essere limitata al possibile, a tutto il possibile evitando complicazioni». L’economia precede la politica; poiché i riformisti e gli opportunisti hanno in mano tutto il congegno del movimento sindacale italiano, i riformisti e gli opportunisti hanno in mano la potenza del Partito socialista, impongono al Partito l’indirizzo e la tattica: l’azione del Partito si è afflosciata, i movimenti di massa hanno servito al gruppo parlamentare per mietere trionfi su trionfi, hanno servito ai deputati riformisti per consolidare la loro posizione e per rendere piú agevole, e quindi piú carica di allori, una salita al potere governativo. Cosí avviene, per l’incapacità politica dei componenti la direzione, che il Partito socialista italiano perda ogni giorno piú della sua forza e del suo potere organizzativo sulle masse, cosí è avvenuto che il Congresso anarchico di Bologna abbia avuta tanta importanza per le masse proletarie, cosí avverrà, se i gruppi comunisti non reagiscono energicamente, che il Partito finirà col perdere ogni controllo sulle masse, e queste, non avendo nessuna guida, saranno, dallo svolgersi degli avvenimenti, cacciate in una situazione peggiore di quella delle masse proletarie di Austria e di Germania. Noi dell’Ordine Nuovo e i socialisti torinesi in genere siamo stati presentati al proletariato italiano, dopo il movimento dell’aprile, come una razzamaglia di frenetici, di scalmanati e di indisciplinati. Poiché i dirigenti degli uffici centrali non si occupano di quanto succede tra gli industriali e di quanto succede tra gli operai, poiché essi vedono la storia come svolgentesi per opera di astrazioni ideologiche (le classi in genere, il partito in genere, l’umanità in genere) e non per opera degli uomini reali che si chiamano Pietro, Paolo, Giovanni e sono quello che sono realmente, e non per opera delle comunità urbane e rurali determinate nello spazio e nel tempo, che mutano (e rapidamente mutano nel periodo attuale) col mutare di luoghi e col volgere dei mesi e anche delle settimane, cosí questi dirigenti non prevedono nulla, e sono portati a scorgere una coda di diavolo in ogni evento, e sono portati a scaricarsi della loro responsabilità storica sulle spalle dei moltiplicatisi gruppi di indisciplinati e di anarcoidi. Intanto la sezione socialista torinese ha avuto il merito di impostare un’azione per togliere ai riformisti il controllo del movimento sindacale, prevedendo (facile previsione) che nei momenti supremi i capi sindacalisti avrebbero sabotato la volontà del Partito e delle masse: questa azione non ha avuto i risultati che avrebbe dovuto avere per l’intervento proprio... della direzione del Partito. La sezione torinese, accusata di indisciplina dopo il movimento dell’aprile, aveva prima del movimento preparato la sua relazione al Consiglio nazionale nella quale biasimava aspramente la direzione per non aver dedicato nessuna cura all’organizzazione rivoluzionaria e allo stabilirsi di una disciplina fortemente accentrata e responsabile. Purtroppo la relazione della sezione torinese è ancora oggi di attualità; gli ultimi avvenimenti sono la ripetizione aggravata degli avvenimenti torinesi dell’aprile. È diventato di attualità piú di quanto avessimo potuto credere, anche questo paragrafo: «Il partito politico della classe operaia è giustificato solo in quanto, accentrando e coordinando fortemente l’azione proletaria, contrappone un potere rivoluzionario di fatto al potere legale dello Stato borghese e ne limita la libertà di iniziativa e di manovra; se il Partito non realizza l’unità e la simultaneità degli sforzi, se il Partito si rivela un mero organismo burocratico senza anima e senza volontà, la classe operaia istintivamente tende a costituirsi un altro partito e si sposta verso le tendenze anarchiche, che appunto aspramente e incessantemente criticano l’accentramento e il funzionarismo dei partiti politici». Manca al Partito l’organizzazione e la propaganda per l’organizzazione rivoluzionaria, che aderisca alla configurazione delle masse proletarie nelle fabbriche, nelle caserme, negli uffici e sia in grado di inquadrare le masse ad ogni sussulto rivoluzionario. Il Partito, in quanto non cerca di fondersi vitalmente con le masse proletarie, continua a conservare, nelle sue assemblee che si riuniscono saltuariamente e non possono controllare con efficacia l’azione dei capi sindacalisti, la figura di un partito meramente parlamentare, che ha paura dell’azione diretta perché piena di imprevisti, che è costretto ogni giorno piú a far passi indietro e a permettere la rinascita del piú bolso e piatto riformismo e della piú scempia propaganda collaborazionista. Uno sforzo immane deve essere compiuto dai gruppi comunisti del Partito socialista, che è quello che è, in ultima analisi, perché l’Italia è nel suo complesso un paese economicamente arretrato. La parola d’ordine: «pessimismo dell’intelligenza, ottimismo della volontà» deve essere la parola d’ordine di ogni comunista consapevole degli sforzi e dei sacrifizi che sono domandati a chi volontariamente si è assunto un posto di militante nelle file della classe operaia. La Russia, potenza mondiale(33) Lo Stato operaio, secondo l’energica definizione di Lenin, è uno Stato borghese senza la borghesia. Lo Stato operaio deve risolvere, all’interno come all’estero, gli stessi problemi di uno Stato borghese e non può risolverli con sistemi e con mezzi tecnici sostanzialmente molto diversi da quelli adoperati da uno Stato borghese. Lo Stato operaio russo ha risolto all’interno i fondamentali problemi della sua esistenza e del suo sviluppo: che li abbia risolti appare, in modo vistoso, dall’efficienza, e dalla combattività del suo esercito. L’esercito è l’espressione «fisiologicamente» piú tipica della reale forza di un organismo sociale: non può concepirsi Stato senza esercito, non può concepirsi esercito disciplinato, valoroso, ricco di iniziativa bellica, se non come funzione di uno Stato saldamente fondato, sorretto dalla volontà permanente e dal permanente spirito di disciplina e di sacrifizio della popolazione. La classe operaia è in Russia una piccola minoranza della popolazione, ma essa era ed è la sola classe sociale storicamente preparata ad assumere e a mantenere il potere, la sola classe capace, attraverso il suo partito politico, il Partito comunista, di costruire uno Stato. La classe operaia russa era ed è storicamente forte e matura, non in quanto i suoi componenti corrispondono numericamente alla maggioranza della popolazione, ma in quanto, attraverso il suo partito politico, essa si dimostra capace di costruire uno Stato, in quanto cioè la classe operaia riesce a convincere la maggioranza della popolazione, costituita dagli informi strati delle classi medie, delle classi intellettuali, delle classi contadinesche, che i suoi interessi immediati e futuri coincidono con gli interessi della maggioranza stessa; su questo convincimento, divenuto coscienza diffusa della società, si fonda appunto lo Stato, si fonda il consenso nazionale alle iniziative e alle azioni del potere operaio, si fonda la disciplina e lo spirito di gerarchia. Gerarchia? Sí, gerarchia; il potere operaio è la fondazione di una nuova gerarchia delle classi sociali; gli intellettuali, i contadini, tutte le classi medie, riconoscono nella classe operaia la fonte del potere di Stato, riconoscono la classe operaia come classe dirigente; interrogate nei suffragi, per gli istituti rappresentativi, scelgono i deputati nel partito della classe operaia, nel Partito comunista queste classi dànno le masse di fanteria e di cavalleria all’esercito rosso che difende lo Stato dalle aggressioni esterne, dànno le masse di manovali all’esercito del lavoro che combatte contro il freddo e la fame, dànno i tecnici per l’industria e l’agricoltura, dànno i tecnici dell’arte militare, tutte queste classi contribuiscono a dare vita alle diverse funzioni dell’apparecchio statale della nazione russa, che è in mano alla classe operaia e non piú in mano ai capitalisti. Ecco il fondamentale problema storico che ha risolto la classe operaia russa, ecco perché la classe operaia russa ha dimostrato di essere storicamente matura, di essere la depositaria dei destini del popolo russo: la classe operaia russa ha organizzato la società russa, in tutti i suoi diversi strati, e l’ha organizzata in modo che gli sforzi comuni, i sacrifizi comuni, le volontà comuni fossero rivolti a un fine unico, all’attuazione del programma operaio, divenuto idea e missione dello Stato. Solo Stato operaio nel mondo, circondato da una muta feroce di implacabili nemici, la Russia dei Soviet doveva risolvere un secondo problema esistenziale: fissare la sua posizione nel sistema mondiale delle potenze. Lo Stato operaio russo ha risolto oggi questo problema e lo ha risolto, con i mezzi e i sistemi con cui lo avrebbe risolto uno Stato borghese: con la forza militare, vincendo una guerra. Non poteva fare altrimenti, nessun altro Stato operaio avrebbe potuto e potrà fare altrimenti. L’esercito rosso ha disfatto la Polonia; le potenze capitaliste non hanno potuto aiutare la Polonia, hanno dovuto lasciare che la disfatta polacca avvenisse, hanno dovuto subire l’umiliazione, hanno dovuto convenire di essere incapaci a far marciare i loro eserciti, hanno dovuto riconoscere di non avere un esercito, di non avere il consenso delle masse umane governate, di essere solo vuote e inanimate organizzazioni burocratiche, senza autorità, senza prestigio. La Russia dei Soviet è diventata cosí potenza mondiale, è diventata la piú grande delle potenze mondiali, tale da equilibrare con il suo peso e la sua statura storica tutto il sistema capitalistico mondiale. La Russia, con la sua vittoria militare, per la virtú del suo esercito, si è posta a capo, sulla scala mondiale, del sistema di potenze reali che lottano contro il capitalismo egemonico: essa incarna la ribellione delle classi operaie contro i loro sfruttatori ed è sostenuta dalle classi operaie esplicitamente; essa incarna la sofferenza e la fame delle nazioni vinte nella guerra mondiale, incarna la vendetta delle nazioni vincitrici militarmente, ma disfatte economicamente, incarna l’insurrezione delle colonie dissanguate dalle metropoli, incarna tutto l’informe conglomerato di ribellioni contro lo sfruttamento egemonico del capitalismo; essa riproduce su scala mondiale la stessa gerarchia di valori sociali che ha attuato all’interno del suo Stato, essa realizza su scala mondiale un momento della dittatura proletaria su tutte le classi medie della società umana per lo schiacciamento della classe capitalista, antagonista del proletariato! La guerra mondiale, vinta dall’Intesa, avrebbe dovuto, con la pace di Versailles e con la Lega delle Nazioni, instaurare un regime di monopolio sul globo; al sistema di equilibrio e di concorrenza fra gli Stati doveva succedere una incontrastata egemonia. La Russia dei Soviet, acquistando la posizione di grande potenza, ha infranto il sistema egemonico, ha riportato il principio della lotta tra gli Stati, ha impostato su una scala mondiale, in una forma assolutamente impreveduta per il pensiero socialista, la lotta della Internazionale operaia contro il capitalismo. Il programma dell’«Ordine Nuovo»(34) I Quando, nel mese di aprile 1919, abbiamo deciso, in tre, o quattro, o cinque (e di quelle nostre discussioni e deliberazioni devono ancora esistere, perché furono compilati e trascritti in bella copia, i verbali, sissignori, proprio i verbali... per la storia!), di iniziare la pubblicazione di questa rassegna Ordine Nuovo, nessuno di noi (forse nessuno...) pensava di cambiare la faccia al mondo, pensava di rinnovare i cervelli e i cuori delle moltitudini umane, pensava di aprire un nuovo ciclo nella storia. Nessuno di noi (forse nessuno: qualcuno fantasticava di 6.000 abbonati in qualche mese) accarezzava illusioni rosee sulla buona riuscita dell’impresa. Chi eravamo? Che rappresentavamo? Di quale nuova parola eravamo i portatori? Ahimè! L’unico sentimento che ci unisse, in quelle nostre riunioni, era quello suscitato da una vaga passione di una vaga cultura proletaria; volevamo fare, fare, fare; ci sentivamo angustiati, senza un orientamento, tuffati nell’ardente vita di quei mesi dopo l’armistizio, quando pareva immediato il cataclisma della società italiana. Ahimè! L’unica parola nuova, che fosse stata pronunziata in quelle riunioni fu soffocata. Fu detto, da uno che era un tecnico: «Bisogna studiare l’organizzazione della fabbrica come strumento di produzione: dobbiamo consacrare tutta la nostra attenzione ai sistemi capitalistici di produzione e di organizzazione e dobbiamo lavorare per far convergere l’attenzione della classe operaia e del Partito su questo oggetto». Fu detto, da un altro che si preoccupava dell’organizzazione degli uomini, della storia degli uomini, della psicologia della classe operaia: «Bisogna studiare ciò che avviene in mezzo alle masse operaie. Esiste in Italia, come istituzione della classe operaia, qualcosa che possa essere paragonato al Soviet, che partecipi della sua natura? qualcosa che ci autorizzi ad affermare: il Soviet è una forma universale, non è un istituto russo, solamente russo; il Soviet è la forma in cui, da per tutto ove esistono proletari in lotta per conquistare l’autonomia industriale, la classe operaia manifesta questa volontà di emanciparsi; il Soviet è la forma di autogoverno delle masse operaie; esiste un germe, una velleità, una timidezza di governo dei Soviet in Italia, a Torino?». Quell’altro, che era stato impressionato da questa domanda rivoltagli a bruciapelo da un compagno polacco: «Perché non si è mai tenuto in Italia un congresso delle Commissioni interne?», rispondeva, in quelle riunioni, alle sue stesse domande: «Sí, esiste in Italia, a Torino, un germe di governo operaio, un germe di Soviet; è la Commissione interna; studiamo questa istituzione operaia, facciamo un’inchiesta, studiamo pure la fabbrica capitalista, ma non come organizzazione della produzione materiale, ché dovremmo avere una cultura specializzata che non abbiamo; studiamo la fabbrica capitalista come forma necessaria della classe operaia, come organismo politico, come “territorio nazionale” dell’autogoverno operaio». Quella parola era nuova; essa fu respinta proprio dal compagno Tasca. Cosa voleva il compagno Tasca? Egli voleva che non si iniziasse nessuna propaganda direttamente tra le masse operaie, egli voleva un accordo con i segretari delle federazioni e dei sindacati, egli voleva che si promovesse un convegno con questi segretari, e si costruisse un piano per una azione ufficiale; il gruppo dell’Ordine Nuovo sarebbe stato cosí ridotto al livello di una cricca irresponsabile di presuntuosi e di mosche cocchiere. Quale fu dunque il programma reale dei primi numeri dell’Ordine Nuovo? Il programma fu l’assenza di un programma concreto, per una vana e vaga aspirazione ai problemi concreti. Quale fu l’idea dei primi numeri dell’Ordine Nuovo? Nessuna idea centrale, nessuna organizzazione intima del materiale letterario pubblicato. Cosa intendeva il compagno Tasca per «cultura», e, dico, cosa intendeva concretamente, non astrattamente? Ecco cosa intendeva il compagno Tasca per «cultura»: intendeva «ricordare», non intendeva «pensare», e intendeva «ricordare» cose fruste, cose logore, la paccottiglia del pensiero operaio; intendeva far conoscere alla classe operaia italiana, «ricordare» per la buona classe operaia italiana, che è cosí arretrata, che è cosí rozza e incolta, ricordare che Louis Blanc ha fatto dei pensamenti sull’organizzazione del lavoro, e che tali pensamenti hanno dato luogo a esperienze reali; «ricordare» che Eugenio Fournière ha compilato un accurato componimento scolastico per scodellare caldo caldo (o freddo freddo) uno schema di Stato socialista; «ricordare», con lo spirito di Michelet (o del buon Luigi Molinari), la Comune di Parigi, senza neppure subodorare che i comunisti russi, sulle tracce di Marx, ricongiungono il Soviet, il sistema dei Soviet, alla Comune di Parigi, senza neppure subodorare che i rilievi di Marx sul carattere «industriale» della Comune erano serviti ai comunisti russi per comprendere il Soviet, per elaborare l’idea del Soviet, per tracciare la linea d’azione del loro Partito, divenuto partito di governo. Cosa fu l’Ordine Nuovo nei primi numeri? Fu un’antologia, nient’altro che un’antologia; fu una rassegna come sarebbe potuta sorgere a Napoli, a Caltanissetta, a Brindisi; fu una rassegna di cultura astratta, di informazione astratta, con la tendenza a pubblicare novelline orripilanti e xilografie bene intenzionate; ecco cosa fu l’Ordine Nuovo nei suoi primi numeri, un disorganismo, il prodotto di un mediocre intellettualismo, che zampelloni cercava un approdo ideale e una via per l’azione. Questo fu l’Ordine Nuovo quale fu varato in seguito alle riunioni che tenemmo nell’aprile 1919, riunioni debitamente verbalizzate, riunioni nelle quali il compagno Tasca respinse, come non conformista alle buone tradizioni della morigerata e pacifica famigliola socialista italiana, la proposta di consacrare le nostre energie a «scoprire» una tradizione soviettista nella classe operaia italiana, a scavare il filone del reale spirito rivoluzionario italiano; reale perché coincidente con uno spirito universale dell’Internazionale operaia, perché prodotto di una situazione storica reale, perché risultato di una elaborazione della classe operaia stessa. Ordimmo, io e Togliatti, un colpo di Stato redazionale; il problema delle Commissioni interne fu impostato esplicitamente nel n. 7 della rassegna; qualche sera prima di scrivere l’articolo avevo sviluppato al compagno Terracini la linea dell’articolo e Terracini aveva espresso il suo pieno consenso come teoria e come pratica; l’articolo, per il consenso di Terracini, con la collaborazione di Togliatti, fu pubblicato e successe quanto era stato da noi previsto: fummo, io, Togliatti, Terracini, invitati a tenere conversazioni nei circoli educativi, nelle assemblee di fabbrica, fummo invitati dalle Commissioni interne a discutere in ristrette riunioni di fiduciari e collettori. Continuammo; il problema dello sviluppo della Commissione interna divenne problema centrale, divenne l’idea dell’Ordine Nuovo; era esso posto come problema fondamentale della rivoluzione operaia, era il problema della «libertà» proletaria. L’Ordine Nuovo divenne, per noi e per quanti ci seguivano, «il giornale dei Consigli di fabbrica»; gli operai amarono l’Ordine Nuovo (questo possiamo affermarlo con intima soddisfazione), e perché gli operai amarono l’Ordine Nuovo? Perché negli articoli del giornale ritrovavano una parte di se stessi, la parte migliore di se stessi; perché sentivano gli articoli dell’Ordine Nuovo pervasi dallo stesso loro spirito di ricerca interiore: «Come possiamo diventar liberi? Come possiamo diventare noi stessi?» Perché gli articoli dell’Ordine Nuovo non erano fredde architetture intellettuali, ma sgorgavano dalla discussione nostra con gli operai migliori, elaboravano sentimenti, volontà, passioni reali della classe operaia torinese, che erano state da noi saggiate e provocate, perché gli articoli dell’Ordine Nuovo erano quasi un «prendere atto» di avvenimenti reali, visti come momenti di un processo di intima liberazione ed espressione di se stessa da parte della classe operaia. Ecco perché gli operai amarono l’Ordine Nuovo ed ecco come si «formò» l’idea dell’Ordine Nuovo. Il compagno Tasca non collaborò per nulla a questa formazione, a questa elaborazione; l’Ordine Nuovo sviluppò la propria idea all’infuori della sua volontà e del suo «contributo» alla rivoluzione. In ciò io trovo la spiegazione del suo atteggiamento odierno e del «tono» della sua polemica; egli non ha lavorato faticosamente per raggiungere la «sua concezione» e non mi meraviglia che essa sia nata sconciamente, perché non amata, e non mi meraviglia che egli con tanta rozzezza abbia trattato l’argomento e con tanta sconsideratezza e assenza di disciplina interiore sia entrato nell’azione, per ridarle quel carattere ufficiale che aveva sostenuto e verbalizzato un anno prima. II Nella puntata precedente ho cercato di determinare l’origine della posizione mentale del compagno Tasca verso il programma dell’Ordine Nuovo, programma che si era venuto organizzando, conseguentemente alla esperienza reale da noi fatta delle necessità spirituali e pratiche della classe operaia, intorno al problema centrale dei Consigli di fabbrica. Poiché il compagno Tasca non ha partecipato a questa esperienza, poiché egli era anzi ostile a che essa si facesse, il problema dei Consigli di fabbrica gli è sfuggito nei suoi termini storici reali e nello sviluppo organico, che pur attraverso qualche esitazione e qualche comprensibile sbaglio, esso era venuto assumendo nella trattazione svolta da me, da Togliatti e dagli altri compagni che vollero aiutarci: per il Tasca il problema dei Consigli di fabbrica fu semplicemente un problema nel senso aritmetico della parola, fu il problema del come organizzare immediatamente tutta la classe degli operai e contadini italiani. In una delle sue puntate polemiche il Tasca scrive di considerare in uno stesso piano il Partito comunista, il sindacato e il Consiglio di fabbrica; in un altro punto dimostra di non aver capito il significato dell’attributo «volontario» che l’Ordine Nuovo dà alle organizzazioni di Partito e di sindacato a differenza del Consiglio di fabbrica, che viene assunto come una forma di associazione «storica», del tipo che oggi può essere paragonato solo con quello dello Stato borghese. Secondo la concezione svolta nell’Ordine Nuovo, concezione che, per essere tale, era organizzata intorno a un’idea, all’idea di libertà (e concretamente, nel piano della creazione storica attuale, intorno all’ipotesi di una azione autonoma rivoluzionaria della classe operaia), il Consiglio di fabbrica è un istituto di carattere «pubblico», mentre il Partito e il sindacato sono associazioni di carattere «privato». Nel Consiglio di fabbrica l’operaio entra a far parte come produttore, in conseguenza cioè di un suo carattere universale, in conseguenza della sua posizione e della sua funzione nella società, allo stesso modo che il cittadino entra a far parte dello Stato democratico parlamentare. Nel Partito e nel sindacato l’operaio entra a far parte «volontariamente», firmando un impegno scritto, firmando un «contratto», che egli può stracciare in ogni momento: il Partito e il sindacato, per questo loro carattere di «volontarietà», per questo loro carattere «contrattualista», non possono essere in nessun modo confusi col Consiglio, istituto rappresentativo, che si sviluppa non aritmeticamente ma morfologicamente, e tende, nelle sue forme superiori, a dare il rilievo proletario dell’apparecchio di produzione e di scambio creato dal capitalismo ai fini del profitto. Lo sviluppo delle forme superiori dell’organizzazione dei Consigli non era perciò dall’Ordine Nuovo indicato con la terminologia politica propria delle società divise in classi, ma con accenni all’organizzazione industriale. Il sistema dei Consigli non può, secondo la concezione svolta dall’Ordine Nuovo, esser espresso con la parola «federazione» o di simile significato, ma può essere rappresentato solo trasportando a tutto un centro industriale il complesso di rapporti industriali che in una fabbrica lega una squadra di lavorazione a un’altra squadra, un reparto a un altro reparto. L’esempio di Torino era per noi plastico, e perciò in un articolo Torino fu assunta come fucina storica della rivoluzione comunista italiana. In una fabbrica, gli operai sono produttori in quanto collaborano, ordinati in un modo determinato esattamente dalla tecnica industriale che (in un certo senso) è indipendente dal modo di appropriazione dei valori prodotti, alla preparazione dell’oggetto fabbricato. Tutti gli operai di una fabbrica di automobili, siano essi metallurgici, siano muratori, elettricisti, falegnami ecc., assumono il carattere e la funzione di produttori in quanto sono ugualmente necessari e indispensabili alla fabbricazione dell’automobile, in quanto, ordinati industrialmente, costituiscono un organismo storicamente necessario e assolutamente inscindibile. Torino si è storicamente sviluppata, come città, in questo modo: per il trasporto della capitale a Firenze e a Roma, e per il fatto che lo Stato italiano si è costituito inizialmente come dilatazione dello Stato piemontese, Torino è stata privata della classe piccolo-borghese, i cui elementi dettero il personale al nuovo apparecchio italiano. Ma il trasporto della capitale e questo depauperamento súbito di un elemento caratteristico delle città moderne, non determinarono un decadimento della città; essa anzi riprese a svilupparsi e il nuovo sviluppo avvenne organicamente a mano a mano che si sviluppava l’industria meccanica, il sistema di fabbriche della Fiat. Torino aveva dato al nuovo Stato la sua classe di intellettuali piccolo-borghesi; lo sviluppo dell’economia capitalistica, rovinando la piccola industria e l’artigianato della nazione italiana, fece affluire a Torino una massa proletaria compatta, che dette alla città la sua figura attuale, forse una delle piú originali di tutta Europa. La città assunse e mantiene una configurazione accentrata e organizzata naturalmente intorno a una industria che «governa» tutto il movimento urbano e ne regola gli sbocchi: Torino è la città dell’automobile, allo stesso modo che il Vercellese è l’organismo economico caratterizzato dal riso, il Caucaso dal petrolio, la Galles del Sud dal carbone ecc. Come in una fabbrica gli operai assumono una figura, ordinandosi per la produzione di un determinato oggetto che unisce e organizza lavoratori del metallo e del legno, muratori, elettricisti ecc., cosí nella città la classe proletaria assume una figura dall’industria prevalente, che ordina e governa per la sua esistenza tutto il complesso urbano. Cosí, su scala nazionale, un popolo assume figura dalla sua esportazione, dal contributo reale che dà alla vita economica del mondo. Il compagno Tasca, lettore molto disattento dell’Ordine Nuovo, non ha afferrato nulla di questo svolgimento teorico, che del resto non era che una traduzione per la realtà storica italiana, delle concezioni svolte dal compagno Lenin in alcuni scritti pubblicati dallo stesso Ordine Nuovo, e delle concezioni del teorico americano dell’associazione sindacalista rivoluzionaria degli IWW, il marxista Daniel De Leon. Il compagno Tasca infatti, a un certo punto, interpreta in un senso meramente «commerciale» e contabile la rappresentazione dei complessi economici di produzione espressa con le parole «riso», «legno», «zolfo», ecc.; in un altro punto si domanda quale rapporto mai debba intercorrere tra i Consigli; in un terzo punto trova nella concezione proudhoniana dell’officina che distrugge il governo l’origine dell’idea svolta nell’Ordine Nuovo, quantunque nello stesso numero del 5 giugno, in cui erano stampati l’articolo Il Consiglio di fabbrica e il commento al Congresso camerale, fosse riprodotto anche un estratto dello scritto sulla Comune parigina, dove Marx esplicitamente accenna al carattere industriale della società comunista dei produttori. In questa opera del Marx, il De Leon e Lenin hanno trovato i motivi fondamentali delle loro concezioni; su questi elementi erano stati preparati ed elaborati gli articoli dell’Ordine Nuovo che, ancora una volta e precisamente per il numero dal quale ebbe origine la polemica, il compagno Tasca dimostrò di leggere molto superficialmente e senza nessuna intelligenza della sostanza ideale e storica. Non voglio ripetere, per i lettori di questa polemica, tutti gli argomenti già svolti per sviluppare l’idea della libertà operaia che si attua inizialmente nel Consiglio di fabbrica. Ho voluto solo accennare ad alcuni motivi fondamentali per dimostrare come sia sfuggito al compagno Tasca l’intimo processo di sviluppo del programma dell’Ordine Nuovo. In una appendice che seguirà a questi due brevi articoli, analizzerò alcuni punti dell’esposizione fatta da Tasca, in quanto mi pare opportuno chiarirli e dimostrare la loro inconsistenza. Un punto bisogna però subito chiarire, laddove il Tasca parlando del capitale finanziario scrive che il capitale «spicca il volo», si stacca dalla produzione e si libra... Tutto questo pasticcio dello spiccare il volo e del librarsi della... carta moneta non ha nessun richiamo con lo svolgimento della teoria dei Consigli di fabbrica; noi abbiamo rilevato che la persona del capitalista si è staccata dal mondo della produzione, non il capitale, sia pure esso finanziario; abbiamo rilevato che la fabbrica non è piú governata dalla persona del proprietario, ma dalla banca attraverso una burocrazia industriale che tende a disinteressarsi della produzione allo stesso modo che il funzionario statale si disinteressa dell’amministrazione pubblica. Questo spunto ci serví per un’analisi storica dei nuovi rapporti gerarchici che sono venuti stabilendosi nella fabbrica, e per fissare l’avvento di una delle piú importanti condizioni storiche dell’autonomia industriale della classe operaia, la cui organizzazione di fabbrica tende a incorporarsi il potere di iniziativa sulla produzione. L’affare del «volo» e del «libramento» è una fantasia alquanto infelice del compagno Tasca, che, mentre si riferisce a una sua recensione del libro di Arturo Labriola sul Capitalismo pubblicata dal Corriere Universitario, per dimostrare di essersi «occupato» della quistione del capitale finanziario (da notare che il Labriola sostiene appunto una tesi opposta a quella dello Hilferding, che divenne poi la tesi dei bolscevichi), nei fatti dimostra di non averne compreso assolutamente nulla e di aver costruito un castelluccio su vaghe reminiscenze e su vuote parole. La polemica ha servito a dimostrare che gli appunti mossi da me alla relazione Tasca erano fondatissimi: il Tasca aveva una superficiale infarinatura sul problema dei Consigli, e aveva solo una smania invincibile di tirar fuori una «sua» concezione, di iniziare una «sua» azione, di aprire una nuova èra nel movimento sindacale. Il commento al Congresso camerale e al fatto dell’intervento del compagno Tasca per determinare il voto di una mozione con carattere esecutivo, era stato dettato dalla volontà di mantenere integralmente il programma della rassegna. I Consigli di fabbrica hanno la loro legge in se stessi, non possono e non debbono accettare la legislazione degli organismi sindacali che appunto essi hanno il fine immediato di rinnovare fondamentalmente. Allo stesso modo: il movimento dei Consigli di fabbrica vuole che le rappresentanze operaie siano emanazione diretta delle masse e siano legate alla massa da un mandato imperativo: l’intervento a un congresso operaio del compagno Tasca, come relatore, senza mandato di nessuno, su un problema che interessa tutta la massa operaia, e la cui soluzione imperativa avrebbe dovuto legare la massa, era talmente in contrasto con l’indirizzo ideale dell’Ordine Nuovo, che il commento, nella sua forma aspra, era perfettamente giustificato ed era assolutamente doveroso. Il giudizio di Lenin(35) Nella sua lettera, pubblicata in un’altra parte del giornale, il compagno D. R. accenna alla tesi in cui il compagno Lenin esprime la sua solidarietà col movimento torinese e con l’Ordine Nuovo. Ecco le parole del compagno Lenin: «Per ciò che riguarda il Partito socialista italiano, il II Congresso della III Internazionale trova fondamentalmente giuste la critica di questo partito e le proposte pratiche, che sono state pubblicate, come indirizzo della sezione torinese al Consiglio del Partito socialista italiano, nel giornale l’Ordine Nuovo dell’8 maggio 1920 e che corrispondono integralmente a tutti i principi fondamentali della III Internazionale. Per queste ragioni il II Congresso della III Internazionale prega il Partito socialista italiano di convocare al piú presto un congresso straordinario per esaminare queste proposte e tutte le decisioni dei due congressi dell’Internazionale comunista, particolarmente in merito al gruppo parlamentare e agli elementi non comunisti del Partito». La relazione che la sezione socialista di Torino aveva preparato per il Consiglio nazionale dell’aprile che era convocato a Torino e fu all’ultimo momento trasferito a Milano, non è conosciuta che dai lettori dell’Ordine Nuovo e dai pochi lettori dell’opuscolo Per un rinnovamento del Partito socialista italiano: essa non fu presa in nessuna considerazione dagli organismi centrali e responsabili del Partito. Letta a Mosca dai compagni del comitato esecutivo della III Internazionale, essa venne invece assunta come base del giudizio sul Partito socialista italiano e additata come oggetto di utile discussione per un congresso straordinario. La relazione era stata scritta nei primi giorni dello sciopero dei metallurgici torinesi, quando ancora lo sciopero generale non si prospettava ad alcuno nemmeno come una possibilità: era un riflesso dello stato d’animo di preoccupazione e di sgomento che in quei giorni tormentava la commissione esecutiva della sezione, che tutto aveva tentato, ma inutilmente, per far convergere l’attenzione del Partito sugli avvenimenti in corso di sviluppo, e sperava dal Consiglio nazionale una maggior comprensione e una piú viva intuizione della necessità del movimento proletario italiano; essa è purtroppo d’attualità oggi ancora. Gli avvenimenti allora si svolsero secondo la volontà dei capitalisti e la classe operaia torinese fu sconfitta; a nulla valsero gli sforzi compiuti dalla sezione torinese per ottenere che il Partito si ponesse a capo del movimento, la sezione fu accusata di indisciplina, di leggerezza, di... anarchismo. Ogni discussione fu sistematicamente evitata; discutere la relazione al Consiglio, scritta e a conoscenza del Partito prima che lo sciopero dei metallurgici diventasse sciopero generale piemontese, quando cioè un intervento energico degli organismi centrali era ancora possibile e poteva essere decisivo, avrebbe significato rivedere i giudizi e le accuse, avrebbe significato fare una «brutta figura» dinanzi alle masse. Cose passate... Avvenimenti che paiono oggi lontanissimi. Corre voce che alcuni dei piú accaniti contro i «torinesi» abbiano completamente mutato parere. E tuttavia, per il ricordo delle giornate di passione vissute nell’aprile scorso, fa piacere a noi, come farà indubbiamente piacere a tutti i compagni della sezione e alla massa operaia, essere informati che il giudizio del Comitato esecutivo della III Internazionale è molto diverso da quello, che pareva inappellabile, dei maggiori esponenti italiani del Partito; essere informati che proprio il giudizio dei «quattro scalmanati» torinesi ha avuto il suffragio dell’autorità piú alta del movimento operaio internazionale. Il Partito comunista(36) I Dopo il Sorel è divenuto luogo comune riferirsi alle primitive comunità cristiane per giudicare il movimento proletario moderno. Occorre subito dire che il Sorel non è in modo alcuno responsabile della grettezza e della rozzezza spirituale dei suoi ammiratori italiani, come Carlo Marx non è responsabile delle assurde pretese ideologiche dei «marxisti». Sorel è, nel campo della ricerca storica, un «inventore», egli non può essere imitato, egli non pone al servizio dei suoi aspiranti discepoli un metodo che possa sempre e da tutti applicarsi meccanicamente con risultati di scoperte intelligenti. Per il Sorel, come per la dottrina marxista, il cristianesimo rappresenta una rivoluzione nella pienezza del suo sviluppo, una rivoluzione cioè che è giunta fino alle sue estreme conseguenze, fino alla creazione di un nuovo ed originale sistema di rapporti morali, giuridici, filosofici, artistici, assumere questi risultati come schemi ideologici di ogni rivoluzione, ecco il rozzo e inintelligente tradimento della intuizione storica soreliana, la quale può dare solo origine a una serie di ricerche storiche sui «germi» di una civiltà proletaria che devono esistere, se è vero (come è vero per il Sorel) che la rivoluzione proletaria è immanente nel seno della società industriale moderna, e se è vero che anche da essa risulterà una regola di vita originale e un sistema di rapporti assolutamente nuovi, caratteristici della classe rivoluzionaria. Che significato può dunque avere l’affermazione che, a differenza dei primi cristiani, gli operai non sono casti, non sono temperanti, non sono originali nel loro metodo di vita? A parte la generalizzazione dilettantesca, per cui gli «operai metallurgici torinesi» ti diventano un’accozzaglia di bruti, che ogni giorno mangiano un pollo arrosto, che ogni notte si ubbriacano nei postriboli, che non amano la famiglia, che ricercano nel cinematografo e nell’imitazione scimmiesca delle abitudini borghesi la soddisfazione dei loro ideali di bellezza e di vita morale - a parte questa generalizzazione dilettantesca e puerile, l’affermazione non può affatto diventare presupposto di un giudizio storico: essa equivarrebbe, nell’ordine dell’intelligenza storica, a quest’altra: poiché i cristiani moderni mangiano polli, vanno a donne, si ubbriacano, dicono falso testimonio, sono adulteri ecc. ecc., perciò è una leggenda che siano esistiti gli asceti, i martiri, i santi. Ogni fenomeno storico, insomma, deve essere studiato per i suoi caratteri peculiari, nel quadro della attualità reale, come sviluppo della libertà che si manifesta in finalità, in istituti, in forme che non possono essere assolutamente confuse e paragonate (altro che metaforicamente) con la finalità, gli istituti, le forme dei fenomeni storici passati. Ogni rivoluzione, la quale, come la cristiana e come la comunista, si attua e può solo attuarsi con un sommovimento delle piú profonde e vaste masse popolari, non può che spezzare e distruggere tutto il sistema esistente di organizzazione sociale; chi può immaginare e prevedere le conseguenze immediate che provocherà l’apparizione nel campo della distruzione e della creazione storica delle sterminate moltitudini che oggi non hanno volontà e potere? Esse, perché non hanno mai «voluto e potuto», pretenderanno vedere materializzati in ogni atto pubblico e privato la volontà e il potere conquistato; esse troveranno misteriosamente ostile tutto l’esistente e vorranno distruggerlo dalle fondamenta; ma appunto per questa immensità della rivoluzione, per questo suo carattere di imprevedibilità e di sconfinata libertà, chi può arrischiare anche una sola ipotesi definitiva sui sentimenti, sulle passioni, sulle iniziative, sulle virtú che si foggeranno in una tale fucina incandescente? Ciò che oggi esiste, ciò che oggi noi vediamo, all’infuori della nostra volontà e della nostra forza di carattere, quali mutamenti potrà subire? Ogni giorno di una tale intensa vita non sarà una rivoluzione? Ogni mutamento nelle coscienze individuali, in quanto ottenuto simultaneamente per tutta l’ampiezza della massa popolare, non avrà risultati creativi inimmaginabili? Niente può essere preveduto, nell’ordine della vita morale e dei sentimenti, partendo dalle constatazioni attuali. Un solo sentimento, divenuto ormai costante, tale da caratterizzare la classe operaia, è dato oggi verificare: quello della solidarietà. Ma la intensità e la forza di questo sentimento possono essere solo valutate come sostegno della volontà di resistere e di sacrificarsi per un periodo di tempo che anche la scarsa capacità popolare di previsione storica riesce, con una certa approssimazione, a commisurare; esse non possono essere valutate, e quindi assunte come sostegno della volontà storica per il periodo della creazione rivoluzionaria e della fondazione della società nuova, quando sarà impossibile fissare ogni limite temporale nella resistenza e nel sacrifizio, poiché il nemico da combattere e da vincere non sarà piú fuori del proletariato, non sarà piú una potenza fisica esterna limitata e controllabile, ma sarà nel proletariato stesso, nella sua ignoranza, nella sua pigrizia, nella sua massiccia impenetrabilità alle rapide intuizioni, quando la dialettica della lotta delle classi si sarà interiorizzata e in ogni coscienza l’uomo nuovo dovrà, in ogni atto, combattere il «borghese» agli agguati. Perciò il sindacato operaio, organismo che realizza e disciplina la solidarietà proletaria, non può essere motivo e base di previsioni per l’avvenire della civiltà; esso non contiene elementi di sviluppo per la libertà; esso è destinato a subire mutamenti radicali in conseguenza dello sviluppo generale: è determinato, non determinante. Il movimento proletario, nella sua fase attuale, tende ad attuare una rivoluzione nell’organizzazione delle cose materiali e delle forze fisiche; i suoi tratti caratteristici non possono essere i sentimenti e le passioni diffuse nella massa e che sorreggono la volontà della massa; i tratti caratteristici della rivoluzione proletaria possono essere ricercati solo nel partito della classe operaia, nel Partito comunista, che esiste e si sviluppa in quanto è l’organizzazione disciplinata della volontà di fondare uno Stato, della volontà di dare una sistemazione proletaria all’ordinamento delle forze fisiche esistenti e di gettare le basi della libertà popolare. Il Partito comunista è, nell’attuale periodo, la sola istituzione che possa seriamente raffrontarsi alle comunità religiose del cristianesimo primitivo; nei limiti in cui il Partito esiste già, su scala internazionale, può tentarsi un paragone e stabilirsi un ordine di giudizi tra i militanti per la Città di Dio e i militanti per la Città dell’Uomo; il comunista non è certo inferiore al cristiano delle catacombe. Anzi! Il fine ineffabile che il cristianesimo poneva ai suoi campioni è, per il suo mistero suggestivo, una giustificazione piena dell’eroismo, della sete di martirio, della santità; non è necessario entrino in gioco le grandi forze umane del carattere e della volontà per suscitare lo spirito di sacrifizio di chi crede al premio celeste e alla eterna beatitudine. L’operaio comunista che per settimane, per mesi, per anni, disinteressatamente, dopo otto ore di lavoro in fabbrica, lavora altre otto ore per il Partito, per il sindacato, per la cooperativa, è, dal punto di vista della storia dell’uomo, piú grande dello schiavo e dell’artigiano che sfidava ogni pericolo per recarsi al convegno clandestino della preghiera. Allo stesso modo Rosa Luxemburg e Carlo Liebknecht son piú grandi dei piú grandi santi di Cristo. Appunto perché il fine della loro milizia è concreto, umano, limitato, perciò i lottatori della classe operaia sono piú grandi dei lottatori di Dio: le forze morali che sostengono la loro volontà sono tanto piú smisurate quanto piú è definito il fine proposto alla volontà. Quale forza di espansione potranno mai acquistare i sentimenti dell’operaio, che, piegato sulla macchina, ripete per otto ore al giorno il gesto professionale, monotono come lo sgranamento del chiuso circolo di una coroncina di preghiera, quando egli sarà «dominatore», quando sarà la misura dei valori sociali? Il fatto stesso che l’operaio riesca ancora a pensare, pur essendo ridotto a operare senza sapere il come e il perché della sua attività pratica, non è un miracolo? Questo miracolo dell’operaio che quotidianamente conquista la propria autonomia spirituale e la propria libertà di costruire nell’ordine delle idee, lottando contro la stanchezza, contro la noia, contro la monotonia del gesto che tende a meccanizzare e quindi a uccidere la vita interiore, questo miracolo si organizza nel Partito comunista, nella volontà di lotta e di creazione rivoluzionaria che si esprime nel Partito comunista. L’operaio nella fabbrica ha mansioni meramente esecutive. Egli non segue il processo generale del lavoro e della produzione; non è un punto che si muove per creare una linea; è uno spillo conficcato in un luogo determinato e la linea risulta dal susseguirsi degli spilli che una volontà estranea ha disposto per i suoi fini. L’operaio tende a portare questo suo modo di essere in tutti gli ambienti della sua vita; si acconcia facilmente, da per tutto, all’ufficio di esecutore materiale, di «massa» guidata da una volontà estranea alla sua; è pigro intellettualmente, non sa e non vuole prevedere oltre l’immediato, perciò manca di ogni criterio nella scelta dei suoi capi e si lascia illudere facilmente dalle promesse; vuol credere di poter ottenere senza un grande sforzo da parte sua e senza dover pensare troppo. Il Partito comunista è lo strumento e la forma storica del processo di intima liberazione per cui l’operaio da esecutore diviene iniziatore, da massa diviene capo e guida, da braccio diviene cervello e volontà; nella formazione del Partito comunista è dato cogliere il germe di libertà che avrà il suo sviluppo e la sua piena espansione dopo che lo Stato operaio avrà organizzato le condizioni materiali necessarie. Lo schiavo o l’artigiano del mondo classico «conosceva se stesso», attuava la sua liberazione entrando a far parte di una comunità cristiana, dove concretamente sentiva di essere l’eguale, di essere il fratello, perché figlio di uno stesso padre; cosí l’operaio, entrando a far parte del Partito comunista, dove collabora a «scoprire» e a «inventare» modi di vita originali, dove collabora «volontariamente» alla attività del mondo, dove pensa, prevede, ha una responsabilità, dove è organizzatore oltre che organizzato, dove sente di costituire un’avanguardia che corre avanti trascinando con sé tutta la massa popolare. Il Partito comunista, anche come mera organizzazione si è rivelato forma particolare della rivoluzione proletaria. Nessuna rivoluzione del passato ha conosciuto i partiti; essi sono nati dopo la rivoluzione borghese e si sono decomposti nel terreno della democrazia parlamentare. Anche in questo campo si è verificata l’idea marxista che il capitalismo crea forze che poi non riesce a dominare. I partiti democratici servivano a indicare uomini politici di valore e a farli trionfare nella concorrenza politica; oggi gli uomini di governo sono imposti dalle banche, dai grandi giornali, dalle associazioni industriali; i partiti si sono decomposti in una molteplicità di cricche personali. Il Partito comunista, sorgendo dalle ceneri dei partiti socialisti, ripudia le sue origini democratiche e parlamentari e rivela i suoi caratteri essenziali che sono originali nella storia: la rivoluzione russa è rivoluzione compiuta dagli uomini organizzati nel Partito comunista, che nel partito si sono plasmati una personalità nuova, hanno acquistato nuovi sentimenti, hanno realizzato una vita morale che tende a divenire coscienza universale e fine per tutti gli uomini. II I partiti politici sono di riflesso e la nomenclatura delle classi sociali. Essi sorgono, si sviluppano, si decompongono, si rinnovano, a seconda che i diversi strati delle classi sociali in lotta subiscono spostamenti di reale portata storica, vedono radicalmente mutate le loro condizioni di esistenza e di sviluppo, acquistano una maggiore e piú chiara consapevolezza di sé e dei propri vitali interessi. Nell’attuale periodo storico e in conseguenza della guerra imperialista che ha profondamente mutato la struttura dell’apparecchio nazionale e internazionale di produzione e di scambio, è divenuta caratteristica la rapidità con cui si svolge il processo di dissociazione dei partiti politici tradizionali, nati sul terreno della democrazia parlamentare, e del sorgere di nuove organizzazioni politiche: questo processo generale ubbidisce a una intima logica implacabile, sostanziata dalle sfaldature delle vecchie classi e dei vecchi ceti e dai vertiginosi trapassi da una condizione ad un’altra di interi strati della popolazione in tutto il territorio dello Stato, e spesso in tutto il territorio del dominio capitalistico. Anche le classi sociali storicamente piú pigre e tarde nel differenziarsi, come la classe dei contadini, non sfuggono all’azione energica dei reagenti che dissolvono il corpo sociale; sembra anzi che queste classi, quanto piú sono state pigre e tarde nel passato, tanto piú oggi vogliano celermente giungere alle conseguenze dialetticamente estreme della lotta delle classi, alla guerra civile e alla manomissione dei rapporti economici. Abbiamo visto, in Italia, nello spazio di due anni, sorgere come dal nulla un potente partito della classe contadinesca, il Partito popolare, che nel suo nascere presumeva rappresentare gli interessi economici e le aspirazioni politiche di tutti gli strati sociali della campagna, dal barone latifondista al medio proprietario terriero, dal piccolo proprietario al fittavolo, dal mezzadro al contadino povero. Abbiamo visto il Partito popolare conquistare quasi cento seggi in Parlamento con liste di blocco, nelle quali avevano l’assoluta prevalenza i rappresentanti del barone latifondista, del grande proprietario dei boschi, del grosso e medio proprietario di fondi, esigua minoranza della popolazione contadina. Abbiamo visto iniziarsi subito e rapidamente diventare spasmodiche nel Partito popolare le lotte interne di tendenza, riflesso della differenziazione che si attuava nella primitiva massa elettorale; le grandi masse dei piccoli proprietari e dei contadini poveri non vollero piú essere la passiva massa di manovra per l’attuazione degli interessi dei medi e grandi proprietari; sotto la loro energica pressione il Partito popolare si divise in un’ala destra, in un centro e in una sinistra, e abbiamo visto quindi, sotto la pressione dei contadini poveri, l’estrema sinistra popolare atteggiarsi a rivoluzionaria, entrare in concorrenza con il Partito socialista, divenuto anch’esso rappresentante di vastissime masse contadine; vediamo già la decomposizione del Partito popolare, la cui frazione parlamentare e il cui Comitato centrale non rappresentano piú gli interessi e la acquistata coscienza di sé delle masse elettorali e delle forze organizzate nei sindacati bianchi, rappresentate invece dagli estremisti, i quali non vogliono perderne il controllo, non possono illuderle con una azione legale in Parlamento e sono quindi portati a ricorrere alla lotta violenta e ad auspicare nuovi istituti politici di governo. Lo stesso processo di rapida organizzazione e rapidissima dissociazione si è verificato nell’altra corrente politica che volle rappresentare gli interessi dei contadini, l’associazione degli ex combattenti: esso è il riflesso della formidabile crisi interna che travaglia le campagne italiane e si manifesta nei giganteschi scioperi dell’Italia settentrionale e centrale, nell’invasione e spartizione dei latifondi pugliesi, negli assalti a castelli feudali e nell’apparizione nelle città di Sicilia di centinaia e migliaia di contadini armati. Questo profondo sommovimento delle classi contadine scuote fin dalle fondamenta l’impalcatura dello Stato parlamentare democratico. Il capitalismo, come forza politica, viene ridotto alle associazioni sindacali dei proprietari di fabbriche; esso non ha piú un partito politico la cui ideologia abbracci anche gli strati piccolo-borghesi della città e della campagna, e permetta quindi il permanere di uno Stato legale a larghe basi. Il capitalismo si vede ridotto ad avere una rappresentanza politica solo nei grandi giornali (400 mila copie di tiratura, mille elettori) e nel Senato, immune, come formazione, dalle azioni e reazioni delle grandi masse popolari, ma senza autorità e prestigio nel paese; perciò la forza politica del capitalismo tende a identificarsi sempre piú con l’alta gerarchia militare, con la guardia regia, con gli avventurieri molteplici, pullulanti dopo l’armistizio e aspiranti, ognuno contro gli altri, a diventare il Kornilov e il Bonaparte italiano, e perciò la forza politica del capitalismo non può oggi attuarsi che in un colpo di Stato militare e nel tentativo di imporre una ferrea dittatura nazionalista che spinga le abbrutite masse italiane a restaurare l’economia col saccheggio a mano armata dei paesi vicini. Esaurita e logorata la borghesia come classe dirigente, coll’esaurirsi del capitalismo come modo di produzione e di scambio, non esistendo nella classe contadina una forza politica omogenea capace di creare uno Stato, la classe operaia è ineluttabilmente chiamata dalla storia ad assumersi la responsabilità di classe dirigente. Solo il proletariato è capace di creare uno Stato forte e temuto, perché ha un programma di ricostruzione economica, il comunismo, che trova le sue necessarie premesse e condizioni nella fase di sviluppo raggiunta dal capitalismo con la guerra imperialista 1914-18; solo il proletariato può, creando un nuovo organo del diritto pubblico, il sistema dei Soviet, dare una forma dinamica alla fluida e incandescente massa sociale e restaurare un ordine nel generale sconvolgimento delle forze produttive. È naturale e storicamente giustificato che appunto in un periodo come questo si ponga il problema della formazione del Partito comunista, espressione dell’avanguardia proletaria che ha esatta coscienza della sua missione storica, che fonderà i nuovi ordinamenti, che sarà l’iniziatore e il protagonista del nuovo e originale periodo storico. Anche il tradizionale partito politico della classe operaia italiana, il Partito socialista, non è sfuggito al processo di decomposizione di tutte le forme associative, processo che è caratteristico del periodo che attraversiamo. L’aver creduto di poter salvare la vecchia compagine del Partito dalla sua intima dissoluzione è stato il colossale errore storico degli uomini che dallo scoppio della guerra mondiale ad oggi hanno controllato gli organi di governo della nostra associazione. In verità il Partito socialista italiano, per le sue tradizioni, per le origini storiche delle varie correnti che lo costituirono, per il patto d’alleanza, tacito o esplicito, con la Confederazione generale del lavoro (patto che nei congressi, nei Consigli e in tutte le riunioni deliberative serve a dare un potere e un influsso ingiustificato ai funzionari sindacali), per l’autonomia illimitata concessa al gruppo parlamentare (che dà, anche ai deputati nei congressi, nei Consigli e nelle deliberazioni di piú alta importanza un potere e un influsso simile a quello dei funzionari sindacali e altrettanto ingiustificato), il Partito socialista italiano non differisce per nulla dal Labour Party inglese ed è rivoluzionario solo per le affermazioni generali del suo programma. Esso è un conglomerato di partiti; si muove e non può non muoversi pigramente e tardamente; è esposto continuamente a diventare il facile paese di conquista di avventurieri, di carrieristi, di ambiziosi senza serietà e capacità politica; per la sua eterogeneità, per gli attriti innumerevoli dei suoi ingranaggi, logorati e sabotati dalle serve-padrone, non è mai in grado di assumersi il peso e la responsabilità delle iniziative e delle azioni rivoluzionarie che gli avvenimenti incalzanti incessantemente gli impongono. Ciò spiega il paradosso storico per cui in Italia sono le masse che spingono e «educano» il Partito della classe operaia e non è il Partito che guida ed educa le masse. Il Partito socialista si dice assertore delle dottrine marxiste; il Partito dovrebbe quindi avere, in queste dottrine, una bussola per orientarsi nel groviglio degli avvenimenti, dovrebbe possedere quella capacità di previsione storica che caratterizza i seguaci intelligenti della dialettica marxista, dovrebbe avere un piano generale di azione basato su questa previsione storica, ed essere in grado di lanciare alla classe operaia in lotta parole d’ordine chiare e precise; invece il Partito socialista, il partito assertore del marxismo in Italia, è, come il Partito popolare, come il partito delle classi piú arretrate della popolazione italiana, esposto a tutte le pressioni delle masse e si muove e si differenzia quando già le masse si sono spostate e differenziate. In verità questo Partito socialista, che si proclama guida e maestro delle masse, altro non è che un povero notaio che registra le operazioni compiute spontaneamente dalle masse; questo povero Partito socialista, che si proclama capo della classe operaia, altro non è che gl’impedimenta dell’esercito proletario. Se questo strano procedere del Partito socialista, se questa bizzarra condizione del partito politico della classe operaia non hanno finora provocato una catastrofe, gli è che in mezzo alla classe operaia, nelle sezioni urbane del Partito, nei sindacati, nelle fabbriche, nei villaggi, esistono gruppi energici di comunisti consapevoli del loro ufficio storico, energici e accorti nell’azione, capaci di guidare e di educare le masse locali del proletariato; gli è che esiste potenzialmente, nel seno del Partito socialista, un Partito comunista, al quale non manca che l’organizzazione esplicita, la centralizzazione e una sua disciplina per svilupparsi rapidamente, conquistare e rinnovare la compagine del partito della classe operaia, dare un nuovo indirizzo alla Confederazione generale del lavoro e al movimento cooperativo. Il problema immediato di questo periodo, che succede alla lotta degli operai metallurgici e precede il congresso in cui il Partito deve assumere un atteggiamento serio e preciso di fronte all’Internazionale comunista, è appunto quello di organizzare e centralizzare queste forze comuniste già esistenti e operanti. Il Partito socialista, di giorno in giorno, con una rapidità fulminea, si decompone e va in isfacelo; le tendenze, in un brevissimo giro di tempo, hanno già acquistato una nuova configurazione; messi di fronte alle responsabilità dell’azione storica e agli impegni assunti nell’aderire all’Internazionale comunista, gli uomini e i gruppi si sono scompigliati, si sono spostati; l’equivoco centrista e opportunista ha guadagnato una parte della direzione del Partito, ha gettato il turbamento e la confusione nelle sezioni. Dovere dei comunisti, in questo generale venir meno delle coscienze, delle fedi, della volontà, in questo imperversare di bassezze, di viltà, di disfattismi è quello di stringersi fortemente in gruppi, di affiatarsi, di tenersi pronti alle parole d’ordine che verranno lanciate. I comunisti sinceri e disinteressati, sulla base delle tesi approvate dal II Congresso della III Internazionale, sulla base della leale disciplina alla suprema autorità del movimento operaio mondiale, devono svolgere il lavoro necessario perché, nel piú breve tempo possibile, sia costituita la frazione comunista del Partito socialista italiano, che, per il buon nome del proletariato italiano, deve, nel Congresso di Firenze, diventare, di nome e di fatto, Partito comunista italiano, sezione della III Internazionale comunista; perché la frazione comunista si costituisca con un apparecchio direttivo organico e fortemente centralizzato, con proprie articolazioni disciplinate in tutti gli ambienti dove lavora, si riunisce e lotta la classe operaia, con un complesso di servizi e di strumenti per il controllo, per l’azione, per la propaganda che la pongano in condizione di funzionare e di svilupparsi fin da oggi come un vero e proprio partito. I comunisti, che nella lotta metallurgica hanno, con la loro energia, e il loro spirito d’iniziativa, salvato da un disastro la classe operaia, devono giungere fino alle ultime conclusioni del loro atteggiamento e della loro azione: salvare la compagine primordiale (ricostruendola) del Partito della classe operaia, dare al proletariato italiano il Partito comunista che sia capace di organizzare lo Stato operaio e le condizioni per l’avvento della società comunista. Viltà e leggerezza(37) La delegazione confederale, recatasi in Russia per informare le masse operaie sui problemi che lo sviluppo storico della società capitalistica pone ineluttabilmente al proletariato e sulle soluzioni economiche e politiche che uno Stato operaio, in circostanze ben determinate, può dare, ha comunicato la sua relazione... al Resto del Carlino. Cosí questa relazione, scritta con la frigidità ostentata di chi vuole nascondere dietro il tenue velo dell’obiettività l’intima soddisfazione non potuta esprimere con un trionfante: «L’avevo detto io!», è stata data in pasto alla reazione nazionale e internazionale prima che una discussione tra le varie correnti rappresentate nella missione potesse fissare, per le masse proletarie italiane, un qualche punto di riferimento critico, un qualche criterio metodologico per risalire dal fatto brutale alla comprensione storica, dal numero al pensiero. La relazione D’Aragona, Bianchi, Colombino, non rivela alcuna novità sulla situazione reale della Russia: poiché erano note anche prima l’angustia mentale e l’incapacità a comprendere la storia dei tre, la relazione non rivela nulla neppure in questo campo. L’insistenza con cui il fenomeno della prostituzione viene assunto come indice della situazione russa è l’unica originalità della relazione; chi conosce i costumi diffusi nel ceto degli organizzatori può trarre da questo motivo psicologico una guida per orientarsi nel quadro che gli viene descritto. Appare evidente che i nostri funzionari sindacali sono andati in Russia con le stesse disposizioni spirituali con cui erano soliti recarsi ai convegni, ai congressi, ai sopraluoghi, alle inaugurazioni di bandiere e di circoli: volevano specialmente divertirsi e prima loro preoccupazione fu quella di informarsi sui postriboli e sui restaurants dove ci si trova meglio. In Russia non indagarono sull’energia creatrice della classe operaia nel campo economico e nel campo politico, non si curarono di approfondire la storia del popolo russo e di comprendere il «miracolo» della rivoluzione russa; si fermarono all’«energia sessuale», si preoccuparono e si spaventarono della constatazione che in Russia si va poco a donne. C’è da arrossire nell’essere costretti a scrivere cose di questo genere: questi signori, che si piccano di indipendenza nazionale, e vogliono ribellarsi alla «autorità dittatoria di Mosca», dànno un tale documento di bassezza intellettuale e di miseria spirituale, che invero un rivoluzionario italiano è portato ad augurarsi un piú diretto ed energico esercizio di questa autorità. Dove non è possibile aspettarsi niente di vitale e di intelligente dai capi indigeni ufficiali, non c’è altro che rifugiarsi nella speranza che i capi vengano dal di fuori, che sia riconosciuto illimitatamente e ci si affidi ciecamente all’autorità piú alta della classe operaia mondiale. Sulla situazione economica della Russia D’Aragona, Bianchi e Colombino non dicono piú di quanto sia contenuto nel rapporto Rykov (pubblicato in Italia e noto a moltissimi operai) e di quanto scriva quotidianamente l’Ekonomiceskaia Gisn, organo del Consiglio supremo di economia popolare. Ciò che di piú essi dicono e ciò che circola in tutto il loro rapporto è la persuasione che la rivoluzione operaia russa sia stata un errore, sia stata addirittura un esperimento in corpore vili fatto da un pugno d’avventurieri incapaci e impreparati. Tutta la viltà e tutta la bassa leggerezza del carattere italiano si sono coagulate in questa relazione. Si sente ribrezzo nell’emettere un giudizio su questi uomini che, ben pasciuti, ben vestiti, frequentatori di postriboli e di gargottes, giocatori di scopone, si pongono come superiori e come disdegnosi osservatori imparziali della classe operaia russa che da tre anni si svena per la rivoluzione, che soffre stoicamente il freddo e la fame per la sua indipendenza; dopo l’Ebreo di Verona del gesuita padre Antonio Bresciani non si è avuto in Italia un episodio piú clamoroso di maramaldismo e di incomprensione piú assoluta della storia contemporanea. D’Aragona, Bianchi, Colombino hanno fatto spendere inutilmente migliaia e migliaia di lire al proletariato italiano: ecco la conclusione di questa avventura russa. I rilievi... obbiettivi contenuti nella relazione, la classe operaia italiana li conosceva già dal Matin e dal Corriere della Sera. Come spedizione di esperti e di intelligenti, che avrebbero dovuto proporsi di comprendere la rivoluzione russa come sviluppo storico generale e avrebbero dovuto identificare i sentimenti e le volontà reali che sono a sostegno del sistema dei Soviet, la missione confederale è fallita, mancava la condizione elementare, l’intelligenza e la capacità tecnica; è un errore tutto italiano la confusione della praticaccia burocratica con la capacità tecnica in economia e in politica. Il proletariato italiano vorrebbe sapere: Come mai, se la situazione russa è cosí desolante come l’hanno constatata i lucidi e freddi occhi del D’Aragona, del Bianchi, del Colombino, la classe operaia, che ha rovesciato lo zar e Kerenski, non rovescia anche Lenin? Quale elemento soggettivo, quale spirito, quale convinzione, quale necessità storica sostiene il governo dei Soviet? Perché i contadini si lasciano governare dagli operai? Perché essi permettono che un operaio conti politicamente come cinque contadini? Quale è stata l’influenza del blocco nel determinare la caduta di Pietrogrado come città industriale? È vero che Pietrogrado dipendeva dall’estero per i suoi approvvigionamenti e che tale caduta era inevitabile? È vero che l’industria russa produceva prima della guerra solo il 15 per cento della merce assorbita dal mercato russo e che il blocco, quindi, ha privato, in senso assoluto, la Russia dell’85 per cento del suo fabbisogno? La necessità di creare un esercito rosso e di mobilizzare gli operai industriali per respingere le aggressioni dei controrivoluzionari non poteva non disarticolare le maestranze d’officina; questo fatto ha contribuito a far calare ancora il 15 per cento della produzione effettiva dell’industria russa? Quali fenomeni d’interferenza economica ha determinato nel mercato russo l’assenza dell’importazione, che soddisfaceva all’85 per cento dei bisogni industriali? Quali sforzi sono stati compiuti dalla classe operaia russa e dal governo dei Soviet per ovviare a questi fenomeni che erano indipendenti dallo sviluppo rivoluzionario e dipendevano dalla situazione creata dall’imperialismo dell’Intesa e dal tradimento o dall’incapacità dei capi delle organizzazioni proletarie e socialiste dell’Europa centrale e occidentale, compresa l’Italia? È vero che il sistema industriale russo, che riusciva a produrre solo il 15 per cento del fabbisogno nazionale, si fondava in buona parte sul protezionismo statale ed era quindi artificioso, destinato a cadere? Il fenomeno della nascita della piccola industria sul luogo di produzione delle materie prime non rappresenta in tal caso l’inizio di uno sviluppo nuovo e vitale dell’industria russa, che, verificandosi sotto il controllo dello Stato operaio, può rapidamente concentrarsi e sostituire il normale sviluppo del capitalismo e dello strumento di lavoro, allo stesso modo che l’essersi, nell’America del Nord, lo sviluppo storico verificato sotto il controllo e la direzione degli inglesi, giunti a un alto livello di civiltà politica e industriale, ha risparmiato le fasi intermedie di sviluppo dal pellirossa fino al medio industriale? In tutte queste domande che il proletariato italiano, avido di notizie esatte e intelligenti sulla rivoluzione russa, è in diritto di rivolgere ai suoi funzionari in missione, è contenuta implicitamente una critica della relazione D’Aragona, Bianchi, Colombino. Ma essi sono andati in Russia per raccogliere materiali ai discorsi sulle donne e sulle capacità sessuali che si svolgono nei caffè e negli alberghi, tra una partita e l’altra di scopone. In fondo questa relazione, oltre all’essere un documento di viltà e di leggerezza, oltre all’essere un documento per lo studio della capacità degli italiani a comprendere la storia (da padre Bresciani a Ludovico D’Aragona), è anche un documento dell’insufficienza della democrazia sindacale a esprimere le competenze; come nella democrazia borghese, anche nella democrazia sindacale si domandano ingegneri e si ottengono ballerini... L’«Ordine Nuovo» a Mosca(38) Nel Soviet del 3 ottobre il compagno Bordiga riferisce il modo in cui si svolse la discussione tra i delegati italiani e la rispettiva commissione del Congresso di Mosca, sulla famosa tesi 17 della relazione di Lenin sui Compiti del II Congresso dell’Internazionale comunista. Dopo aver riportato il testo della tesi, da noi pubblicato nelle «Cronache» del n. 13 (21 agosto), il compagno Bordiga riferisce: «Nessuno dei delegati italiani accettò questa formulazione. Serrati e Graziadei osservarono nel Consiglio nazionale la sezione di Torino essersi schierata contro la direzione del Partito sulla questione dello sciopero piemontese, e il valorizzarla equivaleva a sanzionare, oltre alle sue accuse, il suo atteggiamento “contrario alla disciplina”». Bombacci osservò che era anche pericoloso valorizzare le tendenze sindacalisteggianti dell’Ordine Nuovo e la sua interpretazione del movimento dei Consigli di fabbrica. Polano sostenne che essendo la Commissione esecutiva della sezione torinese formata in gran parte da astensionisti, si veniva ad approvare l’opera della nostra frazione, sconfessata sulla questione parlamentare. Bordiga rilevò anch’egli la possibilità dell’equivoco circa la sanzione a tutto l’indirizzo dell’Ordine Nuovo, che oltre ad essere contrario alle direttive del Congresso sulla questione sindacale e della costituzione dei Soviet, era stato fautore della unità del Partito fino a poco prima del Convegno di Milano. Lenin e Bukharin dichiararono formalmente che non avevano inteso esprimere un giudizio sull’indirizzo dell’Ordine Nuovo, su cui non erano abbastanza documentati, ma solo indicare la citazione precisa di un documento al quale soltanto si riferiva la loro approvazione. Venne quindi solo modificata in tal senso la forma grammaticale: «proposizioni indirizzate dalla sezione ecc. ed apparse nel numero... ecc.». Inoltre su proposta di Bordiga venne aggiunto in fine del secondo periodo: «e del lavoro da svolgere nei sindacati». È interessante che i compagni e i lettori conoscano questi giudizi sulla sezione torinese e sull’Ordine Nuovo. Che la sezione torinese abbia, nello sciopero di aprile, infranta (ahimè) la disciplina, è stato sussurrato, ma non è stato mai provato e sarebbe difficile assai provare. Le tendenze sindacalisteggiani dell’Ordine Nuovo sono anche esse un mito: abbiamo semplicemente il torto di credere che la rivoluzione comunista possano attuarla solo le masse, e non possa attuarla né un segretario di partito né un presidente di repubblica a colpi di decreto; pare questa fosse anche l’opinione di Carlo Marx e di Rosa Luxemburg e sia l’opinione di Lenin, i quali tutti per Treves e Turati sono dei sindacalisti anarchici. È vero invece che l’Ordine Nuovo, quando era ancora una «palestra», pubblicò un editoriale (del compagno Tasca) favorevole all’unità. Le tesi che pubblichiamo in questo numero sui sindacati, sui Consigli di fabbrica e sulla formazione dei Soviet possono dare ai lettori modo di giudicare se l’indirizzo dell’Ordine Nuovo sia stato contrario alle direttive del Congresso: le tesi di Radek sono davvero nuove per i nostri lettori? sono davvero contrarie a quanto sostenne in proposito l’Ordine Nuovo? anche recentemente, nella polemica col Tasca, non si trattò di impedire che i Consigli venissero subordinati ai sindacati opportunisti? La verità è che i socialisti italiani non vollero prendere sul serio il movimento dei Consigli di fabbrica e perciò si ebbero una lezione dal Comitato esecutivo dell’Internazionale comunista. La reazione(39) Il Giornale d’Italia, il Messaggero, l’Idea Nazionale, il Corriere della Sera domandano francamente la reazione, invocano un uomo, che riconduca l’ordine e la disciplina in mezzo al popolo italiano, avvelenato dalla propaganda dei comunisti e degli anarchici. Il Corriere della Sera è riuscito persino a identificare il centro di questa propaganda: il comando delle forze sovvertitrici e sobillatrici è nelle mani - indovinate di chi? - «di quei dell’Ordine Nuovo e dell’Avanti! di Torino e dell’Umanità Nova di Milano, cioè di Malatesta». La Stampa è d’accordo col Corriere nell’identificazione degli untori; ma la Stampa non invoca la reazione, essa si limita ad annunziarla come inevitabile, come un malanno che capiterà addosso al popolo italiano per colpa dei suddetti sobillatori. Questa levata di scudi dei giornali della «democrazia borghese» contro i comunisti torinesi si è verificata dopo i conflitti dei giorni scorsi: è da notare che proprio a Torino non sono avvenuti conflitti, proprio a Torino dove esiste la centrale della delinquenza rivoluzionaria e quindi avrebbero dovuto aversi i massimi episodi di «teppismo, di anarchia, di cannibalismo rivoluzionario». È da notarsi che gli stessi giornali che oggi indicano il movimento comunista torinese come la causa di tutti i mali che affliggono l’Italia e come la determinante della futura reazione, hanno registrato a suo tempo con un sospiro di sollievo, che proprio il rappresentante della classe operaia torinese al Consiglio nazionale della Confederazione generale del lavoro ha smorzato gli ardori rivoluzionari dell’assemblea e dei capi sindacali riformisti, determinando la maggioranza dei voti all’ordine del giorno D’Aragona. In questa levata di scudi, in questa furia demagogica nell’accusare il movimento torinese è da identificarsi quindi un tentativo della reazione che vuole colpire Torino non come nido di delinquenza, ma come sede di un preciso pensiero politico che minaccia di conquistare la maggioranza del Partito socialista italiano, che minaccia di trasformare il Partito, da organo di conservazione dell’agonia capitalistica, in organismo di lotta e di ricostruzione rivoluzionaria. Approfittando delle polemiche interne di Partito, si cerca evidentemente di riprodurre, in questo scorcio dell’anno, la stessa situazione dell’agosto 1917 o dell’aprile 1920: messa a terra Torino proletaria, distrutto il nido di vespe piemontesi, si spera che il Partito sia fiaccato e che l’avvento al potere dei riformisti sia possibile col consenso delle masse operaie affamate e abbrutite dal terrore bianco. È certo che la reazione italiana si rafforza e cercherà di imporsi violentemente a breve scadenza. La reazione che è sempre esistita, che obbedisce a leggi proprie di sviluppo, che culminerà nel piú atroce terrorismo che abbia visto la storia. Non per caso gli occhi di tutti si rivolgono oggi a Fiume e alla Dalmazia, a D’Annunzio, a Millo, a Caviglia. La reazione è lo sviluppo del fallimento della guerra imperialista, è lo sviluppo delle disastrose condizioni economiche in cui il capitalismo ha ridotto il popolo italiano, è lo sviluppo delle illusioni nazionaliste e delle delusioni opportuniste di uno Stato che non riesce ad assicurare il pane, il tetto, il vestito alla popolazione. La reazione è il tentativo di uscire dalla situazione attuale con una nuova guerra, è il tentativo di colmare, col saccheggio delle nazioni vicine, il deficit del bilancio interno, è la naturale, fisiologica espressione del regime di proprietà privata e nazionale che vuole ad ogni costo salvarsi dall’abisso. La reazione è sempre esistita in Italia; essa non minaccia di sorgere ora per colpa dei comunisti. La reazione è il venir meno dello Stato legale: non da oggi lo Stato legale è venuto meno, e non è precisamente venuto meno per colpa dei comunisti. Era un comunista D’Annunzio, che ammutinava soldati e generali contro il governo «legittimo»? Era un comunista Millo, che rifiuta ubbidienza ai suoi superiori «legittimi»? Erano comunisti gli incendiari dell’Avanti! di Milano e di Roma? Era comunista Cadorna quando nel 1917 preparava la dittatura militare? Sono comunisti i fornitori militari e gli speculatori che hanno rastrellato la ricchezza nazionale e l’hanno esportata all’estero? Questo quadro è il quadro della reazione italiana, che nessun governo ha cercato neppure di soffocare, che ogni governo anzi ha sollecitato, ha promosso, ha aiutato piú o meno apertamente; ogni impresa della reazione è rimasta impunita, ogni eccesso della delinquenza reazionaria è stato legalizzato, perché non è stato sanzionato dalla giustizia punitiva. È un delitto incendiare un giornale socialista? No, poiché i colpevoli di simile delitto, conosciuti, confessi, non sono stati arrestati, hanno anzi potuto organizzare altre imprese del genere. È un delitto uccidere un rappresentante della classe operaia? No, perché gli assassini, i complici degli assassini, i mandanti, gli esaltatori degli assassini, noti, confessi, autoelogiatori, non sono stati puniti, non sono stati neppure molestati. Da due anni, dal giorno dell’armistizio, il popolo italiano vive in pieno terrorismo, in piena reazione; non esiste piú sicurezza personale per la classe operaia, non esiste piú nessuna garanzia civile di tranquillità e di pace. Nell’attuale periodo, il terrorismo vuol passare dal campo privato al campo pubblico; non si accontenta piú dell’impunità concessagli dallo Stato, vuole diventare lo Stato. Ecco cosa significa oggi la parola «avvento» della reazione: significa che la reazione è divenuta cosí forte, che non ritiene piú utile ai suoi fini la maschera di uno Stato legale; significa che vuole, per i suoi fini, servirsi di tutti i mezzi dello Stato; significa che l’Italia si avvicina a una nuova guerra imperialista, rivolta al saccheggio a mano armata di qualche ricco popolo finitimo. La reazione è immanente nelle condizioni economiche del paese. E la reazione non ha per fine di ristabilire l’ordine all’interno, ha per fine di preparare la guerra all’esterno. L’ordine all’interno non significa nulla nelle condizioni attuali: esso è un’utopia. Anche se il proletariato lavorasse sedici ore al giorno il governo borghese non potrebbe sanare il deficit del bilancio statale, non potrebbe riorganizzare la produzione nazionale. Il governo non è stato capace a impedire l’esodo dei capitali all’estero; il governo non può fare risuscitare i cinquecentomila morti della guerra, e non può farli lavorare; il governo non può ridare la validità fisica e l’efficienza produttiva ai cinquecentomila invalidi della guerra; non può ridare il sostegno economico alle centinaia di migliaia di famiglie che l’hanno perduto e devono vivere della carità, e sono costrette a consumare senza produrre, e sono ridotte al parassitismo obbligatorio. Il governo non può ricondurre in Italia la corrente dei forestieri, che prima della guerra lasciava mezzo miliardo in oro nel nostro paese. Il governo non può riorganizzare le correnti emigratorie, che prima della guerra alleggerivano il territorio di 250 mila disperati all’anno, e rappresentavano per il bilancio italiano una rimessa di 700 milioni in oro. Il governo non può sanare la crisi dell’industria siderurgica, che si mangia ogni anno centinaia e centinaia di milioni in oro, che corrompe l’organizzazione del credito, che impedisce ai contadini di avere strumenti agricoli a buon mercato, che impedisce quindi una ripresa nella produzione degli alimenti. L’Italia è stata ridotta tutta una piaga dalla guerra, e il sangue scorre a ruscelli dal corpo tagliuzzato. Ecco l’origine della reazione: la paura folle della morte per esaurimento, mescolata al desiderio sfrenato di buttarsi addosso a un organismo nazionale ancora in qualche efficienza per divorarselo, per cercare di salvarsi con una trasfusione di sangue. Ed ecco l’origine del comunismo, che è conseguenza della reazione, che è l’atteggiamento della classe operaia verso la reazione. Solo la classe operaia non è responsabile all’interno delle condizioni in cui è stata piombata la nazione; solo la classe operaia può sperare di avere all’estero, per l’organizzazione internazionale, quel sostegno che impedisca al paese di piombare ancor piú giú, nell’estrema barbarie; solo la classe operaia, che non ha privilegi di sorta, può dare alla maggioranza della popolazione italiana la sicurezza che lo Stato proletario non rinsalderà privilegi e farà di tutto per far uscire il paese dal caos. La reazione è furiosa anche per ciò: perché deve riconoscere che la classe operaia è la sola forza viva del paese, perché deve riconoscere in se stessa niente altro che gli ultimi spasimi rabbiosi di un organismo esaurito. La disciplina internazionale(40) La III Internazionale comunista, a differenza della II Internazionale, vuole siano attuate, tra i partiti che entrano nella sua organizzazione, il massimo di disciplina e il massimo di centralizzazione: è questa una necessità storica assoluta, e dovrebbe essere compresa, date le condizioni del nostro paese, specialmente dai rivoluzionari italiani. Nessuno Stato operaio, piú dello Stato operaio italiano, avrà bisogno della solidarietà del proletariato mondiale: è per noi condizione esistenziale l’instaurazione di una ferrea disciplina e di una centralizzazione del movimento rivoluzionario internazionale; noi dobbiamo volere che l’Internazionale comunista sia un potente apparecchio di lotta, in grado di domandare e di ottenere da ogni partito aderente tutta la disciplina e tutto lo spirito di sacrifizio che può essere domandato e ottenuto. Naturalmente noi abbiamo diritto di domandare solo ciò che dimostriamo di voler noi concedere volentieri, e di voler concedere perché riteniamo sia assolutamente necessario da un punto di vista generale, in quanto la nostra posizione storica la vediamo e la spieghiamo in un quadro internazionale, in quanto la nostra azione e la nostra volontà aderisce al processo storico che conduce tutte le classi operaie del mondo alla riorganizzazione dell’economia mondiale su basi comuniste e su scala mondiale. L’Italia è già bloccata prima della rivoluzione. Il blocco dell’Italia è dipendente non tanto da volontà reazionaria quanto dal fatto che l’Italia non ha una grande proprietà nazionale. L’Italia è bloccata perché non ha mezzi, da un punto di vista nazionale, per pagare le importazioni necessarie alla vita delle sue industrie e alla vita dei suoi abitanti; l’Italia non ha riserve auree nelle banche, non ha miniere, non ha grandi boschi, non ha nessuna materia prima nel suo suolo e sottosuolo; l’Italia è come un limone spremuto, essa è stata ridotta, dal regime di sfruttamento intensivo del capitalismo, nelle stesse condizioni (o quasi) in cui la Palestina è stata ridotta dall’affiorare dei bitumi e dei miasmi. Quando un borghese o un riformista afferma: «Se in Italia scoppia la rivoluzione operaia, l’Italia sarà bloccata e morirà di fame», il borghese o il riformista ragiona come un mulo bendato; infatti l’Italia è già bloccata; il blocco è incominciato, come per la Russia, dal giorno in cui è scoppiata la guerra; il blocco si è andato intensificando a mano a mano che veniva esaurito il credito, a mano a mano che si venivano esaurendo le ricchezze commerciali e consumabili esistenti nel territorio nazionale. Questa condizione di blocco effettivo, di blocco implacabile, tanto piú tremendo quanto piú esso dipende da cause economiche generali, dalla povertà assoluta del paese, è stata aggravata dalla tattica riformista di scatenare movimenti rivoluzionari senza una conclusione rivoluzionaria; si calcola che il movimento metallurgico abbia determinato un esodo di trenta miliardi di capitale commerciabile; per paura del blocco, il movimento è stato arrestato; questa paura «neomaltusiana» ha aggravato il blocco effettivo in ragione di trenta miliardi di nuova povertà italiana. I riformisti e i borghesi, che accusano i rivoluzionari di vedere la Russia come modello storico, cadono cosí in uno stupido parallelismo tra l’Italia e la Russia a proposito del blocco. La verità è che l’Italia si trova in condizioni diverse, e in condizioni enormemente peggiori della Russia, se queste condizioni vengono valutate dal punto di vista della proprietà privata e nazionale. La Russia possiede oro e platino (le banche russe, come è noto, possedevano le piú ingenti masse auree del mondo); la Russia possiede qualche scorta di grano e di pelli, possiede molto legname e molto minerale. La Russia potrebbe commerciare questa ricchezza; è realmente il blocco che le impedisce di commerciare la sua ricchezza, perché il capitalismo mondiale sostiene che la ricchezza esistente in Russia è proprietà dei borghesi e non degli operai e non vuole permettere agli operai russi di compiere atti di commercio internazionale. Se la Russia dei Soviet non fosse costretta a difendersi dalle aggressioni della reazione internazionale, il popolo russo potrebbe rivolgere tutta la sua energia creatrice a riprodurre la ricchezza distrutta dalla guerra, a produrre nuovi strumenti e nuova organizzazione economica; esso può far ciò, perché la Russia è ricca come suolo e come sottosuolo, perché la Russia ha una popolazione scarsissima su uno sterminato territorio. L’Italia è povera «nazionalmente»; l’operaio italiano può salvarsi, il popolo italiano può salvarsi solo in quanto si realizzi l’Internazionale comunista, cioè solo in quanto venga abolita, oltre che la proprietà privata, anche la proprietà nazionale, solo in quanto sia attuata una organizzazione internazionale delle economie nazionali, che ponga il produttore italiano su un piede di eguaglianza col produttore inglese, americano, russo, indiano ecc. La borghesia imperialista ha attuato qualche cosa di simile durante la guerra, per i suoi fini; ottenuta la vittoria, l’organizzazione economica che dava pane, riso, ferro, carbone al popolo italiano perché resistesse fino alla vittoria, è caduta, ogni popolo è rientrato nei quadri della proprietà e della possibilità nazionali: l’aiuto dato, una volta raggiunto il fine, è diventato un debito, è diventato una pietra al collo. Si tratta di ricostruire questa organizzazione, per un fine, non transitorio, non episodico, ma che rappresenta una necessità permanente, che si identifica col processo di sviluppo storico della civiltà mondiale. Questo fine può essere attuato dall’Internazionale comunista, se essa riesce a ottenere da ogni proletariato il rendimento storico che esso è capace di dare: il proletariato italiano, per la sua ricchezza demografica, per la sua ricchezza di energia rivoluzionaria, può essere la determinante della rivoluzione mondiale, può essere la forza vulcanica in grado di far saltare gli ultimi baluardi della reazione mondiale. Ma per compiere questa sua missione, irta di difficoltà, piena di sacrifizi e di dolori senza fine, il proletariato italiano deve sottoporsi a una disciplina di ferro, nazionalmente e internazionalmente. Solo a tale condizione si salverà il popolo italiano dall’abisso, dove l’hanno cacciato i suoi dirigenti borghesi, ciechi, ignoranti, vanitosi, che ancora continuano a ragionare come se la guerra mondiale non avesse lasciato tracce altro che nell’ordine del sentimento e della politica. Coordinare volontà e azioni(41) Anche dopo la costituzione della frazione comunista, che ha la missione storica, quando sarà chiamata partito, di organizzare le energie rivoluzionarie capaci di condurre alla vittoria la classe operaia italiana e di fondare lo Stato operaio, non è finito il còmpito specifico della nostra rassegna e dei gruppi di compagni che ne seguono l’attività con attenzione e simpatia. Crediamo anzi che proprio da oggi incominci la parte piú difficile e piú importante dell’opera che noi dobbiamo svolgere. Non dobbiamo farci illusioni. Le condizioni di confusione, di rozzezza spirituale, di incapacità politica, di assenza di ogni preparazione amministrativa in cui si trova il movimento operaio italiano, non possono essere mutate per il semplice fatto che si costituisce un partito politico. Se noi ci presentiamo il problema dello Stato operaio nei suoi termini immediati, crudamente materiali: - È necessario in tutte le funzioni vitali e dinamiche della vita nazionale organizzata nello Stato, al personale borghese sostituire un personale comunista; se noi ci proponiamo la quistione: - Ha la classe operaia italiana, tra gli uomini suoi di fiducia, tra gli uomini che le dànno assoluta garanzia di lealtà e di disinteresse, la possibilità di trovar modo di costituire un’organizzazione militare che guidi alla vittoria la milizia rossa, un’organizzazione economica che riesca, nelle atroci condizioni in cui la guerra imperialista ha piombato il nostro paese, a far vivere la popolazione, un’organizzazione industriale che faccia funzionare le fabbriche, un’organizzazione giudiziaria che dia giustizia e non soprusi, un’organizzazione burocratica che amministri e non provochi marasma e non si renda odiosa con i favoritismi e con l’indifferenza per gli interessi popolari? Se noi ci poniamo questi problemi, noi vediamo quanto il nostro còmpito sia difficile e aspro. Certo noi non ci scoraggiamo: la classe operaia è giovane, la classe operaia non può avere tutta una rete di quadri già predisposti per far vivere uno Stato: il dilettantismo e gli errori saranno inevitabili nella via delle attuazioni rivoluzionarie: inizialmente noi abbiamo specialmente bisogno di uomini energici, leali, disinteressati, che siano legati fino alla morte alla causa della rivoluzione comunista, che mai perdano la fiducia nella bontà del fine che vogliono raggiungere, che abbiano spirito d’iniziativa e sappiano improvvisare tutte le opere necessarie per rendere invincibile la potenza operaia. Ma se non ci scoraggiamo, ma se abbiamo fede e volontà, ma se la nostra coscienza è incrollabile nella persuasione irrevocabile che la classe operaia debba avere il governo dello Stato e debba riorganizzare la società per evitare l’abisso e la barbarie, dobbiamo pure preoccuparci dei problemi concreti, nei loro termini reali e immediati. Dobbiamo intensificare l’opera nostra di educazione economica e politica dei migliori elementi della classe operaia, di preparazione teorica, di elevazione spirituale, di rinsaldamento del senso delle responsabilità, di formazione dei quadri per la gestioni dei beni materiali e spirituali del nostro popolo. La costituzione del Partito comunista crea le condizioni per intensificare e approfondire l’opera nostra: liberati dal peso morto degli scettici, dei chiacchieroni, degli irresponsabili, liberati dall’assillo di dover continuamente, nel seno del Partito, lottare contro i riformisti e gli opportunisti, di dover sventare le loro insidie, di dover analizzare e criticare i loro atteggiamenti equivoci e la loro fraseologia pseudo-rivoluzionaria, noi potremo dedicarci interamente al lavoro positivo, all’espansione del nostro programma di rinnovamento, di organizzazione, di risveglio delle coscienze e delle volontà. Ecco perché l’azione di cultura della nostra rassegna deve continuare e intensificarsi. I nostri amici devono, fino al Congresso di Firenze, lavorare per il trionfo della frazione comunista, collaborando con gli altri gruppi comunisti che nelle sezioni tendono allo stesso fine, ma essi non devono dimenticare che il programma del nostro movimento non si preoccupa delle maggioranze se non in quanto esse creano le condizioni per organizzare, per educare, per diffondere convinzioni, per coordinare volontà e azioni. Scissione o sfacelo?(42) I socialcomunisti unitari non vogliono la scissione del Partito, perché non vogliono rovinare la rivoluzione proletaria italiana. Riconosciamo subito che i socialcomunisti unitari rappresentano e incarnano tutte le piú «gloriose» tradizioni del grande e glorioso Partito socialista italiano (che diventerà Partito socialcomunista unitario italiano): gloriosa ignoranza, gloriosa e spregiudicata assenza di ogni scrupolo nella polemica e di ogni senso di responsabilità nella politica nazionale, gloriosa bassa demagogia, gloriosa vanità, gloriosissima ciarlataneria, ecco il corpo di tradizioni gloriose e italianissime che si incarnano e sono rappresentate dai socialcomunisti unitari. Il II Congresso dell’Internazionale comunista ha posto al Partito socialista italiano il problema di organizzarsi sulla base dell’accettazione dei deliberati approvati dalla sua assemblea. Si trattava di scindersi dai riformisti, di scindersi cioè da una parte minima del proprio corpo, da una parte che non ha alcuna funzione vitale nell’organismo, che è lontana dalle masse proletarie, che può dire di rappresentare le masse solo quando esse sono state demoralizzate dagli errori, dalle incertezze, dall’assenteismo dei capi rivoluzionari. I socialcomunisti unitari non hanno voluto accettare le deliberazioni del II Congresso per non scindere il Partito dai riformisti e affermano di non voler scindere il Partito dai riformisti per non scindere la massa; essi hanno piombato le masse, e del Partito e delle fabbriche, nel caos piú cupo; hanno posto in dubbio la correttezza del Congresso internazionale, hanno ripudiato l’adesione del Partito al Congresso (Serrati è ritornato in Italia da Mosca come Orlando un giorno tornò da Versailles, per protestare, per scindere le responsabilità, per salvar l’onore e la gloria degli italiani), hanno screditato (o hanno cercato screditare) la piú alta autorità dell’Internazionale operaia, hanno fatto dilagare, in un ambiente propizio come il nostro, una marea putrida di pettegolezzi, di insinuazioni, di vigliaccherie, di scetticismi. Cosa hanno ottenuto? Hanno scisso il Partito in tre, quattro, cinque tendenze; hanno, nelle grandi città, scisso le masse operaie, che erano compatte contro il riformismo e i riformisti, hanno seminato a piene mani i germi dello sfacelo e della decomposizione nelle file del Partito. Cos’è dunque l’unitarismo? Quale malefizio occulto reca questa parola, che determina discordia e scissione maggiore e piú vasta affermando di voler evitare una limitata e ben precisata scissione? Ciò che è, doveva accadere. Se l’unitarismo ha provocato l’attuale sfacelo, la verità è da ricercare nel fatto che lo sfacelo esisteva già: l’unitarismo non ha altra colpa che di avere violentemente strappato una chiusura di cloaca rigurgitante. La verità è che il Partito socialista non era un’«urbe», era un’«orda»: non era un organismo, era un agglomerato di individui che avevano il tanto di coscienza classista necessaria per organizzarsi in un sindacato professionale, ma non avevano in gran parte la capacità e la preparazione politica necessarie per organizzarsi in un partito rivoluzionario quale è domandato dall’attuale periodo storico. La vanità italiana faceva sempre affermare che da noi esisteva un Partito socialista tutto particolare, che non poteva e non doveva subire le stesse crisi degli altri partiti socialisti: cosí è avvenuto che in Italia la crisi sia stata artificialmente ritardata e scoppi proprio nel momento in cui sarebbe stato meglio evitarla e scoppi ancor piú violenta e devastatrice proprio per la volontà e la cocciutaggine di coloro che sempre la negarono e che ancora oggi la negano verbalmente (noi siamo unitari, che diamine!). Sarebbe ridicolo piagnucolare sull’avvenuto e sull’irrimediabile. I comunisti sono e devono essere dei freddi e pacati ragionatori: se tutto è in isfacelo, bisogna rifare tutto, bisogna rifare il Partito, bisogna già da oggi considerare e amare la frazione comunista come un partito vero e proprio, come la solida impalcatura del Partito comunista italiano, che fa proseliti, li organizza solidamente, li educa, ne fa cellule attive dell’organismo nuovo che si sviluppa e si svilupperà fino a divenire tutta la classe operaia, fino a divenire l’anima e la volontà di tutto il popolo lavoratore. La crisi che oggi attraversiamo è forse la maggiore crisi rivoluzionaria del popolo italiano. Per comprendere questa verità i compagni devono fare questa ipotesi: cosa sarebbe successo se il Partito socialista avesse subíto questa crisi in piena rivoluzione, avendo su di sé tutta la responsabilità di uno Stato? Cosa sarebbe successo se il governo di uno Stato rivoluzionario si fosse trovato in mano a uomini che lottano per le tendenze, e che nella passione di questa lotta mettono in dubbio tutto il piú sacro patrimonio di un operaio: la fiducia nell’Internazionale e nella capacità e lealtà degli uomini che ne ricoprono le cariche piú alte? Sarebbe successo ciò che è successo in Ungheria: sbandamento delle masse, rilassamento della energia rivoluzionaria, vittoria fulminea della controrivoluzione. Gli unitari, per mania ciarlatanesca di unità, hanno oggi solo sfasciato un partito: domani, essi avrebbero determinato la caduta della rivoluzione. Per quanto essi abbiano danneggiato la classe operaia e rafforzata la reazione, il maleficio non è decisivo: gli uomini di buona volontà hanno ancora un campo sterminato da ricoltivare e far rendere fruttuosamente. Il popolo delle scimmie(43) Il fascismo è stato l’ultima «rappresentazione» offerta dalla piccola borghesia urbana nel teatro della vita politica nazionale. La miserevole fine dell’avventura fiumana è l’ultima scena della rappresentazione. Essa può assumersi come l’episodio piú importante del processo di intima dissoluzione di questa classe della popolazione italiana. Il processo di sfacelo della piccola borghesia si inizia nell’ultimo decennio del secolo scorso. La piccola borghesia perde ogni importanza e scade da ogni funzione vitale nel campo della produzione, con lo sviluppo della grande industria e del capitale finanziario: essa diventa pura classe politica e si specializza nel «cretinismo parlamentare». Questo fenomeno, che occupa una gran parte della storia contemporanea italiana, prende diversi nomi nelle sue varie fasi: si chiama originalmente «avvento della sinistra al potere», diventa giolittismo, è lotta contro i tentativi kaiseristici di Umberto I, dilaga nel riformismo socialista. La piccola borghesia si incrosta nell’istituto parlamentare: da organismo di controllo della borghesia capitalistica sulla Corona e sull’amministrazione pubblica, il Parlamento diviene una bottega di chiacchiere e di scandali, diviene un mezzo al parassitismo. Corrotto fino alle midolla, asservito completamente al potere governativo, il Parlamento perde ogni prestigio presso le masse popolari. Le masse popolari si persuadono che l’unico strumento di controllo e di opposizione agli arbítri del potere amministrativo è l’azione diretta, è la pressione dall’esterno. La settimana rossa del giugno 1914, contro gli eccidi, è il primo, grandioso intervento delle masse popolari nella scena politica, per opporsi direttamente agli arbítri del potere, per esercitare realmente la sovranità popolare, che non trova piú una qualsiasi espressione nella Camera rappresentativa: si può dire che nel giugno 1914 il parlamentarismo è, in Italia, entrato nella via della sua organica dissoluzione e col parlamentarismo la funzione politica della piccola borghesia. La piccola borghesia, che ha definitivamente perduto ogni speranza di riacquistare una funzione produttiva (solo oggi una speranza di questo genere si riaffaccia, coi tentativi del Partito popolare per ridare importanza alla piccola proprietà agricola e coi tentativi dei funzionari della Confederazione generale del lavoro per galvanizzare il morticino - controllo sindacale) cerca in ogni modo di conservare una posizione di iniziativa storica: essa scimmieggia la classe operaia, scende in piazza. Questa nuova tattica si attua nei modi e nelle forme consentiti a una classe di chiacchieroni, di scettici, di corrotti: lo svolgimento dei fatti che hanno preso il nome di «radiose giornate di maggio», con tutti i loro riflessi giornalistici, oratori, teatrali, piazzaioli durante la guerra, è come la proiezione nella realtà di una novella della jungla del Kipling: la novella del Bandar-Log, del popolo delle scimmie, il quale crede di essere superiore a tutti gli altri popoli della jungla, di possedere tutta l’intelligenza, tutta l’intuizione storica, tutto lo spirito rivoluzionario, tutta la sapienza di governo, ecc. ecc. Era avvenuto questo: la piccola borghesia, che si era asservita al potere governativo attraverso la corruzione parlamentare, muta la forma della sua prestazione d’opera, diventa antiparlamentare e cerca di corrompere la piazza. Nel periodo della guerra il Parlamento decade completamente: la piccola borghesia cerca di consolidare la sua nuova posizione e si illude di aver realmente raggiunto questo fine, si illude di aver realmente ucciso la lotta di classe, di aver preso la direzione della classe operaia e contadina, di aver sostituito l’idea socialista, immanente nelle masse, con uno strano e bislacco miscuglio ideologico di imperialismo nazionalista, di «vero rivoluzionarismo», di «sindacalismo nazionale». La azione diretta delle masse nei giorni 2-3 dicembre, dopo le violenze verificatesi a Roma da parte degli ufficiali contro i deputati socialisti, pone un freno all’attività politica della piccola borghesia, che da quel momento cerca di organizzarsi e di sistemarsi intorno a padroni piú ricchi e piú sicuri che non sia il potere di Stato ufficiale, indebolito ed esaurito dalla guerra. L’avventura fiumana è il motivo sentimentale e il meccanismo pratico di questa organizzazione sistematica, ma appare subito evidente che la base solida dell’organizzazione è la diretta difesa della proprietà industriale e agricola dagli assalti della classe rivoluzionaria degli operai e dei contadini poveri. Questa attività della piccola borghesia, divenuta ufficialmente «il fascismo», non è senza conseguenza per la compagine dello Stato. Dopo aver corrotto e rovinato l’istituto parlamentare, la piccola borghesia corrompe e rovina anche gli altri istituti, i fondamentali sostegni dello Stato: l’esercito, la polizia, la magistratura. Corruzione e rovina condotte in pura perdita, senza alcun fine preciso (l’unico fine preciso avrebbe dovuto essere la creazione di un nuovo Stato: ma il «popolo delle scimmie» è caratterizzato appunto dall’incapacità organica a darsi una legge, a fondare uno Stato): il proprietario, per difendersi, finanzia e sorregge una organizzazione privata, la quale, per mascherare la sua reale natura, deve assumere atteggiamenti politici «rivoluzionari» e disgregare la piú potente difesa della proprietà, lo Stato. La classe proprietaria ripete, nei riguardi del potere esecutivo, lo stesso errore che aveva commesso nei riguardi del Parlamento: crede di potersi meglio difendere dagli assalti della classe rivoluzionaria, abbandonando gli istituti del suo Stato ai capricci isterici del «popolo delle scimmie», della piccola borghesia. Sviluppandosi, il fascismo si irrigidisce intorno al suo nucleo primordiale, non riesce piú a nascondere la sua vera natura. Conduce una campagna feroce contro l’on. Nitti presidente del Consiglio, campagna che giunge fino all’aperto invito ad assassinare il primo ministro; lascia tranquillo l’on. Giolitti e gli permette di portare «felicemente» a termine la liquidazione dell’avventura fiumana; l’atteggiamento del fascismo verso Giolitti ha subito segnato la fortuna di D’Annunzio e ha posto in rilievo il vero fine storico dell’organizzazione della piccola borghesia italiana. Quanto piú forti sono diventati i «fasci», quanto meglio inquadrati sono i loro effettivi, quanto piú audaci e aggressivi essi si dimostrano contro le Camere del lavoro e i comuni socialisti, tanto piú caratteristicamente espressivo è stato il loro atteggiamento verso il D’Annunzio invocante l’insurrezione e le barricate. Le pompose dichiarazioni di «vero rivoluzionarismo» si sono concretate in un petardo inoffensivo fatto esplodere sotto un androne della Stampa! La piccola borghesia, anche in questa sua ultima incarnazione politica del «fascismo», si è definitivamente mostrata nella sua vera natura di serva del capitalismo e della proprietà terriera, di agente della controrivoluzione. Ma ha anche dimostrato di essere fondamentalmente incapace a svolgere un qualsiasi compito storico: il popolo delle scimmie riempie la cronaca, non crea storia, lascia traccia nel giornale, non offre materiali per scrivere libri. La piccola borghesia, dopo aver rovinato il parlamento, sta rovinando lo Stato borghese: essa sostituisce, in sempre piú larga scala, la violenza privata all’«autorità» della legge, esercita (e non può fare altrimenti) questa violenza caoticamente, brutalmente, e fa sollevare contro lo Stato, contro il capitalismo, sempre piú larghi strati della popolazione. Bergsoniano!(44) Decisamente, la filosofia nelle file del Partito socialista italiano, e nella mente dei suoi teorici e dei suoi leaders, è destinata a non aver mai fortuna. C’è stato una volta un periodo di esaltazione, un periodo in cui la fede politica e la fede sociale sembrava dovessero di necessità accordarsi con una determinata fede scientifica. Erano i giorni avventurati in cui dell’una e dell’altra fede erano sacerdoti Cesare Lombroso ed i suoi ripetitori, in cui Enrico Ferri era un grande filosofo e grande capo rivoluzionario. Ahimè! il socialismo italiano, che per le grandi masse era allora spontaneo moto di riscossa e di risveglio, movimento di liberazione, iniziato in forme incomposte, senza troppo chiara coscienza di sé, tumultuoso, ma pieno di calore e pieno di ogni possibilità di sviluppo, e pieno soprattutto di fecondo spirito di iniziativa e di tenace volontà di azione, il socialismo italiano, nella mente dei suoi teorici, nella mente dei capi e degli ispiratori, aveva la triste sorte di essere avvicinato al piú arido, secco, sterile, sconsolatamente sterile, pensiero del secolo XIX, al positivismo. La vendetta la fecero le masse stesse. Dopo aver letto o sentito esaltare i libri dei Lombroso e dei Ferri e dei Sergi e altra simile roba positivamente scientifica, esse che avevano pur bisogno di credere per operare, si vendicarono della scienza facendone una fede. E dei saggi della positività scientifica fecero altrettanti santoni. Quelli che erano scienziati veri se la ebbero a male e tacquero; gli altri si rivelarono per ciò che erano, cioè ciarlatani venditori di una merce e fabbricanti di celebrità. Ma al socialismo italiano restò quel marchio, di essere quasi nato insieme e di aver per tanto tempo fatto vita e cammino comune con il positivismo. Poco male, se non si corresse il rischio di vedere ad ogni poco scambiato il marchio con la sostanza di ciò che gli sta sotto, il rischio che corre ogni movimento politico che abbia voluto o voglia farsi passare per autorizzato o giustificato o valorizzato da uno speciale indirizzo di pensiero filosofico. Di questo rischio ha sofferto quanto noi il sindacalismo francese, costretto a sentire e subire gli influssi e le conseguenze delle critiche fatte alla corrente di pensiero da cui esso amò dirsi iniziato: al bergsonismo. Il paragone è molto grossolano, sia perché Bergson è una montagna e i nostri positivisti erano dei ranocchi in una palude, e sia pure perché nessun socialista italiano mai ha avuto la precisione, l’originalità, e insieme la facoltà di penetrazione e di adattamento di un Sorel. Ma dove è caduto un colosso, figuriamoci i nani! Per trovare la via giusta bisogna risalire a Carlo Marx e a Federico Engels, che da un pensiero filosofico hanno tratto una precisa dottrina di interpretazione storica e politica. Ma essi erano passati per l’idealismo e, prima ancora, erano gente che i filosofi li aveva letti, e capiti, e fatti suoi. Oggi bisogna che discutiate con della gente che li conosce molto ma molto di lontano. E allora vi capita il curiosissimo caso di vedere il nome di una scuola filosofica diventare qualcosa di simile a un epiteto ingiurioso. Non sapete piú che cosa rispondere al vostro contraddittore? Ditegli che è un volontarista o un pragmatista, o - fatevi il segno della croce - un bergsoniano. Il sistema è di effetto sicuro. [Oh! Saper essere come l’operaio che sente una sua precisa direttiva di azione e di pensiero, ed è filosofo senza saperlo, come il borghese gentiluomo era prosatore!] Marinetti rivoluzionario?(45) È avvenuto questo fatto inaudito, enorme, colossale, la cui divulgazione minaccia di annientare del tutto il prestigio e il credito dell’Internazionale comunista: a Mosca, durante il II Congresso, il compagno Lunaciarsky ha detto, in un suo discorso ai delegati italiani (discorso, si badi, pronunciato in italiano, anzi in un italiano correttissimo, cosa per cui ogni sospetto di dubbia interpretazione deve essere a priori scartato) che in Italia esiste un intellettuale rivoluzionario e che egli è Filippo Tommaso Marinetti. I filistei del movimento operaio sono oltremodo scandalizzati; è certo ormai che alle ingiurie di: «bergsoniani, volontaristi, pragmatisti, spiritualisti», si aggiungerà l’ingiuria piú sanguinosa di «futuristi! Marinettiani»! Poiché una tale sorte ci attende, vediamo di elevarci fino all’autocoscienza di questa nuova nostra posizione intellettuale. Molti gruppi di operai hanno visto simpaticamente (prima della guerra europea) il futurismo. Molto spesso è avvenuto (prima della guerra) che dei gruppi di operai difendessero i futuristi dalle aggressioni di cricche di «letterati» e di «artisti» di carriera. Fissato questo punto, fatta questa constatazione storica, viene spontanea la domanda: «In quest’atteggiamento degli operai era l’intuizione (eccoci all’intuizione: bergsoniani, bergsoniani!) di una necessità non soddisfatta nel campo proletario?». Dobbiamo rispondere: «Sí. La classe operaia rivoluzionaria aveva e ha la coscienza di dover fondare un nuovo Stato, di dover elaborare col suo tenace e paziente lavoro una nuova struttura economica, di dover fondare una nuova civiltà». È relativamente facile delineare, già fin d’oggi, la configurazione del nuovo Stato e della nuova struttura economica. Si è persuasi che in questo campo, assolutamente pratico, per un certo periodo di tempo non si potrà far altro che esercitare un potere ferreo sull’organizzazione esistente, sull’organizzazione costruita dalla borghesia: da questa persuasione nasce lo stimolo alla lotta per la conquista del potere e nasce la formula con cui Lenin ha caratterizzato lo Stato operaio: «Lo Stato operaio non può essere, per un certo tempo, altro che uno Stato borghese senza la borghesia». Il campo della lotta per la creazione di una nuova civiltà è invece assolutamente misterioso, assolutamente caratterizzato dall’imprevedibile e dall’impensato. Una fabbrica, passata dal potere capitalista al potere operaio, continuerà a produrre le stesse cose materiali che oggi produce. Ma in qual modo e in quali forme nasceranno le opere di poesia, del dramma, del romanzo, della musica, della pittura, del costume, del linguaggio? Non è una fabbrica materiale quella che produce queste opere: essa non può essere riorganizzata da un potere operaio secondo un piano, non può esserne fissata la produzione per la soddisfazione di bisogni immediati controllabili e fissabili dalla statistica. In questo campo nulla è prevedibile che non sia questa ipotesi generale: esisterà una cultura (una civiltà) proletaria, totalmente diversa da quella borghese; anche in questo campo verranno spezzate le distinzioni di classe, verrà spezzato il carrierismo borghese; esisterà una poesia, un romanzo, un teatro, un costume, una lingua, una pittura, una musica caratteristici della civiltà proletaria, fioritura e ornamento dell’organizzazione sociale proletaria. Cosa resta a fare? Niente altro che distruggere la presente forma di civiltà. In questo campo «distruggere» non ha lo stesso significato che nel campo economico: distruggere non significa privare l’umanità di prodotti materiali necessari alla sua sussistenza e al suo sviluppo; significa distruggere gerarchie spirituali, pregiudizi, idoli, tradizioni irrigidite, significa non aver paura delle novità e delle audacie, non aver paura dei mostri, non credere che il mondo caschi se un operaio fa errori di grammatica, se una poesia zoppica, se un quadro assomiglia a un cartellone, se la gioventú fa tanto di naso alla senilità accademica e rimbambita. I futuristi hanno svolto questo compito nel campo della cultura borghese: hanno distrutto, distrutto, distrutto, senza preoccuparsi se le nuove creazioni, prodotte dalla loro attività, fossero nel complesso un’opera superiore a quella distrutta: hanno avuto fiducia in se stessi, nella foga delle energie giovani, hanno avuto la concezione netta e chiara che l’epoca nostra, l’epoca della grande industria, della grande città operaia, della vita intensa e tumultuosa, doveva avere nuove forme di arte, di filosofia, di costume, di linguaggio: hanno avuto questa concezione nettamente rivoluzionaria, assolutamente marxista, quando i socialisti non si occupavano neppure lontanamente di simile questione, quando i socialisti certamente non avevano una concezione altrettanto precisa nel campo della politica e dell’economia, quando i socialisti si sarebbero spaventati (e si vede dallo spavento attuale di molti di essi) al pensiero che bisognava spezzare la macchina del potere borghese nello Stato e nella fabbrica. I futuristi, nel loro campo, nel campo della cultura, sono rivoluzionari; in questo campo, come opera creativa, è probabile che la classe operaia non riuscirà per molto tempo a fare di piú di quanto hanno fatto i futuristi: quando sostenevano i futuristi, i gruppi di operai dimostravano di non spaventarsi della distruzione, sicuri di potere, essi operai, fare poesia, pittura, dramma, come i futuristi; questi operai sostenevano la storicità, la possibilità di una cultura proletaria, creata dagli operai stessi. Russia e Internazionale(46) La Russia dei Soviet si è conquistata, ed ogni giorno piú si conquista le simpatie della classe operaia del mondo intero. Il fatto è naturale. La rivoluzione proletaria russa divide il mondo intero in due campi: da una parte coloro che sono per essa, che sono per il suo sviluppo e per la sua vittoria nel mondo intero; dall’altra coloro che le sono contrari e che vogliono che essa sia soffocata nel sangue del popolo rivoluzionario russo, vedendo in ciò lo schiacciamento della rivoluzione mondiale universale. Da una parte si trovano la classe operaia e le classi semiproletarie, cioè dei piccoli contadini, di tutti i paesi, dall’altra parte stanno i capitalisti, i banchieri, i grandi proprietari fondiari, gli speculatori di tutto il mondo. Le simpatie che la Russia soviettista ha guadagnato presso il proletariato internazionale sono cosí grandi che gli stessi governi capitalistici che organizzano il blocco economico contro di essa non osano piú lottare apertamente contro il suo governo e sono costretti a riconoscerlo ed a stringere con esso legami commerciali. Ma un fatto è specialmente importante e deve essere posto bene in luce: nessun partito operaio, nessuna organizzazione di operai, nemmeno quelli che si pongono sul terreno dell’opportunismo e del riformismo, non osano piú dirsi apertamente contrari alla Russia dei Soviet, anche se di fatto nei loro paesi questi partiti sostengono il potere della borghesia. Perché i partiti e le organizzazioni riformiste ed opportuniste sono costretti in questo modo a nascondere la loro opposizione reale e di principio contro la Russia dei Soviet, sotto la maschera di una ipocrita amicizia? Perché se cosí non facessero in breve tempo essi perderebbero il sostegno delle masse operaie. È dunque un motivo utilitario quello che li spinge a dichiararsi per la Russia. Allo stesso modo si comportano i centristi e i semiriformisti i quali, benché si dicano contrari all’internazionale comunista, ai suoi principi, alla sua tattica ed alla sua organizzazione centralizzata, ciò nonostante si presentano alla classe operaia come difensori della rivoluzione proletaria russa. Se cosí non facessero essi sarebbero perduti, e le masse se ne staccherebbero. Essi seguono un’ipocrita politica di amicizia e di simpatia per la Russia per poter continuare l’opera loro confusionistica, per impedire la rivoluzione del proletariato. Ciò è vero per tutti i paesi, e soprattutto per l’Italia. Non parliamo dei riformisti, perché gli operai coscienti sanno ormai come giudicare la loro politica, sanno che essi sono dei nemici della rivoluzione proletaria russa, benché essi pure non osino francamente condannarla. Parliamo invece dei centristi e dei semiriformisti, di coloro che nascondono il loro tradimento sotto la maschera della conservazione dell’unità del Partito e che si sono dati il nome di comunisti-unitari. Essi dichiarano ad alta voce di essere difensori accaniti della Russia dei Soviet e sostenitori decisi dell’Internazionale comunista, dopo che ad esse hanno dichiarato guerra aperta! Perché il compagno Serrati ed i suoi sostenitori dimostrano con tanto chiasso la loro solidarietà alla Russia? Perché la Russia, la sua rivoluzione, i suoi principi ed i suoi metodi di lotta godono di un’immensa popolarità fra le masse proletarie italiane. Perché il proletariato italiano ammira ed acclama la Russia dei Soviet, perché esso è completamente solidale con la Russia dei Soviet, perché è deciso a sostenere fino in fondo con tutti i mezzi la Russia dei Soviet. Perciò il compagno Serrati ed i comunisti-unitari si adattano alle circostanze per non perdere la loro influenza sul proletariato. Ma non solo verso la Russia e la sua rivoluzione essi dimostrano amicizia e simpatia, ma anche verso l’Internazionale comunista. Nella coscienza del proletariato italiano la rivoluzione russa è infatti legata in modo inscindibile e solidale con l’Internazionale comunista. Il proletariato italiano, guidato dalla sua coscienza e dal suo istinto proletario, non separa la rivoluzione russa dalla Internazionale comunista, ma le unisce cosí come esse sono unite nella vita reale. Il compagno Serrati ed i suoi sostenitori sono quindi costretti anche in ciò ad adattarsi allo stato d’animo del proletariato per non perdere il loro ascendente. Essi non hanno il coraggio di dire francamente ed apertamente che poiché sono contrari alle 21 condizioni, alle tesi sulla questione coloniale e nazionale, alle tesi sulla questione agraria ed allo stesso principio centralizzatore dell’Internazionale comunista, essi sono contro l’Internazionale stessa. Nella sostanza, tanto i riformisti e gli opportunisti che hanno il coraggio di dirlo apertamente, quanto i centristi ed i semicentristi che non osano apertamente dirsi contrari all’Internazionale comunista, ma ne respingono le risoluzioni sostanziali e lavorano contro di essa, tanto gli uni che gli altri sono di fatto nemici della Russia dei Soviet e della rivoluzione proletaria russa, perché chi si dichiara in modo nascosto o palese contrario all’organizzazione internazionale comunista dei lavoratori è anche un nemico della Russia e della sua rivoluzione. Che cosa è difatti l’Internazionale comunista? Essa è la realizzazione internazionale dei principi e dei metodi della rivoluzione russa. La rivoluzione proletaria russa è la prima grande rivoluzione proletaria che si è chiusa vittoriosamente con la conquista del potere da parte del proletariato nel piú grande paese capitalista del mondo, e con l’instaurazione avvenuta per la prima volta nella storia della dittatura proletaria. Questa esperienza storica della classe rivoluzionaria russa è di una immensa importanza per tutto il proletariato internazionale e per la sua lotta di emancipazione. D’altra parte la rivoluzione russa non è soltanto il prodotto di condizioni particolari e speciali di quel paese, ma un prodotto della guerra imperialista mondiale. Oggi, dopo la guerra, in tutti i paesi capitalistici, la crisi economica, la disoccupazione, il rincaro dei viveri, il deprezzamento della moneta sono fenomeni comuni che rendono le condizioni di ogni paese simili a quelle della Russia prima del 1917. Ma non solo lo scoppio, bensí anche lo sviluppo della rivoluzione russa è collegato e dipende dalla crisi economica e politica mondiale, crisi la quale viene facendosi sempre piú larga e piú profonda. Le condizioni della rivoluzione mondiale maturano rapidamente e soltanto la vittoria della rivoluzione universale può assicurare la vittoria definitiva della rivoluzione russa. Orbene, l’Internazionale comunista non fa altro che organizzare il proletariato internazionale traendo profitto dalla preziosa e colossale esperienza della rivoluzione russa per la preparazione della rivoluzione universale. Schiacciamento della rivoluzione russa vuol quindi dire schiacciamento della rivoluzione mondiale. I governi capitalistici lo sanno e perciò combattono a fondo la Russia dei Soviet. Ciò però incomincia a capire sempre di piú anche il proletariato internazionale, dalla coscienza del quale scompare ormai ogni dubbio che il favore per la rivoluzione russa è una stessa cosa con l’adesione all’Internazionale comunista. Coloro dunque che lottano apertamente o in modo mascherato contro l’Internazionale comunista, lottano di fatto contro la Russia dei Soviet: sono suoi nemici, e sono nemici tanto piú pericolosi in quanto essi militano nelle file stesse della classe operaia. È loro la colpa se la borghesia riesce ancora a mantenere una parte degli operai sotto la sua influenza. Il dovere supremo dei comunisti italiani è quello di smascherare e di combattere questa pericolosa politica dei centristi. - Giú la maschera! - gridiamo noi agli ipocriti amici della Russia e dell’Internazionale - voi lavorate e voi lottate contro l’Internazionale, voi siete dunque nemici della prima grande rivoluzione proletaria. Il proletariato italiano, quando comprenderà questa verità non potrà che condannarvi. Il Congresso di Livorno(47) Il Congresso di Livorno è destinato a diventare uno degli avvenimenti storici piú importanti della vita italiana contemporanea. A Livorno sarà finalmente accertato se la classe operaia italiana ha la capacità di esprimere dalle sue file un partito autonomo di classe, sarà finalmente accertato se le esperienze di quattro anni di guerra imperialista e di due anni di agonia delle forze produttive mondiali hanno valso a rendere consapevole la classe operaia italiana della sua missione storica. La classe operaia è classe nazionale e internazionale. Essa deve porsi a capo del popolo lavoratore che lotta per emanciparsi dal giogo del capitalismo industriale e finanziario nazionalmente e internazionalmente. Il compito nazionale della classe operaia è fissato dal processo di sviluppo del capitalismo italiano e dello Stato borghese che ne è l’espressione ufficiale. Il capitalismo italiano ha conquistato il potere seguendo questa linea di sviluppo: ha soggiogato le campagne alle città industriali e ha soggiogato l’Italia centrale e meridionale al Settentrione. La questione dei rapporti tra città e campagna si presenta nello Stato borghese italiano non solo come questione dei rapporti tra le grandi città industriali e le campagne immediatamente vincolate ad esse nella stessa regione, ma come questione dei rapporti tra una parte del territorio nazionale e un’altra parte assolutamente distinta e caratterizzata da note sue particolari. Il capitalismo esercita cosí il suo sfruttamento e il suo predominio: nella fabbrica direttamente sulla classe operaia; nello Stato sui piú larghi strati del popolo lavoratore italiano formato di contadini poveri e semiproletari. È certo che solo la classe operaia, strappando dalle mani dei capitalisti e dei banchieri il potere politico ed economico, è in grado di risolvere il problema centrale della vita nazionale italiana, la questione meridionale; è certo che solo la classe operaia può condurre a termine il laborioso sforzo di unificazione iniziatosi col Risorgimento. La borghesia ha unificato territorialmente il popolo italiano; la classe operaia ha il compito di portare a termine l’opera della borghesia, ha il compito di unificare economicamente e spiritualmente il popolo italiano. Ciò può avvenire solo spezzando la macchina attuale dello Stato borghese, che è costruita su una sovrapposizione gerarchica del capitalismo industriale e finanziario sulle altre forze produttive della nazione; questo rivolgimento non può avvenire che per lo sforzo rivoluzionario della classe operaia direttamente soggiogata al capitalismo, non può avvenire che a Milano, a Torino, a Bologna, nelle grandi città da cui partono i milioni di fili che costituiscono il sistema di dominio del capitalismo industriale e bancario su tutte le forze produttive del paese. In Italia, per la configurazione particolare della sua struttura economica e politica, non solo è vero che la classe operaia, emancipandosi, emanciperà tutte le altre classi oppresse e sfruttate, ma è anche vero che queste altre classi non riusciranno mai a emanciparsi se non alleandosi strettamente alla classe operaia e mantenendo permanente questa alleanza, anche attraverso le piú dure sofferenze e le piú crudeli prove. Il distacco che avverrà a Livorno tra comunisti e riformisti avrà specialmente questo significato: la classe operaia rivoluzionaria si stacca da quelle correnti degenerate del socialismo che sono imputridite nel parassitismo statale, si stacca da quelle correnti che cercavano di sfruttare la posizione di superiorità del Settentrione sul Mezzogiorno per creare aristocrazie proletarie, che accanto al protezionismo doganale borghese (forma legale del predominio del capitalismo industriale e finanziario sulle altre forze produttive nazionali) avevano creato un protezionismo cooperativo e credevano emancipare la classe operaia alle spalle della maggioranza del popolo lavoratore. I riformisti portano come «esemplare» il socialismo reggiano, vorrebbero far credere che tutta l’Italia e tutto il mondo può diventare una sola grande Reggio Emilia. La classe operaia rivoluzionaria afferma di ripudiare tali forme spurie di socialismo: l’emancipazione dei lavoratori non può avvenire attraverso il privilegio strappato, per una aristocrazia operaia, col compromesso parlamentare e col ricatto ministeriale; l’emancipazione dei lavoratori può avvenire solo attraverso l’alleanza degli operai industriali del Nord e dei contadini poveri del Sud per abbattere lo Stato borghese, per fondare lo Stato degli operai e contadini, per costruire un nuovo apparecchio di produzione industriale che serva ai bisogni dell’agricoltura, che serva a industrializzare l’arretrata agricoltura italiana e a elevare quindi il livello del benessere nazionale a profitto delle classi lavoratrici. La rivoluzione operaia italiana e la partecipazione del popolo lavoratore italiano alla vita del mondo non può verificarsi altro che nei quadri della rivoluzione mondiale. Esiste già un germe di governo mondiale operaio: è il Comitato esecutivo dell’Internazionale comunista uscito dal II Congresso. L’avanguardia della classe operaia italiana, la frazione comunista del Partito socialista, affermerà a Livorno necessaria e imprescindibile la disciplina e la fedeltà al primo governo mondiale della classe operaia: anzi di questo punto farà il punto centrale della discussione al congresso. La classe operaia italiana accetta il massimo di disciplina, perché vuole che tutte le altre classi operaie nazionali accettino e osservino il massimo di disciplina. La classe operaia italiana sa di non potersi emancipare e di non poter emancipare tutte le altre classi oppresse e sfruttate dal capitalismo nazionale, se non esiste un sistema di forze rivoluzionarie mondiali cospiranti allo stesso fine. La classe operaia italiana è disposta ad aiutare le altre classi operaie nei loro sforzi di liberazione, ma vuole avere anche una certa garanzia che le altre classi l’aiuteranno nei suoi sforzi. Questa garanzia può essere data solo dalla esistenza di un potere internazionale fortemente centralizzato, che goda la fiducia piena e sincera di tutti gli associati, che sia in grado di mettere in movimento i suoi effettivi con la stessa rapidità e con la stessa precisione con cui riesce, per suo conto e nell’interesse della borghesia, il potere mondiale del capitalismo. Appare evidente cosí che le questioni che tormentano oggi il Partito socialista e che saranno definite al Congresso di Livorno non sono mere questioni interne di partito, non sono conflitti personali tra singoli individui. A Livorno si discuterà il destino del popolo lavoratore italiano, a Livorno si inizierà un nuovo periodo nella storia della nazione italiana. Un monito(48) È caso od è fortuna quella che vuole che il Congresso del Partito socialista italiano si raduni a Livorno nel giorno anniversario del sacrificio di Carlo Liebknecht? Noi non crediamo né alle date fatali né alle fatidiche coincidenze della storia, e non crediamo nemmeno che lo spirito dei morti abbia potere di ritornare tra i vivi e di ispirarli. Ma se quelli di cui si commemora la fine sono i «nostri» morti, sono coloro che caddero con le armi levate nel fervore della lotta, e con lo spirito teso, nelle alternative disperate del combattimento, a resistere, ad attendere, a sperare, - di questi morti anche noi sentiamo la vitalità eterna, sentiamo noi pure la permanenza dello spirito loro, animatore, tra di noi; - per questi morti anche noi, quasi, ci sentiamo di ripetere le parole della fiduciosa superstizione cristiana: essi sono vivi ancora, e giudicano, e attendono. In realtà, siamo noi stessi che giudichiamo e attendiamo, ma vogliamo pensare l’azione e il giudizio nostro, in questi momenti supremi, come ispirati, quasi dettati da un insegnamento sorgente dalla vita di chi tanto piú intensamente di noi ha operato per l’affermazione e la vittoria dei principi nostri. Sotto gli auspici del nome di Carlo Liebknecht ben si apre perciò il Congresso di Livorno. Chi evocherà, con il nome, i fatti e gli insegnamenti, non potrà trarre da essi che un monito, conforme con la nostra attesa, con la nostra fiducia, con i nostri propositi. Con la morte di Carlo Liebknecht, nel gennaio 1919, finiva nel sacrificio cruento la prima grande affermazione dei comunisti dell’Europa centrale e occidentale. L’insurrezione armata del proletariato tedesco che egli diresse con l’autorità della sua persona, enorme di fronte alle mezze figure dei traditori e degli esitanti, e con una precisione di pensiero e di propositi pari all’ardire e alla tenacia infrangibile della volontà, quella insurrezione fu in realtà il primo, il solo tentativo grande, serio e fornito di probabilità di successo, di inserire e comprendere lo sviluppo della crisi europea postbellica nello stesso quadro della rivoluzione proletaria russa. L’insurrezione dei comunisti tedeschi parve per un istante realizzare la saldatura tra la rivoluzione russa vittoriosa e gli sforzi delle minoranze rivoluzionarie dei paesi dell’Europa centrale e occidentale. Se la saldatura si fosse compiuta, invece di esaurirsi in una serie di tentativi sporadici e nel grande, epico, ma doloroso sforzo di un popolo isolato, la rivoluzione europea avrebbe avuto il suo sbocco naturale in una rivolta di tutto il proletariato contro tutti i governi dell’Intesa. Perciò nei giorni tragici del gennaio 1919 il cuore del mondo intiero pulsò intorno a Berlino, e il destino del mondo intiero parve sospeso all’esito degli scontri rabbiosi nei quali il fiore dei proletari di Germania versava il suo sangue. Il nome stesso di Liebknecht apparve allora a tutti in modo concreto, in modo evidente, ciò che era apparso negli anni della guerra alla fantasia di Henri Barbusse, una sintesi vivente, un simbolo: la sintesi ed il simbolo della rivolta proletaria contro le infamie, contro gli orrori, contro la schiavitú della guerra e della pace capitalistica. Ma oggi che a distanza di due anni ricordiamo quei fatti, noi possiamo aggiungere qualcosa a quella rappresentazione simbolica, possiamo aggiungere l’esperienza di un periodo rivoluzionario apertosi con le piú grandi speranze e con la piú grande audacia, e non ancora concluso, benché il ritorno degli eventi fatto piú lento e meno febbrile sembri accennare a una depressione degli spiriti e della volontà di rivolta. Oggi lo sviluppo dei fatti ci si presenta anch’esso piú chiaro, insieme col logico incatenarsi delle cause e degli effetti, e il sacrificio di Liebknecht ci appare in tutta la pienezza del valore ch’esso ha avuto, non solo nella storia della rivoluzione europea, ma nella stessa intima storia della formazione nelle file del proletariato di una precisa coscienza e di una valida capacità di azione. Perciò, prima di ogni altra cosa, nel ricordare la morte atroce, noi ricordiamo che gli strumenti di essa furono apprestati, prima che dalla classe borghese, dai traditori usciti dalle file del partito del proletariato. Commemoriamo il martire e l’eroe, l’uomo nella cui vita per un istante si sono riassunte le sorti di tutta la classe ribelle, e non possiamo non ricordare, come parte essenziale di un insegnamento che non si cancella, che la sua sorte fu segnata da coloro che erano venuti meno alla fede, che erano passati nelle file avversarie o rimasti tra le file dei combattenti per seminarvi dubbio, incertezza, scetticismo. L’insurrezione berlinese del gennaio 1919 fallí perché trovò contro di sé, organizzate dai socialdemocratici, le forze della reazione; dopo di essa, il proletariato tedesco fino a ieri è stato impedito di risorgere valido e potente dagli stessi che un giorno erano parsi guide dell’azione e poi si rivelarono traditori nascosti sotto le spoglie o del teorico, o del funzionario, o del parlamentare. Soltanto attualmente dopo un lungo periodo d’elaborazione interiore, dopo un periodo faticoso di liberazione e di rinnovamento, la classe operaia tedesca sta ritrovando la sua via. E la ritrova sulle direttive segnate da Carlo Liebknecht. Ma noi abbiamo detto che nel suo nome e nell’azione sua vedevamo un esempio per tutti i popoli. Piú che un esempio, è una prova. Carlo Liebknecht ci ha provato nel modo piú valido, col sacrificio, quale è la via e quali sono gli ostacoli. Chi evocherà il suo nome al Congresso di Livorno saprà esprimere completo il monito che esso contiene? Sotto gli auspici del suo nome noi vogliamo porre - e ci pare realmente ora, che la coincidenza sia fatidica - l’origine del Partito comunista italiano. Il Congresso dei giovani(49) A pochi giorni di distanza dal Congresso di Livorno, si apre oggi in Firenze il Congresso dei giovani socialisti italiani. Non vi è grande attesa attorno ad esso. Lo sforzo di attenzione e di polemica compiuto dai compagni per tener dietro al dibattito delle tendenze che ha culminato a Livorno sembra avere esaurito la capacità loro di dare rilievo ai fatti che pure sono degni di essere considerati del maggior valore. Le dichiarazioni esplicite fatte ai due Congressi di Livorno dal segretario della Federazione giovanile italiana hanno forse contribuito a diminuire l’interesse che altrimenti dovrebbe essere grandissimo. Che cosa diranno, degli avvenimenti del Partito, i giovani? Che cosa pensano essi delle sorti del movimento proletario italiano? Con quali occhi, con quale animo considerano essi gli eventi attuali, e, quello che piú conta, con quali propositi considerano l’avvenire essi, che l’avvenire del Partito portano in sé, che rappresentano, che sono la continuità di esso e di tutto il movimento proletario e sovversivo? Confessiamolo: gli «adulti» non solo si disinteressano, non solo trascurano, ma in parte anche volutamente tengono in minor conto il movimento dei giovani. Nelle assemblee essi sono sempre un poco i tollerati, e nelle ultime discussioni che si son fatte in preparazione del congresso e che in alcuni luoghi sono state lunghe, vivaci, talora tempestose, non è mancato chi insultasse l’ardore e l’impetuosità giovanile, quasi considerandola come una claque. Inutile lamentarsi: l’organizzazione dei giovani fu sempre o quasi sempre tenuta un poco in disparte e non se ne può far colpa a nessuno, se non al Partito nel suo complesso, al Partito nel quale non è stata mai presente in modo chiaro la coscienza di ciò che dovesse rappresentare nel suo seno questa organizzazione. Difetto di visione organica, dunque, difetto che si spiega coi caratteri stessi che ha avuto il movimento giovanile nei diversi periodi della storia del socialismo italiano. Nei primi tempi i giovani venivano al Partito, a frotte, spinti da un impulso ideale, da uno slancio dell’animo disgustato della visione di un presente triste ed iniquo, avido di libertà e di battaglie. Venivano allora a noi, i giovani, senza distinzione, da tutte le classi. Erano studenti, professionisti, borghesi, gente cui lo studio aveva aperto la mente alla comprensione delle dottrine e procurato a dovizia la capacità di assimilarle e di esporle. Li animava un fervore idealistico, desiderio ardente di azione e di sacrificio; quasi sembrava che in essi dessero gli ultimi bagliori le virtú che la borghesia italiana aveva dato prova di possedere durante gli anni delle lotte del Risorgimento, quando non ancora l’eroismo era stato soffocato dalla corruzione dello Stato italiano. Quei giovani venendo al socialismo non potevano fare a meno di diventare subito delle guide, dei capi. E un vero vivaio di queste energie destinate ad imporsi e a conquistarsi i primi posti di combattimento erano allora i fasci giovanili. Ma una vera e propria organizzazione di giovani, che avesse esclusivo carattere proletario e fosse fatta per soddisfare i bisogni dei giovani proletari ed accontentare le esigenze loro nell’affacciarsi per la prima volta alla vita della loro classe, questa mancava, questa anzi si può dire che non sia esistita ancora mai. Eppure oggi il movimento dei giovani, passati gli impeti generosi dei primi volontari, ha esclusivo carattere di classe. Sono operai e contadini, non sono piú transfughi dalle file della borghesia. Sono operai e contadini nei quali non vi è e non può esservi grande capacità di prestamente comprendere i princípi della dottrina, ma esiste invece profonda l’intuizione dei bisogni della classe da cui essi sono usciti. Essi sentono un bisogno istintivo di chiarificazione e di precisione, un bisogno di conoscere e di sapere, ma in pari tempo sentono che non hanno tempo da perdere nelle accademie e nelle discussioni vane, perché le necessità dell’azione li spingono e queste essi le sentono in modo piú vivace di tutti. Ed ecco allora presentarsi in tutta la sua ampiezza il problema dei giovani, il problema di fare sí che questa energia non vada perduta, non si sciupi in tentativi vani, ma sia guidata in modo che essa dia il massimo di rendimento per tutto quanto il Partito. È un problema di educazione, ma di educazione intesa nel significato piú ampio della parola, educazione dei giovani alla disciplina dell’azione e del pensiero, ma educazione pure di tutto l’organismo del Partito, cioè infusione in esso di nuovo sangue, di nuova energia, di nuovo desiderio e di nuova capacità di conoscere e di fare. Nel Partito socialista, la coscienza di questo problema, dei suoi termini e della sua soluzione si era a poco a poco perduta. L’organizzazione dei giovani era incerta di sé, oscillava tra il fine educativo e il fine di preparazione materiale, non aveva trovato in se stessa un equilibrio, soprattutto non aveva trovato un equilibrio che le permettesse di ingranare l’opera sua in modo armonico con quella dell’organizzazione degli «adulti». Alcuni la consideravano una cosa inutile, molti un doppione. I giovani stessi erano incerti, sperduti: da una parte sdegnavano di essere considerati sempre soltanto come materia atta per farle sorbire i discorsi di questo o quel padreterno, e dall’altra sentivano che il sacrifizio di sé che loro si chiedeva nei momenti supremi, doveva pure avere come corrispettivo l’attribuzione di un peso e di un’importanza maggiori. Il Partito comunista dovrà evitare gli errori del passato, dovrà cercare di conquistarsi e di mantenere chiara la percezione in tutti i suoi aderenti del valore dell’opera educativa cui attende l’organizzazione giovanile, opera educativa che si compie nell’interesse e per conto del Partito tutto intiero. Non possiamo, non potremo vivere senza metterci continuamente a contatto con questa fresca realtà nuova che è la vita dei giovani, speranza e promessa di avvenire. Dobbiamo sentire che i problemi che ad essi si presentano sono pure gli essenziali problemi di tutta la nostra organizzazione, sono in fondo anzi un problema solo: il problema di far sí che la nuova generazione degli operai e dei contadini cresca valida e pronta alle battaglie che l’attendono. Ben venga dunque, dopo Livorno, il Congresso giovanile di Firenze. Se esso ci dirà che i giovani sono con noi, esso ci avrà dato l’assicurazione maggiore di vitalità e di forza che noi potessimo sperare. Controllo operaio(50) Prima di esaminare nel suo congegno e nelle sue possibilità il disegno di legge presentato alla Camera dei deputati dall’onorevole Giolitti occorre fissare il punto di vista da cui si pongono i comunisti nella discussione del problema. Per i comunisti impostare il problema del controllo significa impostare il problema massimo dell’attuale periodo storico, significa impostare il problema del potere operaio sui mezzi di produzione e quindi il problema della conquista dello Stato. Da questo punto di vista la presentazione di un disegno di legge, la sua approvazione, e la sua esecuzione nell’ambito dello Stato borghese sono avvenimenti di secondaria importanza: il potere operaio ha e solo può avere la ragione del suo essere e del suo imporsi nell’interno della classe operaia, nella capacità politica della classe operaia, nella potenza reale che la classe operaia possiede come fattore indispensabile e insopprimibile della produzione e come organizzazione di forza politica e militare. Ogni legge che, a questo proposito, emani dal potere borghese, ha un solo significato e un solo valore, questo: significa che realmente, e non solo verbalmente, il terreno della lotta delle classi è mutato, in quanto la borghesia è costretta a fare sul nuovo terreno delle concessioni e a creare nuovi istituti giuridici, ha il valore dimostrativo reale di una debolezza organica della classe dominante. Ammettere che il potere d’iniziativa nell’industria possa soffrire delle limitazioni, ammettere che l’autocrazia industriale possa diventare «democrazia» sia pure formale, significa ammettere che la borghesia è ormai effettivamente scaduta dalla sua posizione storica di classe dirigente, significa ammettere che la borghesia effettivamente è incapace di garantire alle masse popolari le condizioni di esistenza e di sviluppo. Per alleggerirsi di una parte almeno delle sue responsabilità, per crearsi un alibi, la borghesia si lascia «controllare», finge di lasciarsi mettere sotto tutela. Sarebbe certo molto utile, ai fini della conservazione borghese, che un mallevadore come il proletariato si assumesse dinanzi alle grandi masse popolari il compito di testimoniare che dell’attuale rovina economica non bisogna incolpare nessuno, ma che dovere universale sia quello di soffrire pazientemente, di lavorare tenacemente, attendendo che le attuali fratture siano rinsaldate e che un nuovo edifizio sia costruito sulle attuali rovine. Il campo del controllo risulta quindi il campo su cui borghesia e proletariato lottano per contendersi la posizione di classe dirigente delle grandi masse popolari. Il campo del controllo risulta quindi essere il fondamento su cui la classe operaia, essendosi conquistati la fiducia e il consenso delle grandi masse popolari, costruisce il suo Stato, organizza le istituzioni del suo governo, chiamando a farne parte tutte le classi oppresse e sfruttate, e inizia il lavoro positivo di organizzazione del nuovo sistema economico e sociale. Attraverso la lotta per il controllo - lotta che non si svolge nel Parlamento ma che è lotta rivoluzionaria di masse e attività di propaganda e di organizzazione del partito storico della classe operaia, il Partito comunista, la classe operaia, deve acquistare, spiritualmente e come organizzazione, coscienza della sua autonomia e della sua personalità storica. Ecco perché la prima fase della lotta si presenterà come lotta per una determinata forma di organizzazione. Questa forma di organizzazione non può essere che il Consiglio di fabbrica e l’organizzazione, accentrata nazionalmente, del Consiglio di fabbrica. Questa lotta deve avere come risultato la costituzione di un Consiglio nazionale della classe operaia che sia eletto, in tutti i suoi gradi, dal Consiglio di fabbrica al Consiglio urbano, al Consiglio nazionale, con sistemi e secondo una procedura fissati dalla classe operaia stessa, non dal Parlamento nazionale, non dal potere borghese. Questa lotta deve essere condotta nel senso di dimostrare alle grandi masse della popolazione che tutti i problemi esistenziali dell’attuale periodo storico, i problemi del pane, del tetto, della luce, del vestito, possono essere risolti solo quando tutto il potere economico, e quindi tutto il potere politico, sarà passato nelle mani della classe operaia, deve cioè essere condotta nel senso di organizzare intorno alla classe operaia tutte le forze popolari in rivolta contro il regime capitalista, per ottenere che la classe operaia effettivamente diventi classe dirigente e guidi tutte le forze produttive a emanciparsi attraverso l’attuazione del programma comunista. Questa lotta deve servire a porre la classe operaia in grado di scegliere nel proprio seno gli elementi piú capaci ed energici per farne i suoi nuovi capi industriali, i suoi nuovi guidatori nel lavoro di ricostruzione economica. Da questo punto di vista il disegno di legge presentato dall’onorevole Giolitti alla Camera dei deputati rappresenta solo un mezzo di agitazione e di propaganda. Cosí esso deve essere esaminato dai comunisti, per i quali, nonché essere un punto di arrivo, esso non è neppure un punto di partenza e di appoggio. La parola d’ordine(51) Il Partito comunista ha lanciato la sua parola d’ordine. È la parola d’ordine della saggezza rivoluzionaria. Da questo momento il Partito comunista si pone realmente a capo della classe operaia italiana perché dà un indirizzo alla classe operaia, perché dimostra di avere la capacità politica e la forza morale necessarie per meritare la fiducia delle masse. Il Partito si pone sul terreno della schiettezza e della verità. Il Partito sa di rappresentare in questo momento, oltre che gli interessi del proletariato italiano, gli interessi del proletariato internazionale, le sorti della rivoluzione mondiale. Gli operai devono ricordare in questo momento qual è il quadro della situazione internazionale. L’Intesa prepara un’offensiva primaverile contro la Russia dei Soviet: la base militare per l’offensiva è la penisola balcanica. L’Italia è il ponte tra l’Intesa reazionaria e la penisola balcanica: la posizione di potenza del proletariato italiano è il massimo ostacolo alla preparazione dell’offensiva e al suo sviluppo. Se il proletariato italiano non mantiene questa posizione, se il proletariato italiano non ha la massima fiducia nell’organismo politico di classe che è legato all’Internazionale, che è l’occhio vigile e pronto dell’Internazionale in Italia, non sono in giuoco solo le fortune del proletariato italiano, sono in giuoco anche le fortune della Russia dei Soviet e della rivoluzione mondiale. Non è perciò questa l’ora della demagogia e delle parole rimbombanti: è l’ora delle fredde responsabilità in chi dirige, è l’ora della illimitata fiducia delle masse nell’organismo qualificato, per la sua posizione nazionale e internazionale, a dirigere le masse nella tremenda situazione creatasi in Italia. Ogni operaio che abbia consapevolezza dei suoi doveri di classe, ogni maestranza di fabbrica, ogni organizzazione sindacale, deve in questo momento dare ai suoi fiduciari e ai suoi delegati questo ordine preciso e netto: disciplina di ferro ai deliberati del Partito comunista, voto di fiducia all’Internazionale comunista che ha guidato alla vittoria e alla libertà il proletariato russo e dirige con polso fermo e occhio sicuro la rivoluzione mondiale. Funzionarismo(52) Il Congresso confederale di Livorno è terminato. Nessuna parola nuova, nessun indirizzo è venuto fuori da questo congresso. Invano le grandi masse popolari italiane hanno atteso di essere orientate, invano hanno atteso una parola d’ordine che le illuminasse, che riuscisse a calmare il loro spasimo e a dare una forma alla loro passione. Il congresso non ha impostato e non ha risolto neppure uno dei problemi vitali per il proletariato nell’attuale periodo storico: né il problema dell’emigrazione, né il problema della disoccupazione, né il problema dei rapporti tra operai e contadini, né il problema delle istituzioni che meglio possono contenere lo sviluppo della lotta di classe, né il problema della difesa materiale degli edifici di classe e della integrità personale dei militanti operai. L’unica preoccupazione della maggioranza del congresso è stata quella di salvaguardare e garantire la posizione e il potere politico degli attuali dirigenti sindacali, di salvaguardare e garantire la posizione e il potere (potere impotente) del Partito socialista. La nostra lotta contro il funzionarismo sindacale non poteva essere giustificata meglio. In molte regioni d’Italia le folle dei lavoratori erano scese in campo per difendere il loro elementare diritto alla vita, alla libertà di muoversi nelle strade, alla libertà di associarsi, di riunirsi, di avere propri locali di riunione. Il campo della lotta rapidamente divenne tragico: fiamme d’incendio, cannonate, fuoco di mitragliatrici, decine e decine di morti. La maggioranza del congresso non si commosse per questi avvenimenti; la tragedia delle folle popolari che disperatamente si difendevano da nemici implacabili e crudeli non fu capace a rendere seri, a infondere il senso delle proprie responsabilità storiche in questa maggioranza formata di uomini dal cuore inaridito e dal cervello disseccato. Questi uomini non vivono piú per la lotta delle classi, non sentono piú le stesse passioni, gli stessi desideri, le stesse speranze delle masse: tra loro e le masse si è scavato un incolmabile abisso, l’unico contatto tra loro e le masse è il registro dei conti o lo schedario dei soci. Questi uomini non vedono piú il nemico nella borghesia, lo vedono nei comunisti; hanno paura della concorrenza, sono da capi divenuti banchieri d’uomini in regime di monopolio, e il minimo accenno di una concorrenza li rende folli di terrore e di disperazione. Il Congresso confederale di Livorno è stato per noi un’esperienza formidabile; il nostro pessimismo è stato superato da questa esperienza. Noi dell’Ordine Nuovo abbiamo sempre visto nel problema sindacale, nel problema dell’organizzazione delle grandi masse, nel problema della scelta del personale dirigente di questa organizzazione, il problema centrale del movimento rivoluzionario moderno; mai però, come oggi, abbiamo sentito tutta la gravità e l’estensione del problema, mai, come oggi, abbiamo sentito tutta la cancrena che rode il movimento. Al congresso gli articoli dell’Ordine Nuovo sono stati letti, postillati, commentati, hanno riempito l’aula di clamori e di tumulti: eppure quegli articoli non dicevano neppure la decima parte del giudizio pessimistico nostro sulla insufficienza degli uomini e delle istituzioni. Eppure questo giudizio si è ancora aggravato dopo il congresso. Sí, perché mentre gli operai si battevano nelle vie e nelle piazze, mentre le fiamme d’incendio riempivano di terrore le popolazioni e le inducevano disperate all’esasperazione individuale e alle piú spaventose rappresaglie, noi non avremmo concepito neppure che i sedicenti delegati di queste masse popolari si perdessero nelle bassure piú paludose e miasmatiche della lotta personale; le folle si svenavano nelle vie e nelle piazze, entravano in iscena i cannoni e le mitragliatrici, e questi dirigenti, questi capi, questi futuri amministratori della società impazzivano e schiumavano per un articolo di giornale, per un trafiletto, per un titolo. E vorrebbero convincerci, costoro, che abbiamo fatto male, che abbiamo commesso un delitto staccandoci da loro; e vorrebbero convincerci che noi siamo i leggeri, che noi siamo gli irresponsabili, che noi siamo i «miracolisti», che noi non siamo capaci a comprendere e a pesare le difficoltà delle situazioni storiche e dei movimenti rivoluzionari. E vorrebbero che noi ci persuadessimo che in loro si realizza la saggezza, la competenza, la tecnica, il buonsenso, la capacità politica e amministrativa accumulata dal proletariato nella sua lotta e nelle sue esperienze storiche di classe. Andiamo, via... Il Congresso confederale riabilita il Parlamento, riabilita le assemblee peggiori delle classi che nel passato si sono rivelate piú corrotte e putrefatte. È aumentato il nostro pessimismo, non è diminuita la nostra volontà. I funzionari non rappresentano le masse. Gli Stati assoluti erano appunto gli Stati dei funzionari gli Stati della burocrazia: essi non rappresentavano le popolazioni e furono sostituiti dagli Stati parlamentari. La Confederazione rappresenta, nello sviluppo storico del proletariato, ciò che lo Stato assoluto ha rappresentato nello sviluppo storico delle classi borghesi; sarà sostituita dall’organizzazione dei Consigli, che sono i parlamenti operai, che hanno la funzione di corrodere i sedimenti burocratici e di trasformare i vecchi rapporti organizzativi. È aumentato il nostro pessimismo, ma è sempre viva e attuale la nostra divisa: pessimismo dell’intelligenza, ottimismo della volontà. Disciplina(53) Al Congresso confederale di Livorno il Partito socialista ha raccolto la maggioranza dei suffragi degli operai italiani organizzati. La Confederazione generale del lavoro deve oggi essere considerata come un organismo socialista, che riceve l’impulso ed è legata alla disciplina del Partito; di tutto il bene che fa la direzione confederale una gran parte di merito deve essere attribuita al Partito socialista, ma al Partito socialista deve essere attribuita anche, reciprocamente, una gran parte di responsabilità per l’inazione e gli errori della direzione confederale. Dal Congresso di Livorno ad oggi, la crisi industriale è andata acuendosi. La minaccia di una serrata generale si profila sempre piú nitidamente all’orizzonte proletario. Quale parola d’ordine la Confederazione e il Partito socialista intendono lanciare agli operai e ai contadini? Quale azione intendono svolgere? Come devono comportarsi le Camere del lavoro e le singole leghe dinanzi alla crisi? Cosa devono dire i dirigenti locali alle masse dei disoccupati, che hanno fame, che non possono piú ricorrere al credito, che non possono piú aspettare? La maggioranza socialista ha insistito a Livorno sulla necessità della disciplina sindacale. Benissimo. Ma a che parola d’ordine bisogna essere disciplinati nel movimento sindacale? Questo è il punto sul quale si domandano schiarimenti e precisioni. Su questo punto i compagni comunisti devono insistere quotidianamente, nelle Camere del lavoro, nelle singole leghe, nelle fabbriche. È necessario porre i dirigenti di fronte a tutte le loro responsabilità, è necessario costringere i dirigenti ad assumersi queste responsabilità dinanzi alle masse. La Confederazione generale del lavoro è lo Stato degli operai in regime borghese. In questo Stato il governo è in mano ai socialisti: sul governo socialista gravano le responsabilità del pane, del tetto, del vestito, di cui gli operai e le famiglie degli operai hanno bisogno per la loro esistenza elementare. Cosa fa questo governo per assicurare l’esistenza elementare dei suoi sudditi? Questo governo vuole evitare la guerra (la guerra civile) e pare si preoccupi solo di evitare la guerra. È un metodo. I comunisti non credono che sia il metodo migliore; i comunisti credono che la guerra sia inevitabile, e predicano che tutte le energie del proletariato e dei contadini poveri debbano essere mobilizzate per resistere all’urto e uscire vittoriose dalla lotta. Ma come svolgono il loro metodo i socialisti che sono alla direzione confederale in nome e per conto del Partito socialista? Essi lo affermano, ma non lo svolgono. Essi si limitano a non assumersi responsabilità, si limitano a fare orecchie da mercante ai lamenti delle masse che soffrono crudelmente e non sono piú in grado di resistere alla pressione della fame. È necessario adunque che i dirigenti siano costretti a pronunziarsi, siano costretti ad assumere tutta la responsabilità di un governo legittimo, che è al potere perché ha raccolto la grande maggioranza dei suffragi sindacali. I comunisti non daranno piú tregua al Partito socialista che ha dichiarato di essersi strettamente disciplinato e centralizzato ed è quindi corresponsabile in solido di ciò che fanno e di ciò che non fanno tutti i suoi iscritti. Il problema della disoccupazione è un problema nazionale, può essere affrontato solo nazionalmente, con un’azione coordinata d’insieme. La Confederazione è la Centrale del movimento operaio italiano; essa deve apertamente e chiaramente dire ciò che consiglia di fare o di non fare. È giusto che il movimento sindacale sia strettamente disciplinato. Ma disciplina sottintende programma d’azione, sottintende una concezione generale del momento che si attraversa, sottintende una previsione dello svolgersi dei fatti. Qual è il programma d’azione, qual è la concezione generale, quali sono le previsioni degli uomini che la maggioranza degli operai italiani organizzati ha investito del potere supremo, ha investito della responsabilità di sovraintendere ai piú vitali interessi delle grandi masse popolari? I comunisti e le elezioni(54) Il Partito comunista è il partito politico, storicamente determinato, della classe operaia rivoluzionaria. La classe operaia è nata e s’è organizzata sul terreno della democrazia borghese, nei quadri del regime costituzionale e parlamentare. Legata alle sorti della grande industria moderna, con le sue grandi officine e le sue città immense, formicolanti di moltitudini diverse e caotiche, la classe operaia solo lentamente e attraverso le piú crudeli esperienze e le piú amare delusioni ha preso coscienza della propria unità e dei propri destini di classe. Ecco perché, nelle varie fasi del suo sviluppo, la classe operaia ha appoggiato i partiti politici piú diversi. Ha incominciato con l’appoggiare i partiti liberali: si è unita cioè con la borghesia cittadina e ha lottato per annientare i residui del feudalismo economico nelle campagne; la borghesia industriale è riuscita cosí a spezzare il monopolio dei viveri, a introdurre anche nelle campagne un po’ di liberalismo economico, a far ribassare il costo della vita, ma tutta questa azione si rivelò disastrosa per la classe operaia che vide abbassarsi la media dei suoi salari. La classe operaia appoggiò in un secondo periodo i partiti democratici piccolo-borghesi e lottò per allargare i quadri dello Stato borghese, per introdurre nuove istituzioni, per sviluppare le istituzioni esistenti. Fu ingannata una seconda volta; tutto il nuovo personale dirigente che si era formato in questa lotta passò con armi e bagagli nel campo della borghesia, rinnovò la vecchia classe dominante, dette i nuovi ministri e i nuovi grandi funzionari allo Stato parlamentare burocratico. Lo Stato non fu neppure trasformato; esso continuò a vivere nei limiti fissati dallo Statuto albertino, nessuna libertà effettiva fu conquistata per il popolo; la Corona continuò a rimanere l’unico potere reale della società italiana, poiché, attraverso il governo, continuò ad aver sottoposti ai suoi voleri la magistratura, il Parlamento, la forza armata del paese. Con la creazione del Partito comunista, la classe operaia rompe tutte le tradizioni e afferma la sua maturità politica. La classe operaia non vuole piú collaborare con le altre classi per lo sviluppo o la trasformazione dello Stato parlamentare burocratico: essa vuole lavorare positivamente per il proprio sviluppo autonomo di classe; essa pone la sua candidatura a classe dirigente e afferma di poter esercitare questa funzione storica solo in un ambiente istituzionale diverso dall’attuale, in un nuovo sistema statale e non già nei quadri dello Stato parlamentare burocratico. Con la creazione del Partito comunista, la classe operaia si presenta alla lotta politica come iniziatrice, come guida, non piú come massa di manovra guidata e diretta dallo stato maggiore di un’altra classe sociale. La classe operaia vuole governare il paese, afferma di essere l’unica classe capace, coi suoi mezzi e coi suoi istituti nazionali e internazionali, di risolvere i problemi posti all’ordine del giorno dalla situazione storica generale. Quali sono le forze reali della classe operaia? Quanti sono in Italia i proletari che hanno acquistato esatta coscienza della missione storica propria della loro classe? Quale seguito ha il Partito comunista nella società italiana? Nella confusione, nel caos attuale esistono già le grandi linee della nuova configurazione storica? In questo continuo disintegrarsi e reintegrarsi, decomporsi e ricomporsi delle forze sociali, delle classi e degli strati della popolazione italiana si è già costituito un nocciolo primordiale, compatto e solido, fedele permanentemente alle idee e ai programmi dell’Internazionale comunista e della rivoluzione mondiale, intorno al quale possa avvenire la nuova e definitiva organizzazione politica, di governo, della classe operaia? Ecco le domande che troveranno una risposta nelle elezioni. Per avere una risposta positiva, concreta, storicamente controllabile e documentabile, il Partito comunista si presenta alle elezioni. Il Partito comunista, nello schieramento delle forze sociali che verrà determinato dai programmi elettorali, vuole identificare le sue schiere, vuole contare i suoi effettivi. È questa una fase necessaria del processo storico che deve condurre alla dittatura del proletariato, alla fondazione dello Stato operaio. Le elezioni sono, per i comunisti, una delle tante forme di organizzazione politica proprie della società moderna. Il Partito è la superiore forma organizzativa; il sindacato e il Consiglio di fabbrica sono forme organizzative intermedie, in cui si inquadrano i proletari piú coscienti per la lotta quotidiana contro il capitale, in cui l’inquadramento avviene su una piattaforma di carattere sindacale. Nelle elezioni le masse si pronunziano per il fine supremo politico, per la forma dello Stato, per l’affermazione della classe operaia come classe dirigente. Il Partito comunista è essenzialmente il partito del proletariato rivoluzionario, cioè degli operai addetti all’industria urbana, ma esso non può giungere alla meta senza l’appoggio e il consenso di altri ceti, dei contadini poveri e del proletariato intellettuale. Ecco l’affermazione di principio: qual è oggi la forza espansiva del proletariato rivoluzionario? quanti sono gli elementi delle altre classi lavoratrici che riconoscono nel proletariato la futura classe dirigente e fin da oggi, nonostante la situazione caotica, nonostante le delusioni patite, nonostante il terrorismo che la reazione esercita, intendono appoggiarlo nel suo sforzo di organizzazione e di inquadramento? Il Partito comunista non si fa illusioni sui risultati, tanto piú che esso ha già dimostrato di voler abbandonare i sistemi demagogici da fiera con cui il Partito socialista «faceva gente» nel passato. Ma quanto piú la popolazione italiana è piombata nel caos e nel disorientamento, quanto piú hanno lavorato e continuano a lavorare le forze dissolventi del passato schieramento di forze rivoluzionarie, tanto piú appare evidente la necessità di provocare un nuovo schieramento di fedeli e leali militi della rivoluzione mondiale e del comunismo. Il valore dinamico ed espansivo di esso apparirà tanto maggiore quanto piú la situazione è torbida e scarsi sono i mezzi del nuovo partito che si presenta nel campo della politica generale italiana. Reazione?(55) In un commento al manifesto elettorale del Partito socialista, pubblicato dalla Critica sociale l’on. Filippo Turati afferma incidentalmente che nessuna delle passate reazioni ebbe il carattere di questa che oggi infuria sulle classi lavoratrici. L’on. Turati intende però solo, con la parola «carattere», porre una differenza quantitativa, non una differenza qualitativa tra il passato e il presente: egli spera nella XXVII legislatura, egli è persuaso che la crisi attuale sia ancora risolvibile nell’ambito parlamentare, egli è persuaso che a queste elezioni succederanno, a breve scadenza, altre elezioni e allora tutto si ricomponga, nel migliore dei modi possibile. Per l’on. Turati, insomma, la borghesia continuerà ad essere la classe dominante per molte decine di anni ancora, e il regime parlamentare continuerà ad essere il migliore, il piú perfetto, dei regimi popolari, il sistema brevettato per dare la felicità agli italiani: al proletariato non resta altro da fare che aspettare, con calma, con fiducia, passivamente; al Partito socialista non resta altro da fare che diventare una branca proletaria della Croce Rossa. La questione se il periodo attuale sia da considerarsi «reazionario» diventa cosí il punto centrale della polemica tra rivoluzionari e riformisti, tra comunisti e socialisti. Dalle soluzioni diverse che si dànno al problema dipende tutto l’indirizzo da imprimere al movimento proletario, dipendono tutte le questioni di tattica e di organizzazione dei partiti rivoluzionari (è il Partito socialista un partito rivoluzionario? hanno ancora la maggioranza nel Partito socialista i comunisti unitari che pretendevano di voler restare nel terreno delle tesi dell’Internazionale comunista?). I comunisti negano che il periodo attuale sia da ritenersi «reazionario»: essi sostengono invece che il complesso degli avvenimenti in corso è la documentazione piú vistosa e abbondante della definitiva decomposizione del regime borghese. Questa tesi si fonda sulla esperienza politica piú comune, sulle dottrine stesse degli uomini di Stato della borghesia. La reazione è caratterizzata da una forma di organizzazione statale eguale all’organizzazione statale rivoluzionaria: dalla concentrazione dei poteri in un solo organismo politico. Non solo nei periodi di reazione lo Stato conserva la sua funzionalità governativa, ma anzi il periodo reazionario è appunto il periodo di piú acuta e spasmodica funzionalità governativa, di militarizzazione degli organi tutti dello Stato, di estremo accentramento, di inflessibile disciplina delle gerarchie inferiori alle superiori, o addirittura all’uno, che viene preposto dittatorialmente all’intera struttura organizzativa della società. La differenza tra reazione e rivoluzione è solo questa: la reazione concentra i poteri dello Stato per restaurare l’autorità borghese, per rinsaldare la compagine indebolita della struttura gerarchica della società capitalista; la rivoluzione usa lo stesso strumento per affermare l’autorità proletaria, per costruire una nuova struttura sociale non gerarchica ma egualitaria: differenza fondamentale, evidentemente, e che spiega come la borghesia accetti della reazione anche le misure coercitive che transitoriamente limitano le sue libertà, allo stesso modo che il proletariato accetta della rivoluzione i pesi e le coercizioni che comprende essere necessario sopportare transitoriamente per attuare i fini permanenti della sua emancipazione. In Italia non esiste oggi una concentrazione dei poteri nelle mani del governo e dell’on. Giolitti. In Italia si verifica la dissoluzione dell’intera struttura del regime. Il governo non funziona, il Parlamento non funziona perché lo Stato è in completa decomposizione, perché la magistratura, la gerarchia militare, la polizia, la burocrazia non ubbidiscono piú al loro centro naturale, al governo politico, ma sono controllate arbitrariamente, caoticamente da gruppi privati incapaci di organizzarsi come nuova classe dominante e di esprimere dal seno di questa organizzazione un governo proprio regolare. La crisi generale italiana è crisi delle classi medie, è crisi del principio di autorità nei comandi sociali subalterni, che appunto costituiscono il massimo della struttura borghese dello Stato. Come potrebbe il Parlamento sanare una simile crisi? Da quale fonte potrebbe ricavare la forza necessaria per imporsi, per ripristinare lo spirito gerarchico? Non certo dal capitalismo, che appunto è la ragion d’essere della crisi in quanto non riesce piú a dominare le forze produttive, in quanto ha dimostrato di essere ormai incapace ad assicurare alla società i mezzi di sussistenza e di sviluppo. Solo il proletariato può dare la forza necessaria per ripristinare un ordine elementare, una pubblica sicurezza, una giustizia, una milizia disciplinata al governo: ma è da ritenersi che il proletariato non darà la sua forza al Parlamento, e se anche volesse, non potrebbe restaurare il regime parlamentare. Il Parlamento è una sovrastruttura dello Stato; bisogna invece costruire una nuova struttura, bisogna creare una nuova organizzazione militare, giudiziaria, burocratica, di polizia, con mezzi proletari, con personale proletario, con un metodo nuovo di reclutamento, basato sulla eleggibilità e non sulla carriera e sull’organico; bisogna fondare un nuovo Stato, che sia rivoluzionario nel senso che rivolga tutti i poteri conquistati dal popolo in armi alla riorganizzazione delle forze produttive sperperate dal capitalismo. I riformisti, sostenendo la tesi che il periodo attuale sia «reazione», oltre al dare un’altra dimostrazione della loro assoluta cecità politica dovuta al cretinismo parlamentare, dimostrano di voler consumare un altro tradimento ai danni della classe operaia. Di questo tradimento c’è già l’annunzio nell’articolo dell’on. Turati: La Camera che uscirà da questa truppa non sarà la Camera italiana. Essa è morta prima che nata. Quali mai riforme attenderemmo da essa? Il solo dovere di quelli fra noi che sfuggissero alla minaccia e alla strage e giungessero a Montecitorio, sarebbe di coalizzarsi fra se stessi e col diavolo per rovesciare il ministero che si macchiò del delitto inespiabile e di troncare al piú presto la vita a un’assemblea emersa dal terrore e dal sangue. Sarà anche l’opera piú saviamente conservatrice che si possa compiere da essi: perché forse varrà a stornare dal paese le vendette feroci, che immancabilmente maturano oggi nelle campagne infestate. Forze elementari(56) In una intervista col corrispondente del Temps l’on. Giolitti ha solennemente dichiarato di volere ad ogni costo che l’ordine sia ristabilito. Sono stati convocati dal governo il generale dei carabinieri, il comandante delle regie guardie, il capo di stato maggiore e tutti i comandanti di corpo d’armata: si è discusso, si provvederà. Con quali mezzi? Entro quali limiti? È possibile che il governo, anche volendo, possa provvedere? Alle circolari e alle convocazioni del governo si accompagnano gli ordini, i richiami, le scomuniche delle autorità fasciste, anch’esse seriamente preoccupate della piega che assumono gli avvenimenti e degli immancabili colpi di ritorno: ma anche queste autorità, quantunque molto «rispettate e temute», non pare riescano a ottenere molta ubbidienza dai ranghi e dalle file dei loro gregari. Come non esiste uno Stato politico, come non esiste piú coesione morale e disciplinare negli organismi e tra gli individui che costituiscono la macchina statale, cosí non esiste una coesione e una disciplina neppure nell’«organizzazione» fascista, nello Stato ufficioso che dispone a suo buon piacere oggi della vita e dei beni della nazione italiana. È divenuto ormai evidente che il fascismo non può essere che parzialmente assunto come fenomeno di classe, come movimento di forze politiche consapevoli di un fine reale: esso ha dilagato, ha rotto ogni possibile quadro organizzativo, è superiore alle volontà e ai propositi di ogni Comitato centrale o regionale, è divenuto uno scatenamento di forze elementari irrefrenabili nel sistema borghese di governo economico e politico: il fascismo è il nome della profonda decomposizione della società italiana, che non poteva non accompagnarsi alla profonda decomposizione dello Stato e oggi può essere spiegato solo con riferimento al basso livello di civiltà che la nazione italiana aveva potuto raggiungere in questi sessanta anni di amministrazione unitaria. Il fascismo si è presentato come l’antipartito, ha aperto le porte a tutti i candidati, ha dato modo, con la sua promessa di impunità, a una moltitudine incomposta di coprire con una vernice di idealità politiche vaghe e nebulose lo straripare selvaggio delle passioni, degli odii, dei desideri. Il fascismo è divenuto cosí un fatto di costume, si è identificato con la psicologia barbarica e antisociale di alcuni strati del popolo italiano, non modificati ancora da una tradizione nuova, dalla scuola, dalla convivenza in uno Stato bene ordinato e bene amministrato. Per comprendere tutto il significato di queste affermazioni basta ricordare: che l’Italia aveva il primato per gli omicidi e per gli eccidi; che l’Italia è il paese dove le madri educano i figlioletti a colpi di zoccolo sulla testa, è il paese dove le generazioni giovani sono meno rispettate e protette; che in alcune regioni italiane sembrava naturale, fino a qualche anno fa, mettere la museruola ai vendemmiatori perché non mangiassero l’uva; che in alcune regioni i proprietari chiudevano a chiave nelle stalle i loro dipendenti al ritorno dal lavoro, per impedire le riunioni e la frequentazione delle scuole serali. La lotta di classe ha sempre assunto in Italia un carattere asprissimo per questa immaturità «umana» di alcuni strati della popolazione. La crudeltà e l’assenza di simpatia sono due caratteri peculiari del popolo italiano, che passa dal sentimentalismo fanciullesco alla ferocia piú brutale e sanguinaria, dall’ira passionale alla fredda contemplazione del male altrui. Su questo terreno semibarbarico, che lo Stato ancora gracile e incerto nelle sue articolazioni piú vitali a stento riusciva lentamente a dissodare, pullulano oggi, dopo la decomposizione dello Stato, tutti i miasmi. C’è molto di vero nell’affermazione dei giornali fascisti che non tutti quelli che si chiamano fascisti e operano in nome dei fasci appartengono all’organizzazione: ma che dire di una organizzazione il cui simbolo può venire usato per coprire azioni della natura di quelle che quotidianamente insozzano l’Italia? L’affermazione d’altronde dà agli avvenimenti un carattere ben piú grave e decisivo di quello che vorrebbero dargli gli scrittori dei giornali borghesi. Chi potrà infrenarli, se lo Stato è incapace e le organizzazioni private sono impotenti? Ed ecco giustificata la tesi comunista che il fascismo, come fenomeno generale, come flagello che supera la volontà e i mezzi disciplinari dei suoi esponenti, con le sue violenze, coi suoi arbítri mostruosi, con le sue tanto sistematiche quanto irrazionali distruzioni può essere estirpato solo da un nuovo potere di Stato, da uno Stato «restaurato» come intendono i comunisti, cioè da uno Stato il cui potere sia in mano al proletariato, l’unica classe capace di riorganizzare la produzione e quindi tutti i rapporti sociali che dipendono dai rapporti di produzione. Uomini di carne e ossa(57) Gli operai della Fiat sono ritornati al lavoro. Tradimento? Rinnegamento delle idealità rivoluzionarie? Gli operai della Fiat sono uomini di carne e ossa. Hanno resistito per un mese. Sapevano di lottare e di resistere non solo per sé, non solo per la restante massa operaia torinese, ma per tutta la classe operaia italiana. Hanno resistito per un mese. Erano estenuati fisicamente perché da molte settimane e da molti mesi i loro salari erano stati ridotti e non erano piú sufficienti al sostentamento familiare, eppure hanno resistito per un mese. Erano completamente isolati nella nazione, immersi in un ambiente generale di stanchezza, di indifferenza, di ostilità, eppure hanno resistito per un mese. Sapevano di non poter sperare aiuto alcuno dal di fuori: sapevano che ormai alla classe operaia italiana erano stati recisi i tendini, sapevano di essere condannati alla sconfitta, eppure hanno resistito per un mese. Non c’è vergogna nella sconfitta degli operai della Fiat. Non si può domandare a una massa di uomini che è aggredita dalle piú dure necessità dell’esistenza, che ha la responsabilità dell’esistenza di una popolazione di 40.000 persone, non si può domandare piú di quanto hanno dato questi compagni che sono ritornati al lavoro, tristemente, accoratamente, consapevoli della immediata impossibilità di resistere piú oltre o di reagire. Specialmente noi comunisti, che viviamo gomito a gomito con gli operai, che ne conosciamo i bisogni, che della situazione abbiamo una concezione realistica, dobbiamo comprendere il perché di questa conclusione della lotta torinese. Da troppi anni le masse lottano, da troppi anni esse si esauriscono in azioni di dettaglio, sperperando i loro mezzi e le loro energie. È stato questo il rimprovero che fin dal maggio 1919 noi dell’Ordine Nuovo abbiamo incessantemente mosso alle Centrali del movimento operaio e socialista: non abusate troppo della resistenza e della virtú di sacrifizio del proletariato; si tratta di uomini, uomini reali, sottoposti alle stesse debolezze di tutti gli uomini comuni che si vedono passare nelle strade, bere nelle taverne, discorrere a crocchi sulle piazze, che si stancano, che hanno fame e freddo, che si commuovono a sentir piangere i loro bambini e lamentarsi acremente le loro donne. Il nostro ottimismo rivoluzionario è stato sempre sostanziato da questa visione crudamente pessimistica della realtà umana, con cui inesorabilmente bisogna fare i conti. E già nell’aprile 1920, quando si scatenò la prima offensiva contro il proletariato torinese, nei primi giorni della serrata metallurgica occasionata dall’affare delle lancette, noi dell’Ordine Nuovo stendevamo per la sezione socialista torinese la relazione che doveva essere presentata al Consiglio nazionale del Partito socialista e notavamo: «Gli industriali e i proprietari terrieri hanno realizzato il massimo concentramento della disciplina e della potenza di classe: una parola d’ordine lanciata dalla Confederazione generale dell’industria italiana trova immediata attuazione in ogni singola fabbrica. Lo Stato borghese ha creato un corpo armato mercenario predisposto a funzionare da strumento esecutivo della volontà di questa nuova forte organizzazione della classe proprietaria, che tende, attraverso la serrata applicata su larga scala e il terrorismo, a restaurare il suo potere sui mezzi di produzione, costringendo gli operai e i contadini a lasciarsi espropriare di una moltiplicata quantità di lavoro non pagato. La serrata ultima negli stabilimenti metallurgici torinesi è stata un episodio di questa volontà degli industriali di mettere il tallone sulla nuca della classe operaia: gli industriali hanno approfittato della mancanza di coordinamento e di concentrazione rivoluzionaria nelle forze operaie italiane per tentare di spezzare la compagine del proletariato torinese e annientare nella coscienza degli operai il prestigio e l’autorità delle istituzioni di fabbrica (Consigli e commissari di reparto) che avevano iniziato la lotta per il controllo operaio. Il prolungarsi degli scioperi agricoli nel Novarese e in Lomellina dimostra come i proprietari terrieri siano disposti ad annientare la produzione per ridurre alla disperazione e alla fame il proletariato agricolo e soggiogarlo implacabilmente alle piú dure e umilianti condizioni di lavoro e di esistenza. «La fase attuale della lotta di classe in Italia è la fase che precede: o la conquista del potere politico da parte del proletariato rivoluzionario per il passaggio a nuovi modi di produzione e di distribuzione che permettano una ripresa della produttività; o una tremenda reazione da parte della classe proprietaria e della casta governativa. Nessuna violenza sarà trascurata per soggiogare il proletariato industriale e agricolo a un lavoro servile; si cercherà di spezzare inesorabilmente gli organismi di lotta politica della classe operaia (Partito socialista) e di incorporare gli organismi di resistenza economica (i sindacati e le cooperative) negli ingranaggi dello Stato borghese». Già un anno fa noi avevamo previsto quale sbocco fatalmente avrebbe avuto la situazione italiana, se i dirigenti responsabili avessero continuato nella loro tattica di schiamazzo rivoluzionario e di pratica opportunistica. E abbiamo lottato disperatamente per richiamare questi responsabili a una visione piú reale, a una pratica piú congrua e piú adeguata allo svolgersi degli avvenimenti. Oggi scontiamo il fio, anche noi, dell’inettitudine della cecità altrui; oggi anche il proletariato torinese deve sostenere l’urto dell’avversario, rafforzato dalla non resistenza degli altri. Non c’è nessuna vergogna nella resa degli operai della Fiat. Ciò che doveva avvenire è avvenuto implacabilmente. La classe operaia italiana è livellata sotto il rullo compressore della reazione capitalistica. Per quanto tempo? Nulla è perduto se rimane intatta la coscienza e la fede, se i corpi si arrendono ma non gli animi. Gli operai della Fiat per anni e anni hanno lottato strenuamente, hanno bagnato del loro sangue le strade, hanno sofferto la fame e il freddo; essi rimangono, per questo loro passato glorioso, all’avanguardia del proletariato italiano, essi rimangono militi fedeli e devoti della rivoluzione. Hanno fatto quanto è dato fare a uomini di carne ed ossa; togliamoci il cappello dinanzi alla loro umiliazione, perché anche in essa è qualcosa di grande che si impone ai sinceri e agli onesti. Socialista o comunista?(58) È la domanda fondamentale, quella davanti alla quale resteranno perplessi, domenica, nell’andare alle urne, tutti gli operai. Che cosa vuol dire per un operaio, per un contadino, per un impiegato, per un proletario o per un lavoratore di qualsiasi categoria compiere questo atto nuovo, dare il proprio voto al Partito comunista? Ma anzitutto è questo un atto nuovo, e col dare il voto al Partito comunista in che cosa e perché il proletario compie un atto diverso da quello che compiva quando il suo voto era dato a partiti di classe che non si davano questo nome? Bisogna dire una cosa, che la coscienza di classe, da quando ha incominciato a formarsi nelle grandi masse lavoratrici, ha sempre avuto originariamente, come suo contenuto, il desiderio d’una liberazione completa dai vincoli di schiavitú economica e civile che nella società capitalistica tengono avvinti coloro che vivono del loro lavoro. Anche quando fanno uno sciopero per un miglioramento dell’orario, del salario o delle condizioni di lavoro, i proletari non possono a meno, nell’animo loro, di sentire che ogni lotta è illuminata da uno scopo finale, da un fine ultimo, che non si potrà raggiungere mai con nessuna delle lotte particolari le quali si combattono e si debbono combattere perché costituiscono la vita stessa della classe come organismo di lotta e di preparazione morale e materiale, ma non esauriscono né il suo compito né l’attività dei suoi membri. Il significato dell’adesione e del voto dato al Partito comunista bisogna cercarlo riflettendo a questi fini ultimi della lotta di classe. Il Partito comunista chiede agli operai e ai contadini, chiede ai proletari di ogni categoria di riflettere, nel dare il voto, ai destini supremi della classe loro, di pensare, prima di deporre nell’urna la scheda, quale credono possa essere nel momento presente l’avvenire riserbato a loro ed ai loro compagni, quale credono quindi che sia il preciso loro dovere. Credono i proletari che l’azione loro si possa esaurire nella lotta di ogni giorno, per la difesa dei salari e dell’orario? Se credono questo non vadano a votare, oppure ci vadano solo per mandare in Parlamento della gente che contratti col governo quando non si può contrattare con gli industriali, della gente che si serva della sua autorità parlamentare per far mettere ai contratti sindacali una firma di garanzia dai governanti dello Stato borghese. Credono i proletari che nel momento attuale sia loro possibile continuare nella via seguita nei primi decenni della lotta di classe, di raccogliere lentamente, grano a grano, energie per costruire istituti di difesa del proletariato, per mettere assieme organismi di addestramento delle capacità amministrative e tecniche dei lavoratori: cooperative, banche, uffici di collocamento e cosí via? Se credono che questo basti mandino deputati in Parlamento solo per difendere questi istituti, per creare ad essi, nell’orbita dello Stato borghese, una possibilità di esistenza. Credono i proletari che la conquista di sempre maggior numero di posti negli organismi dello Stato borghese costituisca un accrescimento effettivo delle forze e delle capacità della classe lavoratrice, una conquista reale, concreta di potere da parte di essa? Credono che la vittoria dei proletari possa essere concepita come risultante da una conquista da parte dei proletari di una maggioranza di posti nel Parlamento borghese o dal maggior numero possibile di amministrazioni locali? Se essi credono questo mandino deputati in Parlamento per avere da un aumento del loro numero la rivoluzione e la liberazione. Credono i proletari che gli organismi della classe borghese possano servire come organi di governo anche per la classe proletaria, che essi possano servire a dare libertà e giustizia ai lavoratori, mentre sino ad oggi sono serviti solo a dare loro schiavitú e tormenti? Se credono questo invitino i socialisti a parlare chiaro, a dichiarare il fondo del loro pensiero, a dire che in Parlamento ci vanno per preparare la collaborazione coi borghesi ed il governo... proletario in Stato borghese; invitino espressamente i socialisti a collaborare e votino per il Partito socialista. Ma pensino i proletari quali sono le condizioni del momento presente. Pensino che la guerra ha aperto la piú grande crisi che la storia ricordi, crisi che non è di un governo o di uno Stato, ma di un regime e di un mondo, del regime e del mondo dei padroni. Osservino i proletari come da quando questa crisi si è aperta e quanto piú essa diviene acuta, tanto piú si rivela che la tattica seguita negli anni della pace e della tranquillità non serve piú a nulla nel momento attuale. Tutto ciò che una volta poteva sembrare un passo fatto in avanti, ogni azione che un tempo serviva a garantire un po’ di libertà, a dare un po’ di giustizia ai lavoratori, oggi non serve che a rendere piú acuta la crisi, a far infierire i nemici, a suscitare reazioni piú forti, a rendere piú dura la vita e piú aspra la battaglia. Ogni aumento di salari aumenta di dieci volte il costo della vita, ogni tentativo di conquistare un po’ di libertà suscita le ire bestiali e le ritorsioni feroci dei padroni. L’aumento del numero di deputati, l’accrescimento del potere delle organizzazioni e la conquista di duemila comuni hanno indotto i borghesi ad armarsi, a perseguitare con le armi gli operai ed i contadini, ad incendiare le loro case, a distruggere le loro istituzioni, a ridurre intere regioni a un regime che è peggiore di quello della schiavitú, perché non vi è piú legge, non v’è piú diritto all’infuori della legge del pugno e del bastone e del diritto della rivoltella spianata sul viso dei lavoratori e contro il petto delle loro donne dei loro bambini. Che vuol dire ciò? A che cosa tende la borghesia con questo esercizio di violenza? A dimostrare ai proletari che sino a che essa ha nelle mani il potere non ci si deve fare illusione che sia possibile conquistare gradualmente giustizia e libertà. Bisogna che il potere stesso passi ai lavoratori, ma essi non potranno mai averlo fino a che si illudono di poterlo conquistare ed esercitare attraverso gli organi dello Stato borghese. L’azione sindacale di difesa, la costituzione di organi, di esperimenti socialisti in regime borghese, la conquista di sempre nuovi posti negli organismi coi quali i borghesi governano la società, tutto ciò oggi non basta, non serve piú. Altro occorre se non si vuole essere sopraffatti e perdere tutto. Occorre che dominatori di tutta la società diventino gli operai, i contadini, i lavoratori di ogni categoria, che essi abbiano il potere e lo esercitino attraverso istituti nuovi, i quali diano alla società una nuova forma e una ferrea disciplina di ordine e di lavoro per tutti. Occorre che ogni altra lotta sia subordinata a quella per la conquista del potere, per la creazione del nuovo Stato, dello Stato degli operai e dei contadini. Questa è la tattica seguita dai lavoratori russi, che permette loro oggi di guardare con sicurezza l’avvenire, mentre in tutti gli altri paesi i lavoratori lo guardano con apprensione, con paura, con ansia. È questa la tattica che il Partito comunista propone agli operai e ai contadini d’Italia, il programma sul quale esso li chiama ad affermarsi. Essere comunisti, votare per il Partito comunista, vuol dire affermarsi convinti della verità di questo programma, dichiararsi pronti a lottare per la sua realizzazione, mandare in Parlamento uomini i quali non si propongano altro che di affermare questi princípi, dare forza all’organismo che guida la parte migliore della classe operaia ad attuarla in tutto il mondo. Socialisti e fascisti(59) La posizione politica del fascismo è determinata da queste circostanze elementari: 1) I fascisti, nei sei mesi della loro attività militante, si sono caricati di un pesantissimo bagaglio di atti delittuosi che rimarranno impuniti solo finché l’organizzazione fascista sarà forte e temuta. 2) I fascisti hanno potuto svolgere la loro attività solo perché decine di migliaia di funzionari dello Stato, specialmente dei corpi di pubblica sicurezza (questure, guardie regie, carabinieri) e della magistratura, sono diventati i loro complici morali e materiali. Questi funzionari sanno che la loro impunità e la loro carriera sono strettamente legate alle fortune dell’organizzazione fascista, e perciò hanno tutto l’interesse a sostenere il fascismo in qualsiasi tentativo voglia fare per consolidare la sua posizione politica. 3) I fascisti posseggono, disseminati in tutto il territorio nazionale, depositi di armi e munizioni in quantità tale da essere almeno sufficienti per costituire un’armata di mezzo milione di uomini. 4) I fascisti hanno organizzato un sistema gerarchico di tipo militare che trova il suo naturale ed organico coronamento nello stato maggiore. Rientra nella comune logica dei fatti elementari che i fascisti non vogliano andare in galera e che vogliano invece usare la loro forza, tutta la forza di cui dispongono, per rimanere impuniti e per raggiungere il fine massimo di ogni movimento: il possesso del governo politico. Cosa intendono fare i socialisti e i capi confederali per impedire che sul popolo italiano venga a gravare la tirannia dello stato maggiore, dei latifondisti e dei banchieri? Hanno stabilito un piano? Hanno un programma? Non pare. I socialisti e i capi confederali potrebbero aver stabilito un piano «clandestino»? Questo sarebbe inefficace, perché solo un’insurrezione delle grandi masse può spezzare un colpo di forza reazionario, e le insurrezioni delle grandi masse, se hanno bisogno di una preparazione clandestina, hanno anche bisogno di una propaganda legale, aperta, che dia un indirizzo, che orienti gli spiriti, che prepari le coscienze. I socialisti non si sono mai posti seriamente la questione della possibilità di un colpo di Stato e dei mezzi da predisporre per difendersi e per passare all’offensiva. I socialisti, abituati a rimasticare stupidamente alcune formulette pseudomarxiste, negano la rivoluzione «volontarista», «miracolista», ecc. ecc. Ma se l’insurrezione del proletariato venisse imposta dalla volontà dei reazionari, che non possono avere scrupoli «marxisti», come dovrebbe comportarsi il Partito socialista? Lascerebbe, senza resistenza, la vittoria alla reazione? E se la resistenza fosse vittoriosa, se i proletari insorti e armati sconfiggessero la reazione, che parola d’ordine darebbe il Partito socialista: di consegnare le armi o di continuare nella lotta fino in fondo? Noi crediamo che queste domande, in questo momento, siano tutt’altro che accademiche e astratte. Può darsi, è vero, che i fascisti, che sono italiani, che hanno tutte le indecisioni e le debolezze di carattere della piccola borghesia italiana, imitino la tattica seguita dai socialisti nell’occupazione delle fabbriche: si traggano indietro e abbandonino alla giustizia punitiva di un governo ricostruttore della legalità quei dei loro che hanno commesso dei delitti e i loro complici. Può darsi; è però cattiva tattica affidarsi agli errori degli avversari, immaginare i propri avversari incapaci e inetti. Chi ha la forza, se ne serve. Chi sente il pericolo di andare in galera, si arrampica sugli specchi per conservare la libertà. Il colpo di Stato dei fascisti, cioè dello stato maggiore, dei latifondisti, dei banchieri, è lo spettro minaccioso che dall’inizio incombe su questa legislatura. Il Partito comunista ha il suo indirizzo: lanciare la parola d’ordine dell’insurrezione, condurre il popolo in armi fino alla libertà, garantita dallo Stato operaio. Qual è la parola d’ordine del Partito socialista? Come possono le masse ancora fidarsi di questo partito, che esaurisce la sua attività politica nel gemito e si propone solo di far tenere dai suoi deputati dei «bellissimi» discorsi in Parlamento? Povero Partito comunista!(60) I «grandi uomini» dell’Avanti! non trascurano nessuna occasione per esternare i sensi del loro sviscerato amore per il giovane, gracile, inesperto, ingenuo Partito comunista d’Italia. Come procede male questo povero Partito comunista! Come sono piccoli gli uomini che lo dirigono! Ah! se alla testa del Partito comunista, invece di Bordiga e Fortichiari, ci fossero Giovanni Bacci e Gian La Terra: certo a quest’ora il Partito comunista, per la grande idea che esso esprime, avrebbe fatto almeno dieci rivoluzioni, avrebbe duecento deputati alla Camera, avrebbe quattromila Consigli municipali, diecimila cooperative, ventimila mutue, una dozzina di banche, e chissà mai quali altre cose avrebbe! Peccato, peccato, peccato! Invece! Il povero Partito comunista non pensa ad altro che a dissolversi, a scindersi, a disgregarsi. Sono quattro gatti (immaginate un po’ che hanno ottenuto appena 298.341 voti alle elezioni e hanno mandato alla Camera appena appena 15 deputati!) e si graffiano tra loro. Spaventati dai graffi, pieni di terrore per la pupilla degli occhi loro, a Milano parecchi consiglieri municipali comunisti sono rientrati nel Barnum; a Genova l’ingegnere Costantini, seccato e disgustato dai metodi di lotta «puri», rientra anch’egli nel Barnum; a Torino poi, nella Mecca del «purismo», la dissoluzione è giunta al suo piú alto grado, e i terribili Marat, i furiosi Marat, i piccoli Marat, non potendosi avvoltolare nel sangue dei socialdemocratici, non potendo giocare alle bocce con la testa ghigliottinata dei mandarini sindacali, irosamente si avvoltolano - sapete in che cosa? - orrore! nel proprio fango! Povero, povero, povero Partito comunista d’Italia! Non ti accorgi della cattiva strada che hai infilato? Non senti la voce del Cristo che ad ogni pietra miliare ti domanda accoratamente: Quo vadis? Non t’accorgi che i tuoi capi, i piccoli uomini, gli arrivisti, gli ambiziosi, i disgregatori, che sono alla testa dell’organizzazione sono mossi da cieca gelosia uno dell’altro e ad altro non pensano che reciprocamente espellersi? Non t’accorgi che tra poco di te non rimarrà che una meschina, miserrima, setta senza anima, senza vita? Povero, povero, povero Partito comunista d’Italia! Povero partito senza anima, senza vita, senza deputati, senza Consigli comunali, senza cooperative, senza mutue, senza banche! Felice partito di Barnum! I «grandi uomini» dell’Avanti!, che non sono inesperti, né ingenui e che sanno fondar banche, non commetteranno mai i «madornali spropositi» quotidianamente commessi dai piccoli uomini del comunismo italiano. Per non commettere questi spropositi essi hanno rinnegato l’Internazionale comunista, nella quale erano entrati a bandiere spiegate. Nemici delle scissioni, hanno preferito scindersi da 58.000 comunisti piuttosto che da 14.000 riformisti! A Livorno i grandi uomini dell’Avanti! avevano ottenuto 98.000 voti: il Partito socialista, coi 14.000 riformisti, avrebbe dovuto avere 112.000 inscritti. Quando si accorsero di essere ridotti a ben pochi, spalancarono le porte delle sezioni, ma non riuscirono a mettere insieme che 80.000 tessere. I 14.000 riformisti erano rimasti tutti, i nuovi venuti erano quasi tutti riformisti; dove erano andati a finire i 98.000 comunisti unitari, divisi in serratiani, velliani, cazzamalliani, gianlaterrestri, baratoniani? Si trovarono ridotti della metà e quale metà! E allora il Partito si impinguò: i Pietro Nenni, i Francesco Repaci, i Gerolamo Lazzeri, i Guido Pazzi, i Mario Guarnieri, gli Enrico Ferri, i Corso Bovio, gli Arnaldo Lucci diedero nuovo decoro al vecchio e glorioso Partito, divennero corrispondenti speciali da Parigi, deputati, fondatori di banche. Certo non bramano scissioni i grandi uomini dell’Avanti! Certo non sono ciecamente gelosi l’uno dell’altro; per non essere morsi dalla gelosia essi curano minuziosamente l’attrezzatura delle... compagnie. Essi seguono gli stessi criteri di Ruggero Ruggeri, di Ermete Zacconi, di Luigi Carini: un solo divo e molte comparse; si mobilitano tutte le zucche galleggianti, i Bacci, i Gian La Terra, i Baratono e si fanno le corone per i grandi uomini, e si aggiungono nuovi fegatelli e nuovi allori alla immacolata bandiera che non piegò mai lembo. Cosí si prendono molti voti alle elezioni, si hanno i voti aggiunti nelle liste del Partito popolare, si mandano molti deputati al Parlamento. Intanto le masse operaie, colpite dalla disoccupazione, muoiono di fame; le masse contadine, dominate dal fascismo, impazziscono per il terrore bianco; il popolo italiano diventa un’orda di straccioni, di affamati, di pazzi, di selvaggi. O felice, felice, felice Partito socialista italiano, Partito del proletariato italiano, Partito della rivoluzione italiana, vecchio e glorioso, che non conosci espulsioni, che non conosci disciplina, Barnum dove ogni italiano liberamente può fare i suoi giochi! Morale della favola Intanto abbiamo pazientemente aspettato che i grandi uomini dell’Avanti! si decidessero a uscire dal loro riserbo a proposito dell’«uomo piú disinteressato di questo mondo» e dell’altro, l’«uomo ineccepibile». Quanto dolore, quanto sforzo per uscire dal riserbo! Ma quanta pazienza da parte nostra, nell’attendere e nell’insistere ostinatamente! E quanta curiosità in tutti, comunisti e socialisti, di conoscere i particolari dell’avventura di un capitano dei carabinieri, in servizio attivo presso la direzione generale di polizia, che riesce a entrare presentato da un «uomo ineccepibile» nelle file del Partito socialista, che viene sospettato dai compagni di una sezione e allora, per l’intromissione di qualcuno, viene sottratto a ogni controllo locale, che finalmente viene scoperto e però non viene diffidato, non viene smascherato, quantunque sia ancora in grado di nuocere e di rovinare dei compagni! Perché i grandi uomini dell’Avanti! non escono dal riserbo e non appagano curiosità cosí legittime? C’è uno o piú morti nella stiva di Barnum? La felicità del Partito socialista sarebbe molto piú piccola di quanto appare a noi, poveri, piccoli, gelosi, arrivisti, ambiziosi, disgregatori, uomini del povero, povero, povero Partito comunista d’Italia? I grandi uomini sarebbero molto piccoli e miserabili? La curiosità è molta: benedetto riserbo! PS - La felicità del partito di Barnum sarebbe meno grande di quanto sembra, se si presta fede alla Giustizia di Reggio Emilia. Ecco ciò che si legge nella Giustizia del 12 giugno: La Direzione del Partito ha voluto ingraziarsi gli estremisti e i loro dittatori di Mosca, offrendo - per ora - la testa dei socialisti reggiani. Non potendo colpirli per le loro idee, perché ciò obbligherebbe moralmente tutti i compagni della stessa corrente, da Turati a D’Aragona, a fare con essi causa comune, li ha colpiti in nome della disciplina. Quella disciplina che non parve ai direttori del Partito lesa dal fatto che figurasse tra i candidati del nostro collegio il sindacalista Faggi che non è neppure ora e - credo - non fu mai iscritto al Partito. E che fu portato - si può, aggiungere - non tanto per protestare contro il suo arresto ingiustificatissimo, quanto perché si calcolò - e lo si disse - che il suo nome poteva portare molti voti alla lista! Tutto è possibile in questi tempi borgiani. Solo restiamo di sasso, come diceva quel tale, nel dover constatare con quanta disinvoltura, uomini che hanno la responsabilità di dirigere un partito, si affatichino (?) a demolirlo. Ci sarebbe da perdere la testa... se non l’avessimo ben piantata sulle spalle. Ahiloro! Ahiloro! Ahiloro! Sovversivismo reazionario(61) Al gioco non troppo significativo delle combinazioni tra i vari gruppi parlamentari, argomento prediletto della cabalistica dei corrispondenti romani, è seguito ieri alla Camera il debutto di colui che ama presentarsi ed essere presentato come il capo della reazione italiana: Mussolini. E Mussolini debuttando ha creduto bene ricordare, quasi a titolo di merito, le sue origini sovversive. È una posa o è il desiderio di conciliarsi con ciò maggiormente i favori del nuovo padrone? L’uno e l’altro motivo senza dubbio concorrono, ed è pur vero che il passato sovversivismo del nuovissimo reazionario è un elemento il quale contribuisce non poco a tratteggiarne la figura. Bisogna però parlarne con spregiudicatezza e sfrondare un poco anche questo mito mussoliniano, caro al capo della vecchia ala rivoluzionaria del Partito socialista. È merito della maggiore maturità di coscienza portata dalle concrete esperienze rivoluzionarie di questi ultimi anni, se, ripensando agli atteggiamenti e ai fatti di quel tempo non possiamo a meno di vederli ridotti a proporzioni tanto diverse da quelle che ci apparivano allora? Nel parlare alla Camera, Mussolini ha usato forse una sola parola esatta, quando a proposito del suo modo di concepire i conflitti politici e di agire, ha parlato di blanquismo. La confessione ci permette di metterci dal punto di vista piú opportuno per cogliere e rendere con esattezza quanto istintivamente percepiamo oggi di illogico, di goffo, di grottesco, nella figura di Mussolini. Il blanquismo è la teoria sociale del colpo di mano ma, a pensarci bene, il sovversivismo mussoliniano non aveva preso di esso che la parte materiale. Anche la tattica della III Internazionale si è detto che ha dei punti di contatto col blanquismo, ma la teoria della rivolta proletaria quale viene diffusa da Mosca e quale è stata attuata dai bolscevichi forma una cosa sola con quella marxista della dittatura del proletariato. Del blanquismo Mussolini aveva ritenuto solo l’esteriorità, o meglio, egli stesso lo aveva fatto diventare qualcosa di esteriore, lo aveva ridotto alla materialità della minoranza dominatrice e dell’uso delle armi nell’attacco violento. L’inquadramento dell’azione della minoranza nel movimento di massa, e il processo che fa della rivolta il mezzo per una trasformazione dei rapporti sociali, tutto ciò era scomparso. La settimana rossa romagnola, il tipico movimento mussoliniano, era quindi definita nel modo piú esatto da coloro che la chiamavano una rivoluzione senza programma. Ma non basta; si può sostenere che per il capo dei fascisti le cose, da allora ad oggi, non sono cambiate. La sua posizione è, in fondo, ancora quella di una volta. Anche oggi egli non è altro che un teorico, se cosí si può dire, e un inscenatore di colpi di mano. Il blanquismo, nella sua materialità, può essere oggi sovversivo, domani reazionario. Sempre però esso è rivoluzionario e ricostruttore solo in apparenza, condannato a mancare di continuità e di sviluppo, dannato a non saper saldare insieme l’uno e l’altro colpo di mano nella linea di un processo storico. Oggi i borghesi, mezzo impauriti e mezzo stupefatti, guardano a quest’uomo che si è messo ai loro servizi come ad una specie di nuovo mostro, rivoluzionatore di situazioni reali e creatore di storia. Nulla di piú falso. L’incapacità di saldare insieme gli anelli di una costruzione storica è tanto grande nel blanquismo di questo epilettico quanto lo è nel sovversivismo malthusiano dei D’Aragona e dei Serrati. Sono tutti di una sola famiglia. Rappresentano, tanto l’uno quanto gli altri, una stessa impotenza. Se nella reazione italiana appare oggi una consistenza e una continuità, essa proviene da altri elementi, da altri fattori, di carattere non solo nazionale ma comune a tutti i paesi e di natura ben diversa da quello che vorrebbe far credere questo esasperato esaltatore di se stesso. La lotta contro le rivendicazioni e la resistenza contro la riscossa operaia partono da basi ben piú concrete, ma è senza dubbio significativo, per la serietà della vita politica italiana, che al culmine di una costruzione che è tenuta assieme da un poderoso sistema di forze reali si trovi questo uomo che si diletta a fare i giochi di forza e a masturbarsi colle parole. I politici della borghesia, che giudicano dalla impotenza loro e dalla loro paura, parlano di un sovversivismo reazionario. Per noi e per tutti coloro che qualcosa comprendono del gioco di forze che fa la politica, non si tratta che di una mosca cocchiera. I capi e le masse(62) Il trattato di pace che sta per essere stipulato tra parlamentari socialisti e fascisti avrà una notevole importanza nella vita politica italiana. Esso segnerà il fallimento del fascismo come movimento politico e ridurrà ai suoi termini obbiettivi e reali il collaborazionismo socialista, cioè segnerà il principio del fallimento politico del Partito socialista. Il trattato avrà un puro significato parlamentare: sarà valido per i capi, non avrà nessun valore per le masse. L’on. Mussolini, che aspira al ruolo di abilissimo e accortissimo deputato, apparirà nella sua veste reale: una mosca cocchiera, un apprendista negromante che ha imparato la formula per evocare il diavolo, ma ignora quella che può ricacciarlo nell’inferno. I fascisti saranno, dalla tribuna parlamentare e dal Popolo d’Italia, sermoneggiati o sconfessati come «falsi fascisti»; gli operai che opporranno una resistenza alle violenze reazionarie saranno massacrati come «delinquenti comunisti»; e il trattato avrà vigore in quanto permetterà ad Armando Bussi di essere cordiale con Benito Mussolini e a Tito Zaniboni di stringere la mano a Farinacci o a De Vecchi. La pace fra fascisti e socialisti è il risultato di uno stato di coscienza, in cui interferiscono i due fallimenti politici. La tattica fascista, in quanto corrispondeva a un piano politico preordinato, si proponeva di far rientrare nella legalità costituzionale i capi socialisti e di indurli alla collaborazione. L’on. Giolitti favorí il movimento fascista per incanalarlo a questo fine preciso. Le masse furono massacrate impunemente, le Camere del lavoro, le Case del popolo, le cooperative furono incendiate e saccheggiate impunemente per indurre i capi socialisti alla riflessione. Fu applicato su grande scala un metodo pedagogico in uso un tempo nella famiglia reale inglese: il principino era sempre accompagnato da un ragazzo di bassa casta, il quale si prendeva le busse per lui; la pietà per le sofferenze e per il pianto di questo infelice doveva indurre a migliori propositi il principino in preda ai capricci, alle bizze, alla svogliatezza. Per indurre i capi sindacali e i deputati socialisti a smetterla con l’«intransigenza» e a collaborare col governo e coi capitalisti, l’on. Giolitti permise al fascismo di martirizzare intere regioni, di interrorire milioni e milioni di cittadini, di organizzare 400.000 armati per la guerriglia civile. Piano machiavellico, quello dell’on. Giolitti. Ma la realtà è piena di contraddizioni: troppo spesso accanto alla faccia cinicamente pensosa del Machiavello stride la beceresca sghignazzata di Stenterello. La tattica fascista e la pedagogia politica giolittiana hanno avuto questo risultato: l’organizzazione sindacale italiana si è sgretolata, le masse non ubbidiscono piú ai capi dai quali sono state abbandonate vilmente nel momento del pericolo e della strage. Quale fine avrebbe ormai una collaborazione dei socialisti col governo? I socialisti, i capi sindacali, possono giovare al capitalismo solo quando le loro parole d’ordine sono raccolte dalle masse organizzate nei sindacati. I capi sindacali, individualmente, sono stimati zero. La loro ignoranza è nota universalmente; la loro incapacità amministrativa è proverbiale. Altro è stipulare dei concordati industriali, altro è governare un paese. I capi sindacali sono apprezzati solo in quanto si suppone godano la fiducia delle grandi masse lavoratrici, solo in quanto possono evitare scioperi e possono convincere gli operai ad accettare con rassegnazione lo sfruttamento e l’oppressione del capitalismo «per salvare la nazione dalla rovina». Oggi i socialisti, i capi sindacali hanno perduto ogni controllo sulla classe operaia; se anche volessero, non potrebbero far nulla. È stato questo il risultato della tattica fascista e della pedagogia politica dell’on. Giovanni Giolitti: sostituire Labriola con Bruno Buozzi significherebbe oggi solo sostituire una mosca cocchiera con un’altra mosca cocchiera. È naturale quindi che i fascisti si riconcilino coi socialisti: la debolezza intrinseca degli uni e degli altri sarà meno appariscente. Gli uni e gli altri non hanno piú una funzione da svolgere nel paese: sono quindi divenuti giustamente partiti di governo e di «realizzazione». Giovanni Giolitti è il loro uomo rappresentativo: e vedremo, se i numi permetteranno, perché le masse non avranno ancora trovato un orientamento e un inquadramento rivoluzionario, vedremo Giovanni Giolitti capeggiare un governo di mosche cocchiere socialiste, fasciste e popolari. Bonomi(63) Il nuovo presidente del Consiglio, onorevole Bonomi, è il vero organizzatore del fascismo italiano. Ministro della guerra, non solo egli ha permesso agli ufficiali di partecipare attivamente alle fazioni politiche, ma questa partecipazione ha minuziosamente organizzato. Egli ha proceduto alla smobilitazione degli ufficiali non secondo un piano tecnico, ma secondo un piano politico reazionario per cui gli ufficiali smobilitati dovevano metodicamente diventare i quadri della guardia bianca. I depositi di armi e di munizioni furono messi a disposizione del fascismo; i comandi d’armata e di divisione ebbero la parola d’ordine di studiare le posizioni strategiche della guerra civile e di compilare minuziosi piani d’attacco. Ufficiali superiori furono incaricati di girare l’Italia, di riferire, di suggerire. L’onorevole Bonomi è il vero rappresentante di questa fase sanguinosa della storia borghese. Come Noske, come Millerand e Briand egli viene dal socialismo. La borghesia si affida a questi uomini appunto perché hanno militato e capeggiato nel movimento operaio; essi ne conoscono le debolezze e ne sanno corrompere gli uomini. L’avvento di Bonomi al potere, dopo l’ingresso dei fascisti in Parlamento, ha questo significato: la reazione italiana contro il comunismo da illegale diventerà legale. Essere comunisti, lottare per l’avvento al potere della classe operaia non sarà un delitto solo secondo il giudizio di un Lanfranconi o di un Farinacci, sarà un delitto «legale», sarà sistematicamente perseguito in nome della legge, non piú solo in nome del locale Fascio di combattimento. Si svolgerà in Italia lo stesso processo che si è svolto negli altri paesi capitalistici. Contro l’avanzata della classe operaia, avverrà la coalizione di tutti gli elementi reazionari, dai fascisti, ai popolari, ai socialisti: i socialisti diventeranno anzi l’avanguardia della reazione antiproletaria poiché meglio conoscono le debolezze della classe operaia e perché hanno delle vendette personali da compiere. I comunisti non si sono fatti mai delle illusioni in proposito. Sanno di dover combattere una lotta mortale, senza quartiere. Bonomi è il primo anello della catena di delitti che la socialdemocrazia si accinge a commettere in Italia. L’organizzatore del fascismo militarizzato ha la missione di concentrare in un solo movimento tutte le correnti antiproletarie e anticomuniste che pullulano nel nostro paese per un disperato tentativo di arginare la sempre piú minacciosa insurrezione delle masse contro il capitalismo distruttore; ma neanche in Italia i massacri e gli attentati contro la libertà riusciranno a risolvere la crisi economica e a risollevare l’edifizio sociale rovinato dalla guerra imperialista. Gli «Arditi del popolo»(64) Le dichiarazioni fatte ai giornali dall’on. Mingrino a proposito della sua adesione agli Arditi del popolo servono magnificamente per mettere in rilievo il comunicato del Partito comunista sullo stesso argomento. Le dichiarazioni del Mingrino corrispondono alla vieta e logora psicologia del Partito socialista, che altre volte abbiamo battezzata neomalthusiana. Secondo questa concezione, il movimento per gli Arditi del popolo fatalmente riporterebbe a una ripetizione dei fatti del settembre 1920, quando il proletariato metallurgico fu condotto nel campo dell’illegalità, fu messo in condizioni di non poter resistere senza armarsi, senza manomettere i privilegi piú sacri del capitalismo e poi, d’un tratto, tutto finí, perché l’occupazione delle fabbriche si proponeva solo dei fini... sindacali. L’on. Mingrino aderisce agli Arditi del popolo. Dà all’istituzione il suo nome, la sua qualità di deputato socialista, il prestigio della sua figura, diventata simpatica al proletariato rivoluzionario per l’atteggiamento tenuto durante l’aggressione fascista contro il compagno Misiano. Ma qual è la missione degli Arditi del popolo, secondo l’on. Mingrino? Essa dovrebbe limitarsi a determinare un equilibrio alla violenza fascista, dovrebbe essere di pura resistenza, dovrebbe, insomma, avere dei fini puramente... sindacali. L’on. Mingrino crede dunque, ancora, che il fascismo sia una manifestazione superficiale di psicosi postbellica? Non si è ancora persuaso che il fascismo è organicamente legato all’attuale crisi del regime capitalista e che sparirà solo con la soppressione del regime? Non si è ancora convinto che bisogna dare alle ideologie patriottiche, nazionaliste, ricostruttrici, di Mussolini e C. un valore puramente marginale e bisogna invece vedere il fascismo nella sua realtà obbiettiva, fuori di ogni schema prestabilito, fuori di ogni piano politico astratto, come uno spontaneo pullulare di energie reazionarie che si aggregano, si disgregano, si riassociano, seguendo i capi ufficiali solo quando le loro parole d’ordine corrispondono all’intima natura del movimento, che è quello che è, nonostante i discorsi di Mussolini, i comunicati di Pasella, gli alalà di tutti gli idealisti di questo mondo? Iniziare un movimento di riscossa popolare, aderire a un movimento di riscossa popolare ponendo preventivamente un limite alla sua espansione, è il piú grave errore di tattica che si possa commettere in questo momento. Non bisogna creare illusioni nelle masse popolari, che soffrono crudelmente e che dalle loro stesse condizioni di sofferenza sono portate a illudersi, a credere di alleviare il loro dolore mutando il fianco. Non bisogna far credere che basti un piccolo sforzo per salvarsi dai pericoli che oggi incombono su tutto il popolo lavoratore. Bisogna far comprendere, bisogna insistere per far comprendere che oggi il proletariato non si trova contro solo un’associazione privata, ma si trova contro tutto l’apparecchio statale, con la sua polizia, con i suoi tribunali, coi suoi giornali che manipolano l’opinione pubblica secondo il buon piacere del governo e dei capitalisti. Bisogna far comprendere ciò che non fu fatto comprendere nel settembre 1920: quando il popolo lavoratore esce dalla legalità e non trova la virtú di sacrifizio e la capacità politica necessarie per condurre fino in fondo la sua azione, viene punito con la fucilazione in massa, con la fame, col freddo, con l’inedia che uccide lentamente giorno per giorno. Sono i comunisti contrari al movimento degli Arditi del popolo? Tutt’altro: essi aspirano all’armamento del proletariato, alla creazione di una forza armata proletaria che sia in grado di sconfiggere la borghesia e di presidiare l’organizzazione e lo sviluppo delle nuove forze produttive generate dal capitalismo. I comunisti sono anche del parere che per impegnare una lotta non bisogna neppure aspettare che la vittoria sia garantita per atto notarile. Spesse volte nella storia i popoli si sono trovati al bivio: o languire giorno per giorno di inedia, di esaurimento, seminando la propria strada di pochi morti al giorno, che diventano però una folla nelle settimane, nei mesi, negli anni; oppure arrischiare l’alea di morire combattendo in un supremo sforzo di energia, ma anche di vincere, di arrestare d’un colpo il processo dissolutivo, per iniziare l’opera di riorganizzazione e di sviluppo che almeno assicurerà alle generazioni venture un po’ piú di tranquillità e di benessere. E si sono salvati quei popoli che hanno avuto fede in se stessi e nei propri destini e hanno affrontato la lotta, audacemente. Ma se cosí pensano i comunisti, per i dati obbiettivi della situazione, per i rapporti di forza con l’avversario, per le possibilità di dominare il marasma e il caos creati dalla guerra imperialista, per tutti gli elementi che non possono essere inventariati e sui quali non sempre si può fare un esatto calcolo di probabilità, essi però vogliono almeno che i fini politici siano chiari e concreti, essi non vogliono che si ripeta oggi ciò che è avvenuto nel settembre 1920, non vogliono almeno per ciò che può essere previsto, che può essere valutato, che può essere predisposto dall’attività politica organizzata in partito. Gli operai hanno modo di esprimere il loro parere; gli operai socialisti, che sono rivoluzionari, che hanno dall’esperienza di questi ultimi mesi tratto qualche insegnamento, hanno modo di far pressione sul Partito socialista, di costringerlo a uscire dall’equivoco e dall’ambiguità, di fargli assumere una posizione netta e precisa in questo problema che è il problema della stessa incolumità fisica dell’operaio e contadino. L’on. Mingrino è deputato socialista; se è uomo sincero, come noi crediamo, prenda egli l’iniziativa di fare uscire dal torpore e dall’indecisione le masse che seguono ancora il suo partito, ma non ponga dei limiti alla loro espansione se non vuole avere la responsabilità di aver procurato al popolo italiano una nuova disfatta e un nuovo fascismo moltiplicato per tutte le vendette che la reazione implacabilmente esercita sui titubanti e sugli indecisi, dopo aver massacrato le avanguardie d’assalto. Tra le pieghe della bandiera bianca(65) Dunque tra socialisti e fascisti c’è stato un tentativo per la pacificazione nazionale. Il fatto, che ha la sua grande portata storica e politica, è stato determinato da una pura e semplice preoccupazione di carattere parlamentare sia del gruppo fascista che di quello socialista. L’azione della piazza anche questa volta contrasta con quella del Parlamento, e se noi ci indugiamo a dimostrare la fatuità dell’iniziativa non lo facciamo perché godiamo della guerriglia quotidiana che si è scatenata in Italia, ma perché ci piace strappare i veli a tutte le ipocrisie nascoste nelle manovre politiche dei due gruppi in conflitto. Giovanni Giolitti quando riassunse il potere si dette arie di demagogo. Il paese era in fermento, la classe lavoratrice premeva dappresso la borghesia, e questa, inorridita del delitto che aveva scatenato con la guerra, cedeva su tutta la linea agli assalti proletari. Mentre sull’orizzonte politico si andava addensando minacciosa la tempesta, i capi del movimento operaio rimanevano perplessi di fronte alla necessità di un evento rivoluzionario. Del resto ciò era la conseguenza di un’attività politica sempre svolta con obbiettivi legalitari rifuggenti non solo da ogni azione di piazza, ma dalla benché minima preparazione difensiva contro una violenza armata della reazione borghese. Il vecchio labbrone si rese conto e dello stato d’animo della classe lavoratrice e della perplessità dei dirigenti e tentò, con audacia, di porre masse e dirigenti di fronte ad un atto rivoluzionario. La vertenza dei metallurgici culminò con la presa di possesso delle fabbriche. Giolitti volle lasciar compiere l’atto rivoluzionario, fece armare il proletariato, annullò l’autorità dello Stato, fece proclamare ai quattro venti la fine della proprietà privata, mettendo a dura prova i nervi della borghesia avara e bigotta. Cosí facendo ammoniva la borghesia sul pericolo di una rivoluzione ed esperimentava, sul terreno pratico, la capacità rivoluzionaria delle organizzazioni operaie. La lotta finí nel modo ignominioso che ormai tutti conosciamo, lasciando dietro di sé la beffa del «controllo» su cui e capi d’organizzazioni operaie e capi di governo chiosano nei momenti di maggiore attività politica. Ma Giolitti volle ancora vieppiú divertirsi e seguendo tutto un piano di demagogia, che abilmente doveva servirgli a nascondere le sue intenzioni, si dette l’aria, con dei progetti di legge sui sopraprofitti di guerra, di colpire tutti i ladri che avevano speculato sulla piú grande sventura nazionale: la guerra. Con questo «frondismo» l’uomo di Dronero s’accompagnava con lo spirito pubblico, eliminava le diffidenze e stringeva in pugno tutti coloro che ebbero a condannarlo «traditore» durante le radiose giornate di maggio. Contemporaneamente teneva al guinzaglio i «capi» del movimento operaio dei quali aveva potuto esperimentare l’assoluta incapacità rivoluzionaria. Cosí rassicurato, Giolitti mise mano al suo programma e preparò la reazione. Egli, come sempre, non volle compromettere lo Stato in una reazione che si presentava difficile e preparò il terreno perché questa avvenisse per opera della stessa borghesia. Assecondando l’istinto rivoluzionario delle masse volle inasprire la borghesia che infatti non tardò, al momento opportuno, e cioè quando tutto il rivoluzionarismo socialista si rivelò una buffonata colossale, a sferrare la reazione con bande armate dal cosiddetto fascismo. Giolitti immunizzò il fascismo: lo fece incoraggiare dalla sua stampa, l’elevò a fattore nazionale di prim’ordine. Il fascismo alleato alla politica trionfò facilmente sull’organizzazione operaia, affatto preparata a difendersi nel terreno della violenza. L’azione fascista fu di martellamento ad ordine sparso per poter applicare la teoria dell’economia delle forze sí che apparve ovunque formidabile, per la snellezza dei movimenti, radunandosi, convergendo ove piú necessaria appariva l’azione rapida e terroristica. Il fascismo cosí è riuscito a terrorizzare intere popolazioni sovversive ed a tenere soggetto il paese alla sua politica di violenze. Il suo trionfo è diventato ora la sua morte. Malgrado tutto, a bilancio di sei mesi di reazioni, si hanno evidenti segni di riscossa proletaria. La seminagione d’odio fatta dal fascismo, con i suoi delitti, ha approfondito il solco dell’odio di classe; le zone tormentate dal martello fascista dànno i fuorusciti senza casa e le famiglie disperse; i lavoratori assoggettati dalla violenza fascista anziché lavorare nel campo e nelle officine con volere ed amore, meditano la vendetta; ovunque spira aria di congiura sí che la vita sociale sembra artificiale, mentre alte nubi minacciose di prossima tempesta s’addensano sull’orizzonte. E questa volta la tempesta saprà dove colpire perché non a nulla serve l’esperienza dolorosa di questi ultimi tempi. Si tenta ora d’alzare, al di sopra della mischia, la bandiera bianca della pace. Chi s’adopera ad inalberarla sono proprio due forze contrarie: i fascisti ed i socialisti. Il governo si ripromette di ritrarne i maggiori vantaggi possibili. I fascisti giustificano questo loro spirito pacifista per essere riusciti a disarmare di ogni velleità rivoluzionaria e bolscevica il movimento socialista. Ma oltre a questa, altra ragione piú importante ha sospinto i fascisti verso la realtà. E cioè se i capi del movimento socialista ripiegarono dalla linea del programma rivoluzionario, le masse sono rimaste sempre sdegnose e racchiuse in un terribile silenzio. Questo atteggiamento delle masse, pieno d’incognite, è di disagio all’azione fascista che non ha fatto altro che affrettare, precipitare la crisi del regime in un vasto mare di odio, eccellente esplosivo per le anime dei lavoratori che da decenni sopportano umiliazioni e sfruttamenti. Incontro a queste preoccupazioni fasciste vanno i «capi» del socialismo sfoggiando umanitarismo e proponendo il rogo per i documenti infamanti la reazione fascista. Si vuol fare obliare il passato! Vana fatica, ed affatto nobilissima, perché egli è con queste lagrime da femminucce che si prolunga l’agonia al proletariato. L’umanitarismo socialista nasconde la impotenza di questo partito a fronteggiare sul terreno «classista» un movimento reazionario della borghesia. Come per il fascismo è manifesta la finalità delle sue lotte: riportare consorterie provinciali e comunali al potere, ridare al capitalismo agrario e industriale libertà di movimento per lo sfruttamento dei lavoratori, cosí per i socialisti è urgente dimostrare alle masse che il benessere viene dall’azione legale, visto che a nulla è valso predicare la rassegnazione e che anzi ove questa è stata accettata l’odio cova piú forte che altrove, sotto l’apparente tranquillità della superficie. Sul terreno quindi della violenza i socialisti sono rimasti sconfitti; i fascisti s’accorgono di essere impotenti in quanto producono al regime piú male che non una rivoluzione bolscevica. E per questo uomini parlamentari di una parte e dell’altra, organizzatori e funzionari tentano ricacciare nell’Averno il diavolo che fu evocato a salvezza della patria. La situazione è difficile e lo spasimo dell’ora è dato dalle folte schiere di disoccupati e dal cinico e sempre crescente chiudersi di stabilimenti. S’innalza una bandiera bianca di pace in mezzo a tanti delitti e a tanti dolori? Chi ha voluto artatamente gettare il paese in questa via senza uscita? Non fu forse volontà di oppressione della borghesia, e non fu forse avidità di ricchezza di tutti i ladri dell’erario durante la guerra? Ed allora abbasso la bandiera bianca, e resti sfida eterna, suggello di odio purificatore e liberatore, la bandiera rossa della fede e della speranza rivoluzionaria delle masse. I comunisti non patteggiano, lottano, si battono, subiscono sconfitte e dolori, ma non chiedono pace a coloro che il mondo del lavoro tengono soggetto con la violenza di classe. Il trattato di pace lo firmino pure i «capi» nelle tranquille e fresche aule di Montecitorio, i lavoratori se ne stanno al sole, al vento, alla tempesta a lottare per vincere definitivamente su tutte le ingiustizie. Il carnefice e la vittima(66) Il governo e la stampa borghese cercano un diversivo per mascherare il fallimento delle trattative di pace tra i parlamentari fascisti e i parlamentari riformisti. Il diversivo è già trovato: il Partito comunista. Il Partito comunista non vuole la pacificazione, il Partito comunista è la causa di tutte le disgrazie e di tutte le sofferenze che si abbattono sul popolo italiano, il Partito comunista è un’associazione di briganti, di assassini, di delinquenti comuni, il Partito comunista è l’origine sola del fascismo. Siccome il Partito comunista non vuole la pacificazione, cosí il governo di Bonomi non può fare a meno di continuare a lasciar fare ai fascisti tutto ciò che ai fascisti farà piacere. Le centinaia e migliaia di depositi di armi e munizioni che i fascisti spesso pubblicamente hanno accumulato non verranno sequestrati. Le mitragliatrici, i cannoni, i lanciafiamme, i moschetti saranno lasciati ai fascisti. I fascisti potranno ancora sfilare nelle città, incolonnati, col moschetto in ispalla, con l’elmetto in testa, coi tascapane pieni di bombe. Lo Stato non interverrà, non applicherà le leggi, non aprirà le prigioni, non disturberà i giudici. Lo Stato non è, per ciò che riguarda i fascisti, un’amministrazione delle leggi, un’organizzazione repressiva e punitiva; lo Stato non esiste per i fascisti, lo Stato riconosce nei fascisti una autorità indipendente e tratta con loro, da pari a pari, e riconosce loro il diritto, se non avverrà la pacificazione, di continuare impunemente a incendiare, ad assassinare, a invadere città e villaggi, a decretare esili e scioglimenti di pubbliche amministrazioni. C’è dell’ironia in questa azione pacificatrice del governo italiano. Chi sarà dunque il custode e il garante del «trattato di pace»? Chi si fiderà della parola di un governo che in tal modo, clamorosamente, confessa o di essere impotente o di essere in malafede? Come farà rispettare la «carta» che dovrebbe essere giurata dai sovversivi e dai fascisti, questo governo che non fa rispettare la carta fondamentale dello Stato giurata dal re al popolo italiano? I comunisti non parteciperanno certamente a questo «mercato di sciocchi», non compiranno certamente questo delitto contro il popolo italiano. Non può esserci pace tra il carnefice e la sua vittima, non può esserci pace tra il popolo e i suoi massacratori. Il Partito comunista si assume tutte le responsabilità di questo suo atteggiamento. Sa di diventare il bersaglio della coalizione reazionaria, ma è sicuro che anche se «pacifista» diverrebbe egualmente il bersaglio della reazione coalizzata. La classe operaia italiana ha già visto quanto valgano le parole del governo italiano, dopo lo sgombero delle fabbriche occupate. Non dovevano esserci rappresaglie: a migliaia gli operai sono stati cacciati in galera, e i tribunali sudano sette camicie per imbastire un colossale complotto; a centinaia di migliaia gli operai sono stati buttati sulla strada a crepare di fame con le loro famiglie. A Torino anche gli operai socialisti hanno già avuto la scottatura per la loro fiducia nella parola dei reazionari: hanno lasciato che in un primo tempo fossero licenziati dalle officine i comunisti, i piú audaci lottatori della rivoluzione, hanno firmato un patto; oggi è venuta la loro volta, oggi essi vengono licenziati. Chi fa rispettare ai reazionari i patti, le promesse, i giuramenti? Ma non dimostrano essi, già prima della pacificazione, tutta la loro malafede? Non è coi comunisti, non è col Partito comunista come piccolo nucleo di individui associati, che la reazione è in collera; essa è in collera con la classe operaia e contadina, come massa di salariati schiavi del capitale; essa ha paura che la classe lavoratrice nella sua totalità, sia essa comunista, socialista, repubblicana, popolare, oppressa, taglieggiata, affamata, insorga contro i suoi sfruttatori e capovolga gli attuali rapporti di classe. A Ferrara non si era neppure ancora formata una sezione comunista, eppure a Ferrara il fascismo è stato specialmente feroce. In tutte le zone agricole, nel Polesine, nel Reggiano, nelle Puglie, dove il fascismo ha instaurato il regime coloniale, il Partito comunista, essenzialmente operaio e urbano, aveva scarsissime forze. Dove il Partito comunista era specialmente forte, come a Torino, il fascismo ha tardato fino al mese di aprile ad entrare in campo. La sua aggressività ha coinciso con la crisi industriale, con la serrata della Fiat, ed è apparsa luminosamente come una coordinata tattica della lotta capitalistica contro l’organizzazione sindacale. Il fascismo non è una particolare associazione, come non è una particolare organizzazione il comunismo: il fascismo è un movimento sociale, è l’espressione organica della classe proprietaria in lotta contro le esigenze vitali della classe lavoratrice, della classe proprietaria che vuole, con la fame e con la morte dei lavoratori ricostruire il sistema economico rovinato dalla guerra imperialista. In questa lotta l’iniziativa appartiene ancora alla classe proprietaria, come al fascismo appartiene l’iniziativa della guerra civile: la classe lavoratrice è la vittima della guerra di classe e non può esserci pace tra la vittima e il carnefice. Chi oggi vuole trascinare il proletariato alla pacificazione, è già anch’egli un carnefice: per la pietà che ispirano oggi i dieci uccisi, costoro preparano per domani la strage di mille. Non è neppure pietà cotesta, è ipocrisia vile; il Partito comunista non vuole essere né ipocrita né vile, appunto perché sente davvero la pietà umana per il destino atroce del popolo lavoratore. Insurrezione di popolo(67) Nei 365 giorni dell’anno 1920, 2.500 italiani (uomini, donne, bambini e vecchi) hanno trovato la morte nelle vie e nelle piazze, sotto il piombo della pubblica sicurezza e del fascismo. Nei trascorsi 200 giorni di questo barbarico 1921 circa 1.500 italiani sono stati uccisi dal piombo, dal pugnale, dalla mazza ferrata del fascista, circa 40.000 liberi cittadini della democratica Italia sono stati bastonati, storpiati, feriti; circa 20.000 altri liberissimi cittadini della democraticissima Italia sono stati esiliati con bandi regolari, o costretti a fuggire con le minacce dalle loro sedi di lavoro e vagolano per il territorio nazionale, senza difesa, senza impiego, senza famiglia; circa 300 amministrazioni comunali elette col suffragio universale sono state costrette a dimettersi; una ventina di giornali socialisti, comunisti, repubblicani, popolari sono stati distrutti; centinaia e centinaia di Camere del lavoro, di Case del popolo, di cooperative, di sezioni comuniste e socialiste sono state saccheggiate ed incendiate; 15 milioni di popolazione italiana dell’Emilia, del Polesine, delle Romagne, della Toscana, dell’Umbria, del Veneto, della Lombardia sono stati tenuti permanentemente sotto il dominio di bande armate, che hanno incendiato, hanno saccheggiato, hanno bastonato impunemente, hanno violato i domicili, hanno insultato le donne e i vecchi, hanno ridotto alla fame e alla disperazione centinaia di famiglie, hanno calpestato tutti i sentimenti popolari, dalla religione alla famiglia, hanno fatto impazzire per il terrore e morire dei bambini e dei vecchi. Tutto questo è stato permesso dalle autorità ufficiali, è stato o taciuto o esaltato dai giornali; una pazzia collettiva parve avere invaso la classe dirigente, il Parlamento, i governi. Tutta questa gente pensava che la vita nazionale potesse normalizzarsi secondo il ritmo fascista; che nessuna reazione, né psicologica, né fisica, dovesse fermentare nella popolazione in tal modo tormentata, avvilita, schiacciata. Oggi la situazione muta. Non si tratta piú di individui o di gruppi che si rivoltano, che cercano di difendersi e di vendicare i loro morti; sono intere popolazioni che insorgono, senza distinzioni di partiti politici popolari; il prete fa suonare la campana a stormo, mentre la donna prepara l’olio bollente e gli uomini si armano di tutto ciò che possa colpire, formano squadre di difesa, e d’un tratto, sentendo ribollire tutto l’odio accumulato, tutte le umiliazioni patite, diventano furiosi e dànno la caccia al fascista come a un invasore straniero che si è messo al bando dell’umanità con le sue nefandezze e la sua ferocia. E lo Stato finalmente si muove; oggi che la popolazione insorge, lo Stato si muove; oggi che la furia popolare vuol far giustizia dei dolori sofferti, lo Stato si muove. Con prudenza, con cautela, perché non si tratta già di colpire la povera gente, si tratta di colpire i figli dei borghesi, gente che va al saccheggio gridando «viva l’Italia, viva il re», adorna del tricolore; gente scelta, insomma, per bene, legata con vincoli di parentela ai deputati, alla gerarchia militare, alla magistratura. E infatti. Tredici fascisti vengono uccisi dalla forza pubblica, 13 componenti di una banda armata di 600 persone, diretta contro una città: lutti, pianti, desolazione. Duemilacinquecento italiani sono stati uccisi nel 1920; 1.500 italiani sono stati uccisi nei primi sei mesi del 1921; ma erano di bassa casta, ma erano del bestiame popolare che è troppo numeroso, che è troppo ingombrante per le disponibilità in viveri, che è esuberante per la possibilità produttiva dell’apparecchio capitalistico industriale e agricolo; perciò nessuna protesta per la loro uccisione, nessun lutto, non lacrime, non desolazione per la loro fine violenta. I 13 valgono piú dei 4.000; la morte di 13 fa dimenticare la morte dei 4.000, fa dimenticare i dolori, le sofferenze dei milioni e milioni di popolazione sottoposta al regime dell’invasione fascista. Tutto ciò è naturale. Sarebbe sciocco attendersi diversi stati d’animo, sarebbe assurdo sperare in un’azione permanente da parte dello Stato e dei giornali contro il terrore fascista. Domandare alla classe dirigente di schiacciare il fascismo, sarebbe come domandarle il suicidio. Le armi che per cinque minuti sono state spianate contro i fascisti, non tarderanno a spianarsi contro il popolo insorto; l’insurrezione popolare servirà allo Stato borghese per identificare le armi in possesso dei lavoratori e per cercare di rastrellarle. Le piú assurde leggende saranno create contro il popolo barbaro, inumano, formato di cannibali; per 13 morti borghesi si permetterà un’ecatombe di 1.000 lavoratori. Se il popolo non sta in guardia, permanentemente, se esso si lascia disarmare, se esso si lascia illudere dalle promesse di chi mai ha mantenuto una promessa [...]. Questa che attraversiamo è veramente l’ora della collera popolare; guai a quei partiti politici che non sapranno prendere una decisione, che dall’esperienza storica degli altri paesi non sapranno trarre un indirizzo alla propria azione. Il Partito comunista è al suo posto: esso sta diventando il partito piú popolare d’Italia, per il valore dei suoi inscritti che si pongono a capo delle popolazioni insorte e le guidano alla liberazione e alla pace. Le popolazioni vanno convincendosi che il Partito comunista è oggi l’unico partito che voglia l’ordine e la tranquillità e che possa assicurare questi due beni inestimabili alla società degli uomini. Le popolazioni vanno facendo la loro esperienza diffusa e profonda sul valore della democrazia parlamentare e della legislazione borghese, incapaci a dare pane, pace, sicurezza delle persone e del domicilio alle masse, e insorgono e si unificano nelle città e nei villaggi. I giornali borghesi, in quanto vedono comunisti dappertutto, hanno un’intuizione precisa della realtà italiana: in Italia ogni insurrezione di popolo si orienta rapidamente verso il Partito comunista, in Italia la rivoluzione comunista sarà il movimento piú popolare e piú profondo che mai si sia verificato nella storia del nostro paese. Colpo di Stato(68) Gli Stenterelli della Confederazione generale del lavoro sono permanentemente in vena di allegria. Intere regioni sono messe a ferro e a fuoco dalla guardia bianca, l’attività sindacale è completamente spezzata, non sussiste piú nessuna garanzia costituzionale per gli individui e per le associazioni, gli operai e i contadini vengono fucilati impunemente da bande armate mercenarie che si spostano liberamente da provincia a provincia e da regione a regione, ma gli Stenterelli della Confederazione non perdono perciò né l’appetito né il buon umore. Esiste in Italia la possibilità di un colpo di Stato? Quale deve essere l’atteggiamento della Confederazione, dell’organismo massimo del proletariato italiano, nei riguardi di questa possibilità? Gli Stenterelli confederali ridono del fatto che solo si faccia l’ipotesi del colpo di Stato. Ma non viviamo oggi in Italia in piena atmosfera di colpo di Stato? Cosa significa, cosa rappresenta la situazione di intere province e di intere regioni in cui è il fascismo che governa e non piú l’autorità ufficiale? Non è stata forse restaurata la pena di morte, non è stato ripristinato l’uso del bastone, e queste forme di punizione non sono forse amministrate da organismi extralegali? Questo è l’ambiente del colpo di Stato, non è ancora il colpo di Stato nella sua piena efficienza. Esiste ancora il Parlamento, il governo è ancora scelto e controllato dal Parlamento; nessuna legge eccezionale ha ancora abolito formalmente le garanzie statutarie. Ma è possibile immaginare che l’attuale condizione di cose possa durare ancora per molto tempo? Esistono oggi in Italia due apparecchi repressivi e punitivi: il fascismo e lo Stato borghese. Un semplice calcolo di utilità induce a prevedere che la classe dominante vorrà ad un certo punto amalgamare anche ufficialmente questi due apparecchi e che spezzerà le resistenze opposte dalla tradizione del funzionamento statale con un colpo di forza diretto contro gli organismi centrali di governo. Avremo allora il «colpo di Stato», secondo lo schema che le ideologie democratiche sullo Stato parlamentare hanno costruito: si verificheranno delle resistenze da parte del popolo, dei tentativi di insurrezione locale, delle resistenze da parte della burocrazia, che a ragione temerà di essere sacrificata per soddisfare le esigenze economiche di una turba di disoccupati in cerca di impiego e di stipendi. La parte piú reazionaria e spregiudicata della classe dirigente imporrà la sua dittatura sanguinosa, scioglierà le organizzazioni operaie, consegnerà tutti i poteri nelle mani della casta militare. Esiste o non esiste questo pericolo? E come deve comportarsi la Confederazione nei suoi riguardi? Abbiamo, in una manchette, ricordato che la Confederazione generale del lavoro di Germania dedicò tre mesi di lavoro organizzativo per essere in grado di spezzare il colpo di Stato Kapp-Lüttwitz. Gli Stenterelli della Confederazione italiana prendono la palla al balzo per concludere che dunque bisogna collaborare con «quelle forze non rigidamente rivoluzionarie e classiste che sono contrarie al colpo di Stato». In Germania le masse proletarie spezzarono, con lo sciopero generale insurrezionale, il tentativo di Kapp-Lüttwitz; oggi si ricomincia, oggi il pericolo del colpo di Stato è accresciuto. I «collaboratori» non rigidamente rivoluzionari che per nulla avevano contribuito alla resistenza, si opposero alla continuazione del movimento insurrezionale, si opposero al proseguimento della lotta per l’instaurazione della Repubblica dei Soviet tedeschi. Cosí le forze reazionarie non furono represse, poterono ritirarsi in buon ordine, sparpagliarsi secondo un piano prestabilito e riprendere il lavoro di armamento, di reclutamento, di organizzazione che oggi dà a Kapp e Lüttwitz una maggiore probabilità di buona riuscita. L’esperienza tedesca dovrebbe insegnare qualcosa alle organizzazioni operaie degli altri paesi: essa non insegna nulla agli Stenterelli italiani. Questi beceri della politica si illudono ancora di potere, con delle contrattazioni vergognose, evitare le bastonate e le pallottole alle loro persone. Neppure l’esempio ungherese è stato sufficiente per indurli a stabilire una linea d’azione che sia aderente alla realtà degli avvenimenti. Ciò che oggi succede in Italia non li scuote minimamente: continuano a cullarsi nella piú beata e beota indifferenza. Incendi, assassini, bastonature, fucilazioni in massa, scioglimenti di organizzazioni, occupazione delle sedi operaie, impossibilità di riunione, formazione di una massa, che ogni giorno diviene piú numerosa, di profughi, di esiliati, di affamati; creazione di stati d’animo che dalla disperazione minacciano di passare alla pazzia e al furore collettivo: tutto ciò non li preoccupa, non li scuote, non li induce ad acquistare un maggior senso delle responsabilità. Essi scherzano, essi ridono, essi si divertono a far dello spirito sul Partito comunista, che non ha la forza necessaria per proclamare la... rivoluzione. L’esperienza ungherese ha lasciato un insegnamento: i reazionari, per battere i comunisti, accarezzano in un primo tempo i socialisti, scendono a patti con loro, fanno degli accordi di pacificazione; una volta battuti i comunisti, gli accordi e i patti vengono stracciati e anche i socialisti assaporano la corda e la pallottola. L’allegria che permanentemente caratterizza gli Stenterelli confederali, appare, secondo la logica degli avvenimenti, l’anticipazione della smorfia granguignolesca di questa povera élite dirigente del proletariato italiano, che per le sue indecisioni, per la sua inettitudine, per la sua incapacità a comprendere le situazioni politiche minaccia d’essere travolta in un caos di barbarie senza precedenti nella storia del nostro paese. L’ora del proletariato(69) La borghesia prende coraggio. La borghesia è oggi come colei che si sente al sicuro, dopo aver superato un grave pericolo. E per dimenticare quasi il pericolo che ha corso si mette a tirare colpi ciechi contro il nemico che crede di aver vinto e disfatto. Il nemico deve scomparire. Nessuna pietà, nessuna attenuazione. La borghesia ha troppo tremato in tutto il mondo. Essa perciò vuole la disfatta, l’annientamento completo del suo nemico. Piú nessuna traccia ne deve restare nel mondo. Nemmeno il ricordo; nemmeno la piú pallida ombra deve sopravvivere. La borghesia odia mortalmente il comunismo. La borghesia mondiale è d’accordo tutta quanta sul farla finita con esso per sempre. Chiuse le officine, fermato il lavoro nei campi e nelle miniere, si è dappertutto accresciuto il numero dei disoccupati. I lavoratori affamati e dispersi nelle vie e nelle piazze hanno perduto il loro centro naturale di lotta. D’altra parte la borghesia, servendosi della fame come strumento di lotta contro i lavoratori, ha potuto organizzare la sua difesa con guardie bianche, gettando ovunque il terrore, seminando stragi e determinando la rovina di tutto l’apparato di produzione mondiale. La classe operaia, depressa dalla fame, avvilita dalla disoccupazione, si è trovata cosí a lottare contro i suoi sfruttatori in condizioni impari, sí da doversi assoggettare alle loro leggi o soccombere. Ma non è solo questo che la borghesia si proponeva. Affievolire lo spirito rivoluzionario delle masse operaie, costringendole per fame a patti iniqui, doveva essere solo un mezzo per disfarsi dell’organizzazione comunista. Isolare i comunisti, per farne uno sterminio, è il proposito reale perseguito dalla borghesia e dagli Stati capitalistici di tutto il mondo. La fame era perciò un ottimo mezzo per distruggere la rete di Consigli e di organi rivoluzionari che i comunisti avevano costruito in ogni paese per la lotta suprema contro lo sfruttamento del capitalismo. Ma se ciò avveniva e poteva avvenire in tutti i paesi e Stati capitalistici, non era sufficiente per allontanare il pericolo rivoluzionario, finché la Russia dei Soviet rimaneva in piedi, simbolo vittorioso della rivoluzione proletaria. Che giovava incarcerare migliaia e migliaia di operai comunisti, farne assassinare altrettanti, se un grande Stato proletario resisteva ai colpi della reazione mondiale e riusciva a tenere sempre in alto il vessillo della ribellione contro lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo? La Russia dei Soviet, la gloriosa Repubblica dei Consigli operai e contadini, resistendo senza mai indebolirsi ai feroci attacchi della Santa Alleanza borghese, affermava il principio della rivoluzione vittoriosa. Ecco perché era necessario alla borghesia anzitutto smantellare questa fortezza della rivoluzione mondiale, per potere aspirare di nuovo ai sonni tranquilli. Tutte le armi, tutti i mezzi sono stati adoperati per combattere la Repubblica dei Consigli. Ma su questo fronte la borghesia mondiale, quantunque aiutata dalla complicità dei socialriformisti, ha dovuto riconoscere la sua impotenza a schiacciare la rivoluzione proletaria. La Russia dei Soviet ha trionfato di tutti i briganti e di tutte le manovre controrivoluzionarie. La borghesia è stata a volta a volta compiacente e spietata: compiacente nei momenti in cui la Repubblica dei Consigli si affermava la piú forte e minacciava di estendersi; spietata quando le sue sorti sembravano piú incerte. Politica di viltà e di opportunismo, com’è tutta la politica delle borghesie. Di questo una prova migliore ci viene offerta oggi. La Russia dei Soviet attraversa un’ora critica, frutto insieme delle conseguenze dell’infame blocco e di una terribile carestia che si è abbattuta su alcune delle sue piú fertili regioni. La Russia ha oggi grande bisogno di viveri e di medicine. Gravi malattie accompagnano la triste sciagura della carestia. La Russia si appella a tutti gli operai ed operaie del mondo, perché essi vadano in suo aiuto, inviando viveri e medicine. Ora di questa circostanza tentano approfittare tutti i nemici della repubblica operaia, per schiantarla definitivamente. Gli Stati ed i governi assassini, che hanno contribuito con il blocco ad aggravare le condizioni economiche della Russia proletaria, sono lieti che anche la carestia sia venuta in loro aiuto e meditano come devono servirsene contro la Repubblica dei Soviet. L’aiuto che i fratelli russi chiedono agli operai di tutto il mondo non potrà essere fornito senza vincere prima gravi difficoltà. Le borghesie di tutti i paesi non permetteranno l’invio di viveri alla Russia affamata che ad un patto, e cioè che questo serva a schiacciare il governo degli operai e contadini. Tutti gli ostacoli saranno sollevati contro la Russia, perché essa perisca. L’umanitarismo e la filantropia dei governi borghesi non sono che maschere, sotto le quali si nasconde la vera loro essenza. I lavoratori attraversano oggi ovunque momenti critici. Anch’essi sono alle prese con la fame e la miseria. Ma essi daranno. I lavoratori conoscono che cosa è sacrifizio. Poveri, essi sapranno dividere il loro pane coi fratelli russi. Ma non basta organizzare la solidarietà degli operai con la Russia. Raccogliere viveri e denari è il meno che si possa fare per la Russia. Occorre poi assicurare che i viveri possano giungere ai paesi affamati. Perché questo sia possibile, occorre impedire che contro la Russia dei Soviet si preparino e si organizzino nuove spedizioni. La Russia ha bisogno di dedicarsi con tranquillità a risanare i mali del suo flagello. Questa sicurezza può e dev’essere garantita ad essa solo dal proletariato rivoluzionario di tutto il mondo. Nessuna nuova aggressione alla Russia operaia; nessun ostacolo all’aiuto che i lavoratori di tutti i paesi si preparano a dare ai loro fratelli russi con spirito di abnegazione e sacrifizio. Il proletariato rivoluzionario di tutto il mondo ha il compito d’impedire che i nemici della Repubblica dei Soviet facciano morire migliaia di bambini e di operai, per la loro avversione al comunismo. Il proletariato rivoluzionario nulla deve risparmiare per adempiere questo compito. Sia esso vigile e pronto in questa ora di grave cimento per la prima repubblica operaia e per il superiore interesse della rivoluzione mondiale. Problemi morali e lotta di classe(70) Il trattato di pace fra fascisti e socialisti porta la firma anche della Confederazione generale del lavoro. Questo atto del massimo organismo sindacale è perfettamente giustificabile colla tattica che i labour leaders italiani seguono da anni, verso la realizzazione del loro ideale politico: uno Stato «democratico» basato sul principio della rappresentanza parlamentare di classe e di categoria e sull’accentramento di tutte le attività economiche nella burocrazia statale-sindacale. Pietre miliari di questo percorso, la partecipazione alla mobilitazione industriale del periodo di guerra, l’adesione alla commissionissima, le proposte di Costituente all’indomani della guerra, i progetti per il Parlamento del lavoro e la trasformazione del Senato colla rappresentanza professionale, la svalutazione delle Camere del lavoro e l’accentramento laburista nella segreteria confederale, la trasformazione dei sindacati sul principio delle gilde, il controllo statale-sindacale nell’industria, la permanenza nell’Internazionale di Amsterdam e conseguente collaborazione coll’Ufficio internazionale del lavoro della Lega delle Nazioni, ecc. Il patto di pace stipulato coll’intervento ufficioso dello Stato, mentre è una rinuncia forse anche dolorosa per i pochi massimalisti del Partito socialista, è una conquista per i laburisti che dirigono la Confederazione e tirano i fili dei burattini del teatro di Barnum. Il Partito socialista italiano, che non ha mai saputo correggersi dal peccato d’origine democratico, parlamentare, piccolo-borghese, è sempre stato poco temuto dalle nostre classi dirigenti. Colla guerra e la rivoluzione russa, la lotta di classe ha assunto ovunque in Europa il carattere asprissimo dello sforzo per l’abbattimento del potere borghese e l’instaurazione della dittatura proletaria. La grave situazione operò quello che gli uomini di buona volontà avrebbero voluto evitare. Il bongarçonnisme divenne sempre piú impotente di fronte alla fatalità della storia. Ne risultò la scissione nel socialismo mondiale. Data da allora in Italia l’inasprirsi dei dissidi che hanno provocato i piú accesi dibattiti sui rapporti fra i sindacati dominati dai laburisti ed il Partito socialista, ed hanno portato all’uscita da questo dei comunisti. La scissione segnò la fine politica del «massimalismo» e l’asservimento del PSI agli uomini della Confederazione. La maschera rivoluzionaria fu conservata con intenti di pura demagogia. Il fatto è previsto nello sviluppo della lotta di classe, che tende a polarizzarsi nel laburismo collaborazionista e nel Partito comunista, classista, rivoluzionario. Il dissidio fra rivoluzionari e riformisti sui compiti dei sindacati era in fondo dissidio fra la burocrazia sindacale - che accentrava in sé tutte le funzioni politiche dell’organizzazione operaia - e le masse organizzate. Con questo si spiega come il fascismo - mentre i suoi capi parlamentari affermavano il rispetto delle organizzazioni operaie, per far piacere ai capi parlamentari del socialismo, coi quali oggi solennemente si sono pacificati, quasi fossero stati mai in guerra - si sia sviluppato essenzialmente con carattere antisindacale. I fortilizi del sindacalismo riformista sotto la raffica della reazione bianca sono caduti uno dopo l’altro. Le Camere del lavoro sono state incendiate a decine, le organizzazioni sciolte o impossibilitate a funzionare, i dirigenti esiliati od arrestati e talvolta uccisi anche, le conquiste maggiori calpestate, ma la tattica dei laburisti non è cambiata. Essi hanno continuato a guardare allo Stato come al solo capace di ristabilire coll’autorità della legge la normalità dell’azione sindacale, e piú, come alla sola realtà sociale. Cosí oggi i capi riformisti della Confederazione generale del lavoro non hanno neppure dovuto fare un esame sommario di coscienza prima di sottoscrivere il trattato di pace coi fascisti. La presenza dei rappresentanti dello Stato è anzi stata da essi voluta, e dai massimalisti, come sempre, docilmente accettata. I laburisti della Confederazione generale del lavoro hanno firmato il trattato di pace colla coscienza di compiere in tal modo un atto di collaborazione, anticlassista, controrivoluzionario, di contribuire a restaurare l’autorità della legge e dello Stato, di avvicinare il giorno della loro andata al «potere» colla liquidazione degli ultimi residui di massimalismo intransigente che ancora ingombra la via. L’Avanti! commentando il «patto» di Roma ha dichiarato trattarsi di una semplice tregua, consigliata da ragioni tattiche, avente nessun altro valore che quello di un atto di guerra, poiché «non vi può essere cessazione della lotta di classe» ma soltanto mutamenti di forma a seconda delle varie contingenze. Ma l’Avanti! è l’organo del massimalismo, cioè la scena del teatro di Barnum, mentre per farsi un concetto esatto degli avvenimenti è assai piú utile conoscere il pensiero del burattinaio. Gino Baldesi in Battaglie sindacali, organo della Confederazione generale del lavoro, commentando il trattato, dice proprio l’opposto di quanto è affermato nell’Avanti!: «Non è la pace conclusa fra due eserciti in guerra. Il “patto” di Roma, è un patto “morale”, che tende a spazzar via dalla vita civile tutto quanto vi si era infiltrato e che avvelenava l’esistenza». I dirigenti confederali non si preoccupano neppure, come l’Avanti!, di sapere se il trattato sarà eseguito o no: «Che i gregari, gli associati, i seguaci di chi li rappresentò firmando, obbediscano o no è cosa di secondaria importanza. Anzi: se dovessimo credere agli ordini del giorno approvati dai fascisti delle regioni maggiormente doloranti, dovremmo essere assaliti da un senso di tristezza per il timore che la buona volontà dei dirigenti abbia da andare a cozzare contro la decisa volontà contraria dei gregari». I laburisti hanno sempre una soluzione: lo Stato. Se il trattato non sarà eseguito, lo faranno eseguire loro, magari andando direttamente al governo se sarà necessario: «Le leggi ci sono ed hanno a pesar per tutti. Chi non tenesse fede ha da pagare alla legge che lo colpisce». Cosí, mentre l’Avanti! considera il trattato un atto di classe, Stenterello, che la sa lunga, non gli dà alcun valore pratico che quello di condanna alla violenza e di valorizzazione della legge, dello Stato, del «sano» principio della collaborazione. Baldesi pensa ai «problemi morali». Il fascismo è per Stenterello un problema morale. G. M. Serrati gli regali qualche suo opuscolo di propaganda elementare a due centesimi la copia, perché possa impararvi che nella lotta delle classi il solo problema «morale» è la vittoria della classe. Proseguire nella lotta(71) Contro l’ondata reazionaria che tenta sommergere le conquiste ottenute dalla classe operaia in questi ultimi anni di lotta occorre innalzare una potente diga. Questa diga è l’unità di tutte le forze operaie, cementate da una volontà sola di resistere all’assalto padronale. La crisi che la guerra ha lasciato come sua eredità in tutto il mondo non può essere addotta a giustificazione dell’atteggiamento padronale. La guerra è stata quella che è stata, ma tutto fuorché il frutto delle colpe delle classi lavoratrici. Il regime che ha prodotto la guerra è lo stesso che ora crea la disoccupazione e la miseria in tutto il mondo. Tutti i delitti, tutte le pene, tutte le privazioni inaudite che questo regime basato sulla proprietà privata porta con sé devono solo pesare sul popolo lavoratore? La classe ricca, la classe padronale deve potere affamare sempre la classe operaia e contadina, perché i suoi profitti siano salvi, perché la sua proprietà non subisca mutilazioni, limiti, menomazioni di qualunque sorta? Tutto questo è spietato, ma nessun grido di dolore, di umanità potrà impedirlo. La legge della proprietà è piú forte d’ogni stentato sentimento di filantropia. L’affamamento dei poveri, di coloro che producono le ricchezze altrui, non è delitto nella società che riconosce come sacro ed inviolabile il principio della proprietà privata: che i padroni chiudano le fabbriche, riducano i salari agli operai, questo non è fuori della legge che regola la società capitalistica. Ma gli operai, i contadini devono anch’essi ragionare mettendosi da un simile punto di vista? O non hanno essi il dovere di fare un ragionamento opposto; di dire cioè che la crisi deve essere superata sacrificando chi l’ha prodotta, chi ne è la causa permanente? Certo gli operai e i contadini non possono e non debbono fare un ragionamento diverso. È vero che il mondo della produzione attraversa uno squilibrio indicibile: è vero che le industrie sono dissestate, che i padroni corrono molto rischio ad impiegare ora i loro capitali; ma, ripetiamo, che vuol dire ciò, se non la bancarotta, il fallimento dell’attuale sistema di produzione? Gli operai e i contadini vogliono rendersi conto della crisi e risolverla, ma non per rimettere in piedi il capitalismo, che li affama e li opprime col suo apparecchio di sfruttamento. Gli operai e i contadini devono ora lottare per la loro liberazione. La crisi che li ha gettati nelle braccia della fame non è delle solite che si verificano periodicamente nel mondo della produzione capitalistica. L’estensione della crisi è tale che da essa non si esce che in un modo: o con lo schiacciamento generale della classe operaia o con la morte completa del capitalismo. Con questo però di differenza: che solo la classe operaia è capace di ristabilire l’equilibrio nel mondo della produzione che la guerra ha mandato in isfacelo. La classe operaia non ha perciò che una via: lottare fino alla vittoria, se vuol salvare se stessa e l’umanità intera dalla rovina dell’apparecchio generale della produzione. Prima condizione di questa vittoria, naturalmente, è resistere contro l’assalto padronale alle condizioni di vita raggiunte dalla classe operaia. La proposta che i comunisti hanno fatto ai massimi organismi sindacali d’Italia per una battaglia su un fronte esteso contro la reazione padronale, sorretta e incoraggiata dall’appoggio dei governi, ha appunto il significato di voler richiamare l’attenzione delle masse su questo loro primo dovere. I dirigenti della Confederazione e della Unione sindacale hanno finora risposto al Comitato sindacale comunista, i primi mostrando di ignorarlo ed i secondi dicendosi scettici del valore e della possibilità del fronte unico contro la classe padronale. Non è ciò che conta. I dirigenti dell’uno e dell’altro organismo hanno obbedito, rispondendo a sentimenti propri, che crediamo non possono essere e non saranno condivisi dalle masse che soffrono le conseguenze terribili della crisi. I dirigenti riformisti della Confederazione possono ben dire che il padronato è oggi il piú forte, ma questo ragionamento essi l’hanno sempre fatto, e gli operai d’altra parte non sono mai stati piú forti dei padroni. Seguendo il ragionamento dei riformisti, la classe operaia dovrebbe farsi affamare senza neanche muovere un dito. L’abito mentale opportunista e l’amore alla quiete dei signori riformisti che dirigono la Confederazione conducono per forza a fare simili ragionamenti tutte le volte che nella lotta occorre impegnare qualche cosa. Gli operai e contadini sanno però per esperienza che essi tutto quello che hanno acquistato lo hanno pagato a prezzo di sangue. Gli operai e contadini sui quali le conseguenze della crisi si vorrebbero fare tutte pesare non possono ragionare come i mandarini della Confederazione. Essi hanno perciò il dovere di porsi risolutamente sul terreno dell’azione e di domandare che le proposte dei comunisti non siano messe da parte con una semplice dichiarazione di diplomazia sindacale. Sta agli operai ottenere che gli organi nazionali siano convocati al piú presto per discutere le proposte comuniste e vigilare perché le decisioni non contraddicano alle loro speranze. E questo si può fare solo con una valida e diretta organizzazione. Nelle officine dove ancora si lavora, si organizzino gruppi di operai permanenti, i quali spieghino in tutti i suoi dettagli la portata dell’agitazione che i comunisti propongono in difesa delle loro condizioni di esistenza. I gruppi di officina si organizzino inoltre per industria e si mettano presto a contatto con gli altri gruppi simili. Tutti insieme creino un collegamento generale col Comitato sindacale comunista locale. Dove esiste la disoccupazione, si creino dei Consigli di disoccupati per rioni, quartieri, case, ecc. Questi Consigli di disoccupati hanno l’obbligo di dedicare la piú grande attività, perché uno stretto collegamento sia creato tra essi ed i gruppi d’officina. Ciò come azione generale di propaganda e di preparazione per ottenere con la pressione diretta degli organismi locali che si esprimano sulle proposte comuniste, che oppongano se non altro un loro piano di azione in difesa delle minacciate condizioni della classe operaia. In modo piú concreto occorre organizzare numerosi comizi di operai di fabbrica e di disoccupati, separatamente ed uniti insieme; far votare precisi ordini del giorno, che devono poi essere portati in seno alle organizzazioni sindacali e fatti approvare e imposti agli organi direttivi. Tutta questa azione è necessario svolgere con fede, tenacia, entusiasmo. Le masse operaie devono scuotersi dallo stato di avvilimento in cui sono state gettate dalla propaganda addormentatrice dei riformisti, agenti diretti od indiretti della classe padronale. Le masse operaie devono opporre una tenace resistenza all’assalto che il capitalismo ha sferrato contro le sue posizioni; se vuole mantenerle e difendere il suo avvenire. Ma chi piú di tutto deve agire in questo momento, senza mai stancarsi, è l’operaio comunista, chiunque milita nel Partito comunista. È ad essi che viene affidato il compito dell’organizzazione, perché nessun elemento sia trascurato nella lotta sui due fronti che si sta delineando in Italia. Su l’uno e su l’altro la vittoria dev’essere degli operai e del comunismo. I due fascismi(72) La crisi del fascismo, sulle cui origini e cause tanto si sta scrivendo in questi giorni, è facilmente spiegabile con un serio esame dello sviluppo stesso del movimento fascista. I Fasci di combattimento nacquero, all’indomani della guerra, col carattere piccolo-borghese delle varie associazioni di reduci, sorte in quel tempo. Per il loro carattere di recisa opposizione al movimento socialista, eredità in parte delle lotte fra il Partito socialista e le associazioni interventiste nel periodo della guerra, i Fasci ottennero l’appoggio dei capitalisti e delle autorità. Il loro affermarsi, coincidendo colla necessità degli agrari di formarsi una guardia bianca contro il crescente prevalere delle organizzazioni operaie, permise al sistema di bande create ed armate dai latifondisti di assumere la stessa etichetta dei Fasci, alla quale conferirono col successivo sviluppo la stessa caratteristica loro di guardia bianca del capitalismo contro gli organi di classe del proletariato. Il fascismo conservò sempre questo vizio d’origine. Il fervore dell’offensiva armata impedí fino ad oggi l’aggravarsi del dissidio fra i nuclei urbani, piccolo-borghesi, prevalentemente parlamentari e collaborazionisti, e quelli rurali, formati da proprietari terrieri grandi e medi e dagli stessi coloni, interessati alla lotta contro i contadini poveri e le loro organizzazioni, recisamente antisindacali, reazionari, piú fiduciosi nell’azione armata diretta che nell’autorità dello Stato e nell’efficacia del parlamentarismo. Nelle zone agricole (Emilia, Toscana, Veneto, Umbria), il fascismo ebbe il maggior sviluppo, raggiungendo, coll’appoggio finanziario dei capitalisti e la protezione delle autorità civili e militari dello Stato, un potere senza condizioni. Se da una parte l’offensiva spietata contro gli organismi di classe del proletariato è servita ai capitalisti, che nel volgere di un anno poterono vedere tutto l’apparecchio di lotta dei sindacati socialisti infrangersi e perdere ogni efficacia, è innegabile però che la violenza, degenerando, ha finito per creare al fascismo un’opinione diffusa di ostilità nei ceti medi e popolari. Gli episodi di Sarzana, Treviso, Viterbo, Roccastrada scossero profondamente i nuclei fascisti urbani, personificati in Mussolini, che cominciarono a vedere un pericolo nella tattica esclusivamente negativa dei Fasci delle zone agricole. D’altra parte questa tattica aveva già dato ottimi frutti trascinando il Partito socialista su un terreno transigente e favorevole alla collaborazione nel paese ed in Parlamento. Il dissidio latente comincia da questo momento a manifestarsi in tutta la sua profondità. Mentre i nuclei urbani, collaborazionisti, vedono ormai raggiunto l’obiettivo, propostosi, dell’abbandono dell’intransigenza classista da parte del Partito socialista, e si affrettano a verbalizzare la vittoria col patto di pacificazione, i capitalisti agrari non possono rinunziare alla sola tattica che assicura loro il «libero» sfruttamento delle classi contadine, senza seccature di scioperi e di organizzazioni. Tutta la polemica che commuove il campo fascista, fra favorevoli e contrari alla pacificazione, si riduce a questo dissidio, le cui origini non si debbono ricercare che nelle origini stesse del movimento fascista. Le pretese dei socialisti italiani, di aver cioè essi provocata la scissione nel movimento fascista colla loro abile politica di compromesso, sono nient’altro che una riprova del loro demagogismo. In realtà la crisi fascista non è di oggi, ma di sempre. Cessate le ragioni contingenti che mantenevano compatte le schiere antiproletarie, era fatale che i dissidi si manifestassero con maggior evidenza. La crisi è quindi niente altro che il chiarirsi di una situazione di fatto preesistente. Dalla crisi il fascismo uscirà scindendosi. La parte parlamentare, capeggiata dal Mussolini, appoggiandosi sui ceti medi, impiegati e piccoli esercenti ed industriali, tenterà la loro organizzazione politica, orientandosi necessariamente verso una collaborazione coi socialisti e coi popolari. La parte intransigente, che esprime la necessità della difesa diretta e armata degli interessi capitalistici agrari proseguirà nella sua azione caratteristica antiproletaria. Per questa parte, la piú importante nei confronti della classe operaia, non avrà alcun valore il «patto di tregua» che i socialisti vantano come una vittoria. La «crisi» segnerà soltanto l’uscita dal movimento dei Fasci di una frazione di piccoli borghesi che hanno invano tentato di giustificare con un programma politico generale di «partito» il fascismo. Ma il fascismo, quello vero, che i contadini e gli operai emiliani, veneti, toscani conoscono per la dolorosa esperienza degli ultimi due anni di terrore bianco, continuerà, anche magari cambiando il nome. Compito degli operai e dei contadini rivoluzionari è di approfittare del periodo di relativa sosta, determinata dai dissidi interni delle bande fasciste, per infondere alle masse oppresse ed inermi una chiara coscienza della reale situazione della lotta di classe e dei mezzi adatti a vincere la baldanzosa reazione capitalistica. Legalità(73) Fin dove la legalità afferma i suoi limiti? Quando questi non sono piú rispettati? È certo difficile fissare qualunque limite, dato il carattere assai elastico che assume il concetto della legalità. Per ogni governo tutto ciò che si manifesta nel campo dell’azione contro di esso sorpassa i limiti della legalità. Epperò si può dire che la legalità è determinata dagli interessi della classe che detiene in ogni società il potere. Nella società capitalistica la legalità è rappresentata dagl’interessi della classe borghese. Quando un’azione tende a colpire in qualunque modo la proprietà privata ed i profitti che ne derivano, quell’azione diventa subito illegale. Questo avviene nella sostanza. Nella forma la legalità si presenta alquanto diversa. Avendo la borghesia, conquistando il potere, concesso eguale diritto di voto al padrone ed al suo salariato, apparentemente la legalità è venuta assumendo l’aspetto di un insieme di norme liberamente riconosciute da tutte le parti di un aggregato sociale. Ci è stato ora chi ha scambiato la sostanza con la forma e dato quindi vita alla ideologia liberale-democratica. Lo Stato borghese è lo Stato liberale per eccellenza. Ognuno può in esso esprimere liberamente il suo pensiero attraverso il voto. Ecco alla lunga a che si riduce la legalità formale nello Stato borghese: all’esercizio del voto. La conquista del suffragio alle masse popolari è apparsa agli occhi degl’ingenui ideologi della democrazia liberale la conquista decisiva per il progresso sociale dell’umanità. Non s’era mai tenuto conto che la legalità aveva due facce: l’una interna, la sostanziale; l’altra esterna, la formale. Scambiando queste due facce, gli ideologi della democrazia liberale hanno ingannato per un certo periodo di anni le grandi masse popolari, facendo credere ad esse che il suffragio le avrebbe portate alla liberazione da tutte le catene che le legavano. In questa illusione disgraziatamente non sono caduti soltanto i miopi assertori della democrazia liberale. Molta gente che si reputava e si reputa marxista ha creduto che l’emancipazione della classe proletaria si dovesse compiere attraverso l’esercizio sovrano della conquista del suffragio. Qualche imprudente si è persino servito del nome di Engels per giustificare questa sua credenza. Ma la realtà ha distrutto tutte queste illusioni. La realtà ha mostrato nel modo piú evidente che la legalità è una sola ed esiste fin dove essa si concilia con gl’interessi della classe dominante, vale a dire, nella società capitalistica, con gl’interessi della classe padronale. In realtà specialmente la esperienza che di ciò si è fatta in questi ultimi tempi contiene molti ed importanti insegnamenti. La classe operaia giovandosi del suo diritto di voto aveva conquistato per sé un grande numero di comuni e province. Le sue organizzazioni avevano raggiunto un potente sviluppo numerico ed erano riuscite ad imporre patti vantaggiosi per gli operai. Ma il giorno in cui il suffragio ed il diritto di organizzazione sono divenuti mezzi di offesa contro la classe padronale, questa ha rinunziato ad ogni legalità formale ed obbedito solo alla sua vera legge, alla legge del suo interesse e della sua conservazione. I comuni sono stati strappati ad uno ad uno con la violenza alla classe operaia; le organizzazioni sono state sciolte con l’uso della forza armata; la classe operaia e contadina è stata scacciata dalle sue posizioni, dalle quali minacciava troppo l’esistenza della proprietà privata. È sorto cosí il fascismo, il quale si è affermato ed imposto, facendo della illegalità la sola cosa legale. Niente organizzazione, se non quella fascista; niente diritto di voto, se non per darlo ai rappresentanti agrari ed industriali. Questa la legalità che la borghesia riconosce, quando essa è costretta a ripudiare l’altra formale. L’esperienza di questi ultimi tempi non è dunque priva di insegnamenti per coloro che hanno prima onestamente creduto nella efficacia delle garanzie legali concesse dello Statuto liberale borghese. Esiste un punto nella storia, in cui la borghesia è costretta a ripudiare ciò che essa stessa ha creato. Questo punto si è verificato in Italia. Non tener conto dell’esperienza che ne deriva o è ingenuità somma, meritevole delle piú severe sanzioni, o è malafede, la quale va spietatamente punita. Tale ci sembra in effetto il caso di quegli organizzatori socialisti che mostrano oggi di meravigliarsi, perché, ad esempio, il ministro on. Beneduce non riesce a far rispettare i contratti di lavoro. Per gente la quale tiene a dirsi ancora sul terreno della lotta di classe tutto ciò è enorme. È forse lecito ad un organizzatore, il quale pretenda di non aver rinnegati i principi di lotta di classe, chiedere ad un ministro di quali facoltà può disporre per impedire le violazioni da parte dei padroni dei concordati di lavoro? Simili domande non possono che ingenerare dubbi ed incertezze nella classe operaia. È naturale che il ministro del lavoro non abbia alcuna facoltà all’infuori di essere lo strumento in mano ad agrari ed industriali. Fino a quando gli organizzatori socialisti non sapranno fare di meglio che rivolgersi al ministro del lavoro, perché richiami i padroni al rispetto dei concordati, la classe operaia continuerà a subire tutte le violazioni, senza nemmeno potere organizzare una propria difesa. Gli industriali si dimettono dalle commissioni arbitrali. È anche questa una conseguenza logica della situazione. Gli industriali vogliono oggi riprendere tutto quanto il loro potere. Gli industriali non vogliono piú riconoscere limitazioni di sorta alla propria volontà. Essi hanno accettato i comitati arbitrali quando lo slancio rivoluzionario delle masse minacciava la loro esistenza. Ora che la situazione sembra favorevole ad ogni calcolo reazionario, i padroni non possono nemmeno badare a conservare qualche scrupolo. Apertamente, essi si sono messi per la via della ripresa integrale e dispotica del potere sulle masse operaie. Gli organizzatori socialisti che cosa sanno escogitare di fronte a queste tendenze della classe padronale? Tutto quello che gli organizzatori socialisti sanno fare è denunciare all’opinione pubblica l’inadempienza padronale e l’impotenza del ministro del lavoro. Ma intanto la classe operaia risente tutte le conseguenze dell’atteggiamento padronale e dell’incertezza dei suoi dirigenti. Mentre essi rivolgono domande al ministero del lavoro, cresce la fame; la miseria si moltiplica; la reazione si rafforza. Quegli organizzatori socialisti che durante la guerra andavano a stringere le mani insanguinate dei generali nei comitati di mobilitazione, sono gli stessi che oggi chiedono l’aiuto e l’intervento dei ministri del lavoro. Ieri essi si rendevano complici degli assassini che avevano scatenato la guerra infrenando lo slancio rivoluzionario delle masse con le decisioni dei comitati arbitrali; oggi lasciano la classe operaia indifesa, mentre dappertutto i padroni non rispettano piú i concordati e li violano a loro piacere. Solo la proposta del Comitato sindacale comunista è in grado di organizzare una difesa operaia contro l’assalto capitalistico; solo unendo tutte le forze operaie in un esercito compatto si può pensare ad una seria opposizione ai capitalisti, che, obbedendo ad una parola d’ordine, tendono a ridurre in schiavitú tutta la classe operaia. Ma per i signori organizzatori socialisti, persino domandare il rispetto dei concordati è oggi troppo rivoluzionario. Al lavoro(74) Le manifestazioni di questi ultimi giorni per l’anniversario dell’occupazione delle fabbriche, per la solidarietà proletaria alla Russia dei Soviet e per la gioventú comunista hanno dimostrato come la classe operaia italiana vada risvegliandosi dal suo torpore. Il lavoro tenace e paziente svolto dal Partito comunista nei mesi scorsi ha dato i suoi frutti. Bisogna ora intensificare questo lavoro, bisogna con maggior lena e con spirito piú sistematico condurre fino in fondo questa energica campagna rivoluzionaria di risveglio delle coscienze e di riorganizzazione della compagine proletaria. Tutto l’apparecchio del Partito e della gioventú comunista deve impegnarsi per condurre la campagna al suo risultato. I mandarini confederali non vogliono riconoscere l’esistenza del Comitato sindacale comunista. Esso deve acquistare la massima efficienza, deve diventare il centro organizzativo degli operai italiani, deve diventare il vero centro dirigente della Confederazione generale del lavoro. Se il Partito e la gioventú comunista mobilizzano gli 80.000 loro aderenti per questa grande opera di rischiaramento e di organizzazione, non tarderemo a vedere dei grandi mutamenti nell’attuale situazione sindacale. Bisogna che anche nei centri piú piccoli nascano dei comitati sindacali comunisti, che essi sistematicamente svolgano la propaganda, che neppure una fabbrica sia trascurata. Nelle fabbriche bisogna che i gruppi comunisti costringano le Commissioni interne a pronunciarsi sulla proposta del Comitato sindacale comunista centrale; dove le Commissioni interne sono costituite da opportunisti o da indifferenti, bisogna rivolgersi direttamente alle maestranze, provocare le dimissioni della Commissione interna e far nuove elezioni sulla base delle proposte comuniste. Non bisogna scoraggiarsi per qualsiasi insuccesso: se le maestranze non rispondono al primo appello, bisogna intensificare la propaganda e l’agitazione. In molte fabbriche italiane gli operai comunisti sono stati licenziati e sono disoccupati. Questi compagni devono operare dall’esterno, formare dei comitati esterni alla fabbrica dove lavoravano, avvicinare individualmente gli operai socialisti o senza partito che essi conoscono come onesti e leali, convincerli a costituire dei gruppi di difesa sindacale. Naturalmente questo minuto e molteplice lavoro di fabbrica, di gruppi, di individui deve poi centralizzarsi e sistemarsi nei comitati comunisti delle singole leghe e nei comitati delle Camere del lavoro, in modo che sia possibile preparare e organizzare le assemblee delle leghe, con gli oratori preventivamente scelti, con le mozioni già scritte, e bisogna informare i giornali del partito dei risultati ottenuti, denunziando gli intrighi dei funzionari riformisti, esponendo obiettivamente lo stato d’animo delle masse lavoratrici che si scuotono dalla loro apatia e vogliono rientrare nel terreno della lotta. Al Congresso confederale di Livorno la tendenza comunista raccolse circa mezzo milione di voti. Oggi la Confederazione ha di parecchio visto diminuire i suoi effettivi: bisogna ricondurre all’organizzazione gli operai che se ne allontanarono disgustati, bisogna convincere questi operai a ridare la loro attività per la lotta impegnata dal Comitato sindacale comunista. Se i compagni del Partito e i giovani si impegnano con tutta la loro energia e la loro volontà, il Comitato sindacale comunista non tarderà a sconfiggere il mandarinismo confederale, e a spezzare quindi uno dei piú forti pilastri della controrivoluzione europea. La sconfitta della Fiat(75) La Fiat ha perduto la sua battaglia. Nella grande gara automobilistica di Brescia, la grande casa torinese, nonostante l’audacia di un suo corridore, ha dovuto vergognosamente cedere di fronte alla superiorità delle macchine francesi. Questo fatto dipende forse da una momentanea defaillance della capacità tecnica dei costruttori della Fiat o da una rimediabile disorganizzazione dell’industria, o da un inizio di decadenza senza rimedio? Le sorti della Fiat hanno tale una importanza nella vita torinese che riteniamo opportuno parlarne un poco ai nostri lettori. Fondata nel 1900, la Fiat cominciò ora lentamente, ora con colpi d’audacia favoriti dalla fortuna, la sua ascesa. Occupava originariamente una cinquantina d’operai, ma i suoi impianti a poco a poco si estesero e, nel 1914, prima che la catastrofe mondiale della guerra venisse a sconvolgere tutte le industrie, 4.000 operai lavoravano negli stabilimenti della Fiat, che aveva ormai conquistato un posto di primissimo ordine nel campo delle industrie automobilistiche mondiali. Il nome della Fiat era conosciutissimo in tutto il mondo; le sue macchine che avevano raggiunto un’invidiabile perfezione tecnica, erano molto ricercate dovunque e consentivano alla Fiat di vivere quasi esclusivamente sulle esportazioni. Il merito dei dirigenti e dei tecnici per questo promettentissimo sviluppo era indiscutibile. Il comm. Agnelli e l’ing. Fornaca avevano saputo provvedere ottimamente ad organizzare la loro industria ed a metterla in grado di affrontare con successo l’accanita concorrenza delle migliori case straniere. Oltre al resto, erano riusciti a guadagnarsi, con una politica liberale, la piú viva simpatia della maestranza. Non esitiamo a dire che se la Fiat avesse continuato a procedere sulla stessa strada si troverebbe ora in ben altre condizioni di fronte alla crisi industriale che imperversa. I capi della Fiat e primo tra di essi il comm. Agnelli, erano allora veramente «capitani dell’industria», esperti, sagaci, arditi e prudenti nello stesso tempo. In che cosa li ha trasformati la guerra? In cavalieri d’industria. Essi hanno abbandonato - forse contro la loro volontà che non ha potuto resistere agli eventi - la tradizione degli anni passati per cercare la fortuna nel campo della speculazione piú temeraria, nei giuochi di banca piú pericolosi. L’intensa, affannosa attività di guerra, durante la quale la Fiat aveva dovuto subire trasformazioni ed ampliamenti impressionanti, ha certamente richiesto ai capi della grande impresa industriale sforzi enormi, imponente spreco di energie. Si aggiunga che innumerevoli industrie sorsero durante il conflitto mondiale, che aggruppamenti potentissimi di finanzieri si formarono nell’intento di conquistare industrie, banche, mercati. S’iniziarono per conseguenza lotte furibonde a colpi di milioni. Si cominciò a cercare nella speculazione, l’arma che permettesse di resistere agli avversari, si tentò con artifizi di borsa di far fallire i piani minacciosi dei concorrenti. Un episodio clamoroso di questa lotta formidabile è quello a tutti noto dei fratelli Perrone che tentarono con un colpo d’audacia d’impadronirsi della Banca commerciale. La Fiat non è rimasta estranea a queste competizioni. L’attività del comm. Agnelli, in altri tempi rivolta a migliorare il funzionamento dell’azienda industriale, è rimasta quasi completamente assorbita dalle manovre dei gruppi di banchieri, che si assaltavano a vicenda, dalla necessità di parare i colpi minacciosi dei nemici. L’uomo, il grande capitano d’industria, si è infiacchito rapidamente. I suoi nervi scossi violentemente dalla continua tensione gli hanno tolta la lucidità di mente, la freddezza necessaria per chi sta a capo di una grande azienda. Mentre la concorrenza industriale si trasformava in una rovinosa competizione di gruppi bancari, il capitano d’industria si trasformava fatalmente in speculatore, in cavaliere d’industria. A questo punto è incominciata la decadenza della Fiat. Agnelli, il liberale Agnelli, scosso da tante fatiche, con un colpo di testa rinunciava alla simpatia degli operai adottando una politica reazionaria verso le maestranze. Per sbarazzarsi dei comunisti il comm. Agnelli non ha piú tenuto conto né dell’organizzazione tecnica degli stabilimenti né delle esigenze molteplici dell’industria. Molti fra i migliori operai furono licenziati per scuotere le basi dell’organizzazione operaia d’officina. In molti reparti vennero a mancare gli elementi tecnicamente piú capaci, i piú esperti produttori. I non licenziati, profondamente colpiti nelle loro idealità dalla reazione furente, sotto la minaccia del licenziamento, costretti a lavorare in un’atmosfera di reciproca diffidenza, furono messi in condizioni pessime per la continuità e per la bontà della produzione. Quando Agnelli e Fornaca rassegnarono le dimissioni dal consiglio d’amministrazione della Fiat, essi giustificarono questo loro atto con l’indisciplina delle masse operaie. Essi sostennero che l’officina doveva essere estranea alla politica, che gli operai in officina non dovevano occuparsi che del loro lavoro e non pensare ad altro. Riversarono sugli operai la colpa dello stato in cui l’industria veniva a trovarsi e non pensarono allora che una politica liberale verso le maestranze non avrebbe potuto danneggiare la produzione e che la responsabilità della crisi non poteva certo essere addossata agli operai, i quali si dibattevano affannosamente per trovare una via d’uscita alla preoccupante situazione che creava ad ogni aumento di salari un aumento del costo della vita. I capitalisti, impegnati nei giochi di borsa, non potevano rinunciare neppure ad una parte dei loro profitti per trarre da questa condizione gli operai. Cercarono perciò di rimediare con la reazione. S’illusero che allontanando migliaia e migliaia di operai dalle officine, ristabilendo l’autorità assoluta del padrone, stringendo i freni, rendendo inflessibile la disciplina, le industrie potessero riprendere il loro andamento normale. Errore grave. Trascurata la riorganizzazione del dopoguerra, eliminati elementi insostituibili, generata la sfiducia e il malcontento nell’animo degli operai, la produzione si fece piú scadente. Oltre la crisi un altro grave pericolo minaccia la Fiat: la decadenza. La prima prova clamorosa? La vergognosa sconfitta di Brescia. Aprile e settembre 1920(76) L’anniversario dell’occupazione delle fabbriche ha servito a rimettere in circolazione uno stantio pettegolezzo contro i comunisti torinesi che dovrebbero ritenersi come i maggiori responsabili della mancata estensione del movimento. L’on. Buozzi ha fatto accenno a questa responsabilità nel suo recente discorso alle Commissioni interne metallurgiche milanesi; un altro accenno è contenuto in una corrispondenza torinese a Umanità Nova. La voce aveva passato i confini e Jacques Mesnil l’aveva raccolta in un articolo sul movimento socialista italiano pubblicato nella Revue communiste di Carlo Rappoport. Mettiamo una volta per sempre le cose a posto. Quando, nel settembre 1920, i funzionari confederali si trovarono innanzi al grandioso sommovimento rivoluzionario provocato dall’iniziativa del Comitato centrale della FIOM, essi affannosamente corsero ai ripari, affannosamente cercarono di scaricare su qualcuno la responsabilità della loro cieca imprevidenza, della loro impreparazione, della loro inettitudine. Avevano lanciato centinaia di migliaia di operai nel campo dell’illegalità, nel terreno dell’insurrezione armata e avevano dimenticato una cosa semplicissima: procurare armi agli operai, mettere la classe operaia in grado di impegnare una lotta sanguinosa. A Milano, dove risiedeva lo stato maggiore del movimento, non si erano neppure curati di fare un inventario e una raccolta delle armi e delle munizioni esistenti nelle fabbriche: a Lecco, sette giorni dopo l’occupazione, la polizia poteva ancora sequestrare 60.000 petardi lasciati nei magazzeni di uno stabilimento, 60.000 petardi che avrebbero permesso un discreto armamento delle maestranze milanesi. D’un colpo, i funzionari sindacali divennero favorevoli all’offensiva operaia; essi anzi avrebbero voluto che l’offensiva partisse da Torino, che Torino si ponesse all’avanguardia del movimento insurrezionale. Il settembre 1920 era troppo vicino all’aprile 1920. Nell’aprile 1920 il proletariato torinese, trascinato in una disperata lotta dagli industriali, per un preciso impegno preso dal convegno della Confederazione dell’industria italiana tenutosi a Milano il 7 marzo precedente, era stato piantato in asso dalla Confederazione generale del lavoro. I torinesi, nell’aprile, erano stati isolati dal resto d’Italia, erano stati mostrati a dito al resto d’Italia come una banda di anarcoidi, di scalmanati, di indisciplinati, di pazzi. Nell’aprile si era giunti fino a fare delle insinuazioni sull’origine dei «fondi» a disposizione dei torinesi per il nolo di un’automobile. Come era possibile non ritenere in malafede coloro che nel settembre volevano dai torinesi la spinta iniziale del movimento insurrezionale, se questi «coloro» erano gli stessi che in ogni modo, con tutte le male arti avevano nell’aprile diffamato i torinesi? Come era possibile che i torinesi non pensassero che l’offerta fosse un’abile trappola per ottenere che il movimento rivoluzionario torinese fosse definitivamente schiacciato dalla polizia che aveva a Torino concentrato un imponente apparato di truppa? Questa era la situazione di fatto. I comunisti torinesi sostennero la necessità dell’estensione del movimento e votarono l’ordine del giorno Schiavello-Bucco; rifiutarono, e ne avevano tutte le ragioni, di assumersi la responsabilità dell’iniziativa. A Torino si poteva, nel quadro generale di una lotta nazionale, sostenere l’urto delle forze governative e molte probabilità di vittoria esistevano; non si poteva però assumersi la responsabilità di una lotta armata senza avere la certezza che anche nel resto d’Italia si sarebbe lottato ugualmente, senza avere la certezza che la Confederazione, secondo il suo solito, non avrebbe lasciato addensare a Torino, come nell’aprile, tutte le forze militari del potere di Stato. I comunisti torinesi, anche in quella occasione, operarono con saggezza, dimostrarono di saper ragionare freddamente, di essere immuni dallo spirito di avventura che veniva loro attribuito dalle grandi barbe dell’opportunismo e del riformismo. Essi avevano fatto il loro dovere, avevano provveduto e provveduto nei limiti delle loro forze e delle loro disponibilità locali. Rifiutarono di farsi prendere in trappola dai politicanti del mandarinismo confederale, che avevano lanciato le masse operaie nel campo della lotta armata e si erano dimenticati di procurare le armi, che a Lecco si erano stupidamente fatti sequestrare 60.000 petardi e poi, affannati, convulsi, pazzi di terrore, domandavano «quattro mitragliatrici per armare Milano». I piú grandi responsabili(77) Se, nel settembre 1920, i comunisti torinesi fossero stati anarchici invece di essere comunisti, il movimento per l’occupazione delle fabbriche avrebbe avuto sbocchi molto diversi da quelli che effettivamente ha avuto: questo è il succo di una corrispondenza torinese a Umanità Nova, in cui si riaffermano le nostre grandi responsabilità per la mancata rivoluzione. Che peccato! I comunisti torinesi, nel settembre 1920, erano infatti comunisti e non anarchici; fin da quel tempo ritenevano che «rivoluzione proletaria» significhi e possa significare solamente creazione di un governo rivoluzionario; fin da quel tempo ritenevano che un governo rivoluzionario possa crearsi solo in quanto esiste un partito rivoluzionario, organizzato nazionalmente, che sia capace di condurre un’azione di massa fino a questo obiettivo storicamente concreto. I comunisti torinesi appartenevano al Partito socialista italiano, erano inscritti alla sezione torinese; al Partito e alla sezione appartenevano anche i riformisti dirigenti la Confederazione generale del lavoro. Il movimento era stato scatenato dai riformisti. I comunisti torinesi, come appare dall’Ordine Nuovo settimanale del 15 agosto 1920, erano contrari all’azione impostata dalla FIOM, per il modo con cui era stata impostata, per il fatto che non era stata preceduta da una preparazione, per il fatto che non aveva un fine concreto. Date queste condizioni di fatto, il movimento poteva sboccare in una rivoluzione solo a patto che i riformisti continuassero a dirigerlo. Se i riformisti una volta iniziata l’azione, una volta che l’azione aveva preso l’importanza e il carattere che aveva preso, l’avessero condotta fino alle sue conseguenze logiche, certo la grande maggioranza del proletariato e anche larghi strati della piccola borghesia e dei contadini avrebbero seguito la loro parola d’ordine. Se invece i comunisti torinesi, di loro iniziativa, avessero iniziato l’insurrezione, Torino sarebbe stata isolata, Torino proletaria sarebbe stata implacabilmente schiacciata dalle forze armate del potere di Stato. Nel settembre 1920 Torino non avrebbe avuto neppure la solidarietà della regione piemontese, come l’aveva avuta nell’aprile precedente. La campagna scellerata che i funzionari sindacali e gli opportunisti serratiani fecero contro i comunisti torinesi dopo lo sciopero d’aprile aveva avuto effetto specialmente nel Piemonte: i torinesi non potevano neppure accostare i compagni della regione; non si credeva una parola di quanto affermavano, si domandava sempre loro se avevano un mandato esplicito della direzione del Partito; tutta l’organizzazione creata da Torino per la regione si era completamente sfasciata. Il corrispondente torinese di Umanità Nova che conosce forse gli sforzi di organizzazione fatti in quel periodo, non conosce certamente molte altre cose. I comunisti cercarono di porre il proletariato torinese nelle condizioni migliori dal punto di vista di una probabile insurrezione; sapevano però che altrove niente si faceva, che nessuna parola d’ordine circolava; sapevano che i dirigenti sindacali, responsabili del movimento, non avevano nessuna intenzione bellicosa. Per un periodo di tempo brevissimo, di tre o quattro giorni, i dirigenti sindacali furono favorevolissimi all’insurrezione, sollecitarono pazzescamente l’insurrezione. Perché? Pareva che Giolitti, premuto dagli industriali, che minacciarono apertamente di rovesciare il governo con un pronunciamento militarista, volesse passare dalla «omeopatia» alla «chirurgia»; ci furono evidentemente delle minacce da parte di Giolitti. I dirigenti persero la testa: volevano il «fattaccio», volevano una strage locale che permettesse di concludere nazionalmente la vertenza secondo le tradizioni riformistiche. Abbiamo fatto bene o male a rifiutarci a questo gioco infame, che doveva essere azzardato col sangue del proletariato torinese? Davvero che a forza di ripetere, dall’aprile in poi, che i comunisti torinesi erano degli scalmanati, degli irresponsabili, dei localisti, degli avventurieri, i riformisti avevano finito col crederci e col credere che noi ci saremmo prestati al loro gioco. Non sono state giornate facili quelle del settembre 1920; in quei giorni abbiamo acquistato, forse tardi, la precisa e recisa convinzione della necessità della scissione. Come era possibile che stessero insieme, in uno stesso partito, uomini che diffidavano gli uni degli altri, che si accorgevano della necessità, proprio nel momento dell’azione, di guardarsi alle spalle dai propri consoci? Questa era la situazione, e noi non eravamo anarchici ma comunisti, cioè convinti della necessità di un partito nazionale perché la rivoluzione proletaria abbia un minimo di probabilità di buona riuscita. Ma se anche fossimo stati anarchici, avremmo fatto diversamente? C’è un punto di riferimento per rispondere a questa domanda: nel settembre 1920 esistevano bene in Italia gli anarchici, esisteva un movimento anarchico nazionale. Cosa hanno fatto gli anarchici? Nulla. Se noi fossimo stati anarchici, non avremmo neppure fatto ciò che è stato fatto a Torino nel settembre 1920, e cioè una preparazione notevole, certamente, dato che era dovuta a sforzi puramente locali, senza aiuti, senza consigli, senza una integrazione nazionale. Se gli anarchici riflettono bene ai fatti del settembre 1920 non possono che giungere a una conclusione: la necessità del partito politico, fortemente organizzato e centralizzato. Appunto perché il Partito socialista, per la sua incapacità, per la sua subordinazione ai funzionari sindacali, è il responsabile della mancata rivoluzione, appunto perciò deve esistere un partito che la sua organizzazione nazionale ponga a servizio della rivoluzione proletaria, che prepari con la discussione e con la disciplina ferrea gli uomini capaci, che sappiano prevedere, che non conoscano esitazioni e tentennamenti. La crisi costituzionale in cui si dibatte il Partito socialista italiano interessa i comunisti in quanto essa è il riflesso della piú profonda crisi costituzionale in cui si dibattono le grandi masse del popolo italiano. Da questo punto di vista la crisi del Partito socialista non può e non deve essere considerata isolatamente: essa è la parte di un quadro piú comprensivo, che abbraccia anche il Partito popolare e il fascismo. Politicamente le grandi masse non esistono se non inquadrate nei partiti politici: i mutamenti d'opinione che si verificano nelle masse sotto la spinta delle forze economiche determinanti vengono interpretati dai partiti, che si scindono prima in tendenze, per poi scindersi in una molteplicità di nuovi partiti organici: attraverso questo processo di disarticolazione, di neoassociazione, di fusione tra gli omogenei si rivela un piú profondo ed intimo processo di decomposizione della società democratica per il definitivo schieramento delle classi in lotta per la conservazione o la conquista del potere di Stato e del potere sull'apparecchio di produzione. Nel periodo dall'armistizio all'occupazione delle fabbriche il Partito socialista ha rappresentato la maggioranza del popolo lavoratore italiano, costituita di tre classi fondamentali, il proletariato, la piccola borghesia, i contadini poveri. Di queste tre classi solo il proletariato era essenzialmente e perciò permanentemente rivoluzionario: le altre due classi erano «occasionalmente» rivoluzionarie, erano «socialiste di guerra», accettavano l'idea della rivoluzione in generale per i sentimenti di ribellione antigovernativa germogliati durante la guerra. Poiché il Partito socialista era costituito in maggioranza di elementi piccolo-borghesi e contadini, esso avrebbe potuto fare la rivoluzione solo nei primi tempi dopo l'armistizio, quando i sentimenti di rivolta antigovernativa erano ancora vivaci e attivi; d'altronde, essendo il Partito socialista costituito in maggioranza di piccoli borghesi e di contadini (la cui mentalità non è molto diversa da quella dei piccolo-borghesi di città), esso non poteva che essere oscillante, esitante, senza un programma netto e preciso, senza indirizzo, senza, specialmente, una coscienza internazionalista. L'occupazione delle fabbriche, essenzialmente proletaria, trovò impreparato il Partito socialista, che era solo parzialmente proletario, che era già, per i primi colpi del fascismo, in crisi di coscienza nelle altre sue parti costitutive. La fine dell'occupazione delle fabbriche scompaginò completamente il Partito socialista; le credenze rivoluzionarie infantili e sentimentali caddero completamente; i dolori della guerra si erano in parte attutiti (non si fa una rivoluzione per i ricordi del passato!); il governo borghese apparve ancora forte nella persona di Giolitti e nell'attività fascista; i capi riformisti affermarono che pensare alla rivoluzione comunista in generale era pazzesco; Serrati affermò che era pazzesco pensare alla rivoluzione comunista in Italia, in quel periodo. Solo la minoranza del Partito, formata dalla parte piú avanzata e colta del proletariato industriale, non mutò il suo punto di vista comunista e internazionalista, non si demoralizzò per gli avvenimenti quotidiani, non si lasciò illudere dalle apparenze di robustezza e di energia dello Stato borghese. Cosí nacque il Partito comunista, prima organizzazione autonoma e indipendente del proletariato industriale, della sola classe popolare essenzialmente e permanentemente rivoluzionaria. Il Partito comunista non divenne subito partito delle piú grandi masse. Ciò prova una sola cosa: le condizioni di grande demoralizzazione e di grande abbattimento in cui erano piombate le masse in seguito al fallimento politico dell'occupazione delle fabbriche. La fede si era spenta in un gran numero dei dirigenti; ciò che prima era stato esaltato veniva oggi deriso; i sentimenti piú intimi e delicati della coscienza proletaria venivano turpemente calpestati da questa ufficialità subalterna dirigente, divenuta scettica, corrottasi nel pentimento e nel rimorso del suo passato di demagogia massimalista. La massa popolare, che subito dopo l'armistizio si era schierata intorno al Partito socialista, si smembrò, si liquefece, si disperse. La piccola borghesia che aveva simpatizzato col socialismo, simpatizzò col fascismo; i contadini, senza appoggio ormai nel Partito socialista, ebbero piuttosto simpatie per il Partito popolare. Ma non fu senza conseguenze questa confusione degli antichi effettivi del Partito socialista coi fascisti da una parte, coi popolari dall'altra. Il Partito popolare si avvicinò al Partito socialista: nelle elezioni parlamentari le liste aperte popolari, in tutte le circoscrizioni, accolsero a centinaia e migliaia i nomi dei candidati socialisti; nelle elezioni municipali verificatesi in alcuni comuni rurali, dalle elezioni politiche ad oggi, spesso i socialisti non presentarono lista di minoranza e consigliarono i loro aderenti a riversare i voti sulla lista popolare; a Bergamo il fenomeno ebbe una manifestazione clamorosa: gli estremisti popolari si staccarono dall'organizzazione bianca e si fusero coi socialisti, fondando una Camera del lavoro e un settimanale diretto e scritto da socialisti e popolari insieme. Obiettivamente, questo processo di riavvicinamento popolare-socialista rappresenta un progresso. La classe contadina si unifica, acquista la coscienza e la nozione della sua solidarietà diffusa, spezzando l'involucro religioso nel campo popolare, spezzando l'involucro della cultura anticlericale piccolo-borghese nel campo socialista. Per questa tendenza dei suoi effettivi rurali il Partito socialista si stacca sempre piú dal proletariato industriale, e quindi pare venga a spezzarsi quel forte legame unitario che il Partito socialista pareva aver creato tra città e campagna; siccome però questo legame non esisteva in realtà, nessun danno effettivo emerge dalla nuova situazione. Un vantaggio reale invece si rende evidente: il Partito popolare subisce una fortissima oscillazione a sinistra e diventa sempre piu laico; esso finirà con lo staccarsi dalla sua destra, costituita di grandi e medi proprietari terrieri, cioè entrerà decisamente nel campo della lotta di classe, con un formidabile indebolimento del governo borghese. Lo stesso fenomeno si profila nel campo fascista. La piccola borghesia urbana, rafforzata politicamente da tutti i transfughi del Partito socialista, aveva cercato dopo l'armistizio di mettere a frutto la capacità di organizzazione e di azione militare acquistata durante la guerra. La guerra italiana è stata diretta, in assenza di uno stato maggiore efficiente, dalla ufficialità subalterna, cioè dalla piccola borghesia. Le delusioni patite in guerra avevano destato fortissimi sentimenti di ribellione antigovernativa in questa classe, la quale, perduta dopo l'armistizio l'unità militare dei suoi quadri, si sparpagliò nei vari partiti di massa, portandovi fermenti di ribellione, ma anche incertezza, oscillazioni, demagogia. Caduta la forza del Partito socialista dopo l'occupazione delle fabbriche, con rapidità fulminea questa classe, sotto la spinta dello stesso stato maggiore che l'aveva sfruttata in guerra, ricostruí i suoi quadri militarmente, si organizzò nazionalmente. Maturazione rapidissima, crisi costituzionale rapidissima. La piccola borghesia urbana, giocattolo in mano allo stato maggiore e alle forze piú retrograde del governo, si alleò agli agrari e spezzò, per conto degli agrari, l'organizzazione dei contadini. Il patto di Roma tra fascisti e socialisti segna il punto d'arresto di questa politica ciecamente e politicamente disastrosa per la piccola borghesia urbana, la quale comprese che vendeva la sua «primogenitura» per un piatto di lenticchie. Se il fascismo continuava nelle spedizioni punitive tipo Treviso, Sarzana, Roccastrada, la popolazione sarebbe insorta in massa e, nell'ipotesi di una sconfitta popolare, non certo i piccoli borghesi avrebbero preso in mano il potere, ma lo stato maggiore e i latifondisti. Il fascismo si avvicina nuovamente al socialismo, la piccola borghesia cerca di rompere i legami con la grande proprietà terriera, cerca di avere un programma politico che finisce col rassomigliare stranamente a quello di Turati e D'Aragona. È questa la situazione attuale della massa popolare italiana: una grande confusione, successa alla unità artificiale creata dalla guerra e personificata dal Partito socialista, una grande confusione che trova i punti di polarizzazione dialettica nel Partito comunista, organizzazione indipendente del proletariato industriale; nel Partito popolare, organizzazione dei contadini, nel fascismo, organizzazione della piccola borghesia. Il Partito socialista, che ha dall'armistizio all'occupazione delle fabbriche rappresentato la confusione demagogica di queste tre classi del popolo lavoratore, è oggi il massimo esponente e la vittima piú cospicua del processo di disarticolazione (per un nuovo, definitivo assetto) che le masse popolari italiane subiscono come conseguenza della decomposizione della democrazia. Un Partito di masse(2) Il Partito socialista si presenta al Congresso di Milano con 80.000 inscritti. Un piccolo ragionamento sulle cifre può essere utile, piú di qualsiasi ragionamento teorico, per avere una esatta comprensione della natura e dell'attuale funzione del Partito socialista italiano. Dopo il Congresso di Livorno il Partito socialista rimase costituito da 98.000 comunisti unitari e da 14.000 riformisti, cioè da 112.000 inscritti. Dopo Livorno sono entrati nel Partito almeno 15.000 nuovi soci; se oggi gli inscritti sono 80.000 ciò significa che dei 112.000 votanti a Livorno 47.000 sono andati via; i 65.000 rimasti coi 15.000 nuovi entrati costituiscono appunto gli attuali effettivi di 80.000. Al Congresso di Livorno i comunisti unitari erano 98.000; l'attuale frazione massimalista unitaria, continuatrice di quella comunista unitaria, avrà al Congresso di Milano dai 45.000 ai 50.000 voti; è chiaro che i 47.000 fuorusciti dal Partito socialista dopo Livorno sono nella quasi totalità comunisti unitari. La qualità degli attuali 80.000 inscritti può essere compresa da questo piccolo ragionamento. Il Partito socialista amministra attualmente circa 2.000 comuni, e 10.000 tra leghe, Camere del lavoro, cooperative, mutue. Se si tiene conto delle minoranze comunali, e dei Consigli provinciali, è lecito calcolare a una media di 16 consiglieri per i 2.000 comuni amministrati in maggioranza; risulta cioè che un partito di 80.000 inscritti conta ben 32.000 consiglieri comunali. Per le 10.000 organizzazioni economiche non è esagerato calcolare (anche tenendo conto delle cariche multiple) tre funzionari inscritti al Partito socialista per una; abbiamo cosí un partito di 80.000 inscritti, il quale oltre a 32.000 consiglieri comunali, annovera ben 30.000 funzionari di leghe, di cooperative, di mutue: ha cioè, su 80.000 inscritti, ben 62.000 soci strettamente legati a una posizione economica o politica, ha cioè solamente 18.000 soci disinteressati. Questa composizione spiega sufficientemente come avvenga che il Partito socialista, pur non rappresentando piú le aspirazioni e i sentimenti delle grandi masse lavoratrici, continui apparentemente a essere un partito di masse. La storia è piena di fenomeni simili. Il regno dei Borboni, a Napoli, era «negazione di Dio» fin dal 1848; eppure continuò a sussistere fino al 1860 perché aveva un corpo di funzionari che era tra i migliori di tutta Italia; dal 1848 al 1860 lo Stato borbonico fu una pura e semplice organizzazione di funzionari, senza consenso in nessuna classe della popolazione, senza vita interiore, senza un fine storico che ne giustificasse l'esistenza. L'impero degli zar aveva dimostrato nel 1905 di essere morto e putrefatto storicamente; aveva contro di sé il proletariato industriale, i contadini, la piccola borghesia intellettuale, i commercianti, la enorme maggioranza della popolazione. Dal 1905 al 1917 l'impero degli zar visse solamente perché aveva una burocrazia formidabile, visse solamente come organizzazione di funzionari statali, senza contenuto etico, senza una missione di progresso civile che ne giustificasse l'esistenza. Lo Stato d'Austria-Ungheria è il terzo esempio, e forse il piú educativo, che offre la storia. Era diviso in razze nemiche tra loro, come oggi son nemiche tra loro le diverse tendenze del Partito socialista, eppure continuava a sussistere, cementato unitariamente da una sola categoria di cittadini, la casta dei funzionari. Nella politica internazionale lo Stato dei Borboni, l'impero degli zar, l'impero degli Asburgo rappresentavano tuttavia tutta la popolazione e pretendevano di esprimerne la volontà e i sentimenti. Cosí oggi il Partito socialista, organizzazione di 62.000 funzionari della classe lavoratrice, pretende di rappresentare la massa lavoratrice, pretende di esprimerne la volontà e i sentimenti. Questa composizione del Partito socialista giustifica il nostro scetticismo sui risultati del Congresso di Milano. Solo tra i 18.000 soci disinteressati è possibile abbia influsso una discussione politica; gli altri 62.000 ragionano solo dal punto di vista del loro impiego e della loro carica. Una scissione a destra metterebbe in pericolo le maggioranze dei Consigli comunali, una scissione fra funzionari sindacali, di cooperative, di mutue metterebbe in pericolo la situazione di ciascuno; i 62.000 sono pertanto unitari fino in fondo, fino alle estreme vergogne. Crediamo perciò destinato al fallimento completo il tentativo di Maffi, Lazzari, Riboldi per un riavvicinamento all'Internazionale comunista; i tre possono influire solo su 18.000 degli 80.000 inscritti al Partito socialista; nella migliore delle ipotesi essi potranno staccare da questo partito 10.000 soci, e la nuova scissione non avrà nessuna importanza politica. La verità è che il Partito socialista è ormai morto e putrefatto: un partito operaio che su 80.000 soci ha 62.000 funzionari è solo un'escrescenza morbosa del proletariato, cosí come lo Stato parlamentare-burocratico è un'escrescenza morbosa della collettività nazionale. Il fenomeno è però ricco di insegnamenti per i militanti comunisti: se è vero che il Partito socialista, pur essendo morto come coscienza politica del proletariato, continua a sussistere come apparecchio organizzativo delle grandi masse, ciò indica l'importanza estrema che nelle civiltà moderne hanno i «funzionari». Per il Partito comunista il problema di diventare partito delle grandi masse e quindi partito di governo rivoluzionario, non consiste solamente nel risolvere la quistione di interpretare fedelmente le aspirazioni popolari, significa anche risolvere la quistione di sostituire i funzionari controrivoluzionari con funzionari comunisti, significa quindi creare un corpo di funzionari comunisti, che però, a differenza di quelli socialisti, siano strettamente disciplinati e subordinati ai congressi e al Comitato centrale del Partito. Di questa verità, poco simpatica apparentemente, devono convincersi specialmente i nostri giovani; la realtà è quella che è, una cosa ribelle, e deve essere dominata coi mezzi adeguati, anche se paiono poco rivoluzionari e poco simpatici. Bisogna parlar chiaro(3) Dopo aver letto il nuovissimo manifesto lanciato al proletariato d'Italia e «gli sfruttati tutti» dal Partito socialista e dalla Confederazione generale del lavoro ogni operaio è naturalmente costretto a domandarsi e a domandare: «Quali fini comuni possono proporsi oggi la classe operaia e tutti gli altri sfruttati? Con quale tattica e nei quadri di quale nuovo tipo di organizzazione possono essere raggiunti questi fini? Insomma, cosa dobbiamo fare? Il Partito socialista crede sia maturo il tempo per organizzare i Consigli dei delegati operai, contadini e soldati?». Queste domande sono perfettamente giustificate. Il manifesto dei socialisti infatti non si riferisce solamente alla lotta sindacale per gli orari e i salari; esso invita «tutti gli sfruttati» a una lotta unitaria contro la speculazione, cioè contro il sistema capitalistico in generale, nelle sue forme immediatamente concrete di protezionismo doganale, di rincaro dei viveri, di disoccupazione. La lotta sindacale appare nel manifesto solo come motivo particolare di un quadro piú ampio e comprensivo. Gli operai e i contadini organizzati nelle Camere del lavoro e nelle Federazioni appaiono nel manifesto solo come l'avanguardia dell'esercito che si vuole mobilitare. Perché? A qual fine? Con quale indirizzo? Non essendoci in vista né elezioni parlamentari... né elezioni municipali, lo scopo di questa mobilitazione dovrebbe essere solo rivoluzionario, dovrebbe essere: come programma minimo, l'organizzazione di un sistema di Consigli per il controllo sulla produzione e sugli scambi, di Consigli eletti da tutti i lavoratori, manuali e intellettuali, organizzati e disorganizzati, comunisti, socialisti, sindacalisti, anarchici, popolari; come programma massimo, l'organizzazione di Consigli di deputati operai, contadini e soldati che si propongano di lottare per sostituire nel potere statale, il Parlamento e i Municipi. Cosa vogliono dunque i socialisti? Il manifesto deve essere precisato, deve essere postillato, deve essere chiarito. Le masse operaie non devono piú essere adoperate per esercizi sportivi di dubbia origine e di ancor piú dubbio carattere. La realtà è troppo tragica perché si possa scherzare colle parole a doppio senso. I comunisti non daranno un momento di tregua ai capi del socialconfederalismo: nelle assemblee, nei comizi, in tutte le riunioni li metteranno con le spalle al muro. D'accordo che alla lotta sia necessario chiamare non solo gli operai e i contadini organizzati, ma le piú grandi masse della popolazione sfruttata, i comunisti insisteranno infaticabilmente nel domandare parole d'ordine precise, fini reali, metodi concreti di organizzazione e di controllo delle grandi masse sui capi responsabili. Gli operai e i contadini, entrando in lotta, arrischiano tutta la loro vita e la vita dei loro famigliari; se i capitalisti, alle prime avvisaglie di controffensiva proletaria, attuano la serrata generale, cosa faranno i socialisti? Se una nuova azione fascista in grande stile viene sferrata contro i lavoratori, cosa faranno i socialisti? Se lo stato maggiore minaccia un pronunciamento, cosa faranno i socialisti? È giunta l'ora di assumersi tutta la responsabilità delle parole che si lanciano in mezzo al popolo. I socialisti hanno finora attuato la politica del dottor Grillo: come il dottor Grillo distribuiva ricette a destra e a mancina, augurando ai suoi clienti: «Che Dio ve la mandi buona!», cosí i capi socialisti lanciano manifesti demagogici, senza preoccuparsi delle loro conseguenze reali e dei loro risultati pratici. Non si lotta senza un programma preciso e senza una tattica adeguata al programma proposto come fine della lotta. Non si invitano alla lotta le grandi masse popolari senza un piano preciso per il loro inquadramento permanente, per la massima utilizzazione delle energie che vengono in tal modo scatenate. Signori del Partito socialista e della Confederazione generale del lavoro, dovete parlar chiaro; a nessun costo i comunisti vi permetteranno di trascinare il proletariato in una avventura che ripeta l'avventura dell'occupazione delle fabbriche. La posta è troppo grave, la posta è la vita stessa degli operai: se le canaglie massimaliste credono di potersi rifare una verginità rivoluzionaria speculando demagogicamente sull'ultimo quarto d'ora di potere di cui ancora sentono di poter disporre, troveranno chi saprà affrontarli e saprà, senza paure di impopolarità, strappar loro la maschera dalla faccia. Le masse e i capi(4) La lotta che il Partito comunista ha impegnato per realizzare il fronte unico sindacale contro l'offensiva capitalistica ha avuto il merito di creare il fronte unico di tutti i mandarini sindacali: contro la dittatura del Partito comunista e dell'Esecutivo di Mosca, Armando Borghi si trova d'accordo con Ludovico D'Aragona, Errico Malatesta si trova d'accordo con Giacinto Menotti Serrati, Sbrana e Castrucci si trovano d'accordo con Guarnieri e Colombino. La cosa non fa alcuna meraviglia a noi comunisti. I compagni operai che hanno seguito nell'Ordine Nuovo settimanale la campagna svolta per il movimento dei Consigli di fabbrica ricordano senza dubbio come sia stato da noi previsto anche per l'Italia questo fenomeno che si era già verificato negli altri paesi e poteva quindi già allora essere assunto come universale, come una delle manifestazioni piú caratteristiche dell'attuale periodo storico. L'organizzazione sindacale, avesse un'etichetta riformista, anarchica o sindacalista, aveva dato luogo al sorgere di tutta una gerarchia di piccoli e grandi capi, le cui note caratteristiche erano specialmente la vanità, la mania di esercitare un potere incontrollato, l'incompetenza, la sfrenata demagogia. La parte piú ridicola e assurda era rappresentata in tutta questa commedia dagli anarchici, i quali tanto piú erano autoritari quanto piú strillavano contro l'autoritarismo, tanto piú sacrificavano la reale volontà delle grandi masse e la fioritura spontanea delle loro tendenze libertarie quanto piú ululavano di volere libertà, autonomia, spontaneità di iniziativa. Specialmente in Italia il movimento sindacale cadde in basso e divenne gazzarra da fiera: ognuno voleva creare il suo «movimento», la sua «organizzazione», la «sua vera unione» dei lavoratori. Borghi rappresentò una ditta brevettata, De Ambris un'altra ditta brevettata, D'Aragona una terza ditta brevettata, Sbrana e Castrucci una quarta ditta brevettata, il capitano Giulietti una quinta ditta brevettata. Tutta questa gente, come è naturale, si manifestava contraria all'ingerenza dei partiti politici nel movimento sindacale, affermava che il sindacato basta a se stesso, che il sindacato è il «vero» nucleo della società futura, che nel sindacato si trovano gli elementi strutturali dell'ordine nuovo economico e politico proletario. Nell'Ordine Nuovo settimanale noi abbiamo, spregiudicatamente, con metodo libertario, cioè senza lasciarci deviare da preconcetti ideologici (quindi con metodo marxista, dato che Marx è il piú grande libertario apparso nella storia del genere umano) esaminato quale sia la reale natura e la reale struttura del sindacato. Abbiamo cominciato col dimostrare come sia assurdo e puerile sostenere che il sindacato possieda in sé la virtú di superare il capitalismo: il sindacato è obiettivamente nient'altro che una società commerciale, di tipo prettamente capitalistico, la quale tende a realizzare, nell'interesse del proletario, un prezzo massimo per la merce-lavoro e a realizzare il monopolio di questa merce nel campo nazionale e internazionale. Il sindacato si differenzia dal mercantilismo capitalista solo soggettivamente, in quanto, essendo formato e non potendo essere formato che da lavoratori, tende a creare la coscienza nei lavoratori che nell'ambito del sindacalismo è impossibile raggiungere l'autonomia industriale dei produttori, ma che perciò è necessario impadronirsi dello Stato (cioè privare la borghesia del potere di Stato) e servirsi del potere statale per riorganizzare tutto l'apparecchio di produzione e di scambio. Abbiamo poi dimostrato che il sindacato non può essere e non può diventare la cellula della futura società dei produttori. Il sindacato, infatti, si manifesta in due forme: nell'assemblea dei soci e nella burocrazia dirigente. L'assemblea dei soci mai è chiamata a discutere e a deliberare sui problemi della produzione e degli scambi, sui problemi tecnici industriali. Essa è normalmente convocata per discutere e decidere sui rapporti tra imprenditori e manodopera, su problemi cioè che sono propri della società capitalistica e che verranno fondamentalmente trasformati dalla rivoluzione proletaria. La scelta dei funzionari sindacali neppur essa avviene sul terreno della tecnica industriale: un sindacato metallurgico non domanda al candidato funzionario se sia competente nell'industria metallurgica, se sia in grado di amministrare l'industria metallurgica di una città o di una regione e dell'intera nazione; gli domanda semplicemente se sia in grado di sostenere le ragioni degli operai in una controversia, se sia in grado di compilare un memoriale, se sia in grado di tenere un comizio. I sindacalisti francesi della Vie ouvrière hanno, prima della guerra, cercato di creare delle competenze industriali tra i funzionari sindacali: essi hanno promosso tutta una serie di ricerche e di pubblicazioni sull'organizzazione tecnica della produzione (per esempio: come avviene che il cuoio di un bue cinese diventi la scarpa di una cocotte parigina? quale viaggio compie questo cuoio? come sono organizzati i trasporti di questa merce? quante sono le spese del trasporto? come avviene la fabbricazione del «gusto» internazionale per ciò che riguarda gli oggetti di cuoio? ecc.); ma questo tentativo è caduto nel vuoto. Il movimento sindacale, espandendosi, ha creato un corpo di funzionari che è completamente avulso dalle singole industrie e obbedisce a leggi puramente commerciali: un funzionario dei metallurgici passa indifferentemente ai muratori, ai calzolai, ai falegnami; egli non è tenuto a conoscere le condizioni reali tecniche dell'industria, ma solo la legislazione privata che regola i rapporti tra imprenditori e manodopera. Si può affermare, senza paura di essere smentiti da alcuna dimostrazione sperimentale, che la teoria sindacalista si è ormai rivelata come un ingegnoso castello in aria, costruito da uomini politici i quali odiavano la politica solo perché essa, prima della guerra, significava solo azione parlamentare e compromesso riformistico. Il movimento sindacale è nient'altro che un movimento politico, i capi sindacali sono nient'altro che leaders politici, i quali giungono alla posizione occupata per aggregazione invece che per elezione democratica. Per molti aspetti i capi sindacali rappresentano un tipo sociale simile al banchiere: un banchiere esperto, che ha un buon colpo d'occhio negli affari, che sa prevedere con una certa esattezza il corso delle borse e dei contratti, accredita il suo istituto, attira i risparmiatori e gli scontisti: un capo sindacale che sa prevedere i risultati possibili nel cozzo delle forze sociali in lotta, attira le masse alla sua organizzazione, diventa un banchiere d'uomini. Da questo punto di vista D'Aragona, in quanto era spalleggiato dal Partito socialista, che si affermava massimalista, fu miglior banchiere di Armando Borghi, emerito confusionario, uomo senza carattere e senza indirizzo politico, merciaiolo da fiera piú che banchiere moderno. Che la Confederazione del lavoro sia un movimento politico essenzialmente, lo si può vedere dal fatto che la sua massima espansione coincide con la massima espansione del Partito socialista. I capi credono però di potersi infischiare della politica dei partiti, cioè di poter fare una politica personale senza la noia dei controlli e degli obblighi disciplinari. Ed ecco la ragione di questa sommossa tumultuosa dei capi sindacali contro la dittatura del Partito comunista e del famigerato Esecutivo di Mosca. Le masse comprendono istintivamente di essere impotenti a controllare i capi, a imporre ai capi il rispetto alle decisioni delle assemblee e dei congressi: perciò le masse vogliono il controllo di un partito sul movimento sindacale, vogliono che i capi sindacali appartengano a un partito bene organizzato, che abbia un indirizzo preciso, che sia in grado di far rispettare la sua disciplina, che mantenga gli impegni liberamente contratti. La dittatura del Partito comunista non spaventa le masse, perché le masse comprendono che questa terribile dittatura è la massima garanzia della loro libertà, è la massima garanzia contro i tradimenti e gli imbrogli. Il fronte unico che i mandarini sindacali di tutte le scuole sovversive costituiscono contro il Partito comunista dimostra una cosa sola: che il nostro Partito è finalmente diventato il partito delle grandi masse, che esso rappresenta davvero gli interessi permanenti della classe operaia e contadina. Al fronte unico di tutti i ceti borghesi contro il proletariato rivoluzionario corrisponde il fronte unico di tutti i mandarini sindacali contro i comunisti. Giolitti, per debellare gli operai ha fatto la pace con Mussolini e ha dato le armi ai fascisti; Armando Borghi, per non perdere la sua posizione di gran senusso del sindacalismo rivoluzionario, farà l'accordo con D'Aragona, bonzo massimo del riformismo parlamentare. Quale insegnamento per la classe operaia, che non gli uomini deve seguire, ma i partiti organizzati che ai singoli uomini sappiano imporre disciplina, serietà, rispetto per gli impegni contratti volontariamente! Il sostegno dello Stato(5) Nel bel tempo antico, quando i ricordi del Risorgimento erano ancora vivaci e la conquista della Costituzione rappresentava ancora un valore per la grande massa della popolazione italiana, si svolse una interessante polemica tra i liberali e i repubblicani sulla natura e sulla importanza del giuramento di fedeltà al re che i deputati devono prestare in Parlamento. I liberali cosí ragionavano: se i deputati rifiutano di prestare questo giuramento, se i deputati ottengono che l'istituzione del giuramento sia abolita, lo Stato stesso viene a mancare del suo principale sostegno. La Costituzione è un patto reciproco di fedeltà tra popolo e sovrano: se il popolo, attraverso le persone dei suoi rappresentanti, si sottrae all'obbligo di fedeltà, se il popolo domanda, con l'abolizione del giuramento, libertà di operare contro la Costituzione, anche il sovrano viene, di diritto, ad essere sciolto dai suoi vincoli, anche al sovrano viene riconosciuta la libertà di organizzazione e di attuare il colpo di Stato contro la Costituzione. Il governo rappresenta il sovrano nel Parlamento nazionale, il governo è anzi responsabile per il sovrano dinanzi al Parlamento nazionale e dinanzi al popolo. Se il governo lascia impunemente violare la Costituzione, se il governo permette la formazione nel paese di bande armate, se il governo permette che associazioni private costituiscano depositi di armi e munizioni, se il governo permette che decine di migliaia di privati cittadini, armati, inquadrati militarmente, con casco e moschetto, dopo avere, indisturbati, percorso il paese, invadano la capitale e sfoggino apertamente la loro «potenza», cosa significa ciò se non questo: avere il governo, responsabile per il sovrano, violato il giuramento di fedeltà alla Costituzione? Cosa significa ciò se non che si sta preparando, da parte degli organismi statali che si raggruppano nel potere esecutivo, un colpo di Stato? Cosa significa ciò se non che in Italia viviamo già nell'ambiente da cui automaticamente deve sbocciare il colpo di Stato? Il patto tra popolo e sovrano è dunque ormai denunziato, per volontà del potere statale che rappresenta il secondo. Automaticamente tutti i giuramenti di fedeltà sono denunziati. Cosa lega ormai gli impiegati al governo? Cosa lega ormai gli ufficiali all'autorità suprema? La popolazione deve, per la logica stessa degli avvenimenti, dividersi in due parti: favorevoli e contrari al colpo di Stato reazionario, o meglio favorevoli al colpo di Stato reazionario e favorevoli a un'insurrezione popolare capace di spezzare il colpo di Stato reazionario. La stessa Costituzione contempla l'eventualità: essa riconosce al popolo il diritto di insorgere in armi contro ogni tentativo dei poteri statali di infrangere la Costituzione stessa. Perché infatti un patto, che non può non essere bilaterale, dovrebbe rimanere valido per una parte se l'altra parte lo infrange? Perché un impiegato o un ufficiale dovrebbe mantenersi fedele a una legge che piú non esiste? Perché dovrebbe conservare i segreti di Stato e non comunicarli ai partiti rivoluzionari, se conservare questi segreti significa favorire il colpo di Stato, cioè l'abolizione anche formale delle leggi e delle libertà statutarie, mentre comunicare questi segreti ai partiti rivoluzionari significa contribuire a salvare la libertà popolare, significa certamente mantenersi fedele allo spirito del giuramento prestato? Lo Stato borghese vive in grandissima parte sul lavoro e sull'abnegazione di migliaia di funzionari civili e militari che compiono, spesso con vera passione, il loro dovere, che hanno vivo il senso dell'onore, che hanno preso sul serio il giuramento prestato all'atto di iniziare il loro servizio. Se non esistesse questo nucleo fondamentale di persone sincere, lealmente devote al loro ufficio, lo Stato borghese crollerebbe in un istante, come un castello di carta. Sono costoro il vero, l'unico sostegno dello Stato, non certo gli altri, i concussori, i prevaricatori, i poltroni, i parassiti dello Stato. Ora: a chi giova il colpo di Stato? Esso può giovare solo appunto a questi altri, ai concussori, ai prevaricatori, ai poltroni, ai parassiti: spesso, anzi quasi sempre, il colpo di Stato non è altro che lo strumento della feccia statale per mantenere le posizioni occupate e divenute micidiali per la società; questa gente non ha scrupoli, si infischia dei giuramenti e dell'onore, essa odia tutti i lavoratori, e primi fra tutti, quelli che lavorano nei suoi stessi uffici e sono il vivente rimprovero della sua disonestà e del suo parassitismo. Oggi la situazione storica è questa: una sola grande classe sociale è in grado di opporsi validamente ai tentativi liberticidi della reazione scatenata, la classe degli operai, il proletariato. Questa classe compie oggi la stessa funzione liberatrice che nel Risorgimento è stata propria dei liberali. Questa classe ha un suo partito, il Partito comunista, col quale devono collaborare tutti gli elementi disinteressati e sinceri dello Stato italiano, che vogliono mantenere fede al loro ufficio di custodi delle libertà popolari contro tutti gli assalti delle forze oscure del passato che non vuol morire. Gestione capitalistica e gestione operaia(6) La Perseveranza e alcuni altri giornali notoriamente legati agli interessi dell'affarismo bancario-industriale italiano, hanno cercato di rispondere ai rilievi da noi fatti sulle cause che hanno determinato le due clamorose sconfitte subite dalla Fiat al circuito di Brescia. Gli scrittori di questi giornali probabilmente non hanno mai visto un'officina moderna; certamente essi ignorano cosa sia lo spirito industriale; indubbiamente essi sono in malafede, e hanno il partito preso (e pagato) di insorgere in difesa dei proprietari per qualsiasi contesa e di trovare che tutte le responsabilità dei mali che affliggono la produzione italiana ricada sulla classe operaia, sul bolscevismo, sui Consigli di fabbrica. Le parole sono parole, le affermazioni sono affermazioni; diano un'occhiata alle cifre, questi egregi signori, preghino gli industriali di pubblicare i dati di produzione che si riferiscono a questi periodi, caratteristici della attività industriale dei metallurgici torinesi: 1) dallo sciopero dell'aprile 1920 alla occupazione delle fabbriche; 2) occupazione delle fabbriche; 3) dall'occupazione delle fabbriche alla serrata dell'aprile 1921; 4) dalla riapertura, col licenziamento dei Consigli di fabbrica e dei gruppi comunisti, al circuito di Brescia. Nel periodo di occupazione e di gestione operaia diretta, quantunque la maggioranza dei tecnici e degli amministrativi avesse disertato il lavoro, e una notevole parte della maestranza operaia fosse stata destinata a sostituire i disertori e a svolgere funzioni di sorveglianza e di difesa militare, tuttavia il livello della produzione fu piú elevato del periodo precedente, caratterizzato dalla reazione capitalistica dopo lo sciopero dell'aprile 1920. Nel periodo successivo all'occupazione - in cui il controllo operaio e il potere dei Consigli di fabbrica raggiunsero il massimo di efficienza - la produzione della Fiat fu tale, per quantità e per qualità, da superare di gran lunga la produzione del periodo bellico: da 48 vetture quotidiane si balzò alle 70 vetture quotidiane. I signori industriali giocarono una carta suprema su queste nuove condizioni create alla produzione dal potere dei Consigli di fabbrica: essi proposero alle maestranze un progetto di cottimo collettivo. Poiché esistevano i Consigli di fabbrica, i quali esercitavano un controllo reale e immediato su tutte le iniziative capitalistiche, e poiché, se controllato, il cottimo collettivo rappresenta un grande passo in avanti nel regime industriale, le maestranze accettarono, con alcune modificazioni, il progetto. Ma gli industriali, una volta introdotto il cottimo collettivo, passarono all'offensiva contro i Consigli e contro i gruppi comunisti. La serrata fu proclamata, gli operai rivoluzionari furono licenziati, i reparti furono disorganizzati, la reazione piú spietata fu introdotta come sistema. Le conseguenze furono disastrose: il collaudo incominciò a respingere fino al 50 per cento della produzione di molti reparti; il livello della produzione cadde fino a 15 vetture al giorno. Politicamente, gli industriali hanno raggiunto i loro fini: le Commissioni interne, formate di socialisti, non dànno piú noia alcuna ai dirigenti; gli operai sono disciplinatissimi; nessuno parla; nessuno si muove dal suo posto; non si fanno comizi; non circolano giornali sovversivi; non si discute. Ma la produzione è caduta da 70 vetture a 15 vetture, e la qualità è scaduta nella misura dimostrata dal circuito di Brescia. Possono smentire questi dati gli allegri scrittori della Perseveranza e degli altri giornali «che si preoccupano delle sorti dell'industria nazionale»? Una cosa appare evidente dalle esperienze industriali di questi anni passati: 1) la classe dominante non possiede piú un ceto di imprenditori capace di governare la produzione industriale; la guerra, se ha esaurito, con le sue privazioni e coi suoi orari lunghissimi di lavoro, la classe operaia, ha però esaurito in una misura superiore gli imprenditori, che si sono pervertiti con la speculazione bancaria e hanno perduto la capacità di organizzare e di amministrare le grandi masse d'officina; 2) la classe operaia, quantunque non abbia l'esperienza e la «maturità» politica e tecnica della classe dominante, tuttavia riesce meglio della classe borghese a gestire la produzione. Capitalismo significa oggi disorganizzazione, rovina, disordini in permanenza. Non esiste per le forze produttive altra via di scampo che nell'organizzazione autonoma della classe operaia sia nel dominio dell'industria che nel dominio dello Stato. Il Partito comunista e le agitazioni operaie in corso(7) Un fremito di lotta percorre le file del proletariato italiano. La massima depressione dell'attività del proletariato è decisamente sorpassata e la lotta di classe va riprendendo il ritmo imponente che aveva prima degli avvenimenti della fine del 1920. L'offensiva capitalistica, il cui inizio si può ravvisare negli episodi del 21 novembre 1920 - un anno addietro - a Bologna, si è andata, nelle sue molteplici forme, scatenando solo dopo che sul morale delle masse aveva avuto il suo malefico influsso la disastrosa politica del Partito socialista e della Confederazione del lavoro, e pur profittando soprattutto degli errori e delle colpe dei dirigenti proletari, non appare essere stata tanto perniciosa quanto questi, se al massimo suo infierire la classe operaia risponde risollevandosi alla combattività di una volta. Tra il periodo di lotte operaie che la tattica equivoca dei socialisti ha allora sciupato, e quello attuale, vi sono differenze profonde di situazioni e di rapporti di forze. Allora sembrava lasciata agli organismi proletari l'iniziativa dei movimenti e la scelta del programma di conquista, e l'avversario, padronato e Stato, sembrava disorientato e pressoché passivo. Oggi invece è la borghesia con una serie di armi ben temprate che muove contro il proletariato e lo assale sul terreno politico colla reazione e col fascismo, e sul terreno economico colle serrate e le denunzie dei patti di lavoro allora conquistati. Secondo i socialisti di destra fu una colpa proporsi in quel periodo favorevole obiettivi rivoluzionari troppo grandiosi e irreali e non assicurarsi piú limitate conquiste, nelle quali tuttavia il proletariato si sarebbe saldamente rafforzato. Ma essi non alludono a conquiste economiche, poiché queste in realtà si verificarono su vasta scala, ed evidentemente parlano di un programma politico la cui realizzazione, sul terreno politico, venne impedita dalla conclamata aspirazione alla conquista di tutto il potere alla classe operaia. Ma costoro non dicono né mostrano quale forma di regime, se non l'integrale possesso della forza statale da parte dei lavoratori, avrebbe garantito il proletariato dal contrattacco borghese. È facile convincersi come, se l'offensiva borghese è derivata dalla reazione al peso che aveva assunto la volontà degli organismi proletari nell'andamento della vita sociale, e dalla coscienza che in corrispondenza a questa influenza apparente non vi era una solida organizzazione di lotta, maggiormente essa si sarebbe scatenata nel caso che le masse avessero appoggiata la loro influenza sociale, non sulla loro organizzazione, ma su ulteriori concessioni ottenute con mezzi pacifici da ipotetici alleati scelti tra la sinistra borghese, sul terreno delle combinazioni parlamentari, o di qualche simulacro di crisi di regime; ora l'unico mezzo, in realtà, di impedire il ritorno offensivo borghese era il disarmo dell'apparato borghese di governo e della borghesia stessa, e la diretta gestione dei poteri e della forza armata da parte del proletariato: ossia la dittatura rivoluzionaria di questo. Nella situazione odierna, in cui la borghesia tende ad una propria dittatura economica e politica, che lasci immutate le forme del suo regime, ma demolisca i fortilizi della organizzazione operaia e respinga il proletariato alle condizioni di anteguerra e piú indietro ancora, gli esponenti della socialdemocrazia, a cui non può nemmeno reggere il comodo alibi cui rispondevamo or ora, non osano piú formulare alcun programma. Essi sostengono, o piuttosto effettuano, il ripiegamento senza lotta, per non essere costretti ad ammettere la necessità dell'armamento non solo ideale ma anche materiale del proletariato per la lotta di classe, da cui consegue necessariamente il programma del consolidamento di quest'apparato di lotta in un apparato di potere rivoluzionario. I comunisti invece, coerenti alle accuse che nel «felice» periodo degli anni 1919 e 1920 facevano alla politica dei socialisti di destra, incapace di utilizzare ogni tappa percorsa lottando dal proletariato per la organizzazione delle sue facoltà rivoluzionarie, al di fuori e contro lo Stato borghese, come unica garanzia della difesa di quelle conquiste e della loro integrazione fino alla emancipazione proletaria, i comunisti oggi sostengono che il proletariato deve accettare dalla situazione gli eloquenti insegnamenti di lotta che ne derivano, e deve affrontare i singoli conflitti colle forze avversarie con una visione generale dei suoi compiti che prepari il movimento unico di tutta la classe lavoratrice sul piano rivoluzionario. Se il considerare come isolate le singole azioni e il vantare la tattica di occupare successivamente e con poco spreco di energia le singole posizioni prendibili, poteva avere un senso nel periodo della avanzata, oggi quel metodo equivale evidentemente all'esporsi a certa disfatta. I comunisti hanno tracciato il piano di azione proletaria nell'incanalamento di tutte le lotte in un'unica azione del fronte unico dei lavoratori, che abbia come posta tutto il presidio delle conquiste operaie che la offensiva borghese viene ad insidiare. Questo piano si viene tracciando negli stessi avvenimenti, che in modo quasi automatico conducono i lavoratori ad allargare la base dei conflitti, fondendoli con quelli a cui son provocate altre categorie e riunendo rivendicazioni politiche ed economiche. Mentre questa sintesi degli sforzi è programmaticamente completa nella parola d'ordine del Partito comunista, che deve servire come guida all'azione proletaria, nella realtà ci sono coefficienti che si oppongono alla sua realizzazione, principalissimo tra questi l'atteggiamento dei capi di destra. L'azione verso il fronte unico proletario appare cosí come una doppia lotta: contro la borghesia su fronti determinati dai suoi attacchi e contro i socialdemocratici che impediscono alla organizzazione proletaria di rispondere coll'allargamento del fronte alla tattica borghese, che è di battere successivamente e separatamente le forze operaie. Il Partito comunista intende in tutta la sua complessità questa situazione, e le difficoltà che si frappongono alla realizzazione della piattaforma di azione unica che esso ha proposta, che culminerebbe nello sciopero generale nazionale, mettendo la lotta su di una via decisamente rivoluzionaria, non lo distolgono dal seguire e dal sostenere tutte le fasi della lotta difensiva proletaria che, sebbene impastoiata dalla dittatura socialdemocratica sulle organizzazioni, volge per successive azioni alla estensione del fronte. Perciò i comunisti hanno un preciso compito, anche se non si è accettata dai loro avversari la forma di azione che essi ritengono e che è la sola che presenti le vere probabilità di una vittoria proletaria. Essi non si fanno della mancata realizzazione fin dal principio, e da parte di tutte le masse, della loro tattica, una ragione di passività o un alibi per le loro responsabilità; essi sono avantitutto per la lotta, la lotta su due fronti, contro l'aperto avversario borghese e contro il disfattismo interno degli opportunisti. Quindi il Partito comunista è in prima linea negli esperimenti di azione allargata che oggi si svolgono e che indubbiamente preludono a piú vaste battaglie. È certo che se questi tentativi delle masse falliscono, sarà per effetto dell'influenza dei socialdemocratici che rallentano la diffusione del movimento, e che questi cercheranno di sfruttare le eventuali sconfitte proletarie come conseguenza del metodo dell'estensione dell'azione, mentre sarebbero solo conseguenza di quello della troppo tarda estensione. Ma ciò non toglie che compiendo grandi sforzi non si possa ottenere che anche per questa via, resa meno diretta dalla forza dei disfattisti, si possa costruire l'agguerrimento del proletariato alle lotte supreme rivoluzionarie. Quindi noi siamo, dopo avere bene stabilite tutte le responsabilità, nel pieno della lotta negli scioperi generali della Liguria e della Venezia Giulia; noi domandiamo l'estensione del movimento dei ferrovieri contro l'applicazione dell'art. 56. Bisogna lottare contro questa situazione per trarre da ogni suo episodio un risultato di esperienze e di allenamenti rivoluzionari, con lo sguardo sempre volto all'obiettivo: azione generale unica di tutti i lavoratori. Il livello della combattività proletaria andrà crescendo attraverso questi episodi nella misura in cui il Partito comunista sarà giunto a fronteggiare il disfattismo dei gialli. I quali attendono, non meno forse dei borghesi autentici, il rovescio che ripiombi il proletariato nella morta gora della passività e dello sbigottimento. Ma, dai piú viscidi ai piú cinici nemici del movimento proletario, sembra sentano tutti soffiare ben altro vento: quello della grande tempesta rivoluzionaria. Un governo qualsiasi(8) Nell'armamentario fraseologico del Partito socialista, la formula del governo migliore è stata definitivamente sostituita dalla nuova formula del governo qualsiasi: il Partito socialista confessa apertamente di aver rinunziato ad ogni conquista nel campo legale; afferma di non essere neppure piú un partito di graduali riforme e di conquiste morali; esso si accontenta di ottenere da parte del governo le garanzie elementari per la sicurezza e la incolumità personale delle masse contadine. Per misurare tutta la portata dell'indietreggiamento fatto dai socialisti, basta ricordare la posizione polemica assunta dai capi sindacali del movimento contadino nel Congresso di Livorno. L'on. Nino Mazzoni, nel Congresso provinciale di Reggio Emilia della frazione di concentramento, aveva sostenuto che la tesi comunista della conquista violenta dello Stato era destituita di ogni fondamento di ragionevolezza e di senso comune, poiché lo Stato erano effettivamente i contadini. Per l'on. Mazzoni il problema non era già quello di conquistare lo Stato con la forza armata della classe lavoratrice, ma semplicemente quello di organizzare le parziali conquiste dello Stato, già avvenute per virtú taumaturgica dei capi sindacali e municipali, di organizzare in Parlamento lo Stato di fatto. Al Congresso di Livorno l'on. Mazzoni ribadí e ampliò questa sua tesi: per l'on. Mazzoni in Italia, a differenza degli altri paesi, e specialmente della Russia, l'avanguardia socialista era costituita non dal proletariato urbano, ma dalle masse lavoratrici rurali. La tesi comunista della rivoluzione, concepita come essenzialmente proletaria e urbana, e la tesi comunista come rivoluzione proletaria che liberi i contadini dai residui della oppressione e dello sfruttamento feudale, dettero modo all'on. Mazzoni di bombardare l'edifizio granitico della maggioranza massimalista-unitaria con un giro di arguzie volgari e di spiritosaggini banali. Ad un anno di distanza ogni operaio o contadino, anche mediocremente intelligente, è stato posto in grado dagli avvenimenti di giudicare quali delle due correnti socialiste, quella comunista o quella riformista, avesse saputo prevedere lo sviluppo della storia e avesse saputo indicare la tattica migliore per salvare la classe lavoratrice dalla rovina economica e dalla schiavitú politica. La classe contadina, nonostante il possesso di migliaia di municipi, di decine di migliaia di cooperative e di leghe, è stata completamente messa a terra. Anzi, proprio là dove, in provincia di Rovigo, le organizzazioni contadine erano riuscite a conquistare la quasi totalità delle amministrazioni locali, ivi la reazione è piombata piú feroce e ha trovato meno resistenza. La classe contadina italiana è stata ricacciata in una situazione di schiavitú peggiore di questa feudale: non ha piú libertà di riunione, non ha piú libertà di stampa, non ha piú libertà di associazione, non ha piú libertà di andare e venire, non piú neanche la libertà di vivere. Nelle città, quantunque la disfatta clamorosa dei contadini abbia avuto ripercussioni spesso micidiali demoralizzando e avvilendo larghi strati del proletariato, si vive ancora, si resiste, si lotta; nelle città si succedono incessantemente disperati tentativi per organizzare un'armata di lavoratori e renderla capace di scendere in campo contro la guardia bianca. Ogni operaio e contadino è oggi persuaso che solo dalle città può uscire il grido di riscossa del popolo lavoratore italiano, che l'emancipazione delle masse oppresse e sfruttate può essere assicurata solo da uno Stato operaio che, avendo organizzato un potente esercito rosso e una implacabile rete di istituzioni poliziesche o giudiziarie con elementi operai, sistematicamente riconquisti i territori invasi e schiacciati dal fascismo e li sbarazzi dai depositi di armi e dai complotti reazionari. Il Partito socialista invece, completamente demoralizzato e corrotto dalla disfatta subita nelle province agricole, rincula ogni giorno piú. I capi socialisti riconoscono che il popolo italiano è stato ricondotto nella situazione esistente sotto il regime feudale; ma, a differenza dei partiti liberali che allora rappresentavano le forze oppresse, i capi socialisti rinunziano alla preparazione della insurrezione armata, rinunziano alla violenza, si affidano ad un governo qualsiasi, cioè al noschismo che in un primo tempo può anche reprimere il fascismo agrario, ma non può certamente reprimere il fascismo agrario senza reprimere simultaneamente le forze rivoluzionarie urbane; senza cioè creare le condizioni migliori per una rinascita a breve scadenza di un fascismo agrario anche piú spietato ed atroce di quello attuale. La masse proletarie e contadine hanno però appreso dalla esperienza storica piú di quanto abbiano appreso i capi socialisti: ecco perché esse si riuniscono sempre piú numerose e fiduciose intorno al Partito comunista che continua le tradizioni dei giacobini della Rivoluzione francese contro i girondini. Sí, i comunisti sono giacobini, ma per l'interesse del proletariato e delle masse rurali tradite oggi dai socialisti come piú di un secolo fa gli interessi della classe rivoluzionaria erano traditi dai girondini. Il Papa e la Chiesa scismatica(9) L'unione della Chiesa romana con la Chiesa greco-scismatica, od ortodossa, come volgarmente si dice anche in Occidente, è un'antica aspirazione del papato. La Chiesa scismatica comprende l'oriente mediterraneo, la Grecia, i Balcani, la Russia. Tutta la politica di Benedetto XV di fronte alla Russia dei Soviet si riconnette all'antico sogno dell'unità religiosa cattolico-scismatica. È bene dunque dirne due parole in questa vacanza del trono pontificio. La Chiesa scismatica è molto meno lontana dalla Chiesa romana di quanto non siano i protestanti delle varie sètte. Essa si staccò dal grembo della cattolicità verso il Mille, per ragioni lambiccate di teologia, e per ragioni anche piú importanti di mentalità e di temperamento. Non mancarono di tanto in tanto tentativi seri di unità e di conciliazione. Anche modernamente, Leone XIII fece degli sforzi notevoli per la fusione delle due Chiese. Né mancarono negli ultimi decenni episodi di vescovi delle due Chiese, che palesemente si permisero gesti di collaborazione e amicizia reciproca. Benedetto XV prese un atteggiamento anche piú risoluto verso la conciliazione delle due Chiese. Egli, tra l'altro, fondò in Roma l'Istituto orientale romano e volle assumere la presidenza, affidandone le funzioni di segretario ad un suo fido, conoscitore dell'Oriente e delle questioni ecclesiastiche orientali, il cardinale Marini. Su tale istituto, il Popolo romano scrive: Questo Istituto, nel proposito del Papa, doveva accentrare tutte le relazioni del papato con i cattolici ed anche i non cattolici dell'Oriente. Con i quali, dunque, il pontefice, in qualità di presidente veniva a creare contatti ininterrotti, completamente all'infuori della burocrazia di Curia, malevole e spesso boicottatrice. Non è di oggi il dissidio fra la burocrazia romana della cattolicità e le Chiese d'Oriente. Gelose della propria autonomia, queste non son mai riuscite, non potevan e non possono riuscire gradite ai prelati di Curia, il cui sogno è la strapotenza di dominio, l'accentramento assoluto, nelle proprie mani, di tutti gli interessi spirituali e temporali dell'orbe cattolico. È disgraziatamente la deformazione intima di tutte le burocrazie onnipotenti e centralistiche, da cui non si salva neppure - se pur non n'è inquinata piú d'ogni altro organismo sociale - la Chiesa cattolica. Non è veramente da dire che la Propaganda fide abbia lasciato svolgersi senza contrasti e inciampi il piano di Benedetto. Verte ancor oggi un dissidio non trascurabile circa il controllo che la detta congregazione vorrebbe esercitare sul Collegio dei Maroniti, che i cattolici libanesi mantengono in Roma. Ma le congiure e le arti dei prelati di Curia trovarono sempre un argine invalicabile nella ferma volontà del pontefice. Il quale, prima di chiudere gli occhi, ha avuto la gioia di vedere il suo Istituto in pieno sviluppo, centro di studi importantissimo, aperto, senza distinzione, - e questo torna ad onore della sua serenità spirituale - ai cattolici, come agli ortodossi, come a tutti i cristiani orientali. I programmi dell'Istituto, da questo punto di vista, non hanno potuto non destare lo scandalo dei Merry del Val, dei De Lai, dei Billot e dei gesuiti. Evidentemente Benedetto XV, riunendo in Roma i cattolici di tutte le Chiese orientali e fin gli ortodossi o cristiani in genere, per istruirsi sul vero contenuto della dottrina cattolica, tornava al grande sogno dell'unione delle Chiese d'Oriente, e tendeva a rafforzare di fronte ad esse il prestigio e l'influenza di Roma. A questo sogno egli sacrificò con una generosità, che ogni sacerdote d'Oriente vi descrive con profonda commozione, non solo le ambizioni dei prelati recalcitranti, ma le sue principali risorse finanziarie. Anche l'atteggiamento di Benedetto XV verso la Russia mirava palesemente a tradurre in fatti l'antico sogno, che raddoppierebbe il numero dei cattolici. Il passaggio dell'ortodossismo greco-scismatico al cattolicesimo romano, non dovrebbe significare un salto dai riti greco-scismatici al rituale latino. La Chiesa cattolica possiede già un rito greco, che usa ufficialmente la lingua greca, ha un organismo esteriore consono alle tradizioni peculiari dei patriarcati bizantini e orientali, permette il matrimonio dei preti. Anche lo spirito politico-religioso del rito greco (cattolico) è informato a un indirizzo di massimo adattamento alle tradizioni e al temperamento orientale. Ciò dipende da un criterio politico e anche da un criterio di rispetto alle tradizioni. Mentre in Occidente la patristica antica greca è messa in seconda luce da quella latina, e i vangeli ufficiali sono latini, in Oriente al contrario non è possibile prescindere dal fatto che la storia antica della religione è soprattutto greca, come greci sono originariamente tutti i vangeli, greci per la maggior parte i Padri. Il carattere greco-orientale è essenzialmente pedante e sofistico in filosofia e in religione. Mentre le tradizioni della Chiesa occidentale sono soprattutto pratiche, quelle della Chiesa orientale sono fin dai piú antichi tempi teologiche, disputatrici, sottilizzanti. I fondamenti filosofici e teologici del cattolicesimo furono elaborati quasi esclusivamente nella Chiesa orientale, prima che avvenisse la scissione in due confessioni distinte. Attualmente, poi, la Chiesa greco-scismatica è minata da una corruzione forse anche piú profonda di quella che esiste nella Chiesa romana. In ogni modo, la Chiesa romana ha nel suo spirito conciliativo e nel rito greco-cattolico, una base per la vagheggiata unione. Rimangono fondamentalmente due fatti che costituiscono difficoltà serie. Primo. La processione dello Spirito Santo dal solo Padre, come credono gli scismatici, mentre i cattolici affermano, nel Credo, che esso procede tanto dal Padre quanto dal Figlio. Probabilmente, su queste sottigliezze sarebbe possibile un accordo. Secondo. Il riconoscimento della preminenza del vescovo di Roma. Qui la questione è intricatissima e spinosissima. La Chiesa greca antica (cattolica) ebbe sempre troppa autonomia e importanza, di fronte alla Chiesa occidentale, perché la sua erede scismatica possa accettare senz'altro il papato di Roma. In nessun caso la Chiesa scismatica accederebbe a dei preliminari di accordo, se non a patto di mettere in discussione almeno tutto ciò che il papato lentamente andò acquistando, di predominio e di attribuzioni, dal giorno dello scisma fino ad oggi. E fu questo del papato un processo, sempre piú monarchico, veramente gigantesco, che si tradusse in articoli di fede e culminò nel concilio tenuto sotto Pio IX nel 1869, dove - in mezzo a violente opposizioni di vescovi - venne stabilita l'infallibilità del Papa. Bisogna poi aggiungere che la parte piú intransigente della Chiesa scismatica non solo nega che il vescovo di Roma sia, egli a preferenza del patriarca di Costantinopoli, il successore di Pietro, ma nega addirittura che Cristo abbia conferito a Pietro una reale preminenza sugli altri apostoli, con le famose parole: «Tu es Petrus, et super hanc petram aedificabo domum meam»; e con l'altro passaggio: «Pasce oves meas». Monsignor Geremia Bonomelli, nel suo Viaggio in Oriente, traeva conclusioni piuttosto pessimistiche sulla possibilità di un accordo prossimo con l'elemento greco-orientale-scismatico. Probabilmente, se una probabilità, sia pure lontanissima, di unione, dovrà mai affacciarsi, sarà in Russia e nei paesi slavi che il Papa cercherà di far breccia. La sostanza della crisi(10) La caduta di Bonomi, si dice, è stata provocata da una manovra di corridoio non troppo chiara, o nella quale di ben chiaro non v'è che l'ambizione di un gruppo di politicanti. E sta bene. Tutto il Parlamento è, di fronte al paese, un corridoio oscuro e senza via di uscita, nel quale anche i fatti e i contrasti piú profondi sono costretti ad assumere quella forma, poiché la gente che vi abita non ne concepisce un'altra. Ma non sempre sotto a questa forma manca una sostanza degna di piú seria considerazione. Esiste essa nel caso attuale? Che attraverso gli avvenimenti politici degli ultimi mesi stesse compiendosi in Italia una serie di trasformazioni di carattere sostanziale, è cosa sulla quale abbiamo piú volte avuto occasione di insistere. Base di questa trasformazione, il tentativo di far aderire allo Stato italiano strati profondi delle masse lavoratrici delle città e delle campagne e liberare in questo modo lo Stato dalla crisi che lo travaglia; strumenti di questa azione, i due partiti «socialdemocratici» tipici: quello popolare e quello socialista. Tra il Partito popolare e quello socialista si è perciò attuata una curiosa divisione del lavoro. In alcuni luoghi e sopra alcuni terreni combattendosi, in altri collaborando, in altri ancora dividendosi opportunamente le parti e le zone di influenza, popolari e socialisti hanno compiuto e stanno compiendo un'opera comune: quella di preparare le basi del futuro Stato socialdemocratico italiano. La demagogia e l'opportunismo menzognero e ipocrita sono i mezzi con i quali si cerca tanto dagli uni che dagli altri di raggiungere lo scopo. La cosa è tanto vera che in alcune zone, specialmente agricole e di piccole regioni, vi sono strati inferiori di popolazione lavoratrice che non fanno piú distinzione tra i due partiti. La collaborazione è già in atto; e il fatto che essa si realizza prima dal basso che negli organi direttivi superiori, è indice della corrispondenza di essa con una situazione nuova che si viene creando e di cui bisogna tener conto. Ma se questa è una realtà, l'altra realtà con cui si devono fare i conti è la formazione tradizionale dello Stato italiano, risultante dalla prevalenza di una classe dirigente che ha interessi opposti a quelli delle masse e vuole esercitare su di esse un dominio con la violenza e con l'inganno. I popolari si sono posti da un pezzo il problema di accordarsi con questa classe dirigente e lo hanno anche risolto, senza tuttavia perdere il loro carattere di partito aderente e rappresentante di vaste masse organizzate. Con l'azione che hanno compiuta, sia in Parlamento che nel paese, essi hanno quindi già dato l'esempio di ciò che sarà la socialdemocrazia italiana, del modo cioè come il nuovo regime riassumerà in sé i piú loschi lineamenti delle tradizionali camorre nostrane coi tratti nuovi dello Stato socialdemocratico, spregiudicato, demagogo, ipocrita, corruttore e corrotto. Bonomi, da questo punto di vista, è stato un precursore vero. Per raggiungere completamente lo scopo, è però necessario attraversare dei periodi di assestamento. Uno di essi è stato rappresentato dalla crisi di violenza del fascismo. Oggi, anche nel Partito fascista, vi sono i sintomi evidenti della tabe socialdemocratica. L'atteggiamento tenuto di fronte agli affari bancari, valga per tutti. La violenza organizzata al di fuori dei quadri legali dello Stato è del resto caratteristica di tutti i regimi in apparenza «democratici» formatisi nel dopoguerra. Un'altra fase del periodo di assestamento è rappresentata dalle crisi parlamentari. In Parlamento si deve compiere la saldatura tra gli elementi direttivi delle vecchie e quelli delle nuove camorre. Si richiede perciò che alcuni uomini siano eliminati, altri portati avanti, che si riconoscano certi diritti acquisiti e che si freni l'ardore prematuro dei nuovi venuti. È tutto un lavoro dal quale deve uscire la nuova casta dei dirigenti. S'intende che questo modo di considerare la questione conduce a negare ogni valore alle distinzioni parlamentari ufficiali, per cui vi potrà essere un governo di destra o un governo di sinistra, o un governo intermedio di «transizione». E se tutto questo è terminologia vuota, ancora meno valgono i programmi e non troppo neanche gli uomini. Le basi sulle quali tutti, su per giú, erano d'accordo, non sono difficili da trovare. Quello che piú importa però non sono tanto esse, quanto il processo generale attraverso il quale lo Stato italiano, senza mutare la sua natura fondamentale, tende a spostare le proprie basi nella speranza di rafforzarsi e di poter godere di un nuovo periodo di vita tranquilla. Un elemento nuovo sarebbe dato, si dice, dall'atteggiamento dei socialisti. Ma non è vero. Essi rientrano nella linea di questo processo generale, e quanto abbiamo detto sopra sulla analogia tra l'azione dei popolari e quella dei socialisti ci esime dal dare ora maggiori spiegazioni. L'unica differenza sta nella mancanza di partecipazione al governo che costringe i socialisti ad essere anche piú ipocriti e menzogneri degli altri, ad avere non due sole, ma tre o quattro maschere con le quali celare il loro volto vero. I socialisti non chiedono ormai altro che di portare il loro contributo all'opera comune di ricostruzione e di rafforzamento dello Stato. In qualunque modo essi parlino, sia che usino la sfacciataggine dello Stenterello, sia che rifriggano le scemenze di Turati, sia che inalberino il gagliardetto dell'intransigenza o squittiscano come il pappagallo dell'Avanti!, ognuna delle loro parole e ognuno dei loro atteggiamenti è a vantaggio della borghesia e dello Stato, perché serve ad impedire che le masse vedano chiaro nel corso dei fatti che si stanno svolgendo, che le masse si accorgano delle catene che si accingono a ribadire intorno ai loro polsi i nuovi predicatori di libertà, di riforme e di conquiste positive. Questo è dunque per noi il punto centrale della situazione attuale. Bisogna rendere chiaro alle masse di operai e contadini d'Italia che ogni appoggio da essi dato ai demagoghi dei partiti socialdemocratici - socialista e popolare - è un contributo alla ricostruzione dell'organismo che da decenni li priva della libertà, del benessere, e li costringe alla schiavitú, alle sofferenze e alla morte. La lotta contro la socialdemocrazia, la lotta contro il Partito socialista traditore, si identifica con la lotta per la liberazione del proletariato d'Italia da ogni schiavitú. Giolitti e i popolari(11) La politica tradizionale dell'on. Giolitti, che è stata la politica dello Stato italiano in questo primo ventennio del secolo ventesimo, è consistita, oltre che nel tentativo, non realizzatosi mai nel terreno parlamentare, di incorporare il movimento operaio nel meccanismo governativo, nel tentativo di accaparrare i voti dei contadini cattolici per la fortuna politica del cosiddetto Partito liberale democratico, cioè per il partito degli industriali e dei commercianti. La gerarchia ecclesiastica era stata, fino all'avvento del giolittismo, lo strumento di cui si servivano gli agrari per dominare politicamente, oltre che economicamente, la classe dei contadini: per i buoni uffici della gerarchia ecclesiastica, gli agrari riuscivano ad avere in Parlamento un partito, il liberale conservatore, guidato dal Sonnino e difeso dal Giornale d'Italia, che poteva permettersi il lusso, di tanto in tanto, di costituire un governo e di mantenerlo per cento giorni. L'on. Giolitti, per imporre definitivamente il monopolio governativo dei maggiori interessi industriali e bancari, coltivò amorosamente nel campo cattolico la nascita e lo sviluppo della stessa rete di cooperative e di piccole banche di risparmio che aveva amorosamente coltivato nel campo socialista: ottenne i risultati che aveva sperato. Il patto Gentiloni segnò il passaggio della gerarchia ecclesiastica dai servizi del Partito conservatore, cioè di Sonnino e degli agrari, al servizio del Partito democratico, cioè dei banchieri e degli industriali e di Giolitti. La formazione del Partito popolare, cioè l'organizzazione della classe dei contadini in classe indipendente, e il suo sviluppo, avvenuto nel senso che il Partito popolare si è liberato quasi completamente dell'ala destra, costituita di latifondisti e di vecchi aristocratici, ha mutato il terreno di manovra politica del «grande» statista di Dronero. Nel Parlamento tanto gli agrari che gli industriali e i banchieri sono ridotti ad avere partiti numericamente ristrettissimi: essi si sono coalizzati e hanno trovato il loro leader proprio nell'onorevole Giolitti. L'on. Giolitti, tradizionalmente uomo di sinistra, oggi è diventato l'uomo dell'estrema destra; il Giornale d'Italia, l'organo tradizionale degli agrari, il sostenitore dei fasci toscani ed emiliani, è diventato oggi il fautore piú accanito dell'on. Giolitti, dell'uomo che per vent'anni aveva piú aspramente combattuto, dell'uomo di cui nel 1917 domandava esplicitamente la traduzione dinanzi ai tribunali militari. Con la gagliofferia brutale che li distingue, gli agrari, imbaldanziti dall'esistenza dell'organizzazione militare fascista, riacquistata nell'economia nazionale la supremazia per il tracollo dell'industria e della banca, apertamente dichiarano di voler ritornare alla situazione politica esistente nel nostro paese prima del patto Gentiloni. Durante il conclave il Giornale d'Italia minacciò apertamente lo scatenamento di una bufera anticlericale se al governo della Chiesa non veniva eletto un «intransigente», cioè se il Vaticano non ritornava alla politica di Pio X, contraria alla formazione in Italia dei partiti parlamentari cattolici e favorevole alla politica degli aristocratici e dei conservatori. Il conclave elesse invece un pontefice ancora piú conciliatorista e popolareggiante di Benedetto XV e il Partito popolare si vendicò delle minacce gaglioffe del Giornale d'Italia ponendo il suo veto a un governo di Giolitti. Se al di sotto della coreografia parlamentare si ricercano le forze politiche realmente agenti nel paese, la disfatta dell'on. Giolitti è indubbiamente la manifestazione di una crisi di regime in Italia. La classe dei contadini è l'unica classe piccolo-borghese che abbia conservato una funzione produttiva nella società moderna: perciò essa può unificarsi politicamente e introdurre un elemento nuovo nel Parlamento, mutando radicalmente i termini tradizionali dell'equilibrio democratico, cioè provocando una crisi di regime che potrebbe anche approfondirsi. Non esiste, invero, nessuna contraddizione essenziale tra cattolicesimo e repubblica: in Croazia, Radich, capo del Partito dei contadini, è repubblicano e circonda la sua predicazione di tutto un alone di coreografia religiosa che profondamente colpisce la fantasia degli strati campagnoli... Insegnamenti(12) Le conclusioni che si possono trarre dall'andamento di questa manifestazione di Primo Maggio sono confortanti. La manifestazione è riescita come intervento di masse, come estensione di solidarietà operaia. Ha dimostrato come il proletariato italiano malgrado la reazione è sempre rosso. Ed è anche riescita come prova di spirito di combattività che si risveglia nelle file dei lavoratori. I fascisti si sono preoccupati di dimostrare col loro contegno e colle loro stesse dichiarazioni che si trattava di una manifestazione antifascista. E tale è stato il significato della astensione dal lavoro e dell'intervento alle dimostrazioni di grandissime masse, da un capo all'altro d'Italia, e senza escludere le zone piú percosse dal fascismo. Se i cortei non si sono fatti si deve alla imposizione del governo: se si fossero potuti tenere, oggi conteremmo un maggior numero di morti operai, ma anche un maggior numero di morti fascisti. Tuttavia, accanto alla confortante constatazione della vastità ed imponenza della manifestazione, e dell'elevato morale della massa, dobbiamo porre quella che l'organizzazione ha lasciato in generale a desiderare. La cosa non è senza ragioni: la tattica della unità di fronte adottata in questo Primo Maggio da tutti gli organismi proletari, esperimento della Alleanza del lavoro italiana, ha recato insieme questo benefizio e questo svantaggio, che vanno dai comunisti attentamente considerati. Ci limitiamo qui ad accennare brevemente alla cosa, in presenza del comunicato diramato dal Comitato dell'Alleanza del lavoro dopo il Primo Maggio. Con la tattica della unità di fronte si sono potute radunare ai comizi di Primo Maggio grandi moltitudini operaie anche dove era ben chiaro nella coscienza fin dell'ultimo intervenuto che non si trattava della solita e tradizionale coreografia, ma di una giornata di lotta. Ma questa dimostrazione della avversione del proletariato alla reazione e al fascismo, dello spirito di classe che tuttora anima le grandi moltitudini di lavoratori, non è abbastanza per poter aver ragione del fascismo e della reazione. Il fascismo non sarà soffocato da unanimità platoniche: le rivoltelle e i pugni non saranno resi impotenti col gettarvi sopra una materassa. Il fascismo non ha il numero, ma ha la organizzazione, unitaria e centralizzata, ed è in ciò la sua forza, integrata nella centralizzazione del potere ufficiale borghese. L'Alleanza del lavoro che oggi ha permesso di raggruppare masse imponenti deve divenire capace di inquadrarle con disciplina unitaria. Qui è il compito dei comunisti, nel conseguire questo risultato, verso il quale non si è fatto che il primo passo. Quando sarà possibile che le grandi adunate possano contare sul concorso proletario, e nello stesso tempo su una razionale preparazione delle nostre forze, allora il proletariato potrà dominare il suo nemico. In questo Primo Maggio si è potuto notare che i comizi e i movimenti concordati dalle organizzazioni alleate mancavano un po' di preparazione organizzativa anche al modesto effetto della loro protezione dagli attacchi avversari, e questo dipendeva dal fatto che non era ben chiaro chi avesse organizzato i comizi e disposto il piano del loro svolgimento sotto tutti gli aspetti. I comitati locali dell'Alleanza non sono che di recente formazione, e non hanno chiara consistenza organizzativa, e sufficienti poteri. Tuttavia è già un gran vantaggio quello di aver potuto avere radunate comuni delle masse, perché ciò eleva il morale proletario e consente ai comunisti di portare a tutto il proletariato la loro franca parola. Tutto un ulteriore sviluppo dell'interessante esperimento italiano della tattica del fronte unico condurrà ad integrare con questo vantaggio innegabile l'altro della effettiva ed intima unità di organizzazione. L'argomento si presta ad importantissime considerazioni: vogliamo ora solo notare che il terreno sindacale su cui l'Alleanza è costituita, permette ai comunisti di premere perché essa divenga sempre piú stretta organizzativamente, giungendosi cosí alla unità sindacale proletaria che sempre noi abbiamo auspicata, e che il programma del Partito comunista solo può e dovrà riempire di contenuto rivoluzionario. Per ora vi è da reagire contro il carattere pigro ed incerto che ha fino ad oggi la dirigenza della Alleanza del lavoro. I comunisti hanno già formulate in modo preciso e concreto le loro proposte per lo sviluppo, per il ravvivamento, per il potenziamento dell'Alleanza, che potrebbe, se la campagna non venisse spinta energicamente innanzi, parallelamente alle eloquenti esperienze della azione proletaria, degenerare in una burocratica ed ingombrante diplomazia di capi esitanti ed opportunisti. Quanto le proposte comuniste siano urgenti lo dimostra il contegno passivo della Alleanza dinanzi alle gravissime provocazioni che hanno subíto il Primo Maggio le folle operaie e, nonostante gli inviti all'azione giunti da tante parti, lo dimostra la sua insensibilità alla pressione che viene oggi dal proletariato italiano disposto a procedere rapidamente sulla via della controffensiva. E lo dimostra, eloquentissimo documento, il comunicato diramato dal Comitato nazionale, che con le sue frasi piatte e banali declina la suggestione sorgente dalle masse anelanti alla lotta: comunicato al quale non vogliamo scrivere altro commento, sicuri che, come la quistione è ormai irrevocabilmente posta innanzi alle masse, cosí queste non mancheranno di commentare e giudicare esse, per trarre da quest'altra delusione nuovo motivo a proseguire sulla aspra ma sicura via della loro riscossa. Una lettera a Trotskij sul futurismo(13) Ecco le risposte alle domande sul movimento futurista italiano che lei mi ha rivolto. Dopo la guerra, il movimento futurista in Italia ha perduto interamente i suoi tratti caratteristici. Marinetti si dedica molto poco al movimento. Si è sposato e preferisce dedicare le sue energie alla moglie. Al movimento futurista partecipano attualmente monarchici, comunisti, repubblicani e fascisti. A Milano poco tempo fa è stato fondato un settimanale politico, Il principe, che rappresenta o cerca di rappresentare le stesse teorie che Machiavelli predicava per l'Italia del Cinquecento, cioè la lotta tra i partiti locali che conducano la nazione verso il caos, dovrebbe essere accantonata per opera di un monarca assoluto, un nuovo Cesare Borgia, che si ponga alla testa di tutti i partiti che si combattono. Il foglio è diretto da due futuristi: Bruno Corra ed Enrico Settimelli. Benché Marinetti, nel 1920, durante una manifestazione patriottica a Roma sia stato arrestato per un energico discorso contro il re, ora collabora a questo settimanale. I piú importanti esponenti del futurismo d'anteguerra sono diventati fascisti, a eccezione di Giovanni Papini, che è divenuto cattolico e ha scritto una Storia di Cristo. Durante la guerra i futuristi sono stati i piú tenaci fautori della «guerra sino in fondo» e dell'imperialismo. Solo un futurista: Aldo Palazzeschi, era contro la guerra. Egli ha rotto con il movimento e, benché fosse uno degli scrittori piú interessanti, finí col tacere come letterato. Marinetti, che sempre aveva elogiato in lungo e in largo la guerra, ha pubblicato un manifesto in cui dimostrava che la guerra era il solo mezzo igienico per il mondo. Ha preso parte alla guerra come capitano di un battaglione di carri armati e il suo ultimo libro, L'alcova di acciaio, costituisce un inno entusiasta ai carri armati in guerra. Marinetti ha composto un opuscolo In disparte dal comunismo, in cui sviluppa le sue dottrine politiche, se si possono in genere definire come dottrine le fantasie di quest'uomo, che a volte è spiritoso e sempre è notevole. Prima della mia partenza dall'Italia la sezione di Torino del Proletkult aveva chiesto a Marinetti, in occasione dell'apertura di una mostra di quadri di lavoratori membri dell'organizzazione, di illustrarne il significato. Marinetti ha accettato volentieri l'invito, ha visitato la mostra insieme con i lavoratori e ha espresso quindi la sua soddisfazione per essersi convinto che i lavoratori avevano per le questioni del futurismo molta piú sensibilità che non i borghesi. Prima della guerra i futuristi erano molto popolari tra i lavoratori. La rivista Lacerba, che aveva una tiratura di ventimila esemplari, era diffusa per i quattro quinti tra i lavoratori. Durante le molte manifestazioni dell'arte futurista nei teatri delle grandi città italiane capitò che i lavoratori difendessero i futuristi contro i giovani semi-aristocratici o borghesi, che si picchiavano con i futuristi. Il gruppo futurista di Marinetti non esiste piú. La vecchia rivista di Marinetti Poesia è ora diretta da un certo Mario Dessi, un uomo senza la minima capacità intellettuale e organizzativa. Nel Sud, specie in Sicilia, compaiono molti fogli futuristi, in cui Marinetti scrive degli articoli: ma questi foglietti vengono pubblicati da studenti che scambiano per futurismo l'ignoranza della grammatica italiana. Il gruppo piú forte tra i futuristi sono i pittori. A Roma c'è una mostra stabile di pittura futurista, che è stata organizzata da un fotografo fallito, un certo Anton Giulio Bragaglia, un agente per il cinema e per gli artisti. Dei pittori futuristi, il piú noto è Giacomo Balla. D'Annunzio non ha mai preso ufficialmente posizione sul futurismo. Bisogna accennare che al suo sorgere il futurismo assunse un espresso carattere antidannunziano. Uno dei primi libri di Marinetti si intitola Les Dieux s'en vont, D'Annunzio reste. Benché durante la guerra i programmi politici di Marinetti e di D'Annunzio concordassero su molti punti, i futuristi restano antidannunziani. Non si sono quasi interessati al movimento fiumano, benché piú tardi abbiano preso parte alle dimostrazioni. Si può dire che dopo la conclusione della pace il movimento futurista ha perduto interamente il suo carattere e si è dissolto in correnti diverse, che si sono formate in conseguenza della guerra. I giovani intellettuali erano in genere assai reazionari. I lavoratori, che vedevano nel futurismo gli elementi di una lotta contro la vecchia cultura accademica italiana, ossificata, estranea al popolo, devono oggi lottare le armi alla mano per la loro libertà e hanno scarso interesse per le vecchie dispute. Nelle grandi città industriali il programma del Proletkult, che tende al risveglio dello spirito creativo dei lavoratori nella letteratura e nell'arte, assorbe l'energia di coloro che hanno ancora tempo e voglia di occuparsi di simili questioni. Il nostro indirizzo sindacale(14) Nel Sindacato Rosso del 15 settembre il compagno Nicola Vecchi ripropone una sua vecchia tesi: - Bisogna costituire un organismo nazionale sindacale di classe, autonomo e indipendente da tutti i partiti e transitoriamente indipendente da tutte le Internazionali. Quale deve essere il nostro atteggiamento verso una tale proposta? Quale deve essere la direttiva di propaganda dei comunisti per arginare in mezzo alla massa possibili correnti di opinione in accordo con la tesi del compagno Vecchi? Quale è, concretamente, nell'attuale situazione, il nostro indirizzo sindacale: in quale modo, cioè, intendiamo noi mantenerci a contatto con le grandi masse proletarie, per interpretarne i bisogni, per raccoglierne e concretarne la volontà, per aiutare il processo di sviluppo del proletariato verso la sua emancipazione, che continua nonostante tutte le repressioni e tutta la violenza dell'obbrobriosa tirannia fascista? Noi siamo, in linea di principio, contro la creazione di nuovi sindacati. In tutti i paesi capitalistici il movimento sindacale si è sviluppato in un senso determinato, dando luogo alla nascita e al progressivo sviluppo di una determinata grande organizzazione, che si è incarnata con la storia, con la tradizione, con le abitudini, coi modi di pensare della grande maggioranza delle masse proletarie. Ogni tentativo fatto per organizzare a parte gli elementi sindacali rivoluzionari è fallito in sé ed ha servito solo a rafforzare le posizioni egemoniche dei riformisti nella grande organizzazione. Che costrutto han ricavato in Italia i sindacalisti dalla creazione dell'Unione sindacale? Essi non sono riusciti ad influenzare che parzialmente e solo episodicamente la massa degli operai industriali, cioè della classe piú rivoluzionaria della popolazione lavoratrice. Hanno, durante il periodo dall'uccisione di Umberto I alla guerra libica, conquistato la direzione di grandi masse agrarie della pianura padana e delle Puglie, ottenendo questo solo risultato: - queste masse, appena allora entrate nel campo della lotta di classe (in quel periodo si verificò appunto una trasformazione della cultura agraria che aumentò di circa il 50 per cento la massa dei braccianti), si allontanarono ideologicamente dal proletariato d'officina e, sindacaliste anarchiche fino alla guerra libica, cioè nel periodo in cui il proletariato si radicalizzava, divennero riformiste successivamente, costituendo dopo l'armistizio e fino all'occupazione delle fabbriche, la passiva massa di manovra che i dirigenti riformisti gettavano, in ogni occasione decisiva, fra i piedi dell'avanguardia rivoluzionaria. L'esempio americano è ancora piú caratteristico e significativo dell'esempio italiano. Nessuna organizzazione è giunta al livello di abbiezione e di servilismo controrivoluzionario dell'organizzazione di Gompers. Ma voleva dire questo che gli operai americani fossero abbietti e servi della borghesia? No, certamente! eppure essi rimanevano attaccati all'organizzazione tradizionale. Gli IWW (sindacalisti rivoluzionari) fallirono nel loro tentativo di conquistare dall'esterno le masse controllate da Gompers, si staccarono da esse, si fecero massacrare dalle guardie bianche. Invece il movimento guidata dal compagno Forster, nell'interno della Federazione americana del lavoro, con parole d'ordine che interpretavano la situazione reale del movimento e i sentimenti piú profondi degli operai americani, conquista un sindacato dopo l'altro e mostra chiaramente quanto debole e incerto sia il potere della burocrazia gompersiana. Noi siamo dunque in linea di principio contro la creazione di nuovi sindacati. Gli elementi rivoluzionari rappresentano la classe nel suo complesso, sono il momento piú altamente sviluppato della sua coscienza a patto che rimangano con la massa, che ne dividano gli errori, le illusioni, i disinganni. Se un provvedimento dei dittatori riformisti costringesse i rivoluzionari ad uscire dalla Confederazione generale del lavoro e ad organizzarsi a parte (ciò che naturalmente non può escludersi), la nuova organizzazione dovrebbe presentarsi ed essere veramente diretta all'unico scopo di ottenere la reintegrazione, di ottenere nuovamente l'unità tra la classe e la sua avanguardia piú cosciente. La Confederazione generale del lavoro nel suo complesso rappresenta ancora la classe operaia italiana. Ma qual è l'attuale sistema di rapporti tra la classe operaia e la Confederazione? Rispondere esattamente a questa domanda vuol dire, secondo me, trovare la base concreta del nostro lavoro sindacale, e quindi stabilire la nostra funzione e i nostri rapporti con le grandi masse. La Confederazione generale del lavoro è ridotta, come organizzazione sindacale, ai suoi minimi termini, a un decimo, forse della sua potenzialità numerica del 1920. Ma la frazione riformista che dirige la Confederazione ha mantenuto quasi intatti i suoi quadri organizzativi, ha mantenuto sul posto di lavoro i suoi militanti piú attivi, piú intelligenti, piú capaci e che, diciamo francamente la verità, sanno lavorare meglio, con maggior tenacia e perseveranza dei nostri compagni. Una gran parte, la quasi totalità degli elementi rivoluzionari che nei passati anni avevano acquistato capacità organizzative e direttive e abitudini al lavoro sistematico sono invece stati massacrati o sono emigrati o si sono dispersi. La classe operaia è come un grande esercito che sia stato privato di colpo di tutti i suoi ufficiali subalterni; in un tale esercito sarebbe impossibile mantenere la disciplina, la compagine, la spirito di lotta, l'unicità di indirizzo colla sola esistenza di uno stato maggiore. Ogni organizzazione è un complesso articolato che funziona solo se esiste un congruo rapporto numerico tra la massa e i dirigenti. Noi non abbiamo quadri, non abbiamo collegamenti, non abbiamo servizi per abbracciare con la nostra influenza la grande massa, per potenziarla, per farla ridiventare uno strumento efficace di lotta rivoluzionaria. I riformisti sono enormemente in migliori condizioni di noi su questo punto e sfruttano abilmente la loro situazione. La fabbrica continua a sussistere ed essa organizza naturalmente gli operai, li raggruppa, li mette a contatto tra loro. Il processo di produzione ha mantenuto il suo livello degli anni 1919-1920, caratterizzato da una funzione sempre piú ingombrante del capitalismo e quindi da una sempre piú decisiva importanza dell'operaio. L'aumento dei prezzi di costo determinato dalla necessità di mantenere mobilizzati in permanenza 500.000 aguzzini fascisti non è certo una prova brillante che il capitalismo abbia riacquistato la sua giovinezza industriale. L'operaio è dunque naturalmente forte nella fabbrica, è concentrato, è organizzato nella fabbrica. Esso è invece isolato, disperso, debole fuori della fabbrica. Nel periodo prima della guerra imperialistica era il rapporto inverso che si verificava. L'operaio era isolato nella fabbrica ed era coalizzato fuori: dall'esterno premeva per ottenere una migliore legislazione d'officina, per diminuire l'orario di lavoro, per conquistare la libertà industriale. La fabbrica operaia è oggi rappresentata dalla Commissione interna. Viene subito spontaneamente la domanda: - Perché i capitalisti e i fascisti, che hanno voluto la distruzione dei sindacati, non distruggono anche le Commissioni interne? Perché, mentre il sindacato ha perduto organizzativamente terreno sotto l'incalzare della reazione, la Commissione interna ha invece allargato la sua sfera organizzativa? È un fatto che in quasi tutte le fabbriche italiane si è ottenuto ciò: - che ci sia una sola CI, - che tutti gli operai, e non solo gli organizzati, votino nelle elezioni della CI. Tutta la classe operaia è dunque oggi organizzata nelle CI che hanno cosí definitivamente perduto il loro carattere strettamente corporativo. È questa, obiettivamente, una grande conquista di amplissima significazione: - essa serve ad indicare che nonostante tutto, nel dolore e sotto l'oppressione del tallone ferrato dei mercenari fascisti, la classe operaia, sia pure molecolarmente, si sviluppa verso l'unità, verso una maggiore omogeneità organizzativa. Perché i capitalisti e i fascisti hanno permesso e continuano a permettere che una tale situazione si sia formata e permanga? Per il capitalismo e per il fascismo è necessario che la classe operaia sia privata della sua funzione storica di guida delle altre classi oppresse della popolazione (contadini, specialmente del Mezzogiorno e delle isole - piccoli borghesi urbani e rurali), è necessario cioè che sia distrutta l'organizzazione esterna alla fabbrica e concentrata territorialmente (sindacati e partiti) che esercita un influsso rivoluzionario su tutti gli oppressi e toglie al governo la base democratica del potere. Ma i capitalisti, per ragioni industriali, non possono volere che ogni forma di organizzazione sia distrutta: nella fabbrica è possibile la disciplina e il buon andamento della produzione solo se esiste almeno un minimo di costituzionalità, un minimo di consenso da parte dei lavoratori. I fascisti piú intelligenti, come Mussolini, sono persuasi, essi per i primi, della non espansività della loro ideologia «superiore alle classi» oltre la stessa cerchia di quello strato piccolo-borghese che, non avendo nessuna funzione nella produzione, non ha coscienza degli antagonismi sociali. Mussolini è persuaso che la classe operaia non perderà mai la sua coscienza rivoluzionaria e ritiene necessario permettere un minimo di organizzazione. Tenere, col terrore, le organizzazioni sindacali entro limiti ristrettissimi, significa dare il potere della Confederazione in mano ai riformisti: conviene che la Confederazione esista come embrione e che si innesti in un sistema sparpagliato di CI, in modo che i riformisti controllino tutta la classe operaia, siano i rappresentanti di tutta la classe operaia. È questa la situazione italiana, è questo il sistema di rapporti che oggi esiste da noi tra la classe proletaria e le organizzazioni. Le indicazioni sono chiare per la nostra tattica: 1) Lavorare nella fabbrica per costruire gruppi rivoluzionari che controllino le CI e le spingano ad allargare sempre piú la loro sfera d'azione; 2) lavorare per creare collegamenti tra le fabbriche, per imprimere alla attuale situazione un movimento che segua la direzione naturale di sviluppo delle organizzazioni di fabbrica: - dalla CI al Consiglio di fabbrica. Solo cosí noi ci terremo nel terreno della realtà, a stretto contatto con le grandi masse. Solo cosí, nel lavoro operoso, nel crogiolo piú ardente della vita operaia, riusciremo a ricreare i nostri quadri organizzativi, a far scaturire dalla grande massa gli elementi capaci, coscienti, pieni di ardore rivoluzionario perché consapevoli del proprio valore e della insopprimibile loro importanza nel mondo della produzione. Il problema di Milano(15) Bisogna porre con grande precisione e con grande franchezza agli operai di Milano il problema... di Milano. Perché a Milano, grande città industriale, con un proletariato che è il piú numeroso tra i centri industriali, che da solo rappresenta piú di un decimo degli operai di fabbrica di tutta Italia, perché a Milano non è sorta una grande organizzazione rivoluzionaria, mentre il movimento è sempre stato rivoluzionario? Perché a Milano non ci sono stati mai piú di tremila organizzati nel Partito socialista? Perché a Milano, anche quando il movimento era al suo massimo di altezza, comandavano effettivamente i riformisti? Perché a Milano tutte le associazioni operaie, sindacali, cooperative, mutue, sono sempre state nelle mani dei riformisti o semiriformisti, anche quando le masse erano spinte nelle strade dal piú entusiastico slancio rivoluzionario? Bisogna porre nettamente e francamente il problema alle masse, e chiamarle a risolverlo coi loro propri mezzi, con la loro volontà, con i loro sacrifici. Il problema è vitale, è il piú importante problema della rivoluzione italiana. È possibile pensare a una rivoluzione italiana se la schiacciante maggioranza del proletariato milanese non è prima stata nettamente conquistata a una concezione precisa e tagliente di ciò che sarà la dittatura proletaria, dei sacrifici e degli sforzi inauditi che essa domanderà alle masse lavoratrici? A Milano sono i maggiori centri vitali del capitalismo italiano: il capitalismo italiano può essere solo decapitato a Milano. Per la rivoluzione italiana esiste già un problema pieno di incognite, quello di Roma, della capitale politica e amministrativa, dove non esiste un proletariato industriale numeroso che possa avere il sopravvento sulla numerosa borghesia: i fascisti hanno mostrato una delle soluzioni che il problema di Roma può avere. Ma essa sarebbe utopistica per la rivoluzione proletaria senza una netta vittoria a Milano, se a Milano non si crea una situazione tale per cui decine e decine di migliaia di operai devoti, entusiasti e che abbiano delle idee molto chiare e dei fini molto precisi possano essere armati e solidamente inquadrati. Il problema di Milano non è quindi una questione locale: esso è un problema nazionale e in un certo senso anche internazionale. Gli operai di Milano devono persuadersi di ciò e dalla comprensione dei doveri formidabili che incombono su di loro devono trarre tutta l'energia e tutto l'entusiasmo che sono necessari per condurre a termine il compito necessario. Non sarebbe difficile rintracciare le cause remote e vicine per cui a Milano si è creata l'attuale situazione, nella quale, è inutile nasconderlo, sono i riformisti ad avere l'effettivo controllo delle masse. Poche grandi fabbriche, numero infinito di piccolissime officine, grande quantità di piccoli borghesi addetti al commercio, grande numero di impiegati, tradizione democratica fortissima nei vecchi operai ecc. ecc. Ma a noi basta ricordare lo slancio rivoluzionario dimostrato sempre dalle masse operaie milanesi per giungere a queste conclusioni: 1) La situazione attuale si è creata per gli errori del Partito socialista negli anni dopo la guerra. 2) È possibile, con un lavoro assiduo, paziente, di ogni giorno, di ogni ora con la piú devota abnegazione dei migliori operai, mutare la situazione. Il Partito socialista non si è preoccupato dell'importanza enorme che Milano avrebbe avuto nella rivoluzione e non ha mai cercato di creare una grande organizzazione politica. Negli anni 1919-1920 per essere all'altezza dei suoi compiti di centro organizzativo dell'economia nazionale, Milano avrebbe dovuto avere una sezione socialista di almeno 30-40.000 soci: cosa possibilissima in una città che conta circa 300.000 lavoratori quando la grande maggioranza segue il Partito che dice di volere la rivoluzione. Invece a Milano sembrava che gli operai venissero appositamente tenuti lontani dall'organizzazione di Partito. I circoli rionali non avevano che una molto scarsa importanza e d'altronde accoglievano solo gli iscritti al Partito. Nella sezione gli elementi operai non avevano la possibilità di far sentire la loro voce. La tribuna era sempre occupata dai grandi assi della demagogia riformista e massimalista, che parlavano ore e ore sui grandi problemi della politica internazionale o... comunale, non una discussione seria sui problemi piú intimamente operai, come i Consigli di fabbrica, le cellule d'officina, il controllo operaio, nella trattazione dei quali anche il piú semplice operaio avrebbe avuto una competenza e dei punti di vista da prospettare. Chi lavorava erano i riformisti: lo scheletro intiero dell'organizzazione operaia milanese era costituito dai riformisti. Sapientemente scaglionati in tutti i punti strategici piú importanti, sapendo lavorare silenziosamente e metodicamente, sapendo piegarsi e scomparire quando il turbine rivoluzionario diventava piú violento, i riformisti saldarono fortissime catene entro le quali oggi la classe operaia milanese circola senza neppure accorgersene. Era tipico di Milano e estremamente significativo dell'assenza di una organizzazione rivoluzionaria, il fatto che quando il movimento di piazza raggiungeva il suo massimo, quando da tutti gli angoli della città brulicava la massa fin nei suoi elementi piú miseri e piú apolitici, gli anarchici prendevano il sopravvento nella direzione; quando il movimento era medio e le grosse parole bastavano, allora i massimalisti erano i leoni; quando invece c'era stagnazione e solo le forze piú attive organizzate erano viventi, allora la direzione era dei riformisti. Il regime fascista ha ridotto ai minimi termini il movimento di classe e i riformisti trionfano su tutta la linea. Cosa significa tutto ciò? Che noi, che gli operai rivoluzionari, lavoriamo molto male. Solo per la nostra incapacità, solo per il nostro torpore, i riformisti sono forti e pare rappresentino le masse. Bisogna quindi imparare a lavorare, bisogna prospettarsi il problema in ogni fabbrica, in ogni casa, in ogni rione, del come lavorare per conquistarsi la simpatia delle grandi masse, della parte piú povera della classe operaia che è anche la piú numerosa e che darà le piú folti e fedeli schiere di soldati alla rivoluzione. E bisogna discutere e far discutere. Le nostre colonne hanno anche e specialmente questo scopo. «Capo»(16) Ogni Stato è una dittatura. Ogni Stato non può non avere un governo, costituito da un ristretto numero di uomini, che a loro volta si organizzano attorno a uno dotato di maggiore capacità e di maggiore chiaroveggenza. Finché sarà necessario uno Stato, finché sarà storicamente necessario governare gli uomini, qualunque sia la classe dominante, si porrà il problema di avere dei capi, di avere un «capo». Che dei socialisti, i quali dicono ancora di essere marxisti e rivoluzionari, dicano poi di volere la dittatura del proletariato, ma di non volere la dittatura dei «capi», di non volere che il comando si individui, si personalizzi; che si dica, cioè, di volere la dittatura, ma di non volerla nella sola forma in cui è storicamente possibile, rivela solo tutto un indirizzo politico, tutta una preparazione teorica «rivoluzionaria». Nella quistione della dittatura proletaria il problema essenziale non è quello della personificazione fisica della funzione di comando. Il problema essenziale consiste nella natura dei rapporti che i capi o il capo hanno col Partito della classe operaia, dei rapporti che esistono tra questo Partito e la classe operaia: sono essi puramente gerarchici, di tipo militare, o sono di carattere storico e organico? Il capo, il Partito sono elementi della classe operaia, sono una parte della classe operaia, ne rappresentano gli interessi e le aspirazioni piú profonde e vitali, o ne sono una escrescenza, o sono una semplice sovrapposizione violenta? Come questo Partito si è formato, come si è sviluppato, per quale processo è avvenuta la selezione degli uomini che lo dirigono? Perché è diventato il Partito della classe operaia? È ciò avvenuto per caso? Il problema diventa quello di tutto lo sviluppo storico della classe operaia, che lentamente si costituisce nella lotta contro la borghesia, registra qualche vittoria, subisce molte disfatte; e non solo della classe operaia di un singolo paese, ma di tutta la classe operaia mondiale, con le sue differenziazioni superficiali eppure tanto importanti in ogni momento separato, e con la sua sostanziale unità e omogeneità. Il problema diventa quello della vitalità del marxismo, del suo essere o non essere la interpretazione piú sicura e profonda della natura e della storia, della possibilità che esso alla intuizione geniale dell'uomo politico dia anche un metodo infallibile, uno strumento di estrema precisione per esplorare il futuro, per prevedere gli avvenimenti di massa, per dirigerli e quindi padroneggiarli. Il proletariato internazionale ha avuto ed ha tuttora un vivente esempio di un partito rivoluzionario che esercita la dittatura della classe; ha avuto e non ha piú, malauguratamente, l'esempio vivente piú caratteristico ed espressivo di chi sia un capo rivoluzionario, il compagno Lenin. Il compagno Lenin è stato l'iniziatore di un nuovo processo di sviluppo della storia, ma lo è stato perché egli era anche l'esponente e l'ultimo piú individualizzato momento, di tutto un processo di sviluppo della storia passata, non solo della Russia, ma del mondo intiero. Era egli divenuto per caso il capo del Partito bolscevico? Per caso il Partito bolscevico è diventato il partito dirigente del proletariato russo e quindi della nazione russa? La selezione è durata trent'anni, è stata faticosissima, ha spesso assunto le forme apparentemente piú strane e piú assurde. Essa è avvenuta nel campo internazionale, al contatto delle piú avanzate civiltà capitalistiche dell'Europa centrale e occidentale, nella lotta dei partiti e delle frazioni che costituivano la II Internazionale prima della guerra. Essa è continuata nel seno della minoranza del socialismo internazionale, rimasta almeno parzialmente immune dal contagio socialpatriottico. Ha ripreso in Russia nella lotta per avere la maggioranza del proletariato, nella lotta per comprendere e interpretare i bisogni e le aspirazioni di una classe contadina innumerevole, dispersa su un immenso territorio. Continua tuttora, ogni giorno, perché ogni giorno bisogna comprendere, prevedere, provvedere. Questa selezione è stata una lotta di frazioni, di piccoli gruppi, è stata lotta individuale, ha voluto dire scissioni e unificazioni, arresti, esilio, prigione, attentati: è stata resistenza contro lo scoraggiamento e contro l'orgoglio, ha voluto dire soffrire la fame avendo a disposizione dei milioni d'oro, ha voluto dire conservare lo spirito di un semplice operaio sul treno degli zar, non disperare anche se tutto sembrava perduto, ma ricominciare, con pazienza, con tenacia, mantenendo tutto il sangue freddo e il sorriso sulle labbra quando gli altri perdevano la testa. Il Partito comunista russo, col suo capo Lenin, si era talmente legato a tutto lo sviluppo del suo proletariato russo, a tutto lo sviluppo, quindi, della intiera nazione russa, che non è possibile neppure immaginare l'uno senza l'altro, il proletariato classe dominante senza che il Partito comunista sia il partito del governo e quindi senza che il Comitato centrale del Partito sia l'ispiratore della politica del governo; senza che Lenin fosse il capo dello Stato. Lo stesso atteggiamento della grande maggioranza dei borghesi russi che dicevano: - una repubblica con a capo Lenin senza il Partito comunista sarebbe anche il nostro ideale - aveva un grande significato storico. Era la prova che il proletariato esercitava non solo piú un dominio fisico, ma dominava anche spiritualmente. In fondo, confusamente, anche il borghese russo comprendeva che Lenin non sarebbe potuto diventare e non avrebbe potuto rimanere capo dello Stato senza il dominio del proletariato, senza che il Partito comunista fosse il partito del governo: la sua coscienza di classe gli impediva ancora di riconoscere oltre alla sua sconfitta fisica, immediata, anche la sua sconfitta ideologica e storica; ma già il dubbio era in lui, e questo dubbio si esprimeva in quella frase. Un'altra quistione si presenta. È possibile, oggi, nel periodo della rivoluzione mondiale, che esistano «capi» fuori della classe operaia, che esistano capi non-marxisti, i quali non siano legati strettamente alla classe che incarna lo sviluppo progressivo di tutto il genere umano? Abbiamo in Italia il regime fascista, abbiamo a capo del fascismo Benito Mussolini, abbiamo una ideologia ufficiale in cui il «capo» è divinizzato, è dichiarato infallibile, è preconizzato organizzatore e ispiratore di un rinato Sacro Romano Impero. Vediamo stampate nei giornali, ogni giorno, diecine e centinaia di telegrammi di omaggio delle vaste tribú locali al «capo». Vediamo le fotografie: la maschera piú indurita di un viso che già abbiamo visto nei comizi socialisti. Conosciamo quel viso: conosciamo quel roteare degli occhi nelle orbite che nel passato dovevano, con la loro ferocia meccanica, far venire i vermi alla borghesia e oggi al proletariato. Conosciamo quel pugno sempre chiuso alla minaccia. Conosciamo tutto questo meccanismo, tutto questo armamentario e comprendiamo che esso possa impressionare e muovere i precordi alla gioventú delle scuole borghesi; esso è veramente impressionante anche visto da vicino, e fa stupire. Ma «capo»? Abbiamo visto la settimana rossa del giugno 1914. Piú di tre milioni di lavoratori erano in piazza, scesi all'appello di Benito Mussolini, che da un anno circa, dall'eccidio di Roccagorga, li aveva preparati alla grande giornata, con tutti i mezzi tribunizi e giornalistici a disposizione del «capo» del Partito socialista di allora, di Benito Mussolini: dalla vignetta di Scalarini al grande processo alle Assise di Milano. Tre milioni di lavoratori erano scesi in piazza: mancò il «capo», che era Benito Mussolini. Mancò come «capo», non come individuo, perché raccontano che egli come individuo fosse coraggioso e a Milano sfidasse i cordoni e i moschetti dei carabinieri. Mancò come «capo», perché non era tale, perché, a sua stessa confessione, nel seno della direzione del Partito socialista, non riusciva neanche ad avere ragione dei miserabili intrighi di Arturo Vella o di Angelica Balabanof. Egli era allora, come oggi, il tipo concentrato del piccolo borghese italiano, rabbioso, feroce impasto di tutti i detriti lasciati sul suolo nazionale dai vari secoli di dominazione degli stranieri e dei preti: non poteva essere il capo del proletariato; divenne il dittatore della borghesia, che ama le facce feroci quando ridiventa borbonica, che spera di vedere nella classe operaia lo stesso terrore che essa sentiva per quel roteare degli occhi e quel pugno chiuso teso alla minaccia. La dittatura del proletariato è espansiva, non repressiva. Un continuo movimento si verifica dal basso in alto, un continuo ricambio attraverso tutte le capillarità sociali, una continua circolazione di uomini. Il capo che oggi piangiamo ha trovato una società in decomposizione, un pulviscolo umano, senza ordine e disciplina, perché in cinque anni di guerra si era essiccata la produzione sorgente di ogni vita sociale. Tutto è stato riordinato e ricostruito, dalla fabbrica al governo, coi mezzi, sotto la direzione e il controllo del proletariato, di una classe nuova, cioè, al governo e alla storia. Benito Mussolini ha conquistato il governo, e lo mantiene con la repressione piú violenta e arbitraria. Egli non ha dovuto organizzare una classe, ma solo il personale di una amministrazione. Ha smontato qualche congegno dello Stato, piú per vedere com'era fatto e impratichirsi del mestiere che per una necessità originaria. La sua dottrina è tutta nella maschera fisica; nel roteare degli occhi entro l'orbite, nel pugno chiuso sempre teso alla minaccia... Roma non è nuova a questi scenari polverosi. Ha visto Romolo, ha visto Cesare Augusto e ha visto, al suo tramonto, Romolo Augustolo. Contro il pessimismo(17) Nessun modo migliore può esistere di commemorare il quinto anniversario della Internazionale comunista, della grande associazione mondiale di cui ci sentiamo, noi rivoluzionari italiani, piú che mai parte attiva e integrante, che quello di fare un esame di coscienza, un esame del pochissimo che abbiamo fatto e dell'immenso lavoro che ancora dobbiamo svolgere, contribuendo cosí a chiarire la nostra situazione, contribuendo specialmente a dissipare questa oscura e greve nuvolaglia di pessimismo che opprime i militanti piú qualificati e responsabili e che rappresenta un grande pericolo, il piú grande forse del momento attuale, per le sue conseguenze di passività politica, di torpore intellettuale, di scetticismo verso l'avvenire. Questo pessimismo è strettamente legato alla situazione generale del nostro paese; la situazione lo spiega, ma non lo giustifica, naturalmente. Che differenza esisterebbe tra noi e il Partito socialista, tra la nostra volontà e la tradizione del Partito socialista, se anche noi sapessimo lavorare e fossimo attivamente ottimisti solo nei periodi di vacche grasse, quando la situazione è propizia, quando le masse lavoratrici si muovono spontaneamente, per impulso irresistibile e i partiti proletari possono accomodarsi nella brillante posizione della mosca cocchiera? Che differenza esisterebbe tra noi e il Partito socialista, se anche noi, partendo sia pure da altre considerazioni, da altri punti di vista, avendo sia pure un maggior senso di responsabilità e dimostrando di averlo con la preoccupazione fattiva di apprestare forze organizzative e materiali idonee per parare ogni evenienza, ci abbandonassimo al fatalismo, ci cullassimo nella dolce illusione che gli avvenimenti non possono che svolgersi secondo una determinata linea di sviluppo, quella da noi prevista, nella quale troveranno infallibilmente il sistema di dighe e canali da noi predisposto, incanalandosi e prendendo forma e potenza storica in esso? È questo il nodo del problema, che si presenta astrusamente aggrovigliato, perché la passività sembra esteriormente alacre lavoro, perché pare ci sia una linea di sviluppo, un filone in cui operai sudano e si affaticano a scavare meritoriamente. L'Internazionale comunista è stata fondata il 5 marzo 1919, ma la sua formazione ideologica e organica si è verificata solo al secondo Congresso, nel luglio-agosto 1920, con l'approvazione dello Statuto e delle 21 condizioni. Dal secondo Congresso comincia in Italia la campagna per il risanamento del Partito socialista, comincia su scala nazionale, perché essa era stata già iniziata nel marzo precedente dalla sezione di Torino con la mozione da presentare all'imminente Conferenza nazionale del Partito che appunto a Torino doveva tenersi, ma non aveva trovato ripercussioni notevoli (alla Conferenza di Firenze della frazione astensionista, tenuta nel luglio 1920, prima del secondo Congresso, fu respinta la proposta fatta da un rappresentante dell'Ordine Nuovo di allargare la base della frazione, facendola diventare comunista, senza la pregiudiziale astensionista che praticamente aveva perduto gran parte della sua ragione di essere). Il Congresso di Livorno, la scissione avvenuta al Congresso di Livorno furono riallacciati al secondo Congresso, alle sue 21 condizioni, furono presentati come una conclusione necessaria delle deliberazioni «formali» del secondo Congresso. Fu questo un errore e oggi possiamo valutarne tutta la estensione per le conseguenze che esso ha avuto. In verità le deliberazioni del secondo Congresso erano l'interpretazione viva della situazione italiana, come di tutta la situazione mondiale, ma noi, per una serie di ragioni, non muovemmo, per la nostra azione, da ciò che succedeva in Italia, dai fatti italiani che davano ragione al secondo Congresso, che erano una parte e delle piú importanti della sostanza politica che animava le decisioni e le misure organizzative prese dal secondo Congresso: noi, però, ci limitammo a battere sulle quistioni formali, di pura logica, di pura coerenza, e fummo sconfitti, perché la maggioranza del proletariato organizzato politicamente ci diede torto, non venne con noi, quantunque noi avessimo dalla nostra parte l'autorità e il prestigio dell'Internazionale che erano grandissimi e sui quali ci eravamo fidati. Non avevamo saputo condurre una campagna sistematica, tale da essere in grado di raggiungere e di costringere alla riflessione tutti i nuclei e gli elementi costitutivi del Partito socialista, non avevamo saputo tradurre in linguaggio comprensibile a ogni operaio e contadino italiano il significato di ognuno degli avvenimenti italiani degli anni 1919-20: non abbiamo saputo, dopo Livorno, porre il problema del perché il Congresso avesse avuto quella conclusione, non abbiamo saputo porre il problema praticamente, in modo da trovarne la soluzione, in modo da continuare nella nostra specifica missione che era quella di conquistare la maggioranza del proletariato. Fummo - bisogna dirlo - travolti dagli avvenimenti, fummo, senza volerlo, un aspetto della dissoluzione generale della società italiana, diventata un crogiolo incandescente dove tutte le tradizioni, tutte le formazioni storiche, tutte le idee prevalenti si fondevano qualche volta senza residuo: avevamo una consolazione alla quale ci siamo tenacemente attaccati, che nessuno si salvava, che noi potevamo affermare di aver previsto matematicamente il cataclisma, quando gli altri si cullavano nella piú beata e idiota delle illusioni. Siamo entrati, dopo la scissione di Livorno, in uno stato di necessità. Solo questa giustificazione possiamo dare ai nostri atteggiamenti, alla nostra attività dopo la scissione di Livorno: la necessità, che si poneva crudamente, nella forma piú esasperata, nel dilemma di vita o morte. Dovemmo organizzarci in partito nel fuoco della guerra civile, cementando le nostre sezioni col sangue dei piú devoti militanti; dovemmo trasformare, nell'atto stesso della loro costituzione, del loro arruolamento, i nostri gruppi in distaccamenti per la guerriglia, della piú atroce e difficile guerriglia che mai classe operaia abbia dovuto combattere. Si riuscí tuttavia: il Partito fu costituito e fortemente costituito: esso è una falange di acciaio, troppo piccola certamente per entrare in una lotta contro le forze avversarie, ma sufficiente per diventare l'armatura di una piú vasta formazione, di un esercito che, per servirsi del linguaggio storico italiano, possa far succedere la battaglia del Piave alla rotta di Caporetto. Ecco il problema attuale che si pone, inesorabilmente: costituire un grande esercito per le prossime battaglie, costituirlo inquadrandolo nelle forze che da Livorno a oggi hanno dimostrato di saper resistere senza esitazioni e senza indietreggiamenti, all'attacco violentemente sferrato dal fascismo. Lo sviluppo dell'Internazionale comunista dopo il secondo Congresso ci offre il terreno adatto a ciò, interpreta, ancora una volta, - con le deliberazioni del terzo e del quarto Congresso, deliberazioni integrate da quelle degli Esecutivi allargati del febbraio e giugno 1922 e del giugno 1923, - la situazione, e i bisogni della situazione italiana. La verità è che noi, come Partito, abbiamo già fatto alcuni passi in avanti in questa direzione: non ci rimane che prendere atto di essi e arditamente continuare. Che significato hanno infatti gli avvenimenti svoltisi in seno al Partito socialista, con la scissione dai riformisti in un primo tempo, con l'esclusione del gruppo di redattori di Pagine Rosse in un secondo tempo e col tentativo di escludere tutta la frazione terzinternazionalista in un terzo e ultimo tempo? Hanno questo preciso significato: - che mentre il nostro Partito era costretto, come sezione italiana, a limitare la sua attività alla lotta fisica di difesa contro il fascismo e alla conservazione della sua struttura primordiale, esso, come partito internazionale, operava, continuava ad operare per aprire nuove vie verso il futuro, per allargare la sua cerchia di influenza politica, per far uscire dalla neutralità una parte della massa che prima stava a guardare indifferente o titubante. L'azione dell'Internazionale fu, per qualche tempo, la sola che abbia permesso al nostro Partito di avere un contatto efficace con le larghe masse, che abbia conservato un fermento di discussione e un principio di movimento in strati cospicui della classe operaia che a noi era impossibile, nella situazione data, altrimenti raggiungere. È stato indubbiamente un grande successo l'aver strappato dalla ganga del Partito socialista dei blocchi, aver ottenuto, quando la situazione pareva peggiore, che dall'amorfa gelatina socialista si costituissero nuclei i quali affermavano di aver fede nonostante tutto nella rivoluzione mondiale, i quali, coi fatti se non con le parole che pare brucino piú dei fatti, riconoscevano di aver errato nel 1920-21-22. È stata questa una sconfitta del fascismo e della reazione: è stata, se vogliamo esser sinceri, l'unica sconfitta fisica e ideologica del fascismo e della reazione in questi tre anni di storia italiana. Occorre reagire energicamente contro il pessimismo di alcuni gruppi del nostro Partito, anche dei piú responsabili e qualificati. Esso rappresenta, in questo momento, il piú grave pericolo, nella situazione nuova che si sta formando nel nostro paese e che troverà la sua sanzione e la sua chiarificazione nella prima legislatura fascista. Si approssimano grandi lotte, forse piú sanguinose e pesanti di quelle degli anni scorsi: è necessaria perciò la massima energia nei nostri dirigenti, la massima organizzazione e centralizzazione della massa del Partito, un grande spirito di iniziativa e una grandissima prontezza nella decisione. Il pessimismo prende prevalentemente questo tono: - Ritorniamo a una situazione pre-Livorno, dovremo rifare lo stesso lavoro che abbiamo fatto prima di Livorno e che credevamo definitivo. Bisogna dimostrare a ogni compagno come sia errata politicamente e teoricamente questa posizione. Certo bisognerà ancora lottare fortemente: certo il compito del nucleo fondamentale del nostro Partito costituitosi a Livorno non è ancora finito e non lo sarà per un pezzo ancora (esso sarà ancora vivo e attuale anche dopo la rivoluzione vittoriosa). Ma non ci troveremo piú in una situazione pre-Livorno, perché la situazione mondiale e italiana non è, nel 1924, quella del 1920, perché noi stessi non siamo piú quelli del 1920 e non lo vorremmo mai piú ridiventare. Perché la classe operaia italiana è molto mutata e non sarà piú la cosa piú semplice di questo mondo farle rioccupare le fabbriche con, per cannoni, dei tubi di stufa, dopo averle intronato le orecchie e smosso il sangue con la turpe demagogia delle fiere massimaliste. Perché esiste il nostro Partito, che è pur qualcosa, che ha dimostrato di essere qualcosa, e nel quale noi abbiamo una fiducia illimitata, come nella parte migliore, piú sana, piú onesta del proletariato italiano. Il Mezzogiorno e il fascismo(18) Fatto saliente della lotta politica attuale italiana è il tentativo di soluzione che il Partito nazional fascista ha voluto dare dei rapporti tra Stato-governo e il Mezzogiorno. Il Mezzogiorno è diventato la riserva dell'opposizione costituzionale. Il Mezzogiorno ha manifestato ancora una volta la sua distinzione «territoriale» dal resto dello Stato, la sua volontà di non lasciarsi assorbire impunemente in un sistema unitario esasperato - che significherebbe solo accrescimento delle antiche oppressioni e dei vecchi sfruttamenti - trincerandosi dietro una serie di posizioni costituzionali parlamentaristiche, di democrazia formale, che hanno pur il loro valore e il loro significato se il Partito nazional fascista ha ritenuto opportuno, solo per decapitare il movimento dei suoi santoni Orlando, De Nicola, di dover fare le concessioni che ha fatto. Mussolini, insomma, non ha fatto altro che applicare la tattica giolittiana, in una situazione nuova, estremamente piú difficile e complicata di tutte le situazioni passate, con una popolazione che almeno parzialmente si è svegliata e ha cominciato a partecipare alla vita pubblica, in un periodo nel quale la diminuita emigrazione pone con maggiore violenza i problemi di classe che tendono a diventare problemi «territoriali» perché il capitalismo si presenta come straniero alla regione e come straniero si presenta il governo che del capitalismo amministra gli interessi. Molti compagni si domandano spesso con meraviglia il perché dell'atteggiamento di opposizione al fascismo dei due grandi giornali dell'Italia settentrionale, il Corriere della Sera e La Stampa. Non ha forse creato il fascismo la situazione che questi giornali volevano? Non hanno questi due giornali contribuito potentemente alla fortuna del fascismo negli anni 1920-21? Perché oggi lavorano in senso inverso, lavorano a togliere al fascismo la sua base popolare, a minargli il terreno sotto i piedi, mettendo lo scompiglio e orientando le masse piccolo-borghesi verso gli «ideali di libertà»? Evidentemente il Corriere della Sera e La Stampa, non sono due «puri» giornali, che tendono solo a mantenere ed allargare la cerchia dei loro abbonati e lettori insistendo su motivi cari alla mentalità della massa: se cosí fosse, a quest'ora i due giornali conoscerebbero già il ferro e la benzina delle squadre fasciste e l'«occupazione» da parte di redattori ligi ai nuovi padroni. Il Corriere e La Stampa non sono stati occupati, non si sono lasciati occupare perché non sono stati occupati e non si sono lasciati occupare questi tre ordini di «istituzioni» nazionali: - lo stato maggiore, le banche (ossia La Banca, la Banca commerciale, che esercita un incontrastato monopolio), la Confederazione generale dell'industria. La Stampa e il Corriere sono tradizionalmente i due rappresentanti di queste «istituzioni», i due partiti di queste istituzioni nazionali. La Stampa, piú «sinistra», pone oggi apertamente la quistione di un governo radicale-socialista come possibile successore del fascismo, non sarebbe neppure aliena da un esperimento «MacDonald» in Italia - la Stampa vede il pericolo meridionale e cerca di risolverlo determinando l'entrata dell'aristocrazia operaia nel sistema di egemonia governativa settentrionale-piemontese, cerca cioè di ottenere che le forze rivoluzionarie del Mezzogiorno siano decapitate nazionalmente, che diventi impossibile un'alleanza tra le masse contadine del Sud che non potranno da sole rovesciare mai il capitalismo e la classe operaia del Nord, compromessa e disonorata in una alleanza con gli sfruttatori. Il Corriere ha una concezione piú «unitaria», piú «italiana» per cosí dire - piú commerciale e meno industriale - della situazione. Il Corriere ha appoggiato Salandra e Nitti, i due primi presidenti meridionali (i presidenti siciliani rappresentavano la Sicilia e non il Mezzogiorno perché la quistione siciliana è notoriamente distinta dalla quistione del Mezzogiorno) - era favorevole all'Intesa e non alla Germania come la Stampa, è libero scambista permanentemente e non solo nei periodi elettorali-giolittiani come la Stampa, non si spaventava come la Stampa durante la guerra, che l'apparecchio statale passasse dalle mani della burocrazia massonica giolittiana nelle mani dei «pugliesi» di Salandra: - il Corriere è piú attaccato al conservatorismo, farebbe anche alleanza coi riformisti, ma solo dopo il passaggio di costoro sotto molte forche caudine; il Corriere vuole un governo «Amendola», cioè che la piccola borghesia meridionale e non l'aristocrazia operaia del Nord entri ufficialmente a far parte del sistema di forze realmente dominanti: vuole in Italia una democrazia rurale, che abbia in Cadorna il suo capo militare e non in Badoglio come vorrebbe la Stampa, che abbia a capo politico un Poincaré italiano, non un Briand italiano. Il Corriere non si spaventa come la Stampa, che si abbia nuovamente un periodo come il decennio '90-900, un periodo in cui le insurrezioni dei contadini meridionali si saldino automaticamente alle insurrezioni operaie delle città industriali, in cui ai «fasci siciliani» corrisponda un «'98 milanese»: il Corriere ha fiducia nelle «forze naturali» e nei cannoni di Bava-Beccaris. La Stampa crede che Turati-D'Aragona-Modigliani siano armi assai piú sicure dei cannoni per domare le rivolte dei contadini e per fare occupare le fabbriche occupate. Alle concezioni precise e organiche del Corriere e della Stampa, il fascismo contrappone discorsi e misure puramente meccaniche e ridicolmente coreografiche. Il fascismo è responsabile della distruzione del sistema di protezionismo operaio conosciuto col nome di «corporativismo reggiano», di «evangelismo prampoliniano», ecc. ecc. Il fascismo ha tolto ai «democratici» l'arma piú forte per far deviare sugli operai l'odio delle masse contadine che deve riversarsi sui capitalisti. Il «succhionismo rosso» non esiste piú: ma le condizioni del Mezzogiorno non sono migliorate per ciò. Al «succhionismo rosso» è successo il «succhionismo tricolore»: come evitare che il contadino meridionale veda nel fascismo la sintesi concentrata di tutti i suoi oppressori e i suoi sfruttatori? Rovesciato il castello di carta del riformismo emiliano-romagnolo, bisognò sciogliere la guardia regia, cui non si potevano piú dare a bere gli alcoolici antioperai. Gli industriali qualcosa fecero per aiutare Mussolini: la Confederazione generale dell'industria, nella sua conferenza del giugno 1923, cosí parlò per bocca del presidente on. Benni: «Cosí pure certamente andrà presto a termine un'altra azione lunga e complessa che noi abbiamo iniziato per il Mezzogiorno d'Italia. Vogliamo portare il nostro contributo, con un'azione pratica, al risorgere dell'Italia meridionale ed insulare, dove già si manifestano promettenti i primi indizi di un salutare risveglio economico. È un'opera non semplice: ma è necessario che la classe industriale ci si dedichi, perché è interesse di tutti che la compagine della nazione si amalgami ancor piú sulla base degli interessi economici». Gli industriali aiutano Mussolini con le belle parole; ma alle belle parole seguirono poco dopo dei fatti piú espressivi delle parole: - la conquista delle società cotoniere del Salernitano e il trasferimento delle macchine, camuffate da ferro vecchio, nella zona tessile lombarda. La quistione meridionale non può essere risolta dalla borghesia altro che transitoriamente, episodicamente, con la corruzione o col ferro e col fuoco. Il fascismo ha esasperato la situazione e l'ha in gran parte chiarita. Il non essersi posto con chiarezza il problema, in tutta la sua estensione e con tutte le sue possibili conseguenze politiche, ha intralciato l'azione della classe operaia e ha contribuito, in larga parte, al fallimento della rivoluzione degli anni 1919-20. Oggi il problema è ancor piú complicato e difficile che non fosse in quegli anni, ma esso rimane problema centrale di ogni rivoluzione nel nostro paese e di ogni rivoluzione che voglia avere un domani, e perciò deve essere posto arditamente e decisamente. Nell'attuale situazione, con la depressione delle forze proletarie che esiste, le masse contadine meridionali hanno assunto una importanza enorme nel campo rivoluzionario. O il proletariato, attraverso il suo Partito politico, riesce in questo periodo a crearsi un sistema di alleati nel Mezzogiorno, oppure le masse contadine cercheranno dei dirigenti politici nella loro stessa zona, cioè si abbandoneranno completamente nelle mani della piccola borghesia amendoliana, diventando una riserva della controrivoluzione, giungendo fino al separatismo e all'appello agli eserciti stranieri nel caso di una rivoluzione puramente industriale del Nord. La parola d'ordine del governo operaio e contadino deve perciò tenere speciale conto del Mezzogiorno, non deve confondere la quistione dei contadini meridionali con la quistione in generale dei rapporti tra città e campagna in un tutto economico organicamente sottomesso al regime capitalistico: la quistione meridionale è anche quistione territoriale ed è da questo punto di vista che deve essere esaminata per stabilire un programma di governo operaio e contadino che voglia trovare larga ripercussione nelle masse. Il programma de «L'Ordine Nuovo»(19) Incominciamo con una constatazione materiale: - i primi due numeri già usciti dell'Ordine Nuovo hanno avuto un diffusione (una diffusione effettiva) che è stata superiore alla piú alta diffusione raggiunta negli anni 1919-1920. Parecchie conseguenze potrebbero tirarsi da questa constatazione. Ne accenniamo due sole: 1) che una rassegna del tipo dell'Ordine Nuovo rappresenta una necessità fortemente sentita dalla massa rivoluzionaria italiana nella situazione attuale; 2) che è possibile assicurare all'Ordine Nuovo le condizioni di una vita finanziariamente autonoma dal bilancio generale del nostro Partito; occorre solo perciò organizzare il consenso che si è verificato spontaneamente, organizzarlo perché esso abbia il modo di continuare a manifestarsi anche se la reazione, come è probabile, voglia intervenire per soffocarlo, per impedire ogni collegamento tra l'Ordine Nuovo e i suoi lettori o addirittura per non permettere che la rassegna a un certo punto sia piú stampata in Italia. La diffusione raggiunta dai primi due numeri non può che dipendere dalla posizione che l'Ordine Nuovo aveva assunto nei primi anni della sua pubblicazione e che consisteva essenzialmente in ciò: 1) nell'aver saputo tradurre in linguaggio storico italiano i principali postulati della dottrina e della tattica dell'Internazionale comunista. Negli anni 1919-20 ciò ha voluto dire la parola d'ordine dei Consigli di fabbrica e del controllo sulla produzione, cioè l'organizzazione di massa di tutti i produttori per l'espropriazione degli espropriatori, per la sostituzione del proletariato alla borghesia nel governo dell'industria e quindi, necessariamente, dello Stato. 2) Nell'aver sostenuto in seno al Partito socialista, che allora voleva dire la maggioranza del proletariato, il programma integrale dell'Internazionale comunista e non solo una qualche sua parte. Perciò, al secondo Congresso mondiale, il compagno Lenin disse che il gruppo dell'Ordine Nuovo era la sola tendenza del Partito socialista che rappresentasse fedelmente l'Internazionale in Italia; perciò anche le tesi compilate dalla redazione dell'Ordine Nuovo e presentate al Consiglio nazionale di Milano dell'aprile 1920 dalla sezione di Torino, furono dal secondo Congresso indicate esplicitamente come base della riorganizzazione rivoluzionaria in Italia. Il nostro programma attuale deve riprodurre nella situazione oggi esistente in Italia, la posizione assunta negli anni 1919-20. Esso deve rispecchiare la situazione obbiettiva odierna, con le possibilità che si offrono al proletariato per una azione autonoma, di classe indipendente; deve continuare, nei termini politici attuali, la tradizione di interprete fedele e integrale del programma dell'Internazionale comunista. Il problema urgente, la parola d'ordine necessaria oggi è quella del governo operaio e contadino: si tratta di popolarizzarla, di adeguarla alle condizioni concrete italiane, di dimostrare come essa scaturisca da ogni episodio della nostra vita nazionale, come essa riassuma e contenga in sé tutte le rivendicazioni della molteplicità di partiti e di tendenze in cui il fascismo ha disgregato la volontà politica della classe operaia ma specialmente delle masse contadine. Ciò naturalmente non significa che noi si debba trascurare le quistioni piú propriamente operaie e industriali, tutt'altro. L'esperienza, anche in Italia, ha dimostrato quale importanza; nel periodo attuale, abbiano assunto le organizzazioni di fabbrica; dalla cellula di Partito fino alla Commissione interna, alla rappresentanza di tutta la massa. Crediamo, per esempio, che oggi non esista neppure un riformista che voglia sostenere che nelle elezioni di fabbrica hanno diritto al voto solo gli organizzati; chiunque ricordi le lotte che fu necessario condurre intorno a questo punto, ha un elemento per misurare il progresso che l'esperienza ha costretto anche i riformisti a fare. Tutti i problemi dell'organizzazione di fabbrica saranno dunque da noi rimessi in discussione, perché solo attraverso una potente organizzazione del proletariato, raggiunta con tutti i sistemi possibili in regime di reazione, la campagna per il governo operaio e contadino può non trasformarsi in una ripetizione dell'...occupazione delle fabbriche. Nell'articolo Contro il pessimismo pubblicato nel numero scorso abbiamo accennato alla linea che il nostro Partito deve tenere nei suoi rapporti coll'Internazionale comunista. Quell'articolo, non fu l'espressione di un solo individuo, ma il risultato di tutto un lavoro di affiatamento e di scambio di opinioni tra i vecchi redattori e amici dell'Ordine Nuovo; prima di essere un inizio fu dunque la risultante del pensiero di un gruppo di compagni, ai quali non si può negare certamente di conoscere per esperienza diretta e per lunga consuetudine di lavoro attivo i bisogni del nostro movimento. L'articolo ha suscitato qualche reazione che non ci ha meravigliato, perché è ineluttabile che tre anni di terrorismo e quindi di assenza di grandi discussioni abbiano creato, anche fra ottimi compagni, un certo spirito settario di frazione. Questa constatazione potrebbe dar luogo a tutta una serie di conseguenze: la piú importante ci pare quella della necessità di tutto un lavoro per far raggiungere alle masse del nostro Partito un livello politico uguale a quello raggiunto dai piú grandi partiti dell'Internazionale. Noi siamo oggi, relativamente, per le condizioni create dal terrore bianco, un piccolo partito, ma dobbiamo considerare la nostra attuale organizzazione, date le condizioni in cui vive e si sviluppa, come l'elemento destinato a inquadrare un grande partito di massa. Da questo punto di vista dobbiamo vedere tutti i nostri problemi e giudicare anche i singoli compagni. Si paragona spesso il periodo fascista al periodo della guerra. Ebbene: una delle debolezze del Partito socialista fu quella di non aver curato durante la guerra il nucleo di 20-25.000 socialisti rimasti fedeli, di non averlo considerato come l'elemento organizzatore della grande massa che sarebbe affluita dopo l'armistizio. Cosí avvenne che nel 1919-20 questo nucleo fu sommerso dal fiotto dei nuovi elementi e fu sommersa insieme la pratica organizzativa, l'esperienza acquistata dalla classe operaia negli anni piú neri e duri. Noi saremmo dei criminali se cadessimo nello stesso errore. Ognuno dei membri attuali del Partito, per la selezione che è avvenuta, per la forza di sacrifizio che è stata dimostrata, ci deve essere personalmente caro, deve essere dal Centro responsabile aiutato a migliorarsi, a trarre dalle esperienze attraversate tutti gli insegnamenti e tutte le indicazioni che comportano. In questo senso l'Ordine Nuovo si propone di compiere una speciale funzione nel quadro generale dell'attività di Partito. Occorre dunque organizzare il consenso che si è già manifestato. È questo il compito specialmente dei vecchi amici e abbonati dell'Ordine Nuovo. Abbiamo detto che occorrerà raccogliere in sei mesi 50.000 lire, somma necessaria per garantire la vita indipendente della rassegna. A questo scopo è necessario si determini un movimento di 500 compagni ognuno dei quali si proponga seriamente di raccogliere 100 lire in sei mesi nella cerchia dei suoi amici e conoscenti. Noi terremo una lista esatta di questi elementi che vogliono collaborare alla nostra attività: essi saranno come i nostri fiduciari. La raccolta delle sottoscrizioni può essere composta cosí: 1) sottoscrizioni spicciole, di pochi soldi o di molte lire; 2) abbonamenti sostenitori; 3) quote per sostenere le spese iniziali di un corso per corrispondenza di organizzatori e propagandisti del Partito: queste quote non potranno essere inferiori alle 10 lire e daranno diritto ad avere un numero di lezioni che sarà determinato dalle spese complessive di stampa e di porto. Crediamo di potere, attraverso questo meccanismo, ricreare un apparecchio che sostituisca quello esistente nel 1919-20 in regime di libertà e attraverso cui l'Ordine Nuovo si manteneva strettamente a contatto con le masse nelle fabbriche e nei circoli operai. Il corso per corrispondenza deve diventare la prima fase di un movimento per la creazione di piccole scuole di Partito, atte a creare degli organizzatori e dei propagandisti bolscevichi, non massimalisti, che abbiano cioè cervello, oltre polmoni e gola. Perciò ci terremo sempre in corrispondenza epistolare coi migliori compagni, per comunicare loro le esperienze che in questo campo sono state fatte in Russia e negli altri paesi, per indirizzarli, per consigliare i libri da leggere e i metodi da applicare. Crediamo che in questo senso molto debbano lavorare specialmente i compagni emigrati: dovunque esiste all'estero un gruppo di 10 compagni deve sorgere una scuola di Partito: gli elementi piú anziani e piú pratici devono essere gli istruttori di queste scuole, far partecipi i piú giovani della loro esperienza, contribuire a elevare il livello politico della massa. Certo non è con questi mezzi pedagogici che può essere risolto il grande problema storico della emancipazione spirituale della classe operaia: ma non è la risoluzione utopistica di questo problema che noi ci proponiamo. Il nostro compito si limita al Partito, costituito di elementi che già, per il solo fatto di aver aderito al Partito, hanno dimostrato di aver raggiunto un notevole grado di emancipazione spirituale: il nostro compito è quello di migliorare i nostri quadri, di renderli idonei ad affrontare le prossime lotte. Praticamente queste si presenteranno anche in questi termini: la classe operaia, resa prudente dalla reazione sanguinosa, per un certo tempo diffiderà nel suo complesso degli elementi rivoluzionari, vorrà vederli al lavoro pratico, vorrà saggiarne la serietà e la competenza. Dobbiamo metterci in grado di battere anche su questo terreno i riformisti, che indubbiamente sono il partito che ha oggi i quadri migliori e piú numerosi. Se non cercheremo di ottenere ciò, non faremo mai molti passi in avanti. I vecchi amici dell'Ordine Nuovo, specialmente quelli che hanno lavorato a Torino negli anni 1919-20, comprendono bene tutta l'importanza di questo problema, perché ricordano come a Torino si sia riusciti a eliminare i riformisti dalle posizioni organizzative solo a mano a mano che dal movimento dei Consigli di fabbrica si formavano dei compagni operai capaci di lavoro pratico e non solamente di gridare: Viva la Rivoluzione! Ricordano anche come nel 1921 non sia stato possibile togliere agli opportunisti alcune posizioni importanti come Alessandria, Biella, Vercelli, perché noi non avevamo elementi organizzativi all'altezza dei compiti; le nostre maggioranze in questi centri si sono disperse per la nostra debolezza organizzativa. Viceversa: in qualche centro, per esempio a Venezia, bastò un solo elemento capace, per farci conquistare la maggioranza dopo un solerte lavoro di propaganda e di organizzazione delle cellule di fabbrica e di sindacato. L'esperienza di tutti i paesi dimostrò questa verità; che le situazioni piú favorevoli possono capovolgersi per la debolezza dei quadri del partito rivoluzionario: le parole d'ordine servono solo per far entrare in movimento e dare l'indirizzo generale alle grandi masse; guai però se il partito responsabile non ha pensato alla organizzazione pratica di esse, a creare una struttura che le disciplini e le renda permanentemente potenti: l'occupazione delle fabbriche ci ha insegnato molte cose in questo senso. Per aiutare le scuole di Partito nel loro lavoro ci proponiamo di pubblicare tutta una serie di opuscoli e qualche libro. Tra gli opuscoli indichiamo: 1° delle trattazioni elementari del marxismo; 2° una esposizione della parola d'ordine del governo operaio e contadino applicata all'Italia; 3° un manualetto del propagandista, che contenga i dati piú essenziali sulla vita economica e politica italiana, sui partiti politici italiani, ecc., i materiali indispensabili cioè per la propaganda spicciola fatta alla lettura in comune dei giornali borghesi. Vorremmo fare una edizione italiana del Manifesto dei Comunisti con le note del compagno D. Riasanof: nel loro complesso queste note sono una trattazione completa in forma popolare delle nostre dottrine. Vorremmo anche stampare una antologia del materialismo storico, cioè una raccolta dei brani piú significativi di Marx ed Engels che diano un quadro d'insieme delle opere di questi due nostri grandi maestri. I risultati finora ottenuti autorizzano a sperare che si potrà continuare con sicurezza e con successo. Al lavoro dunque: i nostri migliori compagni devono persuadersi che si tratta anche di una affermazione politica, di una manifestazione della vitalità e della capacità di sviluppo del nostro movimento, di una dimostrazione, quindi, antifascista e rivoluzionaria. Problemi di oggi e di domani(20) Da un vecchio abbonato e amico dell'Ordine Nuovo abbiamo ricevuto questa lettera: Mi pare che il nostro disaccordo sia specialmente di ordine cronologico: accetto una gran parte di ciò che lei mi scrive, ma come soluzioni di problemi che si presenteranno dopo la caduta del fascismo; è utilissimo studiarli e prepararsi ad affrontarli; ma i problemi di oggi sono assai diversi. Parliamo di questo. Confermo la mia opinione che la classe operaia è completamente assente alla vita politica; e non posso che concludere che il Partito comunista, oggi, non può far niente o quasi niente di positivo. La situazione somiglia, in modo impressionante, - a quella del 1916-17 ed anche il mio stato d'animo, che lei mi dice comune agli altri amici che le scrivono. Le mie opinioni politiche sono immutate, peggio, mi ci sono irrigidito; proprio, come mi ero irrigidito, fino al 1917, nel socialismo pacifista del 1914-15, da cui mi tolse la scoperta, fatta dopo Caporetto e la Rivoluzione russa, di novembre, che i fucili erano precisamente in mano degli operai-soldati. Disgraziatamente l'analogia non arriva fino a questo punto; ma come allora, pur rendendoci conto, ragionando, che la guerra doveva pur finire un giorno, tutti si «sentiva» che non sarebbe mai finita e non si vedeva come avrebbe potuto venire la pace - cosí è oggi per il fascismo. Mi ci vuole poco sforzo per accogliere la sua opinione che questo stato di cose non può durare e che gravi avvenimenti sono imminenti; è perfettamente logico, ma non lo si «sente», né si «vede». Non ci sarà la possibilità di un'azione politica operaia fino a che i problemi concreti che si presentano ad ogni operaio dovranno essere risolti individualmente e privatamente, come è oggi: c'è da salvare il posto, la paga, la casa e la famiglia: il sindacato e il Partito non possono dare alcun aiuto, anzi tutt'altro; si ottiene un po' di pace solo facendosi piú piccoli possibile, polverizzandosi; e aumenta un po' la paga, lavorando molto e cercando dei lavori straordinari, facendo concorrenza agli altri operai, ecc.: la vera negazione del Partito e del sindacato. La crisi economica si è ormai attenuata tanto che se ci fosse un minimo di libertà sindacale e di ordine pubblico, sarebbe possibile la ripresa delle organizzazioni, degli scioperi, ecc. (come per es. in Inghilterra). La questione urgente, pregiudiziale a qualsiasi altra, è quella della «libertà» edell'«ordine»: dopo verranno le altre, ma per ora non possono neppure interessare gli operai. Ora, un alleggerimento della pressione fascista non credo possa essere ottenuto dal Partito comunista: è il momento delle opposizioni democratiche e mi par necessario lasciarle fare e magari aiutarle. È necessario prima di tutto, una «rivoluzione borghese», che permetterà poi lo svolgersi di una politica operaia. In sostanza mi sembra che, come durante la guerra, non ci sia altro da fare se non aspettare che passi. Vorrei sapere la sua opinione a questo proposito. Non mi sembra che la mia sia inconciliabile coll'essere comunista, sia pure indisciplinatamente: la funzione che attribuisco alle «sinistre» si svolgerà, credo, molto rapidamente, e non converrebbe certo al PC di compromettersi con esse, anche perché non porterebbe alcun contributo ad una campagna di tal genere. Ma mi pare che sia anche un errore il mettersi apertamente contro di esse e insistere troppo (come fa per es. l'Unità) nella derisione della «libertà» borghese: bella o brutta, è la cosa di cui piú fortemente sentono oggi il bisogno gli operai ed è il presupposto di ogni conquista ulteriore. Proprio come durante la guerra il neutralismo non era certo una politica socialista: ma è certo stata la migliore politica, fra quelle possibili, per il Partito socialista, perché era la piú sentita dalle masse. Il PC non può, per la contraddizione, far la campagna per la libertà e contro la dittatura in genere: ma commette un grave errore quando dà l'impressione di sabotare un'alleanza delle opposizioni, come ha fatto con la precipitosa dichiarazione di partecipazione alla lotta elettorale, quando gli altri partiti fingevano di minacciare l'astensione. La sua funzione è, per ora, quella della mosca cocchiera, perché, dopo, sarà necessario per un partito di massa essersi distinto nella lotta contro il fascismo: ancora, come durante la guerra. E intanto sarà bene che, approfittando di quella esperienza, si prepari un programma concreto per dopo: allora certo sarà in primo piano la quistione meridionale e quella dell'unità. Ma non oggi: la battaglia dei fascisti per avere nella lista Orlando e C. non credo abbia il significato da lei attribuitole: può essere spiegata piú semplicemente come un ovvio espediente elettorale, necessario per evitar un fiasco: questa spiegazione è anche piú degna del prefetto di Napoli e di Mussolini. Lei dice esattamente che il fascismo sta disgregando l'unità dello Stato e la quistione è attuale e urgente; ma non credo sia del genere che lei dice, mi sembra piú che una questione sociale, un problema di polizia. Il fatto sta che il fascismo paga i suoi aderenti, piú che con denaro, con briciole di autorità dello Stato, col permesso di far prepotenze, per passatempo e per interesse privato: il rimedio si troverà in una polizia efficiente e indipendente dai ras, non importa poi se centralizzata o locale. Insomma si torna alla questione dell'ordine pubblico, non a quella territoriale. Ho visto con commozione vera il primo numero dell'Ordine Nuovo. Io spero che, come già nel '19, saprà trovare la parola d'ordine che oggi manca e che occorre. Spero anche saprà fare il processo al passato: ma non per determinare le colpe e i meriti degli individui e dei partiti, non per ripetere «io l'avevo detto»; soprattutto non il processo agli avversari, ma a se stessi e ai propri compagni, che è piú utile, ed è il solo che renda utile l'esperienza; ci vuol certo molto coraggio per farsi una auto-autopsia, ma il vecchio Ordine Nuovo forse l'avrà. - S. Elementi liquidatori Sono contenuti in questa lettera tutti gli elementi necessari e sufficienti per liquidare una organizzazione rivoluzionaria come è e deve essere il nostro Partito. Eppure tale non è l'intenzione dell'amico S., il quale, quantunque non iscritto, quantunque viva ai margini del nostro movimento e della nostra propaganda, ha fede nel nostro Partito e lo ritiene il solo capace di risolvere permanentemente i problemi posti e la situazione creata dal fascismo. È puramente personale la posizione che nella lettera viene assunta? Non crediamo. Essa non può non essere la posizione di una larga cerchia di intellettuali che negli anni 1919-20 simpatizzavano con la rivoluzione proletaria e che in seguito non hanno voluto prostituirsi al fascismo trionfante, essa è anche, incoscientemente, la posizione di una parte dello stesso proletariato, anche di compagni del Partito, che non hanno saputo resistere allo stillicidio quotidiano degli avvenimenti reazionari, nello stato di isolamento e di dispersione loro creato dal terrore fascista: ciò appare da tutta una serie di fatti ed è confessato apertamente dalla corrispondenza privata. L'amico S. non si pone dal punto di vista di un partito organizzato: gli sfuggono perciò le sue conseguenze e le molte contraddizioni in cui cade e giunge quindi fino all'assurdo, mettendo cosí in chiaro egli stesso la debolezza e la falsità dei suoi ragionamenti. S. crede che l'avvenire sarà del nostro Partito. Ma come potrebbe continuare ad esistere, come potrebbe svilupparsi il Partito comunista - come cioè potrebbe trovarsi in grado, dopo la caduta del fascismo, di dominare e guidare gli avvenimenti, se oggi si annientasse nell'atteggiamento di assoluta passività prospettato dallo stesso S.? La predestinazione non esiste per gli individui e tanto meno per i partiti: esiste solo l'attività concreta, il lavoro ininterrotto, la continua adesione alla realtà storica in isviluppo, che dànno agli individui e ai partiti una posizione di preminenza, un ufficio di guida e di avanguardia. Il nostro Partito è una frazione organizzata del proletariato e della massa contadina, delle classi che oggi sono oppresse e schiacciate dal fascismo; se il nostro Partito non trovasse anche per oggi soluzioni autonome, proprie, dei problemi generali, italiani, le classi che sono la sua base naturale si sposterebbero nel loro complesso verso le correnti politiche che di tali problemi diano una qualsiasi soluzione che non sia quella fascista. Se ciò avvenisse, il fatto avrebbe un immenso significato storico, vorrebbe dire che l'attuale non è un periodo rivoluzionario socialista, ma che viviamo ancora in un'epoca di sviluppo borghese capitalistico, che non solo mancano le condizioni soggettive, di organizzazione, di preparazione politica, ma anche quelle oggettive, materiali per l'avvento del proletariato al potere. Allora veramente si porrebbe anche a noi il problema di assumere non una posizione autonoma rivoluzionaria, ma di semplice frazione radicale delle opposizioni costituzionali, chiamate dalla storia ad essere le realizzatrici della «rivoluzione borghese», di una tappa cioè, imprescindibile e inevitabile del processo che sboccherà nel socialismo. La situazione italiana autorizza forse a credere ciò? Lo stesso S. non lo crede, perché scrive che il compito delle opposizioni costituzionali sarà cronologicamente brevissimo, senza immediati sviluppi, altro che per una rivoluzione proletaria. S. si riferisce al periodo della guerra, pone come esemplare l'atteggiamento del Partito socialista durante la guerra. Quanto assurdo sia tale riferimento e come esso dia torto al suo autore, appare subito, anche dopo una piccola e affrettata analisi. Il neutralismo socialista fu una tattica essenzialmente opportunista, dettata dal tradizionale bisogno di tenere in equilibrio le tre tendenze di cui il Partito si componeva, che indicheremo coi tre nomi di Turati, Lazzari, Bordiga, niente altro: essa non fu una linea politica stabilita dopo un esame delle circostanze e dei rapporti di forza esistenti in Italia nel 1914-15, essa risultò dalla concezione dell'«unità del Partito sopra tutto, anche sopra la rivoluzione» che è propria ancora del massimalismo. Che l'amico S. abbia, solo dopo la rivoluzione di novembre e la rotta di Caporetto, fatta la scoperta che le armi erano nelle mani degli operai-soldati, dimostra solo come questa tattica opportunistica avesse lasciato all'oscuro le masse socialiste sulle discussioni che erano già avvenute a questo proposito nel campo internazionale. La sinistra di Zimmerwald aveva fin dal 1915 fatta questa «scoperta», che aveva determinato la tattica del Partito bolscevico russo: perciò alla rotta degli eserciti russi, dopo le offensive imposte al governo di Kerensky dall'Intesa, seguí la rivoluzione proletaria, la trasformazione della guerra imperialista in guerra civile; alla rotta di Caporetto seguí solo una mozione in cui ci si limitava a riaffermare l'opposizione parlamentare al governo e il rigetto dei crediti militari. L'atteggiamento tenuto durante la guerra dal Partito socialista italiano illumina anche gli avvenimenti posteriori fino al Congresso di Livorno, fino al Congresso socialista di Roma e alla formazione del Partito unitario. È la stessa tattica, in fondo, che si riveste di nuovi aspetti, per la nuova situazione: la stessa tattica di passività, di «neutralismo», dell'unità per l'unità, del partito per il partito, della fede nella predestinazione del Partito socialista a essere il Partito dei lavoratori italiani. Quali risultati questo atteggiamento abbia oggi, quando esistono il Partito unitario a destra e il Partito comunista a sinistra, è chiaro anche per l'amico S.; crisi interne in permanenza, scissioni dopo scissioni, che non risolvono mai la situazione, perché la tendenza comunista rinasce continuamente e la destra, favorevole alla fusione con gli unitari, continuamente si rafforza. Residui di vecchie ideologie L'amico S. non è ancora riuscito a distruggere in sé tutti gli avanzi ideologici della sua formazione intellettuale democratico-liberale, cioè normativa e kantiana, non marxista, e dialettica. Che significato hanno le sue affermazioni che la classe operaia è «assente», che la situazione è contraria al sindacato e al Partito, che la violenza fascista è un problema di «ordine», cioè di «polizia» e non un problema «sociale»? La situazione italiana è certamente complicata e contraddittoria, ma non tanto che non si possano già cogliere in essa delle marcate linee unitarie di sviluppo. Il proletariato, cioè la classe rivoluzionaria per eccellenza, è la minoranza del popolo lavoratore oppresso e sfruttato dal capitalismo ed è accentrato prevalentemente in una sola zona, quella settentrionale. Negli anni 1919-20 la forza politica del proletariato consisteva nel trovarsi automaticamente alla testa di tutto il popolo lavoratore, nel centralizzare obbiettivamente nella sua azione diretta e immediata contro il capitalismo tutte le rivolte degli altri strati popolari, amorfi e senza indirizzo. La sua debolezza si dimostrò nel non aver organizzato questi rapporti rivoluzionari, nel non essersi neppure posto il problema della necessità di organizzare questi rapporti in un sistema politico concreto, in un programma di governo. La repressione fascista seguendo la linea del minimo sforzo, è incominciata da questi altri strati sociali ed è culminata contro il proletariato. Oggi la repressione sistematica e legale si mantiene contro il proletariato, si è invece allentata alla periferia, contro gli strati che nel 1920 gli erano solo oggettivamente alleati, e che si riorganizzano, rientrano parzialmente nella lotta, assumendo il carattere smorzato di opposizione costituzionale, cioè il loro piú spiccato carattere piccolo-borghese. Cosa significa dunque che la classe operaia è «assente»? La «presenza» della classe operaia, cosí come l'amico S. l'intende, significherebbe la rivoluzione, perché significherebbe di nuovo, come nel '19-'20, che a capo del popolo lavoratore stanno non i piccoli borghesi democratici, ma la classe piú rivoluzionaria della nazione. Ma il fascismo è appunto la negazione di tale stato di cose, il fascismo è nato e si è sviluppato appunto per distruggere un tale stato di cose e per impedire che risorga. Come si pone dunque il problema oggi? A noi pare che si ponga in questi termini: - La classe operaia è e rimarrà ancora «assente» nella misura in cui il Partito comunista permetterà alle opposizioni costituzionali di monopolizzare il risveglio alla lotta degli strati sociali che storicamente sono gli alleati del proletariato. Il sorgere e il rafforzarsi delle opposizioni costituzionali infonde nuova forza nel proletariato, che di nuovo affluisce nel Partito e nei sindacati. Se il Partito comunista interviene attivamente nel processo di formazione delle opposizioni, lavora per determinare nella base sociale delle opposizioni una differenziazione di classi, ottenendo che le masse contadine si orientino verso un programma di governo operaio e contadino, ecco che il proletariato non è piú «assente» come prima, ecco una linea di lavoro politico in cui si risolvono i problemi di oggi e quelli di domani, in cui si prepara e si organizza il domani e non solo lo si aspetta dal destino. Questa linea di lavoro politico è dunque contraria tanto alle opposizioni costituzionali quanto al fascismo, anche se l'opposizione costituzionale sostenga un programma di libertà e di ordine che sarebbe preferibile a quello di violenza e di arbitrio del fascismo. La verità è che l'opposizione costituzionale non attuerà mai il suo programma che è un puro strumento di agitazione contro il fascismo: non lo attuerà perché esso vorrebbe dire a breve scadenza che una tale «catastrofe» si verifichi e non lo attuerà perché tutto lo sviluppo della situazione è controllato in Italia dalla forza armata della Milizia nazionale. Lo sviluppo dell'opposizione e i caratteri che essa assume sono tuttavia fenomeni molto importanti, sono i documenti della impotenza del fascismo a risolvere i problemi vitali della nazione, sono un richiamo quotidiano alla realtà obbiettiva che nessuna raffica di male parole può annientare. Per noi rappresentano l'ambiente in cui dobbiamo muoverci e lavorare, se vogliamo rimanere aderenti alla realtà storica e non diventare una sètta di contemplativi, in cui dobbiamo ricercare la concretezza delle nostre parole d'ordine e dei nostri programmi immediati di azione e di agitazione. Tre punti riassuntivi Possiamo riassumere cosí i punti della nostra concezione dei bisogni e dei compiti attuali del movimento proletario in contrapposizione a quella dell'amico S.: 1) Dare al nostro Partito una coscienza piú viva dei problemi concreti che la situazione creata dal fascismo ha posto alla classe operaia, in modo che l'organizzazione non sia fine a se stessa ma diventi uno strumento per l'agitazione delle parole d'ordine rivoluzionarie in mezzo alle piú larghe masse; 2) lavorare per l'unità politica del proletariato sotto la bandiera dell'Internazionale comunista, affrettando il processo di scomposizioni e ricomposizioni iniziate al Congresso di Livorno; 3) stabilire concretamente il significato italiano della parola del governo operaio e contadino, dare a questa parola una sostanza politica nazionale, ciò che non può avvenire se non si esaminano i problemi piú vitali e urgenti delle masse contadine, in prima linea quindi i problemi specifici che si riassumono nell'espressione generale di «quistione meridionale». Gli intellettuali come l'amico S., che non si sono lasciati travolgere dal fascismo, che in un modo o nell'altro non hanno voluto rinnegare il loro atteggiamento degli anni '19-'20, possono nuovamente trovare nell'Ordine Nuovo un centro di discussione e di raccoglimento. La crisi della piccola borghesia(21) La crisi politica determinata dall'assassinio dell'on. Matteotti è tuttora in pieno sviluppo e non si può ancora dire quali saranno i suoi sbocchi conclusivi. Essa presenta aspetti diversi e molteplici. Rileviamo innanzi tutto la lotta che si è riaccesa intorno al governo fra forze avverse del mondo plutocratico e finanziario per la conquista da parte degli uni e la conservazione da parte degli altri di un'influenza predominante nel governo dello Stato. Alla oligarchia finanziaria facente capo alla Banca commerciale si contrappongono quelle forze che un tempo si raccoglievano intorno alla fallita Banca di sconto ed oggi tendono a ricostituire un proprio organismo finanziario che dovrebbe scalzare la predominante influenza della prima. La loro parola d'ordine è «costituzione di un governo di ricostruzione nazionale», con la eliminazione della zavorra (si intendono i patrocinatori dell'attuale politica finanziaria). Si tratta in sostanza di un gruppo di pescicani non meno nefasti degli altri, che sotto la maschera dell'indignazione per l'assassinio di Matteotti ed in nome della «giustizia», muovono all'arrembaggio delle casse dello Stato. Il momento è buono e naturalmente cercano di non lasciarlo sfuggire. Dal punto di vista della classe operaia il fatto piú importante è però un altro, e precisamente la ripercussione fortissima che gli avvenimenti di questi giorni hanno avuto nei ceti medi e piccolo-borghesi: la crisi della piccola borghesia precipita. Se si tien conto delle origini e della natura sociale del fascismo si comprenderà l'importanza enorme di questo elemento che viene a sgretolare le basi della dominazione fascista. Questo improvviso e radicale spostamento dell'opinione pubblica, polarizzatasi intorno ai partiti della cosiddetta «opposizione costituzionale», pone questi partiti in prima fila nella lotta politica: essi devono rendersi conto, come alcuni strati della stessa classe operaia, delle necessità e delle condizioni che tale lotta impone. Nel campo operaio non è mancata la immediata ripercussione di questo spostamento di forze: il proletariato ha oggi la sensazione di non essere piú isolato nella lotta contro il fascismo e ciò, oltre all'immutato spirito antifascista che lo anima, determina nell'animo suo la convinzione che la dittatura fascista potrà essere abbattuta, ed entro un periodo di tempo assai piú breve di quanto non si sia pensato per il passato. Il fatto che la rivolta morale della popolazione tutta contro il fascismo nella classe operaia si è manifestata con, sia pure parziali scioperi, come forma energica della lotta; l'aver sentito il bisogno e l'aver ritenuto possibile sotto certe condizioni lo sciopero generale nazionale contro il fascismo, dimostra che la situazione va mutando con una rapidità del tutto imprevista. Chi ha dei dubbi in proposito vada fra gli operai e sentirà come sono accolti i malinconici comunicati della Confederazione generale del lavoro imploranti la calma, nei quali si definiscono «elementi irresponsabili» ed «agenti provocatori» quanti fanno propaganda per l'azione: questo linguaggio eravamo abituati un tempo a leggerlo nei comunicati polizieschi... Dall'atteggiamento e dalla condotta dei vari partiti schierati oggi sul fronte della lotta antifascista si può subito fare una prima constatazione: l'impotenza dell'opposizione costituzionale. Questi partiti, nel passato, con l'opposizione al fascismo tendevano evidentemente ad attirare a sé la piccola borghesia ed in parte quegli strati della borghesia che, vivendo ai margini della plutocrazia dominante, risentono in parte le conseguenze del suo predominio assoluto e schiacciante nella vita economica e finanziaria del paese. Essi tendono verso sistemi meno dittatoriali di governo. Questi partiti oggi possono dire di aver raggiunto lo scopo, che costituisce per loro la premessa per condurre a fondo la lotta contro il fascismo. La loro azione, però, che nella situazione attuale dovrebbe avere un valore decisivo, si mostra incerta, equivoca ed insufficiente. Essa riflette in sostanza l'impotenza della piccola borghesia ad affrontare da sola la lotta contro il fascismo, impotenza determinata da un complesso di ragioni, dalle quali deriva altresí l'atteggiamento caratteristico di questi ceti eternamente oscillanti fra il capitalismo ed il proletariato. Essi coltivano l'illusione di risolvere la lotta contro il fascismo sul terreno parlamentare, dimenticando che la natura fondamentale del governo fascista è quella di una dittatura armata, nonostante tutti i ciondoli costituzionali che cerca di appiccicare alla Milizia nazionale. Questa d'altronde non ha eliminato l'azione dello squadrismo e dell'illegalismo: il fascismo nella sua vera essenza è costituito dalle forze armate operanti direttamente per conto della plutocrazia capitalistica e degli agrari. Abbattere il fascismo significa in definitiva, schiacciare definitivamente queste forze e ciò non si può ottenere che sul terreno dell'azione diretta. Qualsiasi soluzione parlamentare sarà impotente. Qualunque sia il carattere del governo che da tale soluzione potesse derivare, si tratti del rimpasto del governo di Mussolini o dell'avvento di un governo cosiddetto democratico (ciò che d'altronde è assai difficile) nessuna garanzia potrà avere la classe operaia che i suoi interessi ed i suoi diritti piú elementari saranno tutelati, anche nei limiti consentiti da uno Stato borghese e capitalista, fino a quando quelle forze non saranno eliminate. Per ottenere ciò, occorre lottare contro di esse sul terreno su cui è possibile vincere sul serio e cioè sul terreno dell'azione diretta. Sarebbe un'ingenuità affidare questo compito allo Stato borghese, sia pure liberale e democratico, il quale non esiterebbe a ricorrere al loro aiuto nel caso non si sentisse abbastanza forte per difendere il privilegio della borghesia e mantener soggetto il proletariato. Da tutto ciò deriva la conclusione che una reale opposizione al fascismo può essere condotta solo dalla classe operaia. I fatti dimostrano quanto fosse rispondente a realtà la posizione da noi assunta in occasione delle elezioni generali, opponendo all'opposizione costituzionale l'«opposizione operaia» come la sola base reale ed efficace per abbattere il fascismo. Il fatto che forze non operaie confluiscano sul fronte della lotta antifascista, non cambia la nostra affermazione secondo la quale la classe operaia è la sola classe che possa e debba essere la guida direttiva in questa lotta. La classe operaia deve trovare però la sua unità nella quale essa ritroverà tutta la forza necessaria per affrontare la lotta. Da ciò la proposta del Partito comunista a tutti gli organismi proletari per uno sciopero generale, contro il fascismo; da ciò il nostro atteggiamento, di fronte agli impotenti piagnistei socialdemocratici. Sí, l'ora della coerenza(22) Torna di nuovo l'accusa di settarismo nelle gazzette della socialdemocrazia, rivolta all'atteggiamento dei comunisti nei riguardi dell'assassinio di Giacomo Matteotti. Questa accusa di settarismo non è però nuova ai comunisti. La socialdemocrazia di tutti i paesi, per sottrarsi ai suoi impegni contratti con le masse lavoratrici, non ha trovato mai migliore espediente, nella sua lotta contro il proletariato rivoluzionario, che quello di mostrare come fatui «acchiappa nuvole» i socialisti marxisti rivoluzionari, cioè i comunisti, che credono al Marx della I Internazionale dei lavoratori e non a quello che in nome della socialdemocratica repubblica tedesca tratta gli affari degli eredi di Stinnes. Ma quali acchiappanuvole fossero i comunisti e continuino oggi ad esserlo lo hanno dimostrato e lo dimostrano i comunisti russi, che da sette anni dirigono il primo Stato proletario, il piú vasto del mondo per territorio e popolazione. Che cosa hanno dimostrato di saper fare invece i «pratici» della socialdemocrazia arrivati al potere? In sette mesi di governo il presidente della II Internazionale, il signor MacDonald, non ha gestito piú o meno bene che gli affari dell'odiatissimo capitalismo borghese. E questo lo dice quel terribile... comunista che è l'ex premier inglese, Lloyd George. In Germania, il socialdemocratico Ebert non ha saputo in diversi anni di potere che gettare la rena su tutti i trattati e i provvedimenti che stabiliscono l'affamamento degli operai tedeschi, condannati oggi a dieci ore di lavoro ed a salari insufficienti rispetto all'alto costo della vita. È tutto quanto hanno fatto i socialdemocratici su scala internazionale per meritare il titolo di strateghi della lotta operaia contro il capitalismo. E non ricordiamo neppure oggi che ricorre il decimo anniversario della guerra le responsabilità della socialdemocrazia nel prolungamento dell'ultima guerra, nella preparazione dell'altra che si avvicina, ad onta, anzi a motivo dello stesso proclamato socialpacifismo internazionale. Settari? Acchiappanuvole? L'organo della socialdemocrazia italiana non ci sgomenta per questo. Noi sappiamo quello che vogliamo ed è appunto questa nostra chiarezza che sconcerta e turba le nebulose costruzioni politiche del socialriformismo. Il quale, sapendo però di non essere creduto dagli operai, ricorre alla calunnia e all'insinuazione. Esso ci dice: «Cosa vogliono mai i comunisti dalle opposizioni se ne sono fuori, se tutto attendono dalla classe operaia, dall'assalto finale, eccetera? Perché screditare le opposizioni con proposte e domande, che le opposizioni conoscono, ma che non potranno ricevere una soluzione se non quando le opposizioni avranno vinto?». E da questo si conclude che i comunisti, per coerenza, dovrebbero fare il piacere di non chiedere nulla alle opposizioni. Conosciamo per esperienza il valore di queste argomentazioni. Anzitutto un chiarimento sul significato della proposizione che i comunisti attendono tutto dalla classe operaia. Certo è cosí. Solo la classe operaia possiede la forza e la capacità di guidare la lotta contro il fascismo. Questo non esclude che la classe operaia debba utilizzare tutte le incrinature che si manifestano nel muro avversario e che nella lotta contro la dittatura armata del capitalismo possa e debba trovare degli alleati. Gli operai russi, nel fare la rivoluzione e nel difenderla dagli assalti capitalistici, si sono alleati ai contadini e di questa alleanza hanno fatto la base del potere soviettista. La politica estera della classe operaia russa, organizzata in classe dominante, verso gli Stati capitalistici nemici è tutta rivolta a sfruttarne gli antagonismi e le diverse contraddizioni interne a favore della rivoluzione mondiale. Il nostro «classismo... di marca fascista», come pretende la Giustizia, si basa sull'esperienza di un grande Stato proletario diretto per la prima volta nella storia dalla classe operaia, com'è l'esempio della Russia soviettista, dove tutti sanno gl'immensi privilegi di cui gode il capitalismo. Ammettere dunque che la classe operaia deve utilizzare tutte le incrinature che si appalesano nella muraglia avversaria e non rifiutare alcun alleato per rovesciarla vuol dire anzitutto riconoscere due fatti: che bisogna rovesciare questa muraglia e che per rovesciarla è necessario la direzione della lotta l'abbia la classe operaia. Ora, cosa fanno i nostri accusatori? Accettano la prima parte, ma ne dimenticano la seconda. Si ammette cioè la necessità del metodo, ma questo è impiegato non a dare alla classe operaia la sua libertà, ma a mettere le forze della classe operaia al servizio del suo stesso avversario. Brevemente: si deve lottare contro il fascismo. L'unità di fronte contro il fascismo deve crearsi nelle classi sfruttate e deve raggiungersi sotto la direzione della classe operaia. Solo le classi sfruttate hanno interesse a lottare realmente contro il fascismo, perché sono quelle che ne sopportano il peso. Si vuol forse discreditare con questo l'opera delle opposizioni? Facciamo opera utile al fascismo discreditando le opposizioni? Neppure di queste accuse, che sono quanto mai insulse noi possiamo gran che preoccuparci. Se qualcuno ha lavorato e lavora per il fascismo non è certo da cercarsi fra i comunisti. Un po' di onestà, ammesso che di onestà si possa parlare con i nostri avversari e con gli avversari della classe operaia, sarebbe bastata a consigliare maggiore prudenza nell'impiego di certe frasi. Chi ha dato i suoi ministri al governo di Mussolini? I popolari questo lo sanno e lo sanno pure gli amici di Amendola e di Di Cesarò. Chi ha illuso le masse, facendo credere alla possibilità che Mussolini «normalizzasse» il fascismo? Cosí presto si sono dimenticati gli scrittori di Giustizia, che rimproverano ai comunisti di non essere coerenti, i discorsi di D'Aragona alla Camera e le velleità ministeriali dei vari Baldesi, in fregola di feluche nel ministero di Mussolini? I comunisti sono i soli che possono parlare sulla salma di Matteotti senz'aver bisogno di arrossire. Essi non hanno mai stretto alcun «patto di pacificazione» con i fascisti, come socialriformisti e massimalisti devono ricordare. Diciamo questa giacché si ama farci apparire dagli scrittori di Giustizia ancora una volta come coloro che si possono confondere con i colleghi di Dumini e compagni. Noi non abbiamo bisogno di rievocare Spartaco Lavagnini, Berruti, Pietro Ferrero e altre diecine di nostri assassinati, non abbiamo bisogno di ricordare gli anni di carcere distribuiti ai comunisti militanti, né di ricordare il regime eccezionale cui tutti i comunisti sono sottoposti dal fascismo per giustificare la nostra indignazione di fronte alla stupida insinuazione avanzata dai cattivi pastori del socialriformismo che noi si favorisca, coscienti o no, il fascismo. La storia di questi anni parla chiaro. Noi non abbiamo bisogno di rettificare nulla per essere coerenti coi bisogni di lotta della classe operaia. Combattiamo le opposizioni? Non sappiamo se cosí devesi definire il fatto che noi chiediamo da esse che se vogliono lottare veramente contro il fascismo devono mostrare di non avere in diffidenza anzitutto la classe operaia, da cui indirettamente deriva la loro forza e prestigio. Noi chiediamo che la classe operaia abbia nel campo la direzione della lotta, perché essa sola ha la capacità della vittoria. E ciò si può ottenere unicamente mediante la lotta di tutti i giorni. La vittoria finale è il risultato dei nostri sforzi per conseguirla. Non ha senso dire: «Noi vi daremo questo quando avremo vinto». Bisogna anzitutto lottare per quello che si vuole. La nostra richiesta di libertà ai prigionieri politici, di libertà alle organizzazioni operaie, di aiuto ai contadini poveri non sono che la piattaforma dell'azione che si deve condurre contro il fascismo. Sono semplici obbiettivi per l'azione, per ridare alle classi lavoratrici forza e fiducia nella propria capacità di lotta. Se questo vuol dire discreditare le opposizioni, noi abbiamo ragione di pensare che esse amano il silenzio per non essere obbligate alla lotta contro il fascismo. Il destino di Matteotti(23) Esiste una crisi della società italiana, una crisi che trae la sua origine dai fattori stessi di cui questa società è costituita e dai loro irriducibili contrasti; esiste una crisi che la guerra ha accelerata, approfondita, resa insuperabile. Da una parte vi è uno Stato che non si regge perché gli manca l'adesione delle grandi masse e gli manca una classe dirigente che sia capace di conquistargli questa adesione; dall'altra parte vi è una massa di milioni di lavoratori i quali si sono lentamente venuti risvegliando alla vita politica, i quali chiedono di prendere ad essa una parte attiva, i quali vogliono diventare la base di uno «Stato» nuovo in cui si incarni la loro volontà. Vi è da una parte un sistema economico che non riesce piú a soddisfare i bisogni elementari della maggioranza enorme della popolazione, perché è costruito per soddisfare gli interessi particolari ed esclusivisti di alcune ristrette categorie privilegiate: - vi sono dall'altra parte centinaia di migliaia di lavoratori i quali non possono piú vivere se questo sistema non viene modificato dalle basi. Da quarant'anni la società italiana sta cercando invano il modo di uscire da questi dilemmi. Ma il modo di uscirne è uno solo. È che le centinaia di migliaia di lavoratori, che la grande maggioranza della popolazione lavoratrice italiana sia guidata a superare il contrasto spezzando i quadri dell'ordine politico ed economico attuale e sostituendo ad esso un ordine nuovo di cose, nel quale gli interessi e le volontà di chi lavora e produce trovino soddisfazione ed espressione complete. Il risveglio degli operai e dei contadini d'Italia iniziatosi, sotto la guida di animosi pionieri, or sono alcune decine di anni, lasciava sperare che questa strada stesse per essere presa e seguita, senza esitazione e senza incoerenze, fino alla fine. Anche Giacomo Matteotti fu, se non per l'età, per la scuola politica cui appartenne, di questi pionieri. Egli fu di coloro a cui il proletariato italiano chiedeva di essere guidato a creare in se stesso la propria economia, il proprio Stato, il proprio destino, fu di coloro da cui dipese la soluzione, la sola possibile soluzione, della crisi italiana. Ricordare come la guida sia, praticamente, venuta meno, e il movimento si sia esaurito in se stesso, lasciando aperta la via al trionfo sfacciato dei suoi piú fieri nemici, è superfluo, forse, ricordare oggi, se non per mettere in luce la contraddizione interna, insanabile che viziava dalle fondamenta la concezione politica e storica di questi primi capi della riscossa degli operai e dei contadini d'Italia, che condannava l'azione loro a un insuccesso tragico, pauroso. Il risvegliare alla vita civile, alle rivendicazioni economiche e alla lotta politica le decine e centinaia di migliaia di contadini e di operai è cosa vana, se non si conclude con la indicazione dei mezzi e delle vie per cui le forze risvegliate delle masse lavoratrici potranno giungere a una concreta e completa affermazione di sé. A questa conclusione, i pionieri del movimento di riscossa dei lavoratori italiani non seppero giungere. L'azione loro, mentre faceva crollare i cardini di un sistema economico, non prevedeva la creazione di un diverso sistema, nel quale i limiti del primo fossero per sempre superati e abbattuti. Iniziava una serie di conquiste e non pensava alla difesa di esse. Dava ad una classe coscienza di sé e dei propri destini, e non le dava la organizzazione di combattimento senza la quale questi destini non si potranno mai realizzare. Poneva le premesse di una rivoluzione, di uno Stato nuovo. Scatenava la ribellione e non sapeva guidarla alla vittoria. Partiva da un desiderio generoso di redenzione totale e si esauriva miseramente nel nulla di una azione senza vie di uscita, di una politica senza prospettiva, di una rivolta condannata, passato il primo istante di stupore e di smarrimento degli avversari, a essere soffocata nel sangue e nel terrore della riscossa reazionaria. Il sacrificio eroico di Giacomo Matteotti è per noi l'ultima espressione, la piú evidente, la piú tragica ed elevata, di questa contraddizione interna di cui tutto il movimento operaio italiano per anni ed anni ha sofferto. Ma se l'impeto di riscossa e gli sforzi tenaci durati nel passato hanno potuto essere vani, se ha potuto crollare paurosamente, in tre anni, l'edificio pezzo a pezzo cosí faticosamente costruito, non deve, non può rimanere vano questo sacrificio supremo, in cui tutto lo insegnamento di un passato di dolori e di errori si riassume. Ieri, mentre i resti di Giacomo Matteotti scendevano nella tomba e al triste rito volgevano le menti, da tutte le terre d'Italia, tutti i lavoratori delle officine e dei campi, e dal Polesine e dal Ferrarese schiavi muovevano a frotte, per essere in persona presenti ad esso, i contadini e gli operai che della loro redenzione non disperano ancora, - ieri, commemorando Matteotti, un gruppo di operai riformisti chiedeva la tessera del Partito comunista d'Italia. E noi abbiamo sentito che in questo atto vi è qualche cosa che spezza il circolo vizioso degli sforzi vani e dei sacrifici inutili, che supera le contraddizioni per sempre, che indica al proletariato italiano quale insegnamento deve trarsi dalla fine del pioniere caduto sulle proprie orme, senza piú avere una via aperta davanti a sé. I semi gettati da chi ha lavorato per il risveglio della classe lavoratrice italiana non possono andare perduti. Una classe che si è una volta risvegliata dalla schiavitú non può rinunciare a combattere per la sua redenzione. La crisi della società italiana che da questo risveglio è stata acuita fino alla esasperazione non si supera col terrore; essa non si concluderà se non con l'avvento al potere dei contadini e degli operai, con la fine del potere delle caste privilegiate, con la costruzione di una nuova economia, con la fondazione di un nuovo Stato. Ma per questo occorre che una organizzazione di combattimento sia creata, alla quale gli elementi migliori della classe lavoratrice aderiscano con entusiasmo e convinzione, attorno alla quale le grandi masse si stringano fiduciose e sicure. È necessaria una organizzazione nella quale prenda carne e figura una volontà chiara di lotta, di applicazione di tutti i mezzi che dalla lotta sono richiesti, senza i quali nessuna vittoria totale mai ci sarà data. Una organizzazione che sia rivoluzionaria non solo nelle parole e nelle aspirazioni generiche, ma nella struttura sua, nel suo modo di lavorare, nei suoi fini immediati e lontani. Una organizzazione in cui il proposito di riscossa e di liberazione delle masse diventi qualcosa di concreto e definito, diventi capacità di lavoro politico ordinato, metodico, sicuro, capacità non solo di conquista immediata e parziale, ma di difesa di ogni conquista realizzata e di passaggio a conquiste sempre piú alte e a quella che tutte le deve garantire, la conquista del potere, la distruzione dello Stato dei borghesi e dei parassiti, la sostituzione ad esso di uno Stato di contadini e di operai. Queste cose hanno inteso gli operai riformisti che nel ricordare il loro Capo caduto hanno chiesto di entrare nel nostro Partito. Il sacrificio di Matteotti - essi dicono ai loro compagni - si celebra lavorando alla creazione del solo strumento per cui l'idea da cui Egli era mosso, l'idea della redenzione completa dei lavoratori, possa ricevere attuazione e realtà: il partito di classe degli operai, il partito della rivoluzione proletaria. Il sacrificio di Matteotti è celebrato nel solo modo degno e profondo dai militanti che nelle file del Partito e della Internazionale comunista si stringono per prepararsi a tutte le lotte del domani. Solo per essi la classe operaia cesserà di essere «pellegrina del nulla», cesserà di passare di delusione in delusione, di sconfitta in sconfitta, di sacrificio in sacrificio, per voler risolvere il contraddittorio problema di creare un mondo nuovo senza mandare in pezzi questo vecchio mondo che ci opprime, solo per essi la classe operaia diventerà libera e padrona dei propri destini. La crisi italiana(24) La crisi radicale del regime capitalistico, iniziatasi in Italia cosí come in tutto il mondo con la guerra, non è stata risanata dal fascismo. Il fascismo, con il suo metodo repressivo di governo, aveva reso molto difficile e, anzi quasi totalmente impedito le manifestazioni politiche della crisi generale capitalistica; non ha però segnato un arresto di questa e tanto meno una ripresa e uno sviluppo dell'economia nazionale. Si dice generalmente e anche noi comunisti siamo soliti affermare che l'attuale situazione italiana è caratterizzata dalla rovina delle classi medie: ciò è vero, ma deve essere compreso in tutto il suo significato. La rovina delle classi medie è deleteria perché il sistema capitalistico non si sviluppa, ma invece subisce una restrizione: essa non è un fenomeno a sé, che possa essere esaminato e alle cui conseguenze si possa provvedere indipendentemente dalle condizioni generali dell'economia capitalistica; essa è la stessa crisi del regime capitalistico che non riesce piú e non potrà piú riuscire a soddisfare le esigenze vitali del popolo italiano, che non riesce ad assicurare alla grande massa degli italiani il pane e il tetto. Che la crisi delle classi medie sia oggi al primo piano è solo un fatto politico contingente, è solo la forma del periodo che appunto perciò chiamiamo «fascista». Perché? Perché il fascismo è sorto e si è sviluppato sul terreno di questa crisi nella sua fase incipiente, perché il fascismo ha lottato contro il proletariato ed è giunto al potere sfruttando e organizzando l'incoscienza e la pecoraggine della piccola borghesia ubriaca di odio contro la classe operaia che riusciva, con la forza della sua organizzazione, ad attenuare i contraccolpi della crisi capitalistica nei suoi confronti. Perché il fascismo si esaurisce e muore appunto perché non ha mantenuto nessuna delle sue promesse, non ha appagato nessuna speranza, non ha lenito nessuna miseria. Ha fiaccato lo slancio rivoluzionario del proletariato, ha disperso i sindacati di classe, ha diminuito i salari e aumentato gli orari; ma ciò non bastava per assicurare una vitalità anche ristretta al sistema capitalistico; era necessario perciò anche un abbassamento di livello delle classi medie, la spoliazione e il saccheggio della economia piccolo-borghese e quindi la soffocazione di ogni libertà e non solo delle libertà proletarie, e quindi la lotta non solo contro i partiti operai, ma anche e specialmente, in una fase determinata, contro tutti i partiti politici non fascisti, contro tutte le associazioni non direttamente controllate dal fascismo ufficiale. Perché in Italia la crisi delle classi medie ha avuto conseguenze piú radicali che negli altri paesi ed ha fatto nascere e portato al potere dello Stato il fascismo? Perché da noi, dato lo scarso sviluppo della industria e dato il carattere regionale dell'industria stessa, non solo la piccola borghesia è molto numerosa, ma essa è anche la sola classe «territorialmente» nazionale: la crisi capitalistica aveva assunto negli anni dopo la guerra anche la forma acuta di uno sfacelo dello Stato unitario e aveva quindi favorito il rinascere di una ideologia confusamente patriottica e non c'era altra soluzione che quella fascista dopo che nel 1920 la classe operaia aveva fallito al suo compito di creare coi suoi mezzi uno Stato capace di soddisfare anche le esigenze nazionali unitarie della società italiana. Il regime fascista muore perché non solo non è riuscito ad arrestare, ma anzi ha contribuito ad accelerare la crisi delle classi medie iniziatasi dopo la guerra. L'aspetto economico di questa crisi consiste nella rovina della piccola e media azienda: il numero dei fallimenti si è rapidamente moltiplicato in questi due anni. Il monopolio del credito, il regime fiscale, la legislazione sugli affitti hanno stritolato la piccola impresa commerciale e industriale: un vero e proprio passaggio di ricchezza si è verificato dalla piccola e media alla grande borghesia, senza sviluppo dell'apparato di produzione; il piccolo produttore non è neanche divenuto proletario, è solo un affamato in permanenza, un disperato senza previsioni per l'avvenire. L'applicazione della violenza fascista per costringere i risparmiatori ad investire i loro capitali in una determinata direzione non ha dato molti frutti per i piccoli industriali: quando ha avuto successo, non ha che rimbalzato gli effetti della crisi da un ceto all'altro, allargando il malcontento e la diffidenza già grandi nei risparmiatori per il monopolio esistente nel campo bancario, aggravato dalla tattica dei colpi di mano cui i grandi imprenditori devono ricorrere nell'angustia generale per assicurarsi credito. Nelle campagne il processo della crisi è piú strettamente legato con la politica fiscale dello Stato fascista. Dal 1920 ad oggi il bilancio medio di una famiglia di mezzadri o di piccoli proprietari è stato gravato di un passivo di circa 7.000 lire per aumenti di imposte, peggioramento delle condizioni contrattuali, ecc. In modo tipico si manifesta la crisi della piccola azienda nell'Italia settentrionale e centrale. Nel Mezzogiorno intervengono nuovi fattori, di cui il principale è l'assenza dell'emigrazione e il conseguente aumento della pressione demografica; a ciò si accompagna una diminuzione della superficie coltivata e quindi del raccolto. Il raccolto del grano è stato l'anno scorso di 68 milioni di quintali in tutta Italia, cioè è stato su scala nazionale superiore alla media, ma è stato inferiore alla media nel Mezzogiorno. Quest'anno il raccolto è stato inferiore alla media in tutta Italia, è completamente fallito nel Mezzogiorno. Le conseguenze di una tale situazione non si sono ancora manifestate in modo violento, perché esistono nel Mezzogiorno condizioni di economia arretrate, le quali impediscono alle crisi di rivelarsi subito in modo profondo, come avviene nei paesi di avanzato capitalismo; tuttavia già si sono verificati in Sardegna episodi gravi del malcontento popolare, determinato dal disagio economico. La crisi generale del sistema capitalistico non è stata dunque arrestata dal regime fascista. In regime fascista le possibilità di esistenza del popolo italiano sono diminuite. Si è verificata una restrizione dell'apparato produttivo proprio nello stesso tempo in cui aumentava la pressione demografica per le difficoltà dell'emigrazione transoceanica. L'apparato industriale ristretto ha potuto salvarsi dal completo sfacelo solo per un abbassamento del livello di vita della classe operaia premuta dalla diminuzione dei salari, dall'aumento della giornata di lavoro, dal carovita: ciò ha determinato una emigrazione di operai qualificati, cioè un impoverimento delle forze produttive umane che erano una delle piú grandi ricchezze nazionali. Le classi medie che avevano riposto nel regime fascista tutte le loro speranze, sono state travolte dalla crisi generale, anzi sono diventate proprio esse l'espressione della crisi capitalistica in questo periodo. Questi elementi, rapidamente accennati, servono solo per ricordare tutta la portata della situazione attuale che non ha in se stessa nessuna virtú di risanamento economico. La crisi economica italiana può solo essere risolta dal proletariato. Solo inserendosi in una rivoluzione europea e mondiale il popolo italiano può riacquistare la capacità di far valere le sue forze produttive umane e ridare sviluppo all'apparato nazionale di produzione. Il fascismo ha solo ritardato la rivoluzione proletaria, non l'ha resa impossibile: esso ha contribuito anzi ad allargare ed approfondire il terreno della rivoluzione proletaria, che dopo l'esperimento fascista sarà veramente popolare. La disgregazione sociale e politica del regime fascista ha avuto la sua prima manifestazione di massa nelle elezioni del 6 aprile. Il fascismo è stato messo nettamente in minoranza nella zona industriale italiana, cioè là dove risiede la forza economica e politica che domina la nazione e lo Stato. Le elezioni del 6 aprile, avendo mostrato quanto fosse solo apparente la stabilità del regime, rincuorarono le masse, determinarono un certo movimento nel loro seno, segnarono l'inizio di quella ondata democratica che culminò nei giorni immediatamente successivi all'assassinio dell'on. Matteotti e che ancora oggi caratterizza la situazione. Le opposizioni avevano acquistato dopo le elezioni un'importanza politica enorme; l'agitazione da esse condotta nei giornali e nel Parlamento per discutere e negare la legittimità del governo fascista operava potentemente a disciogliere tutti gli organismi dello Stato controllati e dominati dal fascismo, si ripercuoteva nel seno dello stesso Partito nazionale fascista, incrinava la maggioranza parlamentare. Di qui la inaudita campagna di minacce contro le opposizioni e l'assassinio del deputato unitario. L'ondata di sdegno suscitata dal delitto sorprese il Partito fascista che rabbrividí di panico e si perdette: i tre documenti scritti in quell'attimo angoscioso dall'on. Finzi, dal Filippelli, da Cesarino Rossi e fatti conoscere alle opposizioni, dimostrano come le stesse cime del Partito avessero perduto ogni sicurezza e accumulassero errori su errori: da quel momento il regime fascista è entrato in agonia; esso è sorretto ancora dalle forze cosiddette fiancheggiatrici, ma è sorretto cosí come la corda sostiene l'impiccato. Il delitto Matteotti dette la prova provata che il Partito fascista non riuscirà mai a diventare un normale partito di governo, che Mussolini non possiede dello statista e del dittatore altro che alcune pittoresche pose esteriori: egli non è un elemento della vita nazionale, è un fenomeno di folklore paesano, destinato a passare alle storie nell'ordine delle diverse maschere provinciali italiane piú che nell'ordine dei Cromwell, dei Bolívar, dei Garibaldi. L'ondata popolare antifascista provocata dal delitto Matteotti trovò una forma politica nella secessione dall'aula parlamentare dei partiti di opposizione. L'assemblea delle opposizioni divenne di fatto un centro politico nazionale intorno al quale si organizzò la maggioranza del paese: la crisi scoppiata nel campo sentimentale e morale, acquistò cosí uno spiccato carattere istituzionale; uno Stato fu creato nello Stato, un governo antifascista contro il governo fascista. Il Partito fascista fu impotente a frenare la situazione: la crisi lo aveva investito in pieno, devastando le fila della sua organizzazione; il primo tentativo di mobilitazione della Milizia nazionale fallí in pieno, solo il 20 per cento avendo risposto all'appello; a Roma solo 800 militi si presentarono alle caserme. La mobilitazione diede risultati rilevanti solo in poche province agrarie, come Grosseto e Perugia, permettendo cosí di far calare a Roma qualche legione decisa ad affrontare una lotta sanguinosa. Le opposizioni rimangono ancora il fulcro del movimento popolare antifascista; esse rappresentano politicamente l'ondata di democrazia che è caratteristica della fase attuale della crisi sociale italiana. Verso le opposizioni si era orientata all'inizio anche l'opinione della grande maggioranza del proletariato. Era dovere di noi comunisti cercare di impedire che un tale stato di cose si consolidasse permanentemente. Perciò il nostro gruppo parlamentare entrò a far parte del Comitato delle opposizioni accettando e mettendo in rilievo il carattere precipuo che la crisi politica assumeva di esistenza di due poteri, di due Parlamenti. Se avessero voluto compiere il loro dovere, cosí come era indicato dalla masse in movimento, le opposizioni avrebbero dovuto dare una forma politica definita allo stato di cose obbiettivamente esistente, ma esse si rifiutarono. Sarebbe stato necessario lanciare un appello al proletariato, che solo è in grado di sostanziare un regime democratico, sarebbe stato necessario approfondire il movimento spontaneo di scioperi che andava delineandosi. Le opposizioni ebbero paura di essere travolte da una possibile insurrezione operaia: non vollero perciò uscire dal terreno puramente parlamentare nelle questioni politiche e dal terreno del processo per l'assassinio dell'on. Matteotti nella campagna per tenere desta l'agitazione nel paese. I comunisti, che non potevano accettare una diffidenza di principio contro l'azione proletaria, che non potevano accettare la forma di blocco di partiti data al Comitato delle opposizioni, furono messi alla porta. La nostra partecipazione in un primo tempo al Comitato e la nostra uscita in un secondo tempo hanno avuto come conseguenza: 1) Ci hanno permesso di superare la fase piú acuta della crisi senza perdere il contatto con le grandi masse lavoratrici; rimanendo isolato il nostro Partito sarebbe stato travolto dall'ondata democratica; 2) abbiamo spezzato il monopolio dell'opinione pubblica che le opposizioni minacciavano di instaurare: una parte sempre maggiore della classe lavoratrice va convincendosi che il blocco delle opposizioni rappresenta un semi-fascismo che vuole riformare, addolcendola, la dittatura fascista, senza far perdere al sistema capitalistico nessuno dei benefizi che il terrore e l'illegalismo gli hanno assicurato negli ultimi anni, con l'abbassamento del livello di vita del popolo italiano. La situazione obbiettiva, dopo due mesi, non è mutata. Esistono ancora di fatto due governi nel paese, che lottano l'un contro l'altro per contendersi le forze reali della organizzazione statale borghese. L'esito della lotta dipenderà dai riflessi che la crisi generale eserciterà nel seno del Partito nazional fascista, dall'atteggiamento definitivo dei partiti che costituiscono il blocco delle opposizioni, dall'azione del proletariato rivoluzionario guidato dal nostro Partito. In che cosa consiste la crisi del fascismo? Per comprenderla si dice che occorra prima definire l'essenza del fascismo, ma la verità è che non esiste una essenza del fascismo nel fascismo stesso. L'essenza del fascismo era data negli anni '22 e '23 da un determinato sistema dei rapporti di forza esistenti nella società italiana: oggi questo sistema è profondamente mutato e l'«essenza» è svaporata alquanto. Il fatto caratteristico del fascismo consiste nell'essere riuscito a costituire una organizzazione di massa della piccola borghesia. È la prima volta nella storia che ciò si verifica. L'originalità del fascismo consiste nell'aver trovato la forma adeguata di organizzazione per una classe sociale che è sempre stata incapace di avere una compagine e una ideologia unitaria: questa forma di organizzazione è l'esercito in campo. La Milizia è quindi tutto il perno del Partito nazional fascista: non si può sciogliere la Milizia senza sciogliere anche tutto il Partito. Non esiste un Partito fascista che faccia diventare qualità la quantità, che sia un apparato di selezione politica d'una classe o di un ceto: esiste solo un aggregato meccanico indifferenziato e indifferenziabile dal punto di vista delle capacità intellettuali e politiche, che vive solo perché ha acquistato nella guerra civile un fortissimo spirito di corpo, rozzamente identificato con l'ideologia nazionale. Fuori del terreno della organizzazione militare, il fascismo non ha dato e non può dare niente, e anche su questo terreno ciò che esso può dare è molto relativo. Cosí congegnato dalle circostanze, il fascismo non è in grado di conseguire nessuna delle sue premesse ideologiche. Il fascismo dice oggi di voler conquistare lo Stato; nello stesso tempo dice di voler diventare un fenomeno prevalentemente rurale. Come le due affermazioni possano stare insieme, è difficile comprendere. Per conquistare lo Stato occorre essere in grado di sostituire la classe dominante nelle funzioni che hanno una importanza essenziale per il governo della società. In Italia, come in tutti i paesi capitalistici, conquistare lo Stato significa anzitutto conquistare la fabbrica, significa avere la capacità di superare i capitalisti nel governo delle forze produttive del paese. Ciò può essere fatto dalla classe operaia, non può essere fatto dalla piccola borghesia che non ha nessuna funzione essenziale nel campo produttivo, che nella fabbrica, come categoria industriale, esercita una funzione prevalentemente poliziesca non produttiva. La piccola borghesia può conquistare lo Stato solo alleandosi con la classe operaia, solo accettando il programma della classe operaia: sistema soviettista invece che Parlamento nell'organizzazione statale, comunismo e non capitalismo nella organizzazione dell'economia nazionale e internazionale. La formula «conquista dello Stato» è vuota di senso in bocca ai fascisti o ha un solo significato: escogitazione di un meccanismo elettorale che dia la maggioranza parlamentare ai fascisti sempre e ad ogni costo. La verità è che tutta l'ideologia fascista è un trastullo per i Balilla. Essa è una improvvisazione dilettantesca, che nel passato, con la situazione favorevole, poteva illudere i gregari, ma oggi è destinata a cadere nel ridicolo presso i fascisti stessi. Residuo attivo del fascismo è solo lo spirito militare di corpo, cementato dal pericolo di uno scatenamento di vendetta popolare: la crisi politica della piccola borghesia, il passaggio della stragrande maggioranza di questa classe sotto la bandiera delle opposizioni, il fallimento delle misure generali annunziate dai capi fascisti possono ridurre notevolmente l'efficienza militare del fascismo, non possono annullarla. Il sistema delle forze democratiche antifasciste trae la sua forza maggiore dall'esistenza del Comitato parlamentare delle opposizioni, che è riuscito a imporre una certa disciplina a tutta una gamma di partiti che va dal massimalista a quello popolare. Che massimalisti e popolari ubbidiscano a una stessa disciplina e lavorino su uno stesso piano programmatico, ecco il tratto piú caratteristico della situazione. Questo fatto rende lento e faticoso il processo di sviluppo degli avvenimenti, e determina la tattica del complesso delle opposizioni, tattica di aspettativa, di lente manovre avvolgenti, di paziente sgretolamento di tutte le posizioni del governo fascista. I massimalisti, con la loro appartenenza al Comitato e con l'accettazione della disciplina comune, garantiscono la passività del proletariato, assicurano la borghesia ancora esitante tra fascismo e democrazia che una azione autonoma della classe operaia non sarà possibile se non molto piú tardi, quando il nuovo governo sia già costituito e rafforzato, quando un nuovo governo sia già in grado di schiacciare un'insurrezione delle masse disilluse e del fascismo e dell'antifascismo democratico. La presenza dei popolari garantisce da una soluzione intermedia fascista-popolare come quella dell'ottobre 1922, che diventerebbe molto probabile, perché imposta dal Vaticano, nel caso di un distacco dei massimalisti dal blocco e di una loro alleanza con noi. Lo sforzo maggiore dei partiti intermedi (riformisti e costituzionali) aiutati dai popolari di sinistra, è stato rivolto finora a questo scopo: mantenere nella stessa compagine i due estremi. Lo spirito servile dei massimalisti si è adattato alla parte dello sciocco nella commedia: i massimalisti hanno accettato di valere nelle opposizioni quanto il Partito dei contadini o i gruppi di Rivoluzione Liberale. Le forze piú grandi sono portate alle opposizioni dai popolari e dai riformisti che hanno largo seguito nelle città e nelle campagne. L'influenza di questi due partiti viene integrata dai costituzionali amendoliani, che portano al blocco l'adesione di larghi strati dell'esercito, del combattentismo, della corte. La divisione del lavoro di agitazione avviene tra i vari partiti a seconda della loro tradizione e del loro compito sociale. I costituzionali, poiché la tattica del blocco tende a isolare il fascismo, hanno la direzione politica del movimento. I popolari conducono la campagna morale sulla base del processo e delle sue concatenazioni col regime fascista, con la corruzione e la criminalità fiorite intorno al regime. I riformisti riassumono questi due atteggiamenti e si fanno piccini piccini per far dimenticare il loro passato demagogico, per far credere di essersi redenti e di essere tutt'una cosa con l'on. Amendola e col senatore Albertini. L'atteggiamento compatto e unitario delle opposizioni ha registrato dei successi notevoli: è un successo indubbiamente aver provocato la crisi del «fiancheggiamento», aver cioè obbligato i liberali a differenziarsi attivamente dal fascismo e a porgli delle condizioni. Ciò ha avuto già e piú avrà in seguito ripercussioni nel seno del fascismo stesso, e ha creato un dualismo tra il Partito fascista e l'organizzazione centrale del combattentismo. Ma esso ha spostato ancora a destra il punto di equilibrio del blocco delle opposizioni, cioè ha accentuato il carattere conservatore dell'antifascismo: i massimalisti non se ne sono accorti, i massimalisti sono disposti a fare le truppe di colore non solo di Amendola e di Albertini, ma anche di Salandra e di Cadorna. Come si risolverà questo dualismo di poteri? Ci sarà un compromesso tra il fascismo e le opposizioni? E se il compromesso non sarà possibile, avremo una lotta armata? Il compromesso non è da escludere assolutamente; esso è però molto improbabile. La crisi che attraversa il paese non è un fenomeno superficiale, sanabile con piccole misure e piccoli espedienti: essa è la crisi storica della società capitalista italiana, il cui sistema economico si dimostra insufficiente ai bisogni della popolazione. Tutti i rapporti sono esasperati: grandissime masse di popolazione attendono ben altro che un piccolo compromesso. Se questo si verificasse, esso significherebbe il suicidio dei maggiori partiti democratici; all'ordine del giorno della vita nazionale si porrebbe immediatamente l'insurrezione armata coi fini piú radicali. Il fascismo per la natura della sua organizzazione non sopporta collaboratori con parità di diritto, vuole solo dei servi alla catena: non può esistere un'assemblea rappresentativa in regime fascista, ogni assemblea diventa subito un bivacco di manipoli o l'anticamera di un postribolo per ufficiali subalterni avvinazzati. La cronaca quotidiana registra perciò solo un susseguirsi di episodi politici che denotano il disgregamento del sistema fascista, il distacco lento ma inesorabile dal sistema fascista di tutte le forze periferiche. Avverrà dunque un urto armato? Una lotta in grande stile sarà evitata sia dalle opposizioni che dal fascismo. Avverrà il fenomeno inverso che nell'ottobre 1922: allora la marcia su Roma fu la parata coreografica d'un processo molecolare per cui le forze reali dello Stato borghese (esercito, magistratura, polizia, giornali, Vaticano, massoneria, corte, ecc.) erano passate dalla parte del fascismo. Se il fascismo volesse resistere, esso sarebbe distrutto in una lunga guerra civile alla quale non potrebbero non prendere parte il proletariato e i contadini. Opposizioni e fascismo non desiderano ed eviteranno sistematicamente che una lotta a fondo s'impegni. Il fascismo tenderà invece a conservare una base di organizzazione armata da far rientrare in campo appena si profili una nuova ondata rivoluzionaria, ciò che è ben lungi dal dispiacere agli Amendola e agli Albertini e anche ai Turati e ai Treves. Il dramma si svolgerà a data fissa, con ogni probabilità esso è predisposto per il giorno in cui si dovrebbe riaprire la Camera dei deputati. Alla coreografia militaresca dell'ottobre '22, sarà sostituita una piú sonora coreografia democratica. Se le opposizioni non rientrano nel Parlamento e i fascisti, come vanno dicendo, convocano la maggioranza come Costituente fascista, avremo una riunione delle opposizioni e una parvenza di lotta tra le due assemblee. È possibile però che la soluzione si abbia nella stessa aula parlamentare, dove le opposizioni rientreranno nel caso molto probabile di una scissione della maggioranza, per cui il governo di Mussolini sia messo nettamente in minoranza. Avremo in questo caso la formazione di un governo provvisorio di generali, senatori ed ex presidenti del Consiglio, lo scioglimento della Camera e lo stato d'assedio. Il terreno su cui la crisi si svolgerà continuerà ad essere il processo per l'assassinio Matteotti. Avremo ancora delle fasi acutamente drammatiche in proposito, quando saranno resi pubblici i tre documenti di Finzi, di Filippelli, di Rossi e le piú alte personalità del regime saranno travolte dalla passione popolare. Tutte le forze reali dello Stato, e specialmente le forze armate, intorno alle quali già si comincia a discutere, dovranno schierarsi definitivamente da una parte o dall'altra, imponendo la soluzione già delineata e concertata. Quale deve essere l'atteggiamento politico e la tattica del nostro Partito nella situazione attuale? La situazione è «democratica» perché le grandi masse lavoratrici sono disorganizzate, disperse, polverizzate nel popolo indistinto. Qualunque possa essere perciò lo svolgimento immediato della crisi, noi possiamo prevedere solo un miglioramento nella posizione politica della classe operaia, non una sua lotta vittoriosa per il potere. Il compito essenziale del nostro Partito consiste nella conquista della maggioranza della classe lavoratrice, la fase che attraversiamo non è quella della lotta diretta per il potere, ma una fase preparatoria, di transizione alla lotta per il potere, una fase insomma di agitazione, di propaganda, di organizzazione. Ciò naturalmente non esclude che lotte cruente possano verificarsi, e che il nostro Partito non debba subito prepararsi e essere pronto ad affrontarle, tutt'altro: ma anche queste lotte devono essere viste nel quadro della fase di transizione, come elementi di propaganda e di agitazione per la conquista della maggioranza. Se esistono nel nostro Partito gruppi e tendenze che vogliano per fanatismo forzare la situazione, occorrerà lottare contro di essi in nome dell'intiero Partito, degli interessi vitali e permanenti della rivoluzione proletaria italiana. La crisi Matteotti ci ha offerto molti insegnamenti a questo proposito. Ci ha insegnato che le masse, dopo tre anni di terrore e di oppressione, sono diventate molto prudenti e non vogliono fare il passo piú lungo della gamba. Questa prudenza si chiama riformismo, si chiama massimalismo, si chiama «blocco delle opposizioni». Essa è destinata a scomparire, certamente e anche in un periodo di tempo non lungo: ma intanto esiste e può essere superata solo se noi volta per volta, in ogni occasione, in ogni momento, pur andando avanti, non perderemo il contatto con l'insieme della classe lavoratrice. Cosí dobbiamo lottare contro ogni tendenza di destra, che volesse un compromesso con le opposizioni, che tentasse di intralciare gli sviluppi rivoluzionari della nostra tattica e il lavoro di preparazione per la fase successiva. Il primo compito del nostro Partito consiste nell'attrezzarsi in modo da diventare idoneo alla sua missione storica. In ogni fabbrica, in ogni villaggio deve esistere una cellula comunista, che rappresenti il Partito e l'Internazionale, che sappia lavorare politicamente, che abbia dell'iniziativa. Bisogna perciò lottare contro una certa passività che esiste ancora nelle nostre file, contro la tendenza a tenere angusti i ranghi del Partito. Dobbiamo invece diventare un grande partito, dobbiamo cercare di attirare nelle nostre organizzazioni il piú gran numero possibile di operai e contadini rivoluzionari, per educarli alla lotta, per formare degli organizzatori e dei dirigenti di massa, per elevarli politicamente. Lo Stato operaio e contadino può essere costruito solo se la rivoluzione disporrà di molti elementi qualificati politicamente: la lotta per la rivoluzione può essere condotta vittoriosamente solo se le grandi masse sono in tutte le loro formazioni locali, inquadrate e guidate da compagni onesti e capaci. Altrimenti si torna davvero, come gridano i reazionari, agli anni 1919-20, agli anni cioè dell'impotenza proletaria, agli anni della demagogia massimalista, agli anni della sconfitta delle classi lavoratrici. Neanche noi comunisti vogliamo tornare agli anni 1919-20. Un grande lavoro deve essere compiuto dal Partito nel campo sindacale. Senza grandi organizzazioni sindacali non si esce dalla democrazia parlamentare. I riformisti possono volere dei piccoli sindacati, possono tentare di formare solo delle corporazioni di operai qualificati. Noi comunisti vogliamo il contrario dei riformisti e dobbiamo lottare per riorganizzare le grandi masse. Certo bisogna porsi il problema concretamente e non solo come forma. Le masse hanno abbandonato il sindacato, perché la Confederazione generale del lavoro, che pure ha una grande efficienza politica (essa è nient'altro che il Partito unitario) non si interessa degli interessi vitali delle masse. Noi non possiamo proporci di creare un nuovo organismo che abbia lo scopo di supplire la latitanza della Confederazione; possiamo però e dobbiamo proporci il problema di sviluppare, attraverso le cellule di fabbrica e di villaggio, una reale attività. Il Partito comunista rappresenta la totalità degli interessi e delle aspirazioni della classe lavoratrice: noi non siamo un puro partito parlamentare. Il nostro Partito svolge quindi una vera e propria azione sindacale, si pone a capo delle masse anche nelle piccole lotte quotidiane per il salario, per la giornata lavorativa, per la disciplina industriale, per gli alloggi, per il pane. Le nostre cellule devono spingere le Commissioni interne a incorporare nel loro funzionamento tutte le attività proletarie. Occorre pertanto suscitare un largo movimento nelle fabbriche che possa svilupparsi fino a dar luogo a una organizzazione di Comitati proletari di città eletti dalle masse direttamente, i quali nella crisi sociale che si profila diventino il presidio degli interessi generali di tutto il popolo lavoratore. Questa azione reale nella fabbrica e nel villaggio rivalorizzerà il sindacato, ridonandogli un contenuto e una efficienza, se parallelamente si verificherà il ritorno all'organizzazione di tutti gli elementi d'avanguardia per la lotta contro i dirigenti attuali riformisti e massimalisti. Chi si tiene lontano dai sindacati è oggi un alleato dei riformisti, non un militante rivoluzionario: egli potrà fare della fraseologia anarcoide, non sposterà di una linea le ferree condizioni in cui la lotta reale si svolge. La misura in cui il Partito nel suo complesso, e cioè tutta la massa degli inscritti, riuscirà a svolgere il suo compito essenziale di conquista della maggioranza dei lavoratori e di trasformazione molecolare delle basi dello Stato democratico sarà la misura dei nostri progressi nel cammino della rivoluzione, consentirà il passaggio a una fase successiva di sviluppo. Tutto il Partito, in tutti i suoi organismi, ma specialmente con la sua stampa, deve lavorare unitariamente per ottenere il massimo rendimento del lavoro di ognuno. Oggi siamo in linea per la lotta generale contro il regime fascista. Alle stolte campagne dei giornali delle opposizioni rispondiamo dimostrando la nostra reale volontà di abbattere non solo il fascismo di Mussolini e Farinacci, ma anche il semifascismo di Amendola, Sturzo, Turati. Per ottenere ciò occorre riorganizzare le grandi masse e diventare un grande partito, il solo partito nel quale la popolazione lavoratrice veda l'espressione della sua volontà politica, il presidio dei suoi interessi immediati e permanenti nella storia. La caduta del fascismo(25) Primo vi è un problema politico contingente, e cioè, come si rovescia il ministero presieduto da Benito Mussolini. Le opposizioni borghesi, le quali hanno posto questo problema nel modo piú ristretto possibile, credendo cosí di aver un compito piú facile da assolvere, si stanno dibattendo dal mese di giugno in un vicolo cieco. Pensare infatti di ridurre la crisi del ministero Mussolini ad una qualsiasi crisi ministeriale è cosa assurda. Anzitutto vi è la Milizia che obbedisce solo a Mussolini e lo pone assolutamente al di fuori del terreno di una manovra politica normale. Per superare l'ostacolo della Milizia si è lottato per parecchi mesi, ma sopra un terreno inadeguato. Si è lavorato l'esercito, si è scoperto il re. Ma alla fine ci si è trovati al punto di prima. Mussolini non se ne va. Anche dato che con la Milizia si possano fare i conti a buon mercato, non appena la questione della eliminazione di Mussolini dal governo viene posta in modo concreto, un problema non solo piú grave ma di carattere ancora piú decisivo si presenta: chi farà il processo Matteotti? Un governo di Mussolini non può lasciar fare il processo Matteotti. I motivi sono noti. Ma Mussolini non se ne può nemmeno andare e non se ne andrà fino a che non è sicuro che il processo non verrà fatto, né da lui né da nessuno. Anche qui, i motivi tutti li sanno. Non fare il processo (e non fare il processo vuol dire liberare, presto o tardi e forse piú presto che tardi, gli attuali arrestati) vuol però dire andare incontro a una insurrezione dell'opinione pubblica, vuol dire porre il governo alla mercé di qualsiasi ricattatore e spacciatore di documenti riservati e mantenersi ritti sul filo di una spada. Non fare il processo vuol dire lasciare una piaga sempre aperta, con la possibilità di una «opposizione morale» ben piú importante ed efficace, in determinate occasioni, di qualsiasi opposizione politica. Ora, che la borghesia, in «ogni» sua frazione, sia disposta a non parlar piú né del delitto né del processo, pur di ridare saldezza al suo regime, è cosa da non mettere in dubbio. Si dice che il tema sia anzi già stato sviluppato, - in riunioni delle opposizioni. Ma altrettanto vero è che la campagna sul delitto e per il processo non può essere lasciata in retaggio a gruppi antiborghesi, ad esempio, a un partito proletario. Metter le cose in tacere, non significherebbe infatti ottenere che 39 milioni di italiani se ne dimentichino. Nessuna novità, dunque, per vie normali. La politica del fascismo e della borghesia reazionaria si è inceppata, - il giorno in cui l'opinione pubblica è unanimemente insorta per il delitto Matteotti, e Mussolini è stato travolto da questa insurrezione fino a compiere alcune mosse che dovevano avere ed avranno conseguenze incalcolabili, - in un ostacolo irremovibile. Per qualcosa di simile e di molto meno grave, ai tempi del processo Dreyfus, la società e lo Stato francese furono portati fino sul limite di una rivoluzione. Era però in gioco, si dice, qualcosa di piú profondo di una questione morale, era in gioco un problema di rotazione di classi e categorie sociali al governo. Ma anche in Italia, e con le dovute aggravanti, è cosí. E veniamo quindi al secondo aspetto del problema, al problema sostanziale, non del ministero Mussolini, o della Milizia, o del processo, e dei simili, ma del regime di cui la borghesia ha dovuto servirsi per spezzare le forze del movimento proletario. Questo secondo aspetto è, per noi tutti, l'essenziale, ma è collegato col primo inscindibilmente. Anzi, tutti i dilemmi e le incertezze e difficoltà che rendono impossibile la previsione di una soluzione di carattere limitato, come hanno in mente le opposizioni e tutti i borghesi, sono un sintomo di contrasti sostanziali profondissimi. Alla base di tutto vi è il problema stesso del fascismo, movimento che la borghesia riteneva dovesse essere semplice «strumento» di reazione nelle sue mani ed invece, una volta evocato e scatenato, è peggio del diavolo, e non si lascia piú dominare, ma va avanti per conto suo. L'uccisione di Matteotti, dal punto di vista della difesa del regime, fu profondissimo errore. L'«affare» del processo, che nessuno riesce a liquidare in modo pulito, è tale una ferita nel fianco del regime quale nessun movimento rivoluzionario, nel giugno 1924, era in grado di aprire. Esso è del resto non altro che la espressione e la conseguenza diretta della tendenza del fascismo a non porsi piú come semplice «strumento» della borghesia, ma a procedere nella serie delle sopraffazioni, delle violenze, dei delitti, secondo una sua ragione interna, che degli interessi della conservazione del regime attuale finisce per non tenere piú conto. Ed è quest'ultimo punto quello che noi dobbiamo esaminare e giudicare piú attentamente, per avere un filo direttivo nella risoluzione del problema che stiamo discutendo. La tendenza del fascismo che abbiamo cercato di caratterizzare spezza l'alternativa normale di periodi di reazione e periodi di «democrazia» in modo che a tutta prima può sembrare favorevole alla conservazione di una linea reazionaria, e ad una piú rigida difesa del regime capitalistico, ma in realtà può risolversi nel contrario. Vi sono infatti elementi i quali influiscono sulla situazione in modo recisamente contrario ad ogni piano di conservazione del regime borghese e dell'ordine capitalistico. Vi è la crisi economica, vi è il disagio delle grandi masse, vi è la esasperazione provocata dalla compressione fascista e poliziesca. Vi è una situazione tale per cui, mentre i centri politici della borghesia non riescono a concludere le loro manovre di salvataggio, si rende sempre piú possibile l'intervento in campo delle forze della classe lavoratrice, e il dilemma fascismo-democrazia tende a convertirsi nell'altro: fascismo-insurrezione proletaria. La cosa può essere tradotta anche in termini molto concreti. Nel giugno, immediatamente dopo il delitto Matteotti, il colpo subíto dal regime fu cosí forte che un intervento immediato di una forza rivoluzionaria ne avrebbe posto in pericolo le sorti. L'intervento non fu possibile perché nella maggioranza le masse erano o incapaci di muoversi oppure orientate verso soluzioni intermedie, sotto la influenza dei democratici e dei socialdemocratici. Sei mesi di incertezza e di crisi senza vie di uscita hanno accelerato inesorabilmente il processo di distacco delle masse dai gruppi borghesi e di adesione al partito e alle tesi rivoluzionarie. La liquidazione completa della posizione delle opposizioni la quale appare ogni giorno piú certa, darà a questo processo una spinta definitiva: allora, anche di fronte alle masse, il problema della caduta del fascismo si presenterà nei suoi termini veri. La funzione del riformismo in Italia(26) Per molto tempo al riformismo in Italia è stato possibile celarsi sotto la bandiera del socialismo, per una mancanza di chiarezza delle sue concezioni nel movimento operaio. È recente infatti la formazione di un Partito riformista, ma non è recente il riformismo in Italia. Se Filippo Turati, capo di questa corrente, ha potuto essere scambiato per molto tempo come socialista, ciò è avvenuto a causa della lentezza con cui si sono sviluppati i partiti in Italia. Studiosi ed osservatori inglesi si stupivano infatti fin da prima della guerra di vedere la borghesia italiana avere Turati in considerazione di socialista. Ma l'errore non è stato commesso soltanto dalla classe borghese: lo stesso errore è stato fino a qualche anno fa accreditato anche presso la classi lavoratrici. Che cosa sia il socialismo di Turati e del suo partito oggi è chiaro, a tutti; esso è un liberalismo democratico, che, come negli altri paesi capitalisti, tiene la funzione di «sinistra borghese». Prima di arrivare a chiarire cosí la funzione del riformismo in Italia, molte lezioni sono state necessarie alla classe operaia, compresa quella del fascismo, la piú terribile e la piú vicina storicamente. È solo con gli avvenimenti del dopo guerra e con l'esperienza del proletariato internazionale che la classe operaia giunge anche in Italia all'elaborazione di una sana dottrina politica marxista, in modo da distinguere le due funzioni di socialismo e riformismo. Prima della guerra il partito politico della classe operaia era rimasto uno solo: il Partito socialista. Per molti anni in questo Partito si erano svolti dibattiti sul socialismo rivoluzionario e sulle riforme, sulla collaborazione e sull'intransigenza. Ma da questi dibattiti non si era mai giunti alla elaborazione di una tattica e di un programma socialista in modo da smascherare la tendenza riformista per quella che è realmente, una tendenza cioè borghese infiltratasi nel movimento operaio. Intransigente e riformista [dovevano] stare insieme nello stesso partito, il che implicava necessariamente una piattaforma comune d'azione. Questa piattaforma noi la troviamo specialmente nella base elettorale che il Partito socialista s'era data in Italia. Malgrado tutti i richiami alla lotta di classe e alle affermazioni verbali di rivoluzionarismo il Partito socialista italiano era rimasto sostanzialmente un partito democratico, a somiglianza di tutti gli altri partiti che si erano sviluppati nei limiti della II Internazionale. Questo carattere del Partito socialista è risultato in primo luogo nella tattica di fronte alla guerra. La formula di «neutralismo» che per la borghesia italiana appariva disfattista e sovversiva al lume della critica socialista è stata giudicata e condannata come una formula equivoca e opportunista. E lo era tanto infatti, che persino i social-patrioti Turati e Treves potevano accettare la stessa formula e apparire agli occhi delle masse come degli anti-guerrafondai, benché tali non fossero da ritenersi menomamente. La guerra cessò e se ne iniziò il periodo delle conseguenze. La crisi rivoluzionaria del dopoguerra sorprende il Partito socialista impreparato ad affrontare tutti i problemi della rivoluzione proletaria. Mancano idee chiare sulla funzione del Partito, sui compiti della classe operaia nella conquista del potere e nella creazione dello Stato proletario. Il periodo del dopoguerra segna appunto il periodo di preparazione piú intensa della classe operaia rivoluzionaria. La esperienza del proletariato russo viene studiata, assimilata, fatta propria dal proletariato italiano. Attraverso una lunga serie di agitazioni e di movimenti la classe operaia si forgia la sua coscienza rivoluzionaria. La fabbrica diventa il centro di formazione di questa nuova coscienza. I problemi del controllo operaio, della produzione socialista, dello Stato operaio, della funzione del Partito proletario, dei rapporti tra il Partito e la rivoluzione sono quelli di cui si occupa in questo periodo la classe operaia. La tradizione democratica del Partito socialista è spezzata; la vecchia tradizionale piattaforma elettorale è infranta; una nuova educazione proletaria si forma; si determinano nuovi orientamenti nel seno della classe operaia. Da tutto questo interno travaglio della classe operaia sorge nel 1921 il Partito comunista, sezione d'Italia dell'Internazionale comunista. Ma il riformismo non abbandona ancora la sua maschera; esso continua ancora a celarsi sotto il nome di socialismo, il quale, da questo momento, diventa equivalente di opportunismo cioè di anti-socialismo. Quale la tattica seguita sin qui dai riformisti? Di fronte al profondo risveglio determinato in mezzo ai lavoratori italiani dalla Russia rivoluzionaria, i riformisti non hanno seguito la tattica di una opposizione netta ed aperta, che li avrebbe gettati in un isolamento completo. Al contrario essi hanno preferito agire con l'ipocrisia nota a tutti i social-traditori, per mascherare i loro piani controrivoluzionari. E hanno accettato di recarsi in Russia, come D'Aragona e altri, a rappresentare il proletariato rivoluzionario italiano; e hanno mostrato di accettare il concetto della dittatura proletaria, pur deformandolo come nella mozione di Reggio Emilia; e non hanno ripudiato nemmeno il concetto della violenza, come lo stesso Turati si sforzò di provare nei suoi discorsi di Bologna e di Livorno. Questo atteggiamento dei riformisti è stato poi definito cosí da D'Aragona: «I riformisti sono rimasti nel Partito socialista per sabotare la rivoluzione». Appunto per sabotare la rivoluzione, cioè per salvare la borghesia dall'avanzata della classe operaia, i riformisti hanno di tradimento in tradimento condotto i lavoratori italiani alla sconfitta, creando cosí le condizioni favorevoli allo sviluppo e al successo del fascismo. Prima della guerra, i riformisti hanno esercitato nel Partito socialista la funzione di controrivoluzionari, facendo accettare alle masse che seguivano questo Partito, benché minoranza, la loro ideologia social-pacifista. Nel dopoguerra, rimanendo nel Partito socialista, i riformisti, che conservavano nelle loro mani le maggiori organizzazioni operaie, hanno potuto, attraverso deviazioni d'ogni sorta, continuare la loro opera controrivoluzionaria, col sistematico sabotaggio di tutti i movimenti che potevano sboccare nella lotta del proletariato per la conquista del potere. Esempio tipico: l'occupazione delle fabbriche. La funzione e la natura controrivoluzionaria dei riformisti si sono però chiaramente rivelate in quest'ultimo periodo, dopo la formazione d'una salda avanguardia rivoluzionaria in Italia e gli sviluppi politici determinati dal fascismo. Ogni maschera è caduta. I riformisti hanno dovuto apparire nella loro vera luce, malgrado osino richiamarsi ancora assai blandamente ai princípi della lotta di classe. La loro funzione di servi del capitalismo e di agenti borghesi nel movimento operaio è risultata con grande evidenza dagli ultimi fatti e specialmente dai provvedimenti presi dai capi confederali, con la recente espulsione di tre organizzatori comunisti. Qual è l'esatto significato di questa mossa dei capi confederali? Essa non può essere spiegata, se non ponendola in rapporto alle trattative in corso fra popolari, giolittiani e riformisti. Staccati dall'avanguardia rivoluzionaria della classe operaia, i socialisti non potevano che finire nelle braccia della borghesia. Questo processo che si è verificato da tempo negli altri paesi capitalisti, va rapidamente compiendosi anche in Italia. I riformisti, dopo aver sabotato il movimento rivoluzionario, non si sono acquistati abbastanza titoli di gloria agli occhi della classe borghese, per meritarne la fiducia. Essi devono mostrare ora che non solo sono disposti a sabotare il movimento operaio rivoluzionario, ma anche a combatterlo; devono cioè rassicurare la borghesia che la loro tattica e il loro programma di governo non sono diversi dalla tattica e dal programma dei laburisti inglesi e dei socialdemocratici tedeschi. Come i laburisti inglesi, essi - i riformisti italiani - sarebbero, all'occasione, buoni monarchici e buoni amministratori dei banchieri italiani, come i socialdemocratici tedeschi (repubblicani loro malgrado; lo ha confessato il presidente Ebert) essi saprebbero, in caso di bisogno, far funzionare le mitragliatrici contro i comunisti, né piú né meno che sull'esempio di Amburgo. L'espulsione dei primi comunisti dalla Confederazione non deve intendersi dunque se non come un'azione dimostrativa diretta a rassicurare le frazioni borghesi, in questi giorni di trattative fra popolari, giolittiani e riformisti. La mossa dei capi confederali completa la mossa dei popolari ispirata del resto dall'on. Turati. Bisogna creare un nuovo blocco anticomunista, dopo l'esperimento fascista. E i riformisti hanno voluto crearsi un nuovo titolo di merito per entrare a farvi parte. La funzione del Partito socialista unitario è cosí storicamente decisa: essa è la medesima del partito di Noske. A chi l'onore di rappresentare per l'Italia la parte del social-traditore tedesco? La scuola di Partito(27) Mentre si inizia il primo corso di una scuola di Partito, non possiamo a meno di pensare ai numerosi tentativi che in questo campo sono stati fatti, in seno al movimento operaio italiano, e alla singolare sorte che essi hanno avuto. Lasciamo da parte i tentativi compiuti in una direzione che non è la nostra, nella direzione delle «Università» proletarie senza colore di partito, accademie oratorie prive di ogni interno principio di coesione unitaria nei suoi migliori, veicolo spesso della influenza sulla classe operaia di sforzo e di ideologie antiproletarie. Essi hanno avuto il destino che loro conveniva, di succedersi e intrecciarsi senza lasciare nessuna traccia profonda. Ma nemmeno sui tentativi fatti nel campo nostro e sulle nostre direttive si può dire molto di diverso. Essi ebbero anzitutto sempre carattere sporadico, e inoltre non portarono mai a risultati soddisfacenti. Ricordiamo ad esempio nel 1919-1920. La scuola allora iniziata a Torino tra un grande fervore di entusiasmo e in condizioni assai favorevoli non durò nemmeno tutto il tempo necessario a svolgere il programma tracciato all'inizio. Essa ebbe, nonostante ciò, una ripercussione assai favorevole nel movimento nostro, non però quello che se ne attendevano i promotori e gli allievi. Degli altri tentativi, nessuno a quanto noi conosciamo, ebbe il successo e la ripercussione di quello. Non si uscí mai dal gruppo limitato, dal piccolo circolo, dallo sforzo di pochi isolati. Non si riuscí a combattere e superare l'aridità e l'infecondità dei ristretti movimenti «culturali» borghesi. Motivo fondamentale di questi insuccessi l'assenza di un legame tra le «scuole» progettate o iniziate e un movimento di carattere oggettivo. L'unico caso in cui questo legame esiste, è quello della scuola dell'Ordine Nuovo di cui sopra abbiamo parlato. In questo caso però, il movimento di carattere oggettivo, - il movimento torinese di fabbrica e di partito, - è di tal mole che soverchia e quasi annulla di fronte a sé il tentativo di creare una scuola nella quale siano affinate le capacità tecniche dei militanti. Una scuola adeguata alla importanza di quel movimento avrebbe richiesto, non l'attività di pochi, ma lo sforzo sistematico e ordinato di un partito intiero. Considerata a questo modo la cattiva sorte toccata fino ad ora ai tentativi di creare delle scuole per i militanti del proletariato, - considerata cioè in relazione con la sua causa fondamentale, - essa appare non tanto come un male, ma come segno di inattaccabilità del movimento operaio da parte di quello che sarebbe, per esso, effettivamente un male. Male sarebbe se il movimento operaio diventasse campo di preda o strumento di esperienza per la sufficienza di male accorti pedagoghi, se esso perdesse i suoi caratteri di appassionata milizia per assumere quelli di studio oggettivo e di «cultura» disinteressata. Né uno «studio oggettivo», né una «cultura disinteressata» possono aver luogo nelle nostre file, nulla quindi che assomigli a ciò che viene considerato come oggetto normale di insegnamento secondo la concezione umanistica, borghese, della scuola. Siamo una organizzazione di lotte, e nelle nostre file si studia per accrescere, per affinare le capacità di lotta dei singoli e di tutta la organizzazione, per comprendere meglio quali sono le posizioni del nemico e le nostre, per poter meglio adeguare ad esse la nostra azione di ogni giorno. Studio e cultura non sono per noi altro che coscienza teorica dei nostri fini immediati e supremi, e del modo come potremo riuscire a tradurli in atto. Fino a qual punto questa coscienza oggi esiste nel nostro Partito, è diffusa nelle sue file, è penetrata nei compagni che ricoprono funzioni di direzione e nei semplici militanti che devono portare quotidianamente a contatto con le masse le parole del Partito, rendere efficaci i suoi ordini, realizzare le sue direttive? Non ancora, crediamo noi, nella misura necessaria a renderci adatti a compiere in pieno il nostro lavoro di guida del proletariato. Non ancora in misura adeguata al nostro sviluppo numerico, alle nostre risorse organizzative, alle possibilità politiche che la situazione ci offre. La scuola di Partito deve proporsi di colmare il vuoto che esiste tra quello che dovrebbe essere e quello che è. Essa è quindi strettamente collegata con un movimento di forze, che noi abbiamo diritto di considerare come le migliori che la classe operaia italiana ha espresso dal suo seno. È l'avanguardia del proletariato, la quale forma e istruisce i suoi quadri, che aggiunge un'arma - la sua coscienza teorica e la dottrina rivoluzionaria, - a quelle con le quali essa si appresta ad affrontare i suoi nemici o le sue battaglie. Senza quest'arma il Partito non esiste, e senza Partito nessuna vittoria è possibile. Necessità di una preparazione ideologica di massa(28) Da quasi cinque anni il movimento operaio rivoluzionario italiano è piombato in una situazione di illegalità o di semilegalità. La libertà di stampa, il diritto di riunione, di associazione, di propaganda sono praticamente soppressi. La formazione dei quadri dirigenti del proletariato non può quindi piú avvenire per le vie e coi metodi che erano tradizionali in Italia fino al 1921. Gli elementi operai piú attivi sono perseguitati, sono controllati in ogni loro movimento, in ogni loro lettura; le biblioteche operaie sono state incendiate o altrimenti disperse; le grandi organizzazioni e le grandi azioni di massa non esistono piú o non possono attuarsi. I militanti non partecipano affatto o partecipano solo in misura limitatissima alle discussioni e al contrasto delle idee; la vita isolata o la riunione saltuaria di piccoli gruppi riservati, l'abitudine che può venire formandosi a una vita politica che in altri tempi pareva d'eccezione, suscitano sentimenti, stati d'animo, punti di vista che sono spesso errati e talvolta persino morbosi. I nuovi membri che il Partito acquista in una tale situazione, evidentemente uomini sinceri e di vigorosa fede rivoluzionaria, non possono venire educati ai nostri metodi dall'attività ampia, dalle larghe discussioni, dal controllo reciproco che sono propri dei periodi di democrazia e di legalità. Si prospetta cosí un pericolo molto grave: la massa del Partito, abituandosi, nell'illegalità, a non pensare ad altro che agli espedienti necessari per sfuggire alle sorprese del nemico, abituandosi a vedere possibili e organizzabili immediatamente solo azioni di piccoli gruppi, vedendo come i dominatori apparentemente abbiano vinto e conservino il potere con l'opera di minoranze armate e inquadrate militarmente, si allontana insensibilmente dalla concezione marxista dell'attività rivoluzionaria del proletariato, e mentre pare si radicalizzi, per il fatto che si sentono spesso enunziare propositi estremisti e frasi sanguinolente, in realtà diventa incapace a vincere il nemico. La storia della classe operaia, specialmente nell'epoca che attraversiamo, mostra come questo pericolo non sia immaginario. La ripresa dei partiti rivoluzionari, dopo un periodo di illegalità, è spesso caratterizzata da un irrefrenabile impulso all'azione per l'azione, dall'assenza di ogni considerazione dei rapporti reali delle forze sociali, dello stato d'animo delle grandi masse operaie e contadine, delle condizioni dell'armamento, ecc. È avvenuto cosí troppo spesso che il Partito rivoluzionario si sia fatto massacrare dalla reazione non ancora disgregata, e le cui riserve non erano state giustamente apprezzate, tra l'indifferenza e la passività delle grandi masse le quali, dopo ogni periodo reazionario, diventano molto prudenti e sono facilmente colte da panico ogni qualvolta si minaccia un ritorno alla situazione da cui sono allora allora uscite. È difficile, in linea generale, che tali errori non si verifichino; è perciò doveroso che il Partito se ne preoccupi e svolga una determinata attività che specialmente tenda a migliorare la sua organizzazione, ad elevare il livello intellettuale dei membri che si trovano nelle sue file nel periodo del terrore bianco e che sono destinati a diventare il nucleo centrale e piú resistente ad ogni prova e ad ogni sacrificio del Partito che guiderà la rivoluzione ed amministrerà lo Stato proletario. Il problema appare cosí piú largo e piú complesso. La ripresa del movimento rivoluzionario e specialmente la sua vittoria, riversano nel Partito una grande massa di nuovi elementi. Essi non possono essere respinti, specialmente se di origine proletaria, poiché appunto la loro adesione è uno dei segni piú sintomatici della rivoluzione che sta compiendosi; ma il problema si pone di impedire che il nucleo centrale del Partito sia sommerso e disgregato dalla nuova impetuosa ondata. Tutti ricordiamo ciò che è avvenuto in Italia, dopo la guerra, nel Partito socialista. Il nucleo centrale, costituito dai compagni rimasti fedeli alla causa durante il cataclisma, si restrinse fino a ridursi al numero di 16.000 circa. Al Congresso di Livorno erano rappresentati 220.000 soci, cioè esistevano nel Partito 200.000 aderenti del dopoguerra, senza preparazione politica, digiuni o quasi di ogni nozione della dottrina marxista, facile preda dei piccoli borghesi declamatori e fanfaroni che costituirono negli anni 1919-20 il fenomeno del massimalismo. Non è senza significato che l'attuale capo del Partito socialista e direttore dell'Avanti! sia proprio Pietro Nenni, entrato nel Partito socialista dopo Livorno, ma che riassume e sintetizza in sé tutte le debolezze ideologiche e i caratteri distintivi del massimalismo del dopoguerra. Sarebbe veramente delittuoso che nel Partito comunista si verificasse per rispetto al periodo fascista ciò che si è verificato nel Partito socialista per rispetto al periodo della guerra: ma ciò sarebbe inevitabile, se il nostro Partito non avesse una direttiva anche in questo campo, se esso non provvedesse a tempo a rinforzare ideologicamente e politicamente i suoi attuali quadri e i suoi attuali membri, per renderli capaci di contenere e inquadrare masse ancora piú larghe senza che l'organizzazione subisca troppe scosse e senza che la figura del Partito ne venga mutata. Abbiamo posto il problema nei suoi termini pratici piú immediati. Ma esso ha una base che è superiore ad ogni contingenza immediata. Noi sappiamo che la lotta del proletariato contro il capitalismo si svolge su tre fronti: quello economico, quello politico, e quello ideologico. La lotta economica ha tre fasi: di resistenza contro il capitalismo, cioè la fase sindacale elementare; di offensiva contro il capitalismo per il controllo operaio sulla produzione; di lotta per l'eliminazione del capitalismo attraverso la socializzazione. Anche la lotta politica ha tre fasi principali: lotta per infrenare il potere della borghesia nello Stato parlamentare, cioè per mantenere o creare una situazione democratica di equilibrio tra le classi che permetta al proletariato di organizzarsi e svilupparsi; lotta per la conquista del potere e per la creazione dello Stato operaio, cioè un'azione politica complessa attraverso la quale il proletariato mobilita intorno a sé tutte le forze sociali anticapitalistiche (in prima linea la classe contadina), e le conduce alla vittoria; fase della dittatura del proletariato organizzato in classe dominante per eliminare tutti gli ostacoli tecnici e sociali, che si frappongono alla realizzazione del comunismo. La lotta economica non può essere disgiunta dalla lotta politica, e né l'una né l'altra possono essere disgiunte dalla lotta ideologica. Nella sua prima fase sindacale, la lotta economica è spontanea, cioè essa nasce ineluttabilmente dalla stessa situazione in cui il proletario si trova nel regime borghese, ma non è di per se stessa rivoluzionaria, cioè non porta necessariamente all'abbattimento del capitalismo, come hanno sostenuto e continuano a sostenere con minor successo i sindacalisti. Tanto vero che i riformisti e persino i fascisti ammettono la lotta sindacale elementare, anzi sostengono che il proletariato come classe non debba esplicare altra lotta che quella sindacale. I riformisti si differenziano dai fascisti solo in quanto sostengono che se non il proletariato come classe, almeno i proletari come individui, cittadini, lottino anche per la «democrazia in generale», cioè per la democrazia borghese, in altre parole lottino solo per mantenere o creare le condizioni politiche della pura lotta di resistenza sindacale. Perché la lotta sindacale diventi un fattore rivoluzionario, occorre che il proletariato l'accompagni con la lotta politica, cioè che il proletariato abbia coscienza di essere il protagonista di una lotta generale che investe tutte le quistioni piú vitali dell'organizzazione sociale, cioè abbia coscienza di lottare per il socialismo. L'elemento «spontaneità» non è sufficiente per la lotta rivoluzionaria: esso non porta mai la classe operaia oltre i limiti della democrazia borghese esistente. È necessario l'elemento coscienza, l'elemento «ideologico», cioè la comprensione delle condizioni in cui si lotta, dei rapporti sociali in cui l'operaio vive, delle tendenze fondamentali che operano nel sistema di questi rapporti, del processo di sviluppo che la società subisce per l'esistenza nel suo seno di antagonismi irriducibili, ecc. I tre fronti della lotta proletaria si riducono a uno solo, per il Partito della classe operaia, che è tale appunto perché riassume e rappresenta tutte le esigenze della lotta generale. Non si può certo domandare ad ogni operaio della massa di avere una completa coscienza di tutta la complessa funzione che la sua classe è determinata a svolgere nel processo di sviluppo dell'umanità: ma ciò deve essere domandato ai membri del Partito. Non ci si può proporre, prima della conquista dello Stato, di modificare completamente la coscienza di tutta la classe operaia; sarebbe utopistico, perché la coscienza della classe come tale si modifica solo quando sia stato modificato il modo di vivere della classe stessa, cioè quando il proletariato sarà diventato classe dominante, avrà a sua disposizione l'apparato di produzione e di scambio e il potere statale. Ma il Partito può e deve nel suo complesso, rappresentare questa coscienza superiore; altrimenti esso non sarà alla testa, ma alla coda delle masse, non le guiderà, ma ne sarà trascinato. Perciò il Partito deve assimilare il marxismo e deve assimilarlo nella sua forma attuale, come leninismo. L'attività teorica, la lotta cioè sul fronte ideologico, è sempre stata trascurata nel movimento operaio italiano. In Italia il marxismo (all'infuori di Antonio Labriola) è stato studiato piú dagli intellettuali borghesi, per snaturarlo e rivolgerlo ad uso della politica borghese, che dai rivoluzionari. Abbiamo visto perciò nel Partito socialista italiano convivere insieme pacificamente le tendenze piú disparate, abbiamo visto essere opinioni ufficiali del Partito le concezioni piú contraddittorie. Mai le Direzioni del Partito immaginarono che per lottare contro la ideologia borghese, per liberare cioè le masse dalla influenza del capitalismo, occorresse prima diffondere nel Partito stesso la dottrina marxista e occorresse difenderla da ogni contraffazione. Questa tradizione non è stata, per lo meno, interrotta in modo sistematico e con una attività notevole continuata. Si dice tuttavia che il marxismo ha avuto molta fortuna in Italia e in un certo senso ciò è vero. Ma è vero anche che una tale fortuna non ha giovato al proletariato, non ha servito a creare nuovi mezzi di lotta, non è stato un fenomeno rivoluzionario. Il marxismo, cioè alcune affermazioni staccate dagli scritti di Marx, hanno servito alla borghesia italiana per dimostrare che per le necessità del suo sviluppo era necessario fare a meno della democrazia, era necessario calpestare le leggi, era necessario ridere della libertà e della giustizia: cioè è stato chiamato marxismo, dai filosofi della borghesia italiana, la constatazione che Marx ha fatto dei sistemi che la borghesia adopera, senza bisogno di ricorrere a giustificazioni... marxiste, nella sua lotta contro i lavoratori. E i riformisti, per correggere questa interpretazione fraudolenta, sono essi diventati democratici, si sono essi fatti i turiferari di tutti i santi sconsacrati del capitalismo. I teorici della borghesia italiana hanno avuto l'abilità di creare il concetto della «nazione proletaria», cioè di sostenere che l'Italia tutta era una «proletaria» e che la concezione di Marx doveva applicarsi alla lotta dell'Italia contro gli altri Stati capitalistici, non alla lotta del proletariato italiano contro il capitalismo italiano; i «marxisti» del Partito socialista hanno lasciato passare senza lotta queste aberrazioni, che furono accettate da uno, Enrico Ferri, che passava per un grande teorico del socialismo. Questa fu la fortuna del marxismo in Italia: che esso serví da prezzemolo a tutte le indigeste salse che i piú imprudenti avventurieri della penna abbiano voluto mettere in vendita. È stato marxista in tal modo Enrico Ferri, Guglielmo Ferrero, Achille Loria, Paolo Orano, Benito Mussolini... Per lottare contro la confusione che si è andata in tal modo creando, è necessario che il Partito intensifichi e renda sistematica la sua attività nel campo ideologico, che esso ponga come un dovere del militante la conoscenza della dottrina del marxismo-leninismo almeno nei suoi termini piú generali. Il nostro Partito non è un partito democratico, almeno nel senso volgare che comunemente si dà a questa parola. È un Partito centralizzato nazionalmente e internazionalmente. Nel campo internazionale, il nostro Partito è una semplice sezione di un partito piú grande, di un partito mondiale. Quali ripercussioni può avere ed ha già avuto questo tipo di organizzazione, che pure è una ferrea necessità della rivoluzione? L'Italia stessa ci dà una risposta a questa domanda. Per reazione all'andazzo solito del Partito socialista, in cui si discuteva molto e si risolveva poco, la cui unità, per l'urto continuo delle frazioni, delle tendenze e spesso delle cricche personali si frantumava in una infinità di frammenti sconnessi, nel nostro Partito si era finito col non discutere piú nulla. La centralizzazione, l'unità di indirizzo e di concezione era diventata una stagnazione intellettuale. A ciò contribuí la necessità della lotta incessante contro il fascismo, che proprio alla fondazione del nostro Partito era già passato alla sua fase attiva ed offensiva, ma contribuí anche la concezione errata del Partito, cosí come è esposta nelle «Tesi sulla tattica» presentate al Congresso di Roma. La centralizzazione e l'unità erano concepite in modo troppo meccanico: il Comitato centrale, anzi, il Comitato esecutivo era tutto il Partito, invece di rappresentarlo e dirigerlo. Se questa concezione venisse permanentemente applicata, il Partito perderebbe i suoi caratteri distintivi politici e diventerebbe, nel migliore dei casi, un esercito (e un esercito di tipo borghese): perderebbe cioè la sua forza d'attrazione, si staccherebbe dalle masse. Perché il Partito viva e sia a contatto con le masse, occorre che ogni membro del Partito sia un elemento politico attivo, sia un dirigente. Appunto perché il Partito è fortemente centralizzato, si domanda una vasta opera di propaganda e di agitazione nelle sue file, è necessario che il Partito, in modo organizzato, educhi i suoi membri e ne elevi il livello ideologico. Centralizzazione vuol dire specialmente che in qualsiasi situazione, anche dello stato di assedio rinforzato, anche quando i comitati dirigenti non potessero funzionare per un determinato periodo o fossero posti in condizione di non essere collegati con tutta la periferia, tutti i membri del Partito, ognuno nel suo ambiente siano stati posti in grado di orientarsi, di saper trarre dalla realtà gli elementi per stabilire una direttiva, affinché la classe operaia non si abbatta ma senta di essere guidata e di poter ancora lottare. La preparazione ideologica di massa è quindi una necessità della lotta rivoluzionaria, è una delle condizioni indispensabili della vittoria. L'intervento alla Camera sulla massoneria(29) Presidente: Ha facoltà di parlare l'onorevole Gramsci. Gramsci: Il disegno di legge contro le società segrete è stato presentato alla Camera come un disegno di legge contro la massoneria; esso è il primo atto reale del fascismo per affermare quella che il Partito fascista chiama la sua rivoluzione. Noi, come Partito comunista, vogliamo ricercare non solo il perché della presentazione del disegno di legge contro le organizzazioni in generale, ma anche il significato del perché il Partito fascista ha presentato questa legge rivolta prevalentemente contro la massoneria. Noi siamo tra i pochi che abbiano preso sul serio il fascismo, anche quando il fascismo sembrava fosse solamente una farsa sanguinosa, quando intorno al fascismo si ripetevano solo i luoghi comuni sulla «psicosi di guerra», quando tutti i partiti cercavano di addormentare la popolazione lavoratrice presentando il fascismo come un fenomeno superficiale, di brevissima durata. Nel novembre 1920 abbiamo previsto che il fascismo sarebbe andato al potere - cosa allora inconcepibile per i fascisti stessi - se la classe operaia non avesse fatto a tempo ad infrenare, con le armi, la sua avanzata sanguinosa. Il fascismo, dunque, afferma oggi praticamente di voler «conquistare lo Stato». Cosa significa questa espressione ormai diventata luogo comune? E che significato ha, in questo senso, la lotta contro la massoneria? Poiché noi pensiamo che questa fase della «conquista fascista» sia una delle piú importanti attraversate dallo Stato italiano, e per ciò che riguarda noi che sappiamo di rappresentare gli interessi della grande maggioranza del popolo italiano, gli operai e i contadini, cosí crediamo necessaria una analisi, anche se affrettata, della quistione. Che cosa è la massoneria? Voi avete fatto molte parole sul significato spirituale, sulle correnti ideologiche che essa rappresenta, ecc.; ma tutte queste sono forme di espressione di cui voi vi servite solo per ingannarvi reciprocamente, sapendo di farlo. La massoneria, dato il modo con cui si è costituita l'Italia in unità, data la debolezza iniziale della borghesia capitalistica italiana, la massoneria è stata l'unico partito reale ed efficiente che la classe borghese ha avuto per lungo tempo. Non bisogna dimenticare che poco meno che venti anni dopo l'entrata a Roma dei piemontesi, il Parlamento è stato sciolto e il corpo elettorale da circa 3 milioni di elettori è stato ridotto ad 800 mila. È stata questa la confessione esplicita da parte della borghesia di essere un'infima minoranza della popolazione, se dopo venti anni di unità, essa è stata costretta a ricorrere ai mezzi piú estremi di dittatura per mantenersi al potere, per schiacciare i suoi nemici di classe, che erano i nemici dello Stato unitario. Quali erano questi nemici? Era prevalentemente il Vaticano, erano i gesuiti, e bisogna ricordare all'onorevole Martire come accanto ai gesuiti che vestono l'abito talare, esistono i gesuiti laici, i quali non hanno nessuna speciale montura che indichi il loro ordine religioso. Nei primi anni dopo la fondazione del regno i gesuiti hanno dichiarato espressamente in tutta una serie di articoli pubblicati da Civiltà Cattolica, quale fosse il programma politico del Vaticano e delle classi che allora erano rappresentanti del Vaticano, cioè delle vecchie classi semifeudali tendenzialmente borboniche nel Meridione, o tendenzialmente austriacanti nel Lombardo-Veneto, forze sociali numerosissime che la borghesia capitalistica non è riuscita mai a contenere, quantunque nel periodo del Risorgimento essa rappresentasse un progresso, e un principio rivoluzionario. I gesuiti della Civiltà Cattolica e cioè il Vaticano, ponevano a scopo della loro politica come primo punto il sabotaggio dello Stato unitario, attraverso l'astensione parlamentare, l'infrenamento dello Stato liberale per tutte quelle sue attività che potevano corrompere e distruggere il vecchio ordine; come secondo punto, la creazione di un'armata di riserva rurale da porre contro l'avanzata del proletariato, poiché fin dal '71 i gesuiti prevedevano che sul terreno della democrazia liberale sarebbe nato il movimento proletario, che si sarebbe sviluppato un movimento rivoluzionario. L'onorevole Martire ha oggi dichiarato che finalmente è stata raggiunta, alle spese della massoneria, l'unità spirituale della nazione italiana. Poiché la massoneria in Italia ha rappresentato l'ideologia e l'organizzazione reale della classe borghese capitalistica, chi è contro la massoneria è contro il liberalismo, è contro la tradizione politica della borghesia italiana. Le classi rurali che erano rappresentate nel passato dal Vaticano, sono rappresentate oggi prevalentemente dal fascismo; è logico pertanto che il fascismo abbia sostituito il Vaticano e i gesuiti nel compito storico per cui le classi piú arretrate della popolazione mettono sotto il loro controllo la classe che è stata progressiva nello sviluppo della civiltà; ecco il significato della raggiunta unità spirituale della nazione italiana, che sarebbe stato un fenomeno di progresso cinquant'anni fa; ed è oggi invece il fenomeno piú grande di regressione... [Interruzioni.] La borghesia industriale non è stata capace di infrenare il movimento operaio, non è stata capace di controllare né il movimento operaio, né quello rurale rivoluzionario. La prima istintiva e spontanea parola d'ordine del fascismo, dopo l'occupazione delle fabbriche, è stata perciò questa: «I rurali controlleranno la borghesia urbana che non sa essere forte contro gli operai». Se non m'inganno, allora, onorevole Mussolini, non era questa la vostra tesi, e tra il fascismo rurale e il fascismo urbano dicevate di preferire il fascismo urbano... Mussolini, presidente del Consiglio dei ministri: Bisogna che la interrompa per ricordarle un mio articolo di alto elogio al fascismo rurale del 1921-22. Gramsci: Ma questo non è un fenomeno puramente italiano, quantunque in Italia, per la piú grande debolezza del capitalismo, abbia avuto il massimo di sviluppo; è un fenomeno europeo e mondiale, di estrema importanza per comprendere la crisi generale del dopoguerra, sia nel dominio dell'attività pratica che nel dominio delle idee e della cultura. L'elezione di Hindenburg in Germania, la vittoria dei conservatori in Inghilterra con la liquidazione dei rispettivi partiti liberali democratici, sono il corrispettivo del movimento fascista italiano; le vecchie forze sociali, originariamente anticapitalistiche, coordinatesi al capitalismo, ma non assorbite completamente da esso, hanno preso il sopravvento nell'organizzazione degli Stati portando nell'attività reazionaria tutto il fondo di ferocia e di spietata decisione che è stata sempre loro propria; ma in sostanza noi abbiamo un fenomeno di regressione storica che non è e non sarà senza risultanza per lo sviluppo della rivoluzione proletaria. Esaminata su questo terreno, l'attuale legge contro le associazioni sarà una forza o è invece destinata ad essere completamente irrita e vana? Corrisponderà essa alla realtà, potrà essere il mezzo per una stabilizzazione del regime capitalistico o sarà solo un nuovo, perfezionato strumento dato alla polizia per arrestare Tizio, Caio, e Sempronio?... Il problema, pertanto, è questo: la situazione del capitalismo in Italia è rafforzata o si è indebolita dopo la guerra, col fascismo? Quali erano le debolezze della borghesia capitalistica italiana prima della guerra, debolezze che hanno portato alla creazione di quel determinato sistema politico massonico che esisteva in Italia? che ha avuto il suo massimo sviluppo nel giolittismo? Le debolezze massime della vita nazionale italiana erano in primo luogo la mancanza di materie prime, cioè l'impossibilità della borghesia di creare in Italia una industria che avesse una sua radice profonda nel paese e che potesse progressivamente svilupparsi, assorbendo la mano d'opera esuberante. In secondo luogo, la mancanza di colonie legate alla madre patria, quindi l'impossibilità per la borghesia di creare un'aristocrazia operaia che permanentemente potesse essere alleata della borghesia stessa. Terzo, la quistione meridionale, cioè la quistione dei contadini, legata strettamente al problema dell'emigrazione che è la prova della incapacità della borghesia italiana di mantenere... [Interruzioni.] Mussolini: Anche i tedeschi sono emigrati a milioni. Gramsci: Il significato dell'emigrazione in massa dei lavoratori è questo: il sistema capitalistico, che è il sistema predominante, non è in grado di dare il vitto, l'alloggio e i vestiti alla popolazione, e una parte non piccola di questa popolazione è costretta ad emigrare... Rossoni: Quindi la nazione si deve espandere nell'interesse del proletariato. Gramsci: Noi abbiamo una nostra concezione dell'imperialismo e del fenomeno coloniale, secondo la quale essi sono prima di tutto una esportazione di capitale finanziario. Finora l'«imperialismo» italiano è consistito solo in questo: che l'operaio italiano emigrato lavora per il profitto dei capitalisti degli altri paesi, cioè finora l'Italia è stata solo un mezzo dell'espansione del capitale finanziario non italiano. Voi vi sciacquate sempre la bocca con le affermazioni piú puerili di una pretesa superiorità demografica dell'Italia sugli altri paesi; voi dite sempre, per esempio, che l'Italia demograficamente è superiore alla Francia. È una questione questa che solo le statistiche possono risolvere perentoriamente ed io qualche volta mi occupo di statistiche; ora una statistica pubblicata nel dopoguerra, mai smentita, e che non può essere smentita, afferma che l'Italia di prima della guerra dal punto di vista demografico si trovava già nella stessa situazione della Francia dopo la guerra; ciò è determinato dal fatto che l'emigrazione allontana dal territorio nazionale una tal massa di popolazione maschile, produttivamente attiva, che i rapporti demografici diventano catastrofici. Nel territorio nazionale rimangono vecchi, donne, bambini, invalidi, cioè la parte della popolazione passiva che grava sulla popolazione lavoratrice in una misura superiore a qualsiasi altro paese, anche alla Francia. È questa la debolezza fondamentale del sistema capitalistico italiano, per cui il capitalismo italiano è destinato a scomparire tanto piú rapidamente quanto piú il sistema capitalistico mondiale non funziona piú per assorbire l'emigrazione italiana, per sfruttare il lavoro italiano, che il capitalismo nostrale è impotente a inquadrare. I partiti borghesi, la massoneria, come hanno cercato di risolvere questi problemi? Conosciamo nella storia italiana degli ultimi tempi due piani politici della borghesia per risolvere la questione del governo del popolo italiano. Abbiamo avuto la pratica giolittiana, il collaborazionismo del socialismo italiano con il giolittismo, cioè il tentativo di stabilire una alleanza della borghesia industriale con una certa aristocrazia operaia settentrionale per opprimere, per soggiogare a questa formazione borghese-industriale la massa dei contadini italiani, specialmente nel Mezzogiorno. Il programma non ha avuto successo. Nell'Italia settentrionale si costituisce, difatti, una coalizione borghese-proletaria attraverso la collaborazione parlamentare e la politica dei lavori pubblici alle cooperative; nell'Italia meridionale si corrompe il ceto dirigente e si domina la massa coi mazzieri... [Interruzioni del deputato Greco.] Voi fascisti siete stati i maggiori artefici del fallimento di questo piano politico, poiché avete livellato nella stessa miseria l'aristocrazia operaia e i contadini poveri di tutta Italia. Abbiamo avuto il programma che possiamo dire del Corriere della Sera, giornale che rappresenta una forza non indifferente della politica nazionale; 800.000 lettori sono anch'essi un partito. Voci: Meno... Mussolini: La metà! E poi i lettori dei giornali non contano. Non hanno mai fatto una rivoluzione. I lettori dei giornali hanno regolarmente torto! Gramsci: Il Corriere della Sera non vuole fare la rivoluzione. Farinacci: Neanche l'Unità! Gramsci: Il Corriere della Sera ha sostenuto sistematicamente tutti gli uomini politici del Mezzogiorno, da Salandra ad Orlando a Nitti, ad Amendola; di fronte alla soluzione giolittiana, oppressiva non solo di classi ma addirittura di interi territori, come il Mezzogiorno e le isole, altrettanto pericolosa che l'attuale fascismo per la stessa unità materiale dello Stato italiano, il Corriere della Sera ha sostenuto sempre un'alleanza tra gli industriali del nord e una certa vaga democrazia rurale prevalentemente meridionale, sul terreno del libero scambio. L'una e l'altra soluzione tendevano essenzialmente a dare allo Stato italiano una piú larga base di quella originaria, tendevano a sviluppare le «conquiste» del Risorgimento. Che cosa oppongono i fascisti a queste soluzioni? Essi oppongono oggi la legge cosiddetta contro la massoneria; essi dicono di volere, cosí, conquistare lo Stato. In realtà, il fascismo lotta contro la sola forza organizzata efficientemente che la borghesia avesse in Italia, per soppiantarla nella occupazione dei posti che lo Stato dà ai suoi funzionari. La rivoluzione fascista è solo la sostituzione di un personale amministrativo ad un altro personale. Mussolini: Di una classe ad un'altra, come è avvenuto in Russia, come avviene normalmente in tutte le rivoluzioni, come noi faremo metodicamente! [Approvazioni.] Gramsci: È rivoluzione solo quella che si basa su una nuova classe. Il fascismo non si basa su nessuna classe che non fosse già al potere... Mussolini: Ma se gran parte dei capitalisti ci sono contro, ma se vi cito dei grandissimi capitalisti che ci votano contro, che sono all'opposizione: i Motta, i Conti... Farinacci: E sussidiano i giornali sovversivi! Mussolini: L'alta banca non è fascista, voi lo sapete! [Commenti.] Gramsci: La realtà dunque è che la legge contro la massoneria non è prevalentemente contro la massoneria, con i massoni il fascismo arriverà facilmente a un compromesso. Mussolini: I fascisti hanno bruciato le logge dei massoni prima di fare la legge! Quindi non c'è bisogno di accomodamenti. Gramsci: Verso la massoneria il fascismo applica, intensificandola, la stessa tattica che ha applicata a tutti i partiti borghesi non fascisti: in un primo tempo ha creato un nucleo fascista in questi partiti: in un secondo periodo ha cercato di esprimere dagli altri partiti le forze migliori che gli convenivano, non essendo riuscito ad ottenere il monopolio come si proponeva... Farinacci: E ci chiamate sciocchi? Gramsci: Non sareste sciocchi solo se foste capaci di risolvere i problemi della situazione italiana... Mussolini: Li risolveremo. Ne abbiamo già risolti parecchi. Gramsci: Il fascismo non è riuscito completamente ad attuare l'assorbimento di tutti i partiti nella sua organizzazione. Con la massoneria ha impiegato la tattica politica del noyautage, poi il sistema terroristico dell'incendio delle logge; e infine impiega oggi l'azione legislativa per cui determinate personalità dell'alta banca e dell'alta burocrazia finiranno per l'accodarsi ai dominatori per non perdere il loro posto; ma, con la massoneria, il governo fascista dovrà venire ad un compromesso. Come si fa quando un nemico è forte? Prima gli si rompono le gambe, poi si fa il compromesso in condizioni di evidente superiorità. Mussolini: Prima gli si rompe le costole, poi lo si fa prigioniero, come voi avete fatto in Russia! Voi avete fatto i vostri prigionieri e poi li tenete, e vi servono! [Commenti.] Gramsci: Far prigionieri significa appunto fare il compromesso: perciò noi diciamo che in realtà la legge è fatta specialmente contro le organizzazioni operaie. Domandiamo perché da parecchi mesi a questa parte senza che il Partito comunista sia stato dichiarato associazione a delinquere, i carabinieri arrestano i nostri compagni ogni qualvolta li trovano riuniti in numero di almeno tre... Mussolini: Facciamo quello che fate in Russia... Gramsci: In Russia ci sono delle leggi che vengono osservate: voi avete le vostre leggi... Mussolini: Voi fate delle retate formidabili. Fate benissimo! [Si ride.] Gramsci: In realtà l'apparecchio poliziesco dello Stato considera già il Partito comunista come un'organizzazione segreta. Mussolini: Non è vero! Gramsci: Intanto si arresta senza nessuna imputazione specifica chiunque sia trovato in una riunione di tre persone, soltanto perché comunista, e lo si butta in carcere. Mussolini: Ma vengono presto scarcerati. Quanti sono in carcere? Li peschiamo semplicemente per conoscerli! Gramsci: È una forma di persecuzione sistematica, che anticipa e giustificherà l'applicazione della nuova legge. Il fascismo adotta gli stessi sistemi del governo Giolitti. Fate come facevano nel Mezzogiorno i mazzieri giolittiani che arrestavano gli elettori di opposizione... per conoscerli. Una voce: Ce ne è stato un caso solo. Lei non conosce il Meridione. Gramsci: Sono meridionale! Mussolini: A proposito di violenze elettorali, io le ricordo un articolo di Bordiga che le giustifica a pieno! Greco Paolo: Lei, onorevole Gramsci, non lo ha letto quell'articolo. Gramsci: Non le violenze fasciste, le nostre. [Rumori, interruzioni.] Noi siamo sicuri di rappresentare la maggioranza della popolazione, di rappresentare gli interessi essenziali della maggioranza del popolo italiano; la violenza proletaria è perciò progressiva e non può essere sistematica. La vostra violenza è sistematica e sistematicamente arbitraria perché voi rappresentate una minoranza destinata a scomparire. [Interruzioni.] Noi dobbiamo dire alla popolazione lavoratrice che cosa è il vostro governo, come si comporta il vostro governo, per organizzarla contro di voi, per metterla in condizioni di vincervi. È molto probabile che anche noi ci troveremo costretti ad usare gli stessi vostri sistemi, ma come transizione, saltuariamente. [Rumori, interruzioni.] Sicuro: ad adottare gli stessi vostri metodi, con la differenza che voi rappresentate la minoranza della popolazione, mentre noi rappresentiamo la maggioranza. [Interruzioni, rumori.] Farinacci: Ma allora perché non fate la rivoluzione? Lei è destinato a fare la fine di Bombacci! La manderanno via dal Partito! Gramsci: La borghesia italiana quando ha fatto l'unità era una minoranza della popolazione, ma siccome rappresentava gli interessi della maggioranza anche se questa non la seguiva, cosí ha potuto mantenersi al potere. Voi avete vinto con le armi ma non avete nessun programma, non rappresentate niente di nuovo e di progressivo. Avete solo insegnato all'avanguardia rivoluzionaria come solo le armi, in ultima analisi, determinano il successo dei programmi e dei non programmi... [Interruzioni, commenti.] Presidente: Non interrompete! Gramsci: Questa legge non verrà affatto ad infrenare il movimento che voi stessi preparate nel paese. Poiché la massoneria passerà in massa al Partito fascista e ne costituirà una tendenza, è chiaro che con questa legge voi sperate di impedire lo sviluppo di grandi organizzazioni operaie e contadine. Questo è il valore reale, il vero significato della legge. Qualche fascista ricorda ancora nebulosamente gli insegnamenti dei suoi vecchi maestri, di quando era rivoluzionario e socialista e crede che una classe non possa rimanere tale permanentemente e svilupparsi fino alla conquista del potere, senza che essa abbia un partito ed una organizzazione che ne riassuma la parte migliore e piú cosciente. C'è qualcosa di vero, in questa torbida perversione reazionaria degli insegnamenti marxisti. È certo molto difficile che una classe possa giungere alla soluzione dei suoi problemi e al raggiungimento di quei fini che sono insiti nella sua esistenza, e nella forza generale della società, senza che un'avanguardia si costituisca e conduca questa classe fino al raggiungimento di tali fini. Ma non è detto che questa enunciazione sia sempre vera, nella sua meccanicità esteriore ad uso della reazione! Questa è una legge che serve per l'Italia, che dovrà essere applicata in Italia, dove la borghesia non è riuscita in nessun modo e non riuscirà mai a risolvere in primo luogo la questione dei contadini italiani, a risolvere la questione dell'Italia meridionale. Non per nulla questa legge viene presentata contemporaneamente ad alcuni progetti concernenti il risanamento del Mezzogiorno. Una voce: Parli della massoneria. Gramsci: Volete che io parli della massoneria. Ma nel titolo della legge non si accenna neppure alla massoneria, si parla solo delle organizzazioni in generale. In Italia il capitalismo si è potuto sviluppare in quanto lo Stato ha premuto sulle popolazioni contadine, specialmente nel Sud. Voi oggi sentite l'urgenza di tali problemi, perciò promettete un miliardo per la Sardegna, promettete lavori pubblici e centinaia di milioni a tutto il Mezzogiorno; ma per fare opera seria e concreta dovreste cominciare col restituire alla Sardegna i 100-150 milioni di imposte che ogni anno estorcete alla popolazione sarda! Dovreste restituire al Mezzogiorno le centinaia di milioni di imposte che ogni anno estorcete alla popolazione meridionale. Mussolini: Voi non fate pagare le tasse in Russia!... Una voce: Rubano in Russia, non pagano le tasse! Gramsci: Non è questa la quistione, egregio collega che dovrebbe conoscere almeno le relazioni parlamentari che su tali quistioni esistono nelle biblioteche. Non si tratta del meccanismo normale borghese delle imposte: si tratta del fatto che, ogni anno, lo Stato estorce alle regioni meridionali una somma di imposte che non restituisce in nessun modo, né con servizi di nessun genere... Mussolini: Non è vero. Gramsci: ...somme che lo Stato estorce alle popolazioni contadine meridionali, per dare una base al capitalismo dell'Italia settentrionale. [Interruzioni, commenti.] Su questo terreno delle contraddizioni del sistema capitalistico italiano, si formerà necessariamente, nonostante tutte le leggi repressive, nonostante la difficoltà di costituire grandi organizzazioni, l'unione degli operai e dei contadini contro il comune nemico. Voi fascisti, voi governo fascista, nonostante tutta la demagogia dei vostri discorsi non avete superato questa contraddizione che era già radicale, voi l'avete anzi fatta sentire piú duramente alle classi e alle masse popolari. Voi avete operato in questa situazione, per le necessità di questa situazione. Voi avete aggiunto nuove polveri a quelle già accumulate dallo sviluppo della società capitalistica e credete di sopprimere con una legge contro le organizzazioni gli effetti piú micidiali della vostra attività stessa. [Interruzioni.] Questa è la quistione piú importante nella discussione di questa legge: voi potete «conquistare lo Stato», potete modificare i codici, voi potete cercar di impedire alle organizzazioni di esistere nella forma in cui sono esistite fino adesso; non potete prevalere sulle condizioni obiettive in cui siete costretti a muovervi. Voi non farete che costringere il proletariato a ricercare un indirizzo diverso da quello fin'oggi piú diffuso nel campo dell'organizzazione di massa. Ciò noi vogliamo dire al proletariato e alle masse contadine italiane, da questa tribuna: che le forze rivoluzionarie italiane non si lasceranno schiantare, che il vostro torbido sogno non riuscirà a realizzarsi. [Interruzioni.] È molto difficile applicare ad una popolazione di 40 milioni di abitanti i sistemi di governo di Zankof. In Bulgaria vi sono pochi milioni di abitanti e tuttavia, nonostante gli aiuti dall'estero, il governo non riesce a prevalere sulla coalizione del Partito comunista e delle forze contadine rivoluzionarie, e in Italia ci sono 40 milioni di abitanti. Mussolini: Il Partito comunista ha meno iscritti di quello che abbia il Partito fascista italiano! Gramsci: Ma rappresenta la classe operaia. Mussolini: Non la rappresenta! Farinacci: La tradisce, non la rappresenta. Gramsci: Il vostro è un consenso ottenuto col bastone. Farinacci: Parla di Miglioli! Gramsci: Precisamente. Il fenomeno Miglioli ha una grande importanza appunto nel senso di ciò che ho detto prima: che le masse contadine anche cattoliche, si indirizzano verso la lotta rivoluzionaria. Né i giornali fascisti avrebbero protestato contro Miglioli se il fenomeno Miglioli non avesse questa grande importanza, dell'indicare un nuovo orientamento delle forme rivoluzionarie in dipendenza della vostra pressione sulle classi lavoratrici. Concludendo: la massoneria è la piccola bandiera che serve per far passare la merce reazionaria antiproletaria! Non è la massoneria che v'importa! La massoneria diventerà un'ala del fascismo. La legge deve servire per gli operai e per i contadini, i quali comprenderanno ciò molto bene dall'applicazione che ne verrà fatta. A queste masse noi vogliamo dire che voi non riuscirete a soffocare le manifestazioni organizzative della loro vita di classe, perché contro di voi sta tutto lo sviluppo della società italiana. [Interruzioni.] Presidente: Ma non interrompano! Lascino parlare! Lei, però, onorevole Gramsci, non ha parlato della legge! Rossoni: La legge non è contro le organizzazioni! Gramsci: Onorevole Rossoni, ella stesso è un comma della legge contro le organizzazioni. Gli operai e i cittadini debbono sapere che voi non riuscirete ad impedire che il movimento rivoluzionario si rafforzi e si radicalizzi [Interruzioni, rumori.] Perché esso solo rappresenta oggi la situazione del nostro paese... [Interruzioni.] Presidente: Onorevole Gramsci, questo concetto lo ha ripetuto tre o quattro volte. Abbia la bontà! Non siamo dei giurati, a cui occorre ripetere molte volte le stesse cose! Gramsci: Bisogna ripeterle, invece; bisogna che lo sentiate fino alla nausea. [Interruzioni, rumori.] Il movimento rivoluzionario vincerà il fascismo. [Commenti.] «La Rivoluzione liberale» e il fronte unico operaio(30) Dell'antifascismo borghese la posizione degli scrittori di Rivoluzione liberale è stata e rimane per ora, senza dubbio, la piú avanzata. Attorno alla rivista torinese di Gobetti, sul cui orientamento politico ha esercitato una influenza decisiva il movimento dei Consigli di fabbrica e lo studio da vicino dell'avanguardia del proletariato rivoluzionario torinese, si è raccolta una schiera di intellettuali che nell'osservazione dei fatti storici e degli antagonismi delle classi sociali si sono, sotto un certo aspetto, impadroniti del metodo di indagine marxista, ma svuotandolo del contenuto rivoluzionario e dello spirito proletario. Cosí si spiega come Rivoluzione liberale, spesso, si trovi ad occupare posizioni piú avanzate degli stessi partiti socialisti, i quali, di fronte al fascismo, tendono a riportare indietro il movimento operaio, togliendogli ogni carattere autonomo e ogni fisionomia classista, per fare di esso soltanto un movimento liberale piccolo-borghese. Rivoluzione liberale (n. 21, maggio 1925) fa un bilancio della condotta dell'Aventino. Poiché «nella impostazione aventiniana», essa dichiara di avere le sue «responsabilità», è naturale che difenda queste responsabilità, pur criticando in parte la tattica «illusionista» dei partiti aventiniani. Ma quel che importa nel «bilancio» di Rivoluzione liberale è la conseguenza alla quale essa giunge, pur prendendo come punto di partenza delle premesse che appaiono ingiustificate se non sono meglio precisate. Tale è - per esempio - quella in cui Rivoluzione liberale afferma di sapere che «Mussolini è il piú forte» e «che la maggioranza degli italiani è con lui». Questo è esatto solo nel senso che i fascisti dànno a queste affermazioni: «sono italiani cioè soltanto i fascisti; i fascisti sono con Mussolini, dunque Mussolini ha con sé la maggioranza degli italiani». Altrimenti, dovremmo chiedere a Rivoluzione liberale una definizione della «maggioranza». Comunque sia, non è qui il punto principale del «bilancio» di Rivoluzione liberale, il quale mira a stabilire la nuova condotta dell'élite di giovani che capiscono la situazione formatasi attorno all'Aventino. Secondo la rivista liberale torinese, «sono scomparse per sempre le situazioni centriste». «L'Aventino ha anche contato» scrive R.L. «sulle classi medie. Ma queste per la loro natura equivoca sono sempre col vincitore... Quei partiti aventiniani che si annunciavano come rappresentanti delle classi medie, come futuri partiti di governo, i partiti di democrazia e in parte i popolari e gli unitari, perderanno terreno nel prossimo futuro». Stabilito inoltre che la nuova Camera, quando ci sarà, non potrà essere che una Camera piú fida al duce, Rivoluzione liberale giunge a questa conclusione: Dev'esser oramai acquisito che la sola riserva solida di ogni nuova politica futura è il «movimento operaio». Se intorno all'Aventino si è venuta formando una élite di giovani che capiscono la situazione, essi hanno il dovere di smetterla con le inconcludenti polemiche contro i comunisti che minacciano di diventare un inutile diversivo, di non occuparsi di teoria delle classi medie, di non escogitare astuzie di colpi di mano, «ma di lavorare con lealtà per il fronte unico operaio, anche se questo lavoro, per le attuali condizioni di depressione delle masse, non è per dare frutti immediati». Per quanto molto confuso, questo accenno al fronte unico operaio è certo notevole, in quanto vien fatto da una rivista liberale che rispecchia il punto di vista di una élite di giovani intellettuali. A parte l'affermazione, anche erronea, che nelle attuali condizioni di depressione delle masse (proprio dopo lo sciopero metallurgico, la manifestazione del 1° Maggio, i risultati della Fiat R.L. parla di depressione delle masse!) il lavoro per il fronte unico operaio non sia per dare frutti immediati, è notevole che si comprenda anche dagli intellettuali antifascisti che la soluzione della crisi è da cercarsi nella classe operaia, mediante il «fronte unico proletario». Ma quando si è giunti a questo punto, l'analisi resterebbe incompiuta se non si accettasse la sola maniera del fronte unico operaio, che consiste nella creazione dei «Comitati operai e contadini». Altrimenti la critica di Rivoluzione liberale alla condotta dell'Aventino, resta una pura manifestazione letteraria. La volontà delle masse(31) A proposito delle crisi di frazioni manifestatesi nel nostro Partito, l'Avanti! ha pubblicato una serie di articoli che possono dare lo spunto per ribadire alcuni princípi fondamentali del comunismo internazionale. È molto probabile che le storture ideologiche dell'Avanti! non siano proprie solo degli scrittori dell'Avanti! e degli sparuti drappelli che costituiscono il Partito massimalista. Il nostro Partito è formato di elementi staccatisi dal Partito socialista al Congresso di Livorno e, nella sua maggioranza attuale, di elementi venuti a noi per la campagna di reclutamento fatta dopo l'assassinio di Giacomo Matteotti; ripetere certe verità, distruggere certi pregiudizi che erano stati radicati nella coscienza da decine e decine di anni di tradizione socialdemocratica, può essere perciò compito necessario e urgentemente necessario. Nell'articolo La volontà delle masse (l'Avanti! del 13 giugno) è contenuta la quintessenza dell'opportunismo massimalista italiano e dell'opportunismo socialdemocratico in generale. Esiste una volontà delle masse lavoratrici prese nel loro complesso e può il Partito comunista porsi sul terreno di «ubbidire alla volontà delle masse in generale?». No. Esistono nel complesso delle masse lavoratrici parecchie e distinte volontà: esiste una volontà comunista, una volontà massimalista, una volontà riformista, una volontà democratica liberale. Esiste anche una volontà fascista, in un certo senso ed entro certi limiti. Fino a quando sussiste il regime borghese, col monopolio della stampa in mano al capitalismo e quindi con la possibilità per il governo e per i partiti borghesi di impostare le questioni politiche a seconda dei loro interessi, presentati come interessi generali, fino a quando sarà soppressa e limitata la libertà di associazione e di riunione della classe operaia o potranno essere diffuse impunemente le menzogne piú impudenti contro il comunismo, è inevitabile che le classi lavoratrici rimangano disgregate, cioè che abbiano parecchie volontà. Il Partito comunista «rappresenta» gli interessi dell'intiera massa lavoratrice, ma «attua» la volontà solo di una determinata parte della massa, della parte piú avanzata, di quella parte (proletariato) che vuole rovesciare il regime esistente coi mezzi rivoluzionari per fondare il comunismo. Cosa significa la formula dell'Avanti!: «bisogna seguire la volontà della massa» in generale? Significa cercare di giustificare il proprio opportunismo, nascondendosi dietro la constatazione, che esistono ancora strati arretrati di popolazione lavoratrice sotto l'influenza della borghesia, che «vogliono» la collaborazione con la borghesia. Ma questi strati esisteranno sempre fino a quando il regime borghese sarà il regime dominante; se il Partito «proletario» ubbidisse a «questa volontà», in realtà ubbidirebbe alla volontà della borghesia, cioè sarebbe un partito borghese, non un partito proletario. Il Partito proletario non può «accodarsi» alla massa, deve precedere la massa, pur tenendo conto oggettivamente dell'esistenza di questi strati arretrati. Il Partito rappresenta non solo le masse lavoratrici, ma anche una dottrina, la dottrina del socialismo, e perciò lotta per unificare la volontà delle masse nel senso del socialismo, pur tenendosi sul terreno reale di ciò che esiste, ma che esiste movendosi e sviluppandosi. Il nostro Partito attua la volontà di quella parte piú avanzata della massa che lotta per il socialismo e sa di non potere avere alleata la borghesia in questa lotta che è appunto lotta contro la borghesia. Questa «volontà», in quanto coincide con lo sviluppo generale della società borghese e con le esigenze vitali di tutta la massa lavoratrice, è progressiva, si diffonde, conquista sempre nuovi strati di lavoratori, disgrega gli altri partiti operai - operai per la loro composizione sociale, non per il loro indirizzo politico. Naturalmente l'Avanti! nega ogni giorno che questo fatto avvenga, stampa ogni giorno che il Partito comunista è abbandonato dalle masse, ricorre nientemeno che alla testimonianza di Hoeglund per dire che il nostro Partito è una cosa insignificante, ecc. Ma, non meno naturalmente, l'Avanti! non riesce mai a spiegare come avvenga che, abbandonato dalle masse, il nostro Partito sia il partito relativamente piú forte della Confederazione generale del lavoro, non riesce a spiegare come a Torino, a Trieste, a Bari, a Taranto e in una serie di altre città noi siamo il partito piú forte anche in modo assoluto, non riesce a spiegare come mai gli operai di Torino, che il nostro Partito avrebbe condotto al macello ed alla catastrofe, colgano ogni occasione per affermarsi fedeli alle nostre direttive. La questione se noi rappresentiamo la volontà delle masse piú avanzate e se questa volontà attraverso la lotta si diffonda e diventi la volontà della maggioranza dei lavoratori, si decide e può decidersi solo praticamente; gli avvenimenti di questo ultimo periodo hanno dimostrato ch'essa si decide favorevolmente al nostro Partito, nonostante gli esorcismi dell'Avanti! e di tutta la stampa dell'Aventino. Da cinque anni il Partito massimalista è fuori di ogni organizzazione internazionale; questo fatto non è rimasto e non poteva rimanere senza risultati. Il carattere internazionalistico è essenziale di un partito operaio; non può venire meno senza portare ineluttabilmente a una completa degenerazione ideologica e pratica nei dirigenti e nelle file del Partito. Per l'Avanti! infatti è chiaro che il Comitato centrale di un partito deve rappresentare solo la massa del Partito nazionale, deve anzi «ubbidire alla volontà» di questa massa. Per noi tutto ciò è mostruosamente falso. Il CC del nostro Partito, non solo rappresenta e guida la massa del Partito italiano, ma rappresenta anche il programma e la tattica del Partito quali sono venuti definendosi attraverso cinque congressi dell'Internazionale. Del resto: come e perché si è costituito il nostro Partito? Esso si è staccato dal Partito socialista proprio sulla questione del riconoscimento della autorità dell'Internazionale: al Congresso di Livorno noi volevamo l'applicazione dei 21 punti, la lotta contro il riformismo, una politica agraria diversa da quella tradizionale, un nuovo indirizzo sindacale, nuovi metodi organizzativi, ecc. ecc. La massa ha aderito all'Internazionale e quindi ha costituito un partito in quanto ha accettato un programma ben determinato. Il partito si è sviluppato, in quanto era ed è una sezione dell'Internazionale. È certo che un tale processo non si è verificato meccanicamente, secondo uno schema matematico per cui uno è sempre uguale a uno; si è trattato di un processo politico, al quale gli uomini hanno partecipato con tutte le loro passioni e sentimenti individuali, con tutte le virtú e i difetti che sono propri di questo basso mondo. Ma è certo che se molti elementi sono venuti alla Internazionale e al Partito anche perché avevano aderito al programma comune singole persone piú o meno conosciute come Bombacci, Misiano, Repossi, Bordiga, Gramsci, Gennari, Marabini, ecc. ecc., essi sono venuti essenzialmente per il programma comune e non per le differenziazioni di individui e di gruppi. Ed ecco il dovere del CC di illuminare sempre piú le masse del Partito sulla portata reale del programma comune, sul suo valore, sul suo significato. Ed ecco perché nel nostro Partito la discussione verte e deve vertere normalmente su questioni concrete, non sui primi princípi; sull'applicazione pratica dell'indirizzo generale, non sull'indirizzo stesso. Secondo i criteri dell'Avanti!, ogni partito dovrebbe ogni giorno ripetere le discussioni fondamentali: - siamo fascisti o no? siamo riformisti, massimalisti, liberali, popolari, democratici o no? Il porre cosí la questione da parte dell'Avanti! è caratteristico e sintomatico della situazione interna del Partito massimalista. Poiché questo Partito non appartiene ad una organizzazione internazionale, ma si basa solo su elementi della vita nazionale, e poiché la sua direzione non ha direttive, - i soci del Partito che si trovano a dover stare a gomito con i diversi Di Cesarò, Amendola, Anile, Giolitti, Salandra, Orlando, hanno finito col perdere ogni coscienza della loro individualità politica e sono costretti ogni giorno a porsi questa domanda: siamo ancora massimalisti o siamo fascisti come Di Cesarò e Salandra, o siamo popolari come Anile e De Gasperi, o siamo democratici come Amendola? Nel nostro Partito non si verifica niente di tutto ciò. La maggioranza del Partito cosí com'era al momento dell'assassinio di Giacomo Matteotti, cioè la maggioranza della vecchia guardia, si era organizzata politicamente al Congresso di Livorno intorno al programma della Internazionale, per la lotta contro tutti i partiti borghesi compresi i partiti operai che fanno la politica della borghesia. L'altra massa di soci, numericamente superiore alla vecchia guardia, è entrata nel Partito dopo l'assassinio di Giacomo Matteotti sulla base del programma generale dell'Internazionale cosí come era applicato ed è applicato dal nostro Comitato centrale: - lotta su due fronti, contro il fascismo e contro le opposizioni aventiniane (due fronti per modo di dire, perché si tratta dello stesso fronte borghese), per l'azione autonoma del proletariato rivoluzionario, per organizzare la lotta dei poveri contro i ricchi intorno al proletariato rivoluzionario che solo può schiacciare la reazione instaurando un nuovo Stato, instaurando la sua dittatura. Le discussioni che avvengono nell'interno del nostro Partito non possono riguardare le basi fondamentali su cui la organizzazione comunista è nata e si è sviluppata. Tuttavia può avvenire che si formi una corrente che pretenda di fare un'opera di revisione anche in questo campo. Certo, può avvenire. Viviamo in un mondo dove si verificano i fatti piú curiosi e strani. Specialmente quando la situazione diviene obbiettivamente difficile, si verifica che singoli individui e anche interi gruppi perdano la testa e credano, e credano anche in buona fede, di aver trovato lo specifico buono per l'occasione e credano di poter risolvere la questione costituendo un tribunale che giudichi le colpe di alcuni individui, al fatidico grido di «dagli all'untore»! Ciò si è già verificato alla fine del '20 e agli inizi del '21; l'ondata rivoluzionaria del dopoguerra, dopo avere raggiunto il suo culmine nella marcia nell'esercito rosso verso Varsavia e nell'occupazione delle fabbriche in Italia, fu spezzata dalla reazione. Una serie di Partiti socialisti che erano entrati a «bandiere spiegate» nell'Internazionale comunista quando la situazione era favorevole, ammainarono la bandiera quando la situazione divenne oscura. Naturalmente giustificarono il loro ripiegamento dal fronte rivoluzionario con le prepotenze del knut moscovita, con l'autoritarismo di Zinovief, con l'incomprensione dei russi nelle faccende europee, ecc. ecc. Dal 1921 ad oggi la rivoluzione non si è ancora verificata, quantunque su scala mondiale essa abbia fatto passi giganteschi, come dimostrano, per esempio, gli attuali avvenimenti della Cina. Altri elementi rivoluzionari si sono venuti demoralizzando per questo rallentato ritmo della rivoluzione e si sente nuovamente la vecchia musica delle responsabilità personali di Zinovief, con questo di mutato: nel 1920-1921 Zinovief voleva fare la rivoluzione ad ogni costo senza badare alle «situazioni speciali» dei vari paesi; nel 1925 Zinovief non permette all'Europa di fare la rivoluzione. La «volontà delle masse» non era in gioco nel 1920 e non lo è nel 1925. L'avanguardia proletaria rimase con l'Internazionale comunista nel 1920 e continuerà a rimanere con l'Internazionale nel 1925, nonostante che nel 1925 l'Avanti! possa registrare come ribellantisi al «knut moscovita» alcuni dei capi che nel 1921 questo knut maneggiavano contro l'Avanti!. Sono queste cose che possono capitare e che capitano. Ciò che non deve avere per conseguenza che il CC le lasci dilagare e non lotti invece energicamente per eliminarle. La situazione interna del nostro Partito ed i compiti del prossimo congresso(32) Nella sua ultima riunione, l'Esecutivo allargato della IC, non aveva da risolvere nessuna quistione di principio o di tattica sorta fra l'insieme del Partito italiano e l'Internazionale. Un tal fatto si verificava per la prima volta nella successione delle riunioni dell'IC. Perciò i compagni piú autorevoli dell'Esecutivo dell'IC avrebbero preferito che non si parlasse neppure di una Commissione italiana: dato che non esisteva una crisi generale del Partito italiano, non esisteva neppure una «quistione italiana». In realtà occorre subito dire che il nostro Partito, pur avendo già prima del V Congresso, ma specialmente dopo, modificato i suoi atteggiamenti tattici per accostarsi alla linea leninista dell'IC non ha tuttavia subíto nessuna crisi nelle file dei suoi soci e di fronte alle masse: tutt'altro. Avendo saputo porre i suoi nuovi atteggiamenti tattici in relazione alla situazione generale del paese creatasi dopo le elezioni del 6 aprile e specialmente dopo l'assassinio di Giacomo Matteotti, il Partito è riuscito ad ingrandirsi come organizzazione e a estendere in modo notevolissimo la sua influenza tra le masse operaie e contadine. Il nostro Partito è uno dei pochi, se non forse il solo partito dell'Internazionale, che può affermare un successo simile in una situazione cosí difficile come quella che si è venuta creando in tutti i paesi, specialmente europei, in rapporto alla relativa stabilizzazione del capitalismo ed al relativo rafforzarsi dei governi borghesi e della socialdemocrazia che del sistema borghese è diventata una parte sempre piú essenziale. Occorre dire, almeno tra parentesi, che è appunto per il costituirsi di una tale situazione ed in rapporto alle conseguenze che essa ha avuto non solo in mezzo alle grandi masse lavoratrici, ma anche nel seno dei Partiti comunisti, che si deve affrontare il problema della bolscevizzazione. La fase attuale dei partiti dell'Internazionale Le crisi attraversate da tutti i partiti dell'IC dal 1921 ad oggi, cioè dall'inizio del periodo caratterizzato da un rallentamento del ritmo rivoluzionario, hanno mostrato come la composizione generale dei partiti non fosse molto solida ideologicamente. I partiti stessi oscillavano con spostamenti spesso fortissimi dalla destra all'estrema sinistra con ripercussioni gravissime su tutta l'organizzazione e con crisi generali nei collegamenti tra i partiti e le masse. La fase attuale attraversata dai partiti dell'Internazionale è caratterizzata invece dal fatto che ognuno di essi si è andato formando attraverso l'esperienze politiche di questi ultimi anni, e si è consolidato un nucleo fondamentale il quale determina una stabilizzazione leninistica della composizione ideologica dei partiti e assicura che essi non saranno piú attraversati da crisi e da oscillazioni troppo profonde e troppo larghe. Ponendo cosí il problema generale della bolscevizzazione sia nel dominio della organizzazione che in quello della formazione ideologica, l'Esecutivo allargato ha affermato che le nostre forze internazionali sono giunte al punto risolutivo della crisi. In questo senso, l'Esecutivo allargato è un punto di arrivo, e la constatazione dei grandissimi progressi compiuti nel consolidamento delle basi organizzative e ideologiche dei partiti, è un punto di partenza in quanto tali progressi devono essere coordinati, sistematizzati, devono cioè diventare coscienza diffusa e operante di tutta la massa. Per alcuni aspetti, i partiti rivoluzionari dell'Europa occidentale si trovano solo oggi nelle condizioni in cui i bolscevichi russi si erano trovati già fin dalla formazione del loro Partito. In Russia, non esistevano prima della guerra le grandi organizzazioni dei lavoratori che invece hanno caratterizzato tutto il periodo europeo della II Internazionale prima della guerra. In Russia, il Partito, non solo come affermazione teorica generale, ma anche come necessità pratica di organizzazione e di lotta, riassumeva in sé tutti gli interessi vitali della classe operaia, la cellula di fabbrica e di strada guidava la massa sia nella lotta per le rivendicazioni sindacali come nella lotta politica per il rovesciamento dello zarismo. Nell'Europa occidentale invece si venne sempre piú costituendo una divisione del lavoro tra organizzazione sindacale e organizzazione politica della classe operaia. Nel campo sindacale andò sviluppandosi con ritmo sempre piú accelerato la tendenza riformista e pacifista; cioè andò sempre piú intensificandosi la influenza della borghesia sul proletariato. Per la stessa ragione nei partiti politici l'attività si spostò sempre piú verso il campo parlamentare, verso cioè forme che non si distinguevano per nulla da quelle della democrazia borghese. Nel periodo della guerra e in quello del dopoguerra immediatamente precedente alla costituzione dell'Internazionale comunista ed alle scissioni nel campo socialista, che portarono alla formazione dei nostri Partiti, la tendenza sindacalista-riformista andò consolidandosi come organizzazione dirigente dei sindacati. Si è venuta cosí a determinare una situazione generale che appunto pone anche i Partiti comunisti dell'Europa occidentale nelle stesse condizioni in cui si trovava il Partito bolscevico in Russia prima della guerra. Osserviamo ciò che avviene in Italia. Attraverso l'azione repressiva del fascismo, i sindacati erano venuti a perdere, nel nostro paese, ogni efficienza sia numerica che combattiva. Approfittando di questa situazione, i riformisti si impadronirono completamente del loro meccanismo centrale escogitando tutte le misure e le disposizioni che possono impedire a una minoranza di formarsi, di organizzarsi, di svilupparsi e diventare maggioranza fino a conquistare il centro dirigente. Ma la grande massa vuole, ed a ragione, l'unità e riflette questo sentimento unitario nella organizzazione sindacale tradizionale italiana: la Confederazione generale del lavoro. La massa vuole lottare e vuole organizzarsi ma vuole lottare con la Confederazione generale del lavoro e vuole organizzarsi nella Confederazione generale del lavoro. I riformisti si oppongono alla organizzazione delle masse. Ricordate il discorso di D'Aragona nel recente congresso confederale in cui affermò che non piú di un milione di organizzati deve costituire la Confederazione. Se si tiene conto che la Confederazione stessa sostiene di essere l'organismo unitario di tutti i lavoratori italiani, cioè non solo degli operai industriali ed agricoli ma anche dei contadini e che in Italia ci sono almeno 15 milioni di lavoratori organizzabili, appare che la Confederazione vuole, per programma, organizzare un quindicesimo, cioè il 7,50 per cento dei lavoratori italiani mentre noi vorremmo che nei sindacati e nelle organizzazioni contadine fossero organizzati il 100 per cento dei lavoratori. Ma se la Confederazione vuole per ragioni di politica interna confederale, cioè per mantenere la dirigenza confederale nelle mani dei riformisti, che solo il 7,50 per cento dei lavoratori italiani siano organizzati, essa vuole anche - per ragioni di politica generale, cioè perché il Partito riformista possa collaborare efficacemente in un governo democratico borghese, che la Confederazione, nel suo complesso, abbia una influenza sulla massa disorganizzata degli operai industriali ed agricoli e vuole, impedendo l'organizzazione dei contadini, che i partiti democratici coi quali intende collaborare mantengano la loro base sociale. Essa allora manovra nel campo specialmente delle Commissioni interne che sono elette da tutta la massa degli organizzati e dei disorganizzati. Essa cioè, vorrebbe impedire che gli operai organizzati, all'infuori di quelli della tendenza riformista, presentassero liste di candidati per le Commissioni interne, vorrebbe che i comunisti, anche dove sono in maggioranza nella organizzazione sindacale locale e tra gli organizzati delle singole officine, votassero per disciplina le liste della minoranza riformista. Se questo programma organizzativo riformista fosse da noi accettato, si arriverebbe di fatto all'assorbimento del nostro Partito da parte del Partito riformista e nostra sola attività rimarrebbe l'attività parlamentare. Il compito delle «cellule» D'altronde come possiamo lottare contro l'applicazione e la realizzazione di un tale programma senza determinare una scissione che noi assolutamente non vogliamo determinare? Per ottenere ciò non c'è altra via di uscita che l'organizzazione delle cellule e il loro sviluppo nello stesso senso in cui esse si svilupparono in Russia prima della guerra. Come frazione sindacale, i riformisti ci impediscono, mettendoci alla gola la pistola della disciplina, di centralizzare le masse rivoluzionarie sia per la lotta sindacale che per la lotta politica. È evidente allora che le nostre cellule devono lavorare direttamente nelle fabbriche per centralizzare attorno al Partito le masse, spingendole a rafforzare le Commissioni interne dove esse esistono, a creare comitati di agitazione nelle fabbriche dove non esistono Commissioni interne e dove esse non assolvono i loro compiti, spingendole a volere la centralizzazione delle istituzioni di fabbrica come organismi di massa non solamente sindacali, ma di lotta generale contro il capitalismo e il suo regime politico. È certo che la situazione in cui noi ci troviamo è molto piú difficile di quella in cui si trovarono i bolscevichi russi, perché noi dobbiamo lottare non solo contro la reazione dello Stato fascista, ma anche contro la reazione dei riformisti nei sindacati. Appunto perché piú difficile la situazione, piú forti devono essere le nostre cellule sia organizzativamente che ideologicamente. In ogni caso, la bolscevizzazione per ciò che ha riflesso nel campo organizzativo è una necessità imprescindibile. Nessuno oserà dire che i criteri leninisti di organizzazione del Partito siano propri della situazione russa e che sia un fatto puramente meccanico la loro applicazione all'Europa occidentale. Opporsi alla organizzazione del Partito per cellula significa ancora essere legati alle vecchie concezioni socialdemocratiche, significa trovarsi realmente in un terreno di destra, cioè in un terreno nel quale non si vuole lottare contro la socialdemocrazia. Il mancato intervento di Bordiga a Mosca Su tutti questi argomenti non esiste oggi alcun dissenso tra l'insieme del nostro Partito e l'Internazionale e perciò essi non potevano avere nessun riflesso sui lavori della Commissione italiana la quale si occupò solamente del problema della bolscevizzazione dal punto di vista ideologico e politico con speciale riguardo alla situazione creata nel nostro Partito. Il compagno Bordiga era stato insistentemente invitato a partecipare ai lavori dell'Esecutivo allargato. Sarebbe stato questo suo preciso dovere, in quanto egli aveva accettato al V Congresso di far parte dell'Esecutivo dell'IC. Tanto piú doveroso era per il compagno Bordiga partecipare ai lavori in quanto egli, in un suo articolo (la cui pubblicazione tuttavia era stata da lui stesso subordinata alla approvazione dell'Esecutivo dell'Internazionale) aveva assunto nella questione Trotski un atteggiamento radicalmente contrario non solo a quello dell'Esecutivo dell'Internazionale, ma contrario anche a quello praticamente assunto dallo stesso compagno Trotski. È assurdo e deplorevole da ogni punto di vista che il compagno Bordiga non abbia voluto partecipare personalmente alla discussione della quistione Trotski, non abbia voluto prendere visione direttamente di tutto il materiale al riguardo, non abbia voluto porre le sue opinioni e le sue informazioni al paragone di un dibattito internazionale. Non è certamente con questi atteggiamenti che si può dimostrare di avere le qualità e le doti necessarie per impostare una lotta che dovrebbe praticamente avere come risultato un cambiamento non solo di indirizzo ma anche di persone nella direzione dell'Internazionale comunista. I cinque punti di Lenin per un buon Partito bolscevico La Commissione che avrebbe dovuto discutere specialmente con il compagno Bordiga, ha in sua assenza fissato la linea che il Partito deve seguire per risolvere la quistione delle tendenze e delle possibili frazioni che da esse possono nascere, cioè per far trionfare nel nostro Partito la concezione bolscevica. Se esaminiamo la situazione generale del nostro Partito, alla stregua delle cinque qualità fondamentali che il compagno Lenin poneva come condizioni necessarie per la efficienza del Partito rivoluzionario del proletariato nel periodo della preparazione rivoluzionaria e cioè: 1) ogni comunista deve essere marxista (noi oggi diremo: ogni comunista deve essere marxista-leninista); 2) ogni comunista deve essere in prima linea, nelle lotte proletarie; 3) ogni comunista deve aborrire dalle pose rivoluzionarie e dalle frasi superficialmente scarlatte, cioè deve essere non solo un rivoluzionario, ma anche un politico realista; 4) ogni comunista deve sentire di essere sempre subordinato alla volontà del suo Partito e deve giudicare tutto dal punto di vista del suo Partito - cioè deve essere settario nel senso migliore che questa parola può avere; 5) ogni comunista deve essere internazionalista; se esaminiamo la situazione generale del nostro Partito alla stregua di questi cinque punti, osserviamo che, se si può affermare per il nostro Partito che la seconda qualità forma uno dei suoi tratti caratteristici, non altrettanto si può affermare per le altre quattro. Manca nel nostro Partito una profonda conoscenza della dottrina del marxismo e quindi anche del leninismo. Sappiamo che ciò è legato alle tradizioni del movimento socialista italiano, nel seno del quale mancò ogni discussione teorica che interessasse profondamente le masse e contribuisse alla loro formazione ideologica. È anche vero però che il nostro Partito non contribuí fino ad oggi a distruggere questo stato di cose e che anzi il compagno Bordiga, confondendo la tendenza riformista a sostituire una generica attività culturale all'azione politica rivoluzionaria delle masse con l'attività interna del Partito diretta ad elevare il livello di tutti i suoi membri fino alla completa consapevolezza dei fini immediati e lontani dal movimento rivoluzionario, contribuí a mantenerlo. Il fenomeno dell'«estremismo» Il nostro Partito ha abbastanza sviluppato il senso della disciplina, cioè ogni socio riconosce la sua subordinazione al complesso del Partito, ma non altrettanto si può dire per ciò che riguarda i rapporti con l'IC, cioè per ciò che riguarda la coscienza di appartenere a un Partito mondiale. In questo senso solamente bisogna dire che lo spirito internazionalista non è molto praticato, non certo nel senso generale della solidarietà internazionale. Era questa una situazione esistente nel Partito socialista e che si riflette a nostro danno al Congresso di Livorno. Continuò a sussistere in parte sotto altre forme per la tendenza suscitata dal compagno Bordiga a ritenere speciale titolo di nobiltà il dirsi seguaci di una cosiddetta «sinistra italiana». In questo campo il compagno Bordiga ha ricreato una situazione simile a quella creata dal compagno Serrati dopo il II Congresso e che portò alla esclusione dei massimalisti dalla IC. Egli cioè crea una specie di patriottismo di partito che rifugge dall'inquadrarsi in una organizzazione mondiale. Ma la debolezza massima del nostro Partito è quella caratterizzata dal compagno Lenin nel punto terzo: l'amore per le pose rivoluzionarie e per le superficiali frasi scarlatte è il tratto piú rilevante non del Bordiga stesso, ma degli elementi che dicono di seguirlo. Naturalmente il fenomeno dell'estremismo bordighiano non è campato in aria. Esso ha una duplice giustificazione. Da una parte è legato alla situazione generale della lotta di classe nel nostro paese, e cioè al fatto che la classe operaia è la minoranza della popolazione lavoratrice e che essa è agglomerata prevalentemente in una sola zona del paese. In una tale situazione, il Partito della classe operaia può essere corrotto dalle infiltrazioni delle classi piccolo-borghesi, che pur avendo interessi contrari come massa agli interessi del capitalismo, non vogliono però condurre la lotta fino alle sue estreme conseguenze. Dall'altro ha contribuito a consolidare l'ideologia di Bordiga la situazione in cui venne a trovarsi il Partito socialista fino a Livorno e che Lenin caratterizzò cosí nel suo libro L'estremismo come malattia infantile del comunismo: «In un partito dove c'è un Turati e c'è un Serrati che non lotta contro Turati, è naturale che ci sia un Bordiga». Non è però naturale che il compagno Bordiga si sia cristallizzato nella sua ideologia anche quando Turati non era piú nel Partito, non vi era lo stesso Serrati e Bordiga in persona conduceva la lotta contro l'uno e contro l'altro. Evidentemente, l'elemento della situazione nazionale era preponderante nella formazione politica del compagno Bordiga e aveva cristallizzato in lui uno stato permanente di pessimismo sulla possibilità che il proletariato e il suo Partito potessero rimanere immuni da infiltrazioni di ideologie piccolo-borghesi senza l'applicazione di una tattica politica estremamente settaria, che rendeva impossibile l'applicazione e la realizzazione dei due princípi politici che caratterizzano il bolscevismo: l'alleanza tra operai e contadini e l'egemonia del proletariato nel movimento rivoluzionario anticapitalista. La linea da adottare per combattere queste debolezze del nostro Partito, è quella della lotta per la bolscevizzazione. La campagna da farsi deve essere prevalentemente ideologica. Essa però deve diventare politica per ciò che riguarda la estrema sinistra, cioè la tendenza rappresentata dal compagno Bordiga che dal frazionismo latente passerà necessariamente all'aperto frazionismo e nel congresso cercherà di mutare l'indirizzo politico della Internazionale. La quistione delle tendenze Esistono nel nostro Partito altre tendenze? Qual è il loro carattere e quale pericolo possono rappresentare? Se esaminiamo da questo punto di vista la situazione interna del nostro Partito, dobbiamo riconoscere che esso non solo non ha raggiunto il grado di maturità politica rivoluzionaria che riassumiamo nella parola «bolscevizzazione», ma che non ha raggiunto neanche la completa unificazione delle varie parti che confluirono alla sua composizione. A ciò ha contribuito l'assenza di ogni largo dibattito che purtroppo ha caratterizzato il Partito fin dalla sua fondazione. Se teniamo conto degli elementi che al Congresso di Livorno si schierarono per l'Internazionale comunista possiamo constatare che delle tre correnti che costituirono il PC: 1) gli astensionisti della frazione Bordiga; 2) gli elementi raggruppatisi intorno all'Ordine Nuovo ed all'Avanti! di Torino; 3) gli elementi di massa che seguivano il gruppo che chiameremo Gennari-Marabini, cioè i seguaci delle figure piú caratteristiche dello strato dirigente del Partito socialista venute con noi - solamente due, cioè quella astensionista e quella Ordine Nuovo - Avanti! torinese, avevano prima del Congresso di Livorno svolto un certo lavoro politico autonomo, avevano nel loro seno dibattuto i problemi essenziali dell'Internazionale comunista e avevano quindi acquistato una certa capacità di esperienza politica comunista. Ma queste correnti, se riuscirono ad avere il sopravvento nella direzione del nuovo Partito comunista, non ne costituivano la maggioranza di base. Inoltre, di queste due correnti una sola, astensionista, fin dal 1919 cioè da due anni avanti Livorno, aveva avuto una organizzazione nazionale, aveva formato tra i suoi aderenti una certa esperienza organizzativa di partito, ma nel periodo preparatorio si era esclusivamente occupata di quistioni interne di partito, della specifica lotta delle frazioni senza aver nel suo complesso attraversato esperienze politiche di massa altro che nella quistione puramente parlamentare. La corrente costituitasi intorno all'Ordine Nuovo ed all'Avanti! piemontese, non aveva suscitato né una frazione nazionale, neppure una vera e propria frazione nei limiti della regione piemontese in cui era sorta e si era sviluppata. La sua attività fu prevalentemente di massa; i problemi interni di partito furono da essa sistematicamente collegati con i bisogni e le aspirazioni della lotta generale di classe, generale della popolazione lavoratrice piemontese e specialmente del proletariato di Torino: cioè se diede ai suoi componenti una migliore preparazione politica e una capacità maggiore nei suoi singoli membri anche di massa, a guidare dei movimenti reali, la pose in condizione di inferiorità nell'organizzazione generale del Partito. Se si eccettua il Piemonte, la grande maggioranza del nostro Partito venne a costituirsi dagli elementi rimasti a Livorno con l'IC, perché con l'IC erano rimasti tutta una serie di compagni del vecchio strato dirigente del Partito socialista, come Gennari-Marabini, Bombacci, Misiano, Salvadori, Graziadei, ecc.: su questa massa, che per le concezioni non si differenziava in nulla dai massimalisti, si innestarono i gruppi astensionisti locali dandole la forma dell'organizzazione del nuovo PC. Se non si tenesse conto di questa reale formazione del nostro Partito, non si comprenderebbero né le crisi che esso ha attraversato e neanche la situazione attuale. Per le necessità di lotta senza quartiere che s'imposero al nostro Partito fin dalla sua origine, la quale coincise con lo sferrarsi piú furioso della reazione fascista e per cui si può dire che ogni nostra organizzazione fu battezzata dal sangue dei nostri migliori compagni, - l'esperienza dell'Internazionale comunista, cioè non solo del Partito russo ma anche degli altri Partiti fratelli, non giunsero fino a noi e non furono assimilate dalla massa del Partito altro che saltuariamente ed episodicamente. In realtà il nostro Partito si trovò ad essere staccato dal complesso internazionale, si trovò a sviluppare la sua ideologia arruffata e caotica sulla sola base delle nostre immediate esperienze nazionali; si creò in Italia una nuova forma di massimalismo. Questa situazione generale è stata aggravata l'anno scorso all'ingresso nelle nostre file della frazione terzainternazionalista. Le debolezze che ci erano caratteristiche esistevano in una forma ancor piú grave e pericolosa in questa frazione la quale da due anni e mezzo viveva in forma autonoma nel seno del Partito massimalista, creando cosí vincoli interni fra i suoi aderenti che dovevano prolungarsi anche dopo la fusione. Inoltre anche la frazione terzainternazionalista, per due anni e mezzo, fu assorbita completamente dalla lotta interna con la direzione del Partito massimalista, lotta che fu prevalentemente di carattere personale e settario e solo episodicamente trattò le quistioni fondamentali sia politiche che organizzative. La bolscevizzazione È evidente dunque che la bolscevizzazione del Partito nel campo ideologico non può solo tenere conto della situazione che riassumiamo nell'esistenza di una corrente di estrema sinistra e nell'atteggiamento personale del compagno Bordiga. Essa deve investire la situazione generale del Partito, cioè deve porsi il problema di elevare il livello tecnico e politico di tutti i nostri compagni. È certo, per esempio, che esiste anche una quistione Graziadei, cioè che noi dobbiamo basarci sulle sue recenti pubblicazioni per migliorare l'educazione marxista dei nostri compagni combattendo le deviazioni cosiddette scientifiche in esse sostenute. Nessuno però può pensare che il compagno Graziadei rappresenti un pericolo politico, cioè che sulla base delle sue concezioni revisionistiche del marxismo possa nascere una vasta corrente e quindi una frazione che metta in pericolo l'unità organizzativa del Partito. D'altronde non bisogna neppure dimenticare che il revisionismo di Graziadei porta ad un appoggio alle correnti di destra che, sia pure allo stato latente, esistono nel nostro Partito. L'entrata in esso della frazione terzinternazionalista, cioè di un elemento politico che non ha perduto molti dei suoi caratteri e che come si è già detto, meccanicamente tende a prolungare oltre la sua esistenza di frazione nel seno del Partito massimalista i vincoli creatisi nel Partito precedente, può indubbiamente dare a questa potenziale corrente di destra una certa base organizzativa, ponendo dei problemi che non devono assolutamente essere trascurati. Tuttavia non è possibile che nascano forti divergenze su questa sorta di apprezzamenti; le quistioni alle quali abbiamo accennato e che nascono dalla composizione originaria del nostro Partito, pongono prevalentemente dei problemi ideologici fortemente legati a due necessità: 1) alla necessità che la vecchia guardia del Partito assorba la massa dei nuovi iscritti venuti al Partito dopo il fatto Matteotti e che hanno triplicato gli effettivi del Partito; 2) alla necessità di creare dei quadri organizzativi di Partito che siano in grado non solo di risolvere i problemi quotidiani della vita del Partito, sia come organizzazione propria, sia nei suoi collegamenti con i sindacati e con le altre organizzazioni di massa; ma che siano anche in grado di risolvere i piú complessi problemi legati alla preparazione della conquista del potere ed all'esercizio del potere conquistato. Il pericolo di destra Si può dire che potenzialmente esista nel nostro Partito un pericolo di destra. Esso è legato alla situazione generale del paese. Le opposizioni costituzionali, quantunque storicamente siano scadute dalla loro funzione fin da quando hanno rigettato la nostra proposta di creare l'Antiparlamento continuano tuttavia a sussistere politicamente accanto ad un fascismo consolidato. Poiché le perdite subite dalla opposizione, se hanno rafforzato il nostro Partito, non l'hanno però rafforzato nella stessa misura in cui si è consolidato il fascismo, che ha nelle mani tutto l'apparato statale, è evidente che nel nostro Partito, di fronte ad una tendenza di estrema sinistra, che crede giunto ad ogni istante il momento di passare all'attacco frontale del regime che non può disgregarsi per le manovre dell'opposizione, potrà nascere, se non esiste già, una tendenza di destra, i cui elementi demoralizzati dall'apparente strapotere del Partito dominante, disperando che il proletariato possa rapidamente rovesciare il regime nel suo complesso, incominceranno a pensare che sia per essere migliore tattica quella che porti, se non addirittura ad un blocco borghese-proletario per l'eliminazione costituzionale del fascismo, per lo meno ad una tattica di passività reale, di non-intervento attivo del nostro Partito, la quale permetta alla borghesia di servirsi del proletariato come di una massa di manovra elettorale contro il fascismo. Di tutte queste possibilità e probabilità, il Partito deve tener conto affinché la sua giusta linea rivoluzionaria non subisca deviazioni. Il Partito, se deve considerare il pericolo di destra come una possibilità da combattersi con la propaganda ideologica e con mezzi disciplinari ordinari ogni volta che ciò si dimostra necessario, deve invece considerare il pericolo di estrema sinistra come una realtà immediata, come un ostacolo allo sviluppo non solo ideologico ma politico del Partito, come un pericolo che deve essere combattuto non solo con la propaganda ma anche con l'azione politica, perché immediatamente porta alla disgregazione dell'unità anche formale della nostra organizzazione, perché tende a creare un partito nel Partito, una disciplina contro la disciplina del Partito. Vuol dire questo che noi si voglia giungere ad una rottura con il compagno Bordiga e con quelli che si dicono suoi amici? Vuol dire che noi vogliamo modificare la base fondamentale del Partito quale si era costituita al Congresso di Livorno ed era stata conservata al Congresso di Roma? Certamente e assolutamente, no. Ma la base fondamentale del Partito non era un fatto puramente meccanico: essa si era costituita sulla accettazione incondizionata dei princípi e della disciplina dell'IC. Non siamo noi che abbiamo posto in discussione questi princípi e questa disciplina; non sarebbe quindi da ricercare in noi la volontà di modificare la base fondamentale del Partito. Occorre inoltre dire che per il 90 per cento se non piú dei suoi membri, il Partito ignora le questioni che sono sorte tra la nostra organizzazione e l'Internazionale comunista. Se, specialmente dopo il Congresso di Roma, il Partito nel suo complesso fosse stato messo in grado di conoscere la situazione dei nostri rapporti internazionali, esso probabilmente non sarebbe ora nelle condizioni di confusione in cui si trova. In ogni caso teniamo ad affermare con molta energia, perché sia sventato il triste gioco di alcuni elementi irresponsabili che pare trovino la loro felicità politica nell'inasprire le piaghe della nostra organizzazione, che noi riteniamo possibile venire ad un accordo con il compagno Bordiga e pensiamo che tale sia anche l'opinione del compagno Bordiga stesso. L'impostazione della discussione È secondo questo indirizzo generale che noi riteniamo debba essere impostata la discussione per il nostro congresso. Nel periodo che abbiamo attraversato dalle ultime elezioni parlamentari, il Partito ha condotto un'azione politica reale che è stata condivisa dalla grande maggioranza dei nostri compagni. Sulla base di questa azione, il Partito ha triplicato il numero dei suoi soci, ha sviluppato in modo notevole la sua influenza nel proletariato tanto che si può dire essere il nostro Partito il piú forte tra i partiti che hanno una base nella Confederazione generale del lavoro. Si è riusciti in questo periodo a porre concretamente il problema fondamentale della nostra rivoluzione: quello dell'alleanza tra operai e contadini. Il nostro Partito, in una parola, è diventato un fattore essenziale della situazione italiana. Su questo terreno dell'azione politica reale si è creata una certa omogeneità tra i nostri compagni. Questo elemento deve continuare a svilupparsi nella discussione del Congresso e deve essere una delle determinanti essenziali della bolscevizzazione. Ciò significa che il congresso non deve essere concepito solo come un momento della nostra politica generale, del processo attraverso il quale noi ci leghiamo alle masse e suscitiamo nuove forze per la rivoluzione. Il nucleo principale dell'attività del congresso deve essere perciò visto nelle discussioni che si faranno per stabilire quale fase della vita italiana ed internazionale noi attraversiamo, cioè quali sono i rapporti attuali delle forze sociali italiane, quali sono le forze motrici della situazione, quale fase della lotta delle classi è l'attuale. Da questo esame nascono due problemi fondamentali: 1) come noi possiamo sviluppare il nostro Partito in modo che esso diventi una unità capace di condurre il proletariato alla lotta, capace di vincere e di vincere permanentemente. È questo il problema della bolscevizzazione; 2) quale azione reale politica il nostro Partito debba continuare a svolgere per determinare la coalizione di tutte le forze anticapitalistiche guidate dal proletariato (rivoluzionario) nella situazione data per rovesciare il regime capitalistico in un primo tempo e per costituire la base dello Stato operaio rivoluzionario in un secondo tempo. Cioè, noi dobbiamo esaminare quali sono i problemi essenziali della vita italiana e quali loro soluzioni favorisce e determina l'alleanza rivoluzionaria del proletariato con i contadini e realizza l'egemonia del proletariato. Il congresso dovrà almeno preparare lo schema generale del nostro programma di governo. È questa una fase essenziale della nostra vita di Partito. Perfezionare lo strumento necessario per la rivoluzione proletaria in Italia: ecco il compito maggiore del nostro congresso; ecco il lavoro al quale invitiamo tutti i compagni di buona volontà che antepongono gli interessi unitari della loro classe alle meschine e sterili lotte di frazioni. L'organizzazione per cellule e il II Congresso mondiale(33) Nel suo articolo sulla natura del Partito comunista il compagno Bordiga scrive: «Al secondo Congresso, in cui vennero stabilite da Lenin le basi dell'Internazionale, pur essendo già in possesso dell'esperienza delle cellule in Russia, non si accennò nemmeno a tale criterio organizzativo, oggi presentato come indispensabile e fondamentale, in nessuno di quei classici documenti: statuto dell'Internazionale; 21 condizioni di ammissione in essa, tesi sul compito del partito, tesi sui compiti dell'Internazionale. Si tratta di una "scoperta" fatta molto dopo, e ci sarà agio di vedere come si collochi nel processo di sviluppo dell'Internazionale». L'affermazione del compagno Bordiga non è esatta. Nelle tesi sui compiti fondamentali dell'Internazionale comunista, e precisamente nel II capitolo «In che cosa debba consistere la preparazione immediata e generale della dittatura del proletariato», Lenin aveva scritto: «La dittatura del proletariato è la realizzazione piú completa della direzione di tutti i lavoratori e di tutti gli sfruttati - che sono stati soggiogati, calpestati, oppressi, terrorizzati, dispersi, ingannati dalla classe capitalistica - per parte dell'unica classe che per una tale missione dirigente sia stata preparata da tutta la storia del capitalismo. Perciò bisogna iniziare dappertutto ed immediatamente la preparazione della dittatura del proletariato, procedendo nel modo seguente: - In tutte le organizzazioni, federazioni, associazioni senza eccezione, in primo luogo in quelle proletarie poi in quelle non proletarie della massa lavoratrice e sfruttata (politiche, sindacali, militari, cooperative, culturali, sportive, ecc.), si debbono creare gruppi o cellule di comunisti, in prima linea apertamente, ma anche clandestine; le quali ultime sono obbligatorie ogni qualvolta ci si debba aspettare dalla borghesia lo scioglimento, l'arresto o l'esilio dei loro soci. Queste cellule strettamente collegate fra di loro e collegate alla Direzione centrale, debbono scambiarsi le loro esperienze, fare il lavoro di agitazione, propaganda ed organizzazione, adattarsi assolutamente a tutti i campi della vita pubblica, a tutti gli aspetti e gruppi della massa lavoratrice; e con questo molteplice lavoro debbono educare sistematicamente se stessi, il Partito, la classe, le masse». Nelle 21 condizioni di ammissione, al paragrafo 9, si dice: «Qualunque Partito desideri appartenere all'Internazionale comunista deve sistematicamente e tenacemente spiegare un'attività comunista entro i sindacati, nei Consigli operai, nei Consigli d'azienda, nelle cooperative di consumo e in tutte l'organizzazioni operaie. Entro queste organizzazioni è necessario organizzare cellule comuniste, che, con un lavoro persistente e tenace, guadagnino alla causa del comunismo i sindacati, ecc. «Queste cellule sono obbligate, nel loro lavoro quotidiano, a smascherare dappertutto il tradimento dei socialpatriotti e le oscillazioni dei centristi. Le cellule comuniste devono essere completamente subordinate al Partito.» Nelle Tesi sui compiti del Partito comunista nella Rivoluzione proletaria al paragrafo 18 si dice: «Base di tutta l'attività organizzatrice del Partito comunista deve essere dappertutto la creazione di una cellula comunista; e ciò, anche se talora sia molto piccolo il numero dei proletari e semi proletari. In ogni Soviet, in ogni sindacato, in ogni cooperativa di consumo, in ogni azienda, in ogni Consiglio di inquilini, dovunque si trovino foss'anche tre soli uomini, che si adoperano per il comunismo, si deve immediatamente fondare una cellula comunista. Solo la compattezza dei comunisti dà all'avanguardia della classe operaia la possibilità di condurre dietro a sé l'intera classe operaia. Tutte le cellule del Partito comunista, che lavorano nelle organizzazioni non aventi partito, sono assolutamente subordinate alla organizzazione del Partito e ciò tanto se in quel momento il Partito lavora legalmente quanto illegalmente. Le cellule comuniste di ogni specie debbono essere subordinate l'una all'altra sulla base del piú rigoroso regolamento gerarchico, secondo un sistema il piú possibile preciso». Il secondo Congresso pose il problema dell'organizzazione dei Partiti comunisti per cellule. L'impostazione non fu chiara per i partiti europei. Si confuse l'organizzazione delle cellule, base del Partito, con l'organizzazione delle frazioni comuniste nei sindacati, nelle cooperative, ecc.; in realtà, le due forme organizzative non si distinguono bene tra loro nelle enunciazioni riportate, quantunque la distinzione sia fatta chiaramente nella parte riassuntiva delle tesi sui compiti del partito. Al punto IV del riassunto si dice: «Dovunque esista foss'anco una dozzina di proletari o semi proletari, il PC deve avere una cellula organizzata». Al punto V: «In ogni istituzione non di partito, deve esserci una cellula del Partito comunista rigorosamente sottoposta al Partito». È evidente che in questi due punti si vuole fare la distinzione tra la cellula, base organizzativa del Partito e la frazione, organismo di lavoro e di lotta del Partito nelle associazioni di massa. Che sia cosí risulta: - Dalle tesi scritte da Lenin nel 1915 per l'ala sinistra di Zimmerwald, cioè per il nucleo rivoluzionario che fonderà nel 1919 l'Internazionale comunista. E risulta dal discorso tenuto da Lenin al III Congresso sul comma speciale dedicato all'organizzazione ed alla struttura dei Partiti comunisti. Lenin si pone la questione: - Perché solo il Partito comunista russo è organizzato per cellule? Perché non sono state messe in esecuzione le disposizioni del II Congresso che indicavano nel sistema delle cellule il sistema proprio dei Partiti comunisti? E Lenin risponde a queste domande affermando che la responsabilità di ciò è dei compagni russi e sua propria, in quanto nelle tesi del II Congresso si è parlato un linguaggio troppo russo e poco «europeo», cioè si è fatto riferimento all'esperienze russe senza renderle attuali, senza spiegarle, supponendo che esse fossero conosciute e comprese. Le tesi del III Congresso sulla struttura del Partito comunista, scritte o direttamente da Lenin o sottoposte al suo controllo, sono dunque non una «scoperta», come dice il compagno Bordiga, ma la traduzione in linguaggio comprensibile agli «europei», delle enunciazioni rapide e per accenni contenute nelle tesi del II Congresso. Ma perché il compagno Bordiga vuole fare questa distinzione nella storia dell'Internazionale tra il II Congresso ed i successivi tre congressi? Nell'articolo sulla «questione Trotzki» il compagno Bordiga sostiene che la storia dell'Internazionale si divide in due parti: fino alla morte di Lenin, dopo la morte di Lenin. Nell'articolo sulla natura del Partito invece la seconda fase incomincia già dal III Congresso, cioè da un periodo in cui Lenin era vivo ed era nel massimo della sua efficienza intellettuale e politica. Dal corso della discussione apparirà chiaro questo punto che è fondamentale per la discussione del Partito: apparirà che per il compagno Bordiga il movimento rivoluzionario italiano si trova nuovamente in una fase simile a quella che intercorse tra il II Congresso e Livorno, in una fase cioè in cui si debbono organizzare frazioni perché ci possiamo trovare (anzi ci troviamo) dinanzi a un problema di scissione. Come spiegare altrimenti gli accenni che il compagno Bordiga ha fatto, nei punti della sinistra e nell'articolo sulla natura del Partito, al gruppo dell'Ordine Nuovo, accenni malevoli, pieni di astio e di rancore, non rivolti a cancellare le differenziazioni ma invece ad inasprirle e a farle apparire incolmabili? Il compagno Bordiga, tra l'altro, ha però dimenticato una «piccola» cosa: che anche ponendo il II Congresso come pietra di paragone per comprendere la situazione attuale del nostro Partito, non è certo il gruppo dell'Ordine Nuovo che può venire diminuito nella funzione che ha sempre svolto per la preparazione del movimento comunista italiano. Al II Congresso il compagno Lenin dichiarò di far sue le tesi presentate dal gruppo dell'Ordine Nuovo al Consiglio nazionale del Partito socialista dell'aprile del 1920 e volle che nelle deliberazioni del congresso risultasse: 1) che le tesi dell'Ordine Nuovo corrispondevano a tutti i princípi fondamentali della III Internazionale; 2) che al congresso del Partito socialista dovevano essere prese in esame le tesi dell'Ordine Nuovo. Nessun «estremista» vorrà negare che tra il giudizio del compagno Lenin e il giudizio del compagno Bordiga, il giudizio del compagno Lenin sia ritenuto da noi piú importante e dettato da uno spirito marxista un po' piú approfondito e sicuro di quello del compagno Bordiga. L'organizzazione base del Partito(34) Nel mio precedente articolo sulle cellule al quale si riferisce il compagno Mangano, ho voluto non dimostrare, ma solamente ricordare una cosa molto semplice, che dovrebbe essere sempre presente alla memoria di ogni compagno che voglia partecipare con serietà alla discussione del congresso, che abbia l'intenzione cioè di giovare alla educazione del Partito e non quella di confondere le idee. Ho voluto ricordare che il tipo di organizzazione per cellule è strettamente legato alla dottrina del leninismo, e che, nel campo internazionale, il compagno Lenin indicò questo tipo di organizzazione fin dall'epoca della sinistra zimmerwaldiana. Una delle caratteristiche piú spiccate del leninismo è la sua formidabile coerenza e consequenzialità: il leninismo è un sistema unitario di pensiero e di azione pratica, in cui tutto si tiene e si dimostra reciprocamente; dalla concezione generale del mondo fino ai piú minuti problemi di organizzazione. Il nucleo fondamentale del leninismo nell'azione pratica è la dittatura del proletariato, ed alla questione della preparazione e della organizzazione della dittatura proletaria sono collegati tutti i princípi di tattica e di organizzazione del leninismo. Se fosse stato vero ciò che il compagno Bordiga ha affermato, che cioè l'organizzazione delle cellule come base del Partito sia stata una «scoperta» del III Congresso - sarebbe dimostrata una gravissima incoerenza del leninismo e dell'Internazionale, e sarebbe veramente necessario domandarsi se nel III Congresso non si sia verificata una deviazione verso destra, verso la socialdemocrazia, cioè uno spostamento dal terreno dell'azione rivoluzionaria verso un terreno di semplice attività organizzativa estranea alla preparazione della dittatura proletaria. Questo infatti è l'assunto polemico dei compagni estremisti: - «dimostrare» che l'organizzazione del Partito sulla base delle cellule, non è parte essenziale del leninismo con l'affermazione che la organizzazione per cellule è una «scoperta» posteriore al II Congresso - per giungere a dimostrare che l'indirizzo della Internazionale è stato mutato dal III Congresso in quanto sono stati assegnati ai Partiti comunisti, dal III Congresso in poi, compiti essenzialmente organizzativi e non d'azione. Cosí si spiegherebbe, secondo gli estremisti, come diversi partiti, quando si è presentato un momento propizio per l'azione, abbiano fallito al loro compito storico (realizzare l'insurrezione armata e la conquista del potere): essi erano stati distratti da compiti secondari di organizzazione interna o di organizzazione delle grandi masse (questione delle cellule, tattica del fronte unico e del governo operaio, lotta per la unità proletaria, ecc. ecc.). Nel mio precedente articolo, al quale il compagno Mangano si riferisce, ho «dimostrato» come uno degli elementi su cui dovrebbe basarsi l'assunto polemico degli estremisti sia insussistente: non sarà difficile dimostrare come siano altrettanto inconsistenti gli altri. La quistione delle cellule è certamente anche un problema tecnico di organizzazione generale del Partito, ma prima di tutto, essa è una quistione politica. La quistione delle cellule è la quistione della direzione delle masse, cioè della preparazione della dittatura proletaria, è la migliore soluzione tecnica organizzativa della quistione fondamentale della nostra epoca. Gli argomenti pro e contro le cellule portati finora in discussione (se sia piú sicura la strada o la fabbrica, se agli intellettuali come classe sia piú facile, con le cellule o con l'assemblea territoriale, far deviare il proletariato od inquinare la sua ideologia) sono argomenti secondari, osservazioni di dettaglio, che influiscono in modo subordinato nell'accoglimento della forma organizzativa per cellule invece che della forma per assemblee territoriali. L'argomento fondamentale è quello della direzione delle masse, che da me stesso è stato cosí esposto dinanzi al nostro Comitato centrale (cfr. l'Unità del 3 luglio) senza che gli estremisti abbiano neppure cercato di ribattere una sillaba: «Per alcuni rispetti, i partiti rivoluzionari dell'Europa occidentale si trovano solo oggi nelle condizioni in cui i bolscevichi russi si erano trovati già fin dalla formazione del loro Partito. In Russia, non esistevano prima della guerra le grandi organizzazioni dei lavoratori che invece hanno caratterizzato tutto il periodo europeo della II Internazionale prima della guerra. In Russia, il Partito, non solo come affermazione teorica generale, ma anche come necessità pratica di organizzazione e di lotta, riassumeva in sé tutti gli interessi vitali della classe operaia; la cellula di fabbrica e di strada guidava la massa sia nella lotta per le rivendicazioni sindacali, come nella lotta politica per il rovesciamento dello zarismo. Nell'Europa occidentale invece si venne sempre piú costituendo una divisione del lavoro tra organizzazione sindacale ed organizzazione politica della classe operaia. Nel campo sindacale andò sviluppandosi con ritmo sempre piú accelerato la tendenza riformista e pacifista; cioè andò sempre piú intensificandosi la influenza della borghesia sul proletariato. Per la stessa ragione, nei partiti politici la attività si spostò sempre piú verso il campo parlamentare, verso cioè forme che non si distinguevano per nulla da quelle della democrazia borghese. Nel periodo della guerra e in quello del dopoguerra immediatamente precedente alla costituzione della Internazionale comunista, ed alle scissioni nel campo socialista, che portarono alla formazione dei nostri Partiti, la tendenza sindacalista-riformista andò consolidandosi come organizzazione dirigente dei sindacati. Si è venuta cosí a determinare una situazione generale che appunto pone anche i Partiti comunisti dell'Europa occidentale nelle stesse condizioni in cui si trovava il Partito bolscevico in Russia prima della guerra. Osserviamo ciò che avviene in Italia. Attraverso l'azione repressiva del fascismo, i sindacati erano venuti a perdere, nel nostro paese, ogni efficienza sia numerica che combattiva. Approfittando di questa situazione, i riformisti si impadronirono completamente del loro meccanismo centrale escogitando tutte le misure e le disposizioni che possono impedire a una minoranza di formarsi, di organizzarsi, di svilupparsi e diventare maggioranza fino a conquistare il centro dirigente. Ma la grande massa vuole, ed a ragione, l'unità e riflette questo sentimento unitario nella organizzazione sindacale tradizionale italiana: la Confederazione generale del lavoro. La massa vuole lottare e vuole organizzarsi ma vuole lottare con la Confederazione generale del lavoro e vuole organizzarsi nella Confederazione generale del lavoro. I riformisti si oppongono alla organizzazione delle masse. Ricordate il discorso di D'Aragona nel recente congresso confederale in cui affermò che non piú d'un milione di organizzati deve costituire la Confederazione. Se si tien conto che la Confederazione stessa sostiene di essere l'organismo unitario di tutti i lavoratori italiani, cioè non solo degli operai industriali ed agricoli ma anche dei contadini e che in Italia ci sono almeno 15 milioni di lavoratori organizzabili, appare che la Confederazione vuole per programma organizzare un quindicesimo, cioè il 7,50 per cento dei lavoratori italiani mentre noi vorremmo che nei sindacati e nelle organizzazioni contadine fossero organizzati il 100 per cento dei lavoratori. Ma se la Confederazione vuole per ragioni di politica interna confederale, cioè per mantenere la dirigenza confederale nelle mani dei riformisti, che solo il 7,50 per cento dei lavoratori italiani siano organizzati, essa vuole anche - per ragioni di politica generale, cioè perché il Partito riformista possa collaborare efficacemente in un governo democratico borghese, che la Confederazione, nel suo complesso, abbia una influenza sulla massa disorganizzata degli operai industriali ed agricoli e vuole, impedendo la organizzazione dei contadini, che i partiti democratici coi quali intende collaborare mantengano la loro base sociale. Essa allora manovra nel campo specialmente delle Commissioni interne che sono elette da tutta la massa degli organizzati e dei disorganizzati. «Essa cioè, vorrebbe impedire che gli operai organizzati, all'infuori di quelli della tendenza riformista, presentino liste di candidati per le Commissioni interne, vorrebbe che i comunisti, anche dove sono in maggioranza nella organizzazione sindacale locale e tra gli organizzati delle singole officine, votino per disciplina le liste della minoranza riformista. Se questo programma organizzativo riformista fosse da noi accettato, si arriverebbe di fatto all'assorbimento del nostro Partito da parte del Partito riformista e nostra sola attività rimarrebbe l'attività parlamentare. «D'altronde come possiamo noi lottare contro l'applicazione e la realizzazione di un tale programma senza determinare una scissione che noi assolutamente non vogliamo determinare? Per ottenere ciò non c'è altra via d'uscita che la organizzazione delle cellule e il loro sviluppo nello stesso senso in cui esse si svilupparono in Russia prima della guerra. Come frazione sindacale, i riformisti ci impediscono, mettendoci alla gola la pistola della disciplina, di centralizzare le masse rivoluzionarie sia per la lotta sindacale che per la lotta politica. È evidente allora che le nostre cellule devono lavorare direttamente nelle fabbriche per centralizzare attorno al Partito le masse, spingendole a rafforzare le Commissioni interne dove esse esistono, a creare comitati di agitazione nelle fabbriche dove non esistono Commissioni interne o dove esse non assolvono i loro compiti, spingendole a volere la centralizzazione delle istituzioni di fabbrica come organismi di massa non solamente sindacali ma di lotta generale contro il capitalismo e il suo regime politico. È certo che la situazione in cui noi ci troviamo è molto piú difficile di quella in cui si trovarono i bolscevichi russi, perché noi dobbiamo lottare non solo contro la reazione dello Stato fascista ma anche contro la reazione dei riformisti nei sindacati. Appunto perché piú difficile la situazione, piú forti devono essere le nostre cellule sia organizzativamente che ideologicamente. In ogni caso, la bolscevizzazione per ciò che ha riflesso nel campo organizzativo è una necessità imprescindibile. Nessuno oserà dire che i criteri leninisti di organizzazione del Partito siano propri della situazione russa e che sia un fatto puramente meccanico la loro applicazione all'Europa occidentale. Opporsi alla organizzazione del Partito per cellula, significa solo essere ancora legati alle vecchie concezioni socialdemocratiche, significa trovarsi realmente in un terreno di destra, cioè in un terreno nel quale non si vuole lottare contro la socialdemocrazia». Posta cosí la questione come dev'essere posta, gli argomenti che subordinatamente possono essere portati contro l'organizzazione per cellula perdono una gran parte del loro significato. Nessuna forma organizzativa può essere assolutamente perfetta: l'importante è fissare quale tipo di organizzazione corrisponde meglio alle condizioni e alle necessità della lotta proletaria, non di andare alla ricerca della forma perfettissima. Il compagno Mangano trova che l'aver ricordato il discorso del compagno Lenin al III Congresso sulla «potente ignoranza» dei Partiti comunisti «europei» sulla struttura dei loro stessi Partiti sia stata una... trovata. La questione è molto piú complessa di quanto il comp. Mangano non sospetti e non possa sospettare, dato la sua ferma volontà di mantenersi nella stessa «potente ignoranza» e di disprezzare come «centrista» e «opportunista» ogni insegnamento della esperienza proletaria degli altri paesi e della stessa Italia. Io ricordo un «piccolo» episodio del 1920. Nel giugno 1920 si riuní a Genova la Conferenza nazionale della FIOM per fissare il piano di battaglia della agitazione metallurgica che nel settembre successivo portò all'occupazione delle fabbriche. Noi miserabili «ordinovisti», «centristi» «opportunisti», ecc. ecc., che abbiamo avuto sempre la miserabile abitudine di occuparci del reale svolgimento degli avvenimenti operai, informati che nella Confederazione di Genova era stato delineato il piano di lotta dell'occupazione delle fabbriche, ponemmo alla direzione del Partito socialista attraverso il compagno Terracini, la quistione dell'intervento del Partito nell'agitazione metallurgica e proponemmo di creare le cellule come base organizzativa del Partito stesso nelle fabbriche. La proposta fu respinta dopo un discorso dell'allora estremista Baratono il quale trovò che la creazione delle cellule avrebbe significato la denunzia del patto di alleanza in quando il Partito con le cellule avrebbe soppiantato i sindacati (cioè i riformisti) nella direzione delle masse. Battuti dinanzi alla direzione, uno degli «ordino visti» e precisamente il sottoscritto, si recò, per incarico della sezione socialista torinese, alla Conferenza nazionale della frazione astensionista che si tenne a Firenze nel luglio, per proporre la formazione di una frazione comunista sulla base dei princípi generali organizzativi e politici dell'Internazionale comunista (cellule, Consiglio di fabbrica). Anche qui la proposta fu respinta, perché si riteneva che per dirigere la massa fossero inutili le «pure forme organizzative», mentre erano sufficienti le affermazioni di astensionismo parlamentare. Cosí la classe operaia arrivò all'occupazione delle fabbriche senza direzione politica rivoluzionaria, e i riformisti poterono cosí dirigere le masse verso la rinunzia alla lotta. L'episodio italiano, come l'esperienza «europea» dopo il secondo Congresso, dimostra come fosse difficile ai vecchi Partiti socialisti comprendere concretamente cosa sia la dittatura del proletariato, come non basti affermarsi per la dittatura e credere di lavorare per essa, per essere tali e lavorare in tal senso. Secondo il compagno Mangano, l'aver tardato a comprendere dovrebbe aver per conseguenza non di affrettarsi a recuperare il tempo perduto, ma di rinunziare a comprendere e ad operare. Opportunismo e fronte unico(35) Sentiamo spesso ripetere da massimalisti e anche da riformisti alle nostre proposte di fronte unico: «Noi aderiremmo purché i comunisti rinunciassero a volerci liquidare», «il fronte unico è una manovra per liquidarci», ecc. Simili dichiarazioni non sono che manifestazioni di infingardaggine mentale e d'autolesionismo politico. Su che cosa si basano le proposte di fronte unico avanzate dal PC? La classe operaia è divisa, perché sopra una parte di essa operano in misura piú o meno vasta le tendenze pacifiste piccolo-borghesi, democratiche, riformiste: lo stesso massimalismo non è altro che riformismo pratico. La costituzione dell'avanguardia rivoluzionaria in Partito è la garanzia della salvaguardia di una parte della classe dalle illusioni socialdemocratiche e dalla corruzione politica del capitale, ed è il centro di schieramento e di unificazione progressiva di tutta la classe. Come potrà la classe operaia nel suo complesso e gli strati di essa diversamente orientati dal punto di vista politico ritrovare in una giusta via la sua unità di lotta? Attraverso le lotte parziali e il fronte unico. Il Partito comunista, frazione della classe operaia, si rivolge alle altre frazioni e propone un'azione comune in vista del raggiungimento di obiettivi, raggiungimento desiderabile dalle piú grandi masse e possibile nel momento dato. Il Partito comunista non pretende di «imporre» il suo punto di vista alla classe operaia; esso, semplicemente, lo «propone» e chiama le altre frazioni operaie, che si richiamano alla lotta di classe, a pronunciarsi sopra di esso e a discuterlo in comune. Una volta stabilito il programma di azione, il Partito comunista impegna la propria disciplina all'azione e nello stesso tempo rivendica la propria libertà di prospettare alla classe operaia in lotta i mezzi che a suo avviso sono necessari per far fronte alle necessità derivanti dallo sviluppo stesso dell'azione. È evidente che tale libertà corrisponde essa stessa alla disciplina morale dell'azione, al rafforzamento di tutta la classe, al raggiungimento degli obiettivi e alla preparazione delle nuove lotte che la situazione obiettiva e l'interesse del proletariato richiedono. È ridicolo che dei partiti i quali assicurano di avere la storia con loro e di essere indistruttibili, abbiano timore di essere liquidati perché cosí «vogliono» i comunisti. Un metodo di lotta e per conseguenza il partito che se ne fa banditore non sono liquidati o valorizzati perché cosí vogliono delle persone o dei gruppi, ma sono rispettivamente valorizzati o liquidati al vaglio della realtà, di fronte alle esigenze imposte dall'azione. Ripetiamo che la piattaforma del fronte unico è «proposta» dal PC e che il programma effettivo non può essere che discusso, definito e accettato in comune. Per conseguenza, il PC offrendosi per primo di passare al vaglio della realtà, dimostra alla luce del sole di non essere né di voler essere una sètta, ma di porsi non a parole, ma a fatti, sul terreno degli interessi dei lavoratori. Quelli che dimostrano di essere una sètta e di preferire il proprio sterile «patriottismo di partito» agli interessi della classe intiera, sono precisamente coloro che respingono le proposte del PC. In un vero partito di classe «l'interesse di partito» non può in nessun caso entrare in conflitto con gli interessi di classe; quando tale antitesi esiste, vuol dire che quel partito ha cessato di essere partito di classe. I socialdemocratici di ogni tinta non possono ormai piú salvarsi di fronte alle masse col sostenere che le nostre proposte sono state da essi respinte perché irrealizzabili: le proposte di lista unica al tempo delle elezioni politiche, dello sciopero generale e dell'azione antifascista di classe al tempo del delitto Matteotti, le proposte dell'Antiparlamento e dell'assemblea repubblicana, non sono state realizzate solo per deliberata mala volontà di coloro ai quali erano dirette. L'esperienza successiva ha dimostrato alle masse che esse erano tempestive, giuste e realizzabili, e che solo il PC ha visto giusto nella situazione e si è comportato da vero partito della classe operaia. I massimalisti hanno sabotato e liquidato l'intesa delle «sinistre sindacali» per passare all'intesa di destra con i riformisti e per paura del fascismo. Ora l'esperienza dimostra a tutti gli operai i quali hanno onesto sentimento classista che se l'intesa delle «sinistre sindacali» fosse continuata, essa si sarebbe certamente sviluppata in estensione e in prestigio col risultato che oggi la Confederazione non sarebbe piú in mano ai riformisti o per lo meno la situazione confederale sarebbe ben diversa dalla presente, in quanto la classe operaia avrebbe combattuto importanti battaglie e la reazione ben difficilmente avrebbe potuto avere via libera. Ma, senza alcun dubbio, la realtà liquida l'opportunismo di ogni colore. I massimalisti sono, soprattutto, in una condizione ben dura di fronte alle masse: o liquidare la propria inerzia classista e la propria attività socialdemocratica antisoviettista e filocapitalista e passare dalle parole antiriformiste ai fatti, ossia alla lotta effettiva, coerente e organizzata in alleanza con la corrente sindacale comunista contro la disastrosa e fallimentare dirigenza riformista nei sindacati, oppure liquidare completamente le ultime vestigia di rivoluzionarismo e di classismo, passare completamente dall'altra parte del fosso e raggiungere organicamente la socialdemocrazia. Noi crediamo che le masse operaie massimaliste non seguiranno troppo a lungo la politica dei loro capi. Il significato e i risultati del III Congresso del Partito comunista d'Italia(36) Cinque anni di vita del Partito Data la difficoltà di pubblicare immediatamente un resoconto giornalistico dei lavori del III Congresso del nostro Partito, riteniamo per intanto opportuno di offrire ai compagni e alla massa dei lettori un esame e una informazione generale dei risultati del Congresso stesso. Ci affrettiamo dunque ad annunciare che prossimamente sarà pubblicato sul nostro giornale il resoconto materiale del Congresso e saranno successivamente riunite in un volume le deliberazioni e le tesi nel loro testo definitivo. I risultati numerici dei voti al Congresso furono i seguenti: - Assenti e non consultati: 18,9%; - Dei presenti al Congresso: Voti per il CC 90,8%; per l'estrema sinistra 9,2%. Il nostro Partito è nato nel gennaio 1921, cioè nel momento piú critico sia della crisi generale della borghesia italiana, sia della crisi del movimento operaio. La scissione, se era storicamente necessaria ed inevitabile, trovava però le grandi masse impreparate e riluttanti. In tale situazione, la organizzazione materiale del nuovo Partito trovava le condizioni piú difficili. Avvenne perciò che il lavoro puramente organizzativo, data la difficoltà delle condizioni in cui doveva svolgersi, assorbí le energie creatrici del Partito, in modo quasi completo. I problemi politici che si ponevano, per la decomposizione, da una parte, del personale dei vecchi gruppi dirigenti borghesi, dall'altra per un processo analogo del movimento operaio, non poterono essere approfonditi sufficientemente. Tutta la linea politica del Partito negli anni immediatamente successivi alla scissione fu in primo luogo condizionata da questa necessità: di mantenere strette le file del Partito, aggredito fisicamente dalla offensiva fascista da una parte, e dai miasmi cadaverici della decomposizione socialista dall'altra. Era naturale che in tali condizioni si sviluppassero nell'interno del nostro Partito sentimenti e stati d'animo di carattere corporativo e settario. Il problema generale politico, inerente alla esistenza e allo sviluppo del Partito, non era visto nel senso di una attività per la quale il Partito dovesse tendere a conquistare le piú larghe masse e ad organizzare le forze sociali necessarie per sconfiggere la borghesia e conquistare il potere, ma era visto come il problema della esistenza stessa del Partito. La scissione di Livorno Il fatto della scissione fu visto nel suo valore immediato e meccanico e noi commettemmo, in altro senso sia pure, lo stesso errore che era stato commesso da Serrati. Il compagno Lenin aveva dato la formula lapidaria del significato delle scissioni, in Italia, quando aveva detto al compagno Serrati: «Separatevi da Turati, e poi fate l'alleanza con lui». Questa formula avrebbe dovuto essere da noi adottata alla scissione, avvenuta in forma diversa da quella prevista da Lenin. Dovevamo cioè, come era indispensabile e storicamente necessario, separarci, non solo dal riformismo, ma anche dal massimalismo che in realtà rappresentava e rappresenta l'opportunismo tipico italiano del movimento operaio; ma dopo di ciò e pur continuando la lotta ideologica e organizzativa contro di essi, cercare di fare un'alleanza contro la reazione. Per gli elementi dirigenti del nostro Partito, ogni azione della Internazionale, rivolta ad ottenere un riavvicinamento a questa linea, apparve come se fosse una sconfessione implicita della scissione di Livorno, come una manifestazione di pentimento. Si disse che, accettando una tale impostazione della lotta politica, si veniva ad ammettere che il nostro Partito era solamente una nebulosa indefinita, mentre era giusto ed era necessario affermare che il nostro Partito, nascendo, aveva risolto definitivamente il problema della formazione storica del Partito del proletariato italiano. Questa opinione era rafforzata dalle non lontane esperienze della rivoluzione soviettista in Ungheria, dove la fusione tra comunisti e socialdemocratici fu certamente uno degli elementi che contribuirono alla disfatta. La portata dell'esperienza ungherese In realtà la impostazione data a questo problema dal nostro Partito era falsa e andò sempre piú manifestandosi come tale alle larghe masse del Partito. Proprio la esperienza ungherese avrebbe dovuto convincerci che la linea seguita dalla Internazionale nella formazione del Partito comunista, non era quella che noi le attribuivamo. È noto infatti che il compagno Lenin cercò di opporsi strenuamente alla fusione tra comunisti e socialdemocratici ungheresi, nonostante che questi ultimi si dichiarassero fautori della dittatura del proletariato. Si può dire perciò che il compagno Lenin fosse in generale contrario alle fusioni? Certamente no. Il problema era visto dal compagno Lenin e dalla Internazionale come un processo dialettico, attraverso il quale l'elemento comunista, cioè la parte piú avanzata e cosciente del proletariato, si pone, sia nella organizzazione di Partito della classe operaia, sia nella funzione di direzione delle grandi masse, alla testa di tutto ciò che di onesto e di attivo si è formato ed esiste nella classe. In Ungheria è stato un errore distruggere la organizzazione indipendente comunista nel momento della presa del potere per dissolvere e diluire il raggruppamento costituito nella piú vasta ed amorfa organizzazione socialdemocratica che non poteva non riprendere predominio. Anche per l'Ungheria il compagno Lenin aveva formulato la linea del nostro vecchio Partito come una alleanza con la socialdemocrazia, non come una fusione. Alla fusione si sarebbe arrivati piú tardi, quando il processo di predominio del raggruppamento comunista si fosse sviluppato sulla scala piú larga nel campo della organizzazione sindacale e dell'apparato statale, e ciò con la separazione organica e politica degli operai rivoluzionari dei capi opportunisti. Per l'Italia il problema si poneva in termini ancora piú semplici che in Ungheria, perché, non solo il proletariato non aveva conquistato il potere, ma iniziava, proprio nel momento della formazione del Partito, un grande movimento di ritirata. Porre in Italia la quistione della formazione del Partito, cosí com'era stato indicato dal compagno Lenin nella sua formula espressa a Serrati, significava - nell'arretramento del proletariato che si iniziava allora - dare la possibilità al nostro Partito di raggruppare intorno a sé quegli elementi del proletariato che avrebbero voluto resistere, ma che sotto la direzione massimalista erano travolti nella rotta generale e cadevano progressivamente nella passività. Ciò significa che la tattica suggerita da Lenin e dalla Internazionale era l'unica capace di rafforzare e sviluppare i risultati della scissione di Livorno, e di fare veramente del nostro Partito, fin d'allora, non solo in astratto, e come affermazione storica, ma in forma effettiva, il Partito dirigente della classe operaia. Per questa falsa impostazione del problema, noi ci siamo mantenuti sulle posizioni avanzate, da soli e con la frazione di masse immediatamente piú vicine al Partito, ma non abbiamo fatto quanto era necessario per mantenere sulle nostre posizioni il proletariato nel suo complesso, il quale tuttavia era ancora animato da un grande spirito di lotta, come è dimostrato dai tanti episodi spesso eroici della resistenza opposta alla avanzata avversaria. Il Partito negli anni 1921-22 Un altro degli elementi di debolezza della nostra organizzazione è consistito nel fatto che tali problemi, data la difficoltà della situazione e dato che le forze del Partito erano assorbite dalla lotta immediata per la propria difesa fisica, non divennero oggetto di discussione alla base e quindi elemento dello sviluppo della capacità ideologica e politica del Partito. Avvenne cosí che il I Congresso del Partito, quello tenuto a Livorno nel Teatro San Marco, subito dopo la scissione, si pose solo dei compiti di carattere organizzativo immediato: formazione degli organismi centrali e inquadramento generale del Partito. Il II Congresso avrebbe potuto e forse dovuto esaminare e impostare le suddette questioni, ma a ciò si opposero i seguenti elementi: 1) il fatto che, non solo la massa, ma anche una grande parte degli elementi piú responsabili e piú vicini alla direzione del Partito ignoravano letteralmente che esistessero divergenze profonde ed essenziali, fra la linea seguita dal nostro Partito e quella sostenuta dalla Internazionale; 2) l'essere il Partito assorbito dalla lotta diretta fisica portava a sottovalutare le questioni ideologiche e politiche in confronto di quelle puramente organizzative. Era quindi naturale che sorgesse nel Partito uno stato di animo contrario a priori ad approfondire ogni quistione che potesse prospettare pericoli di conflitti gravi nel gruppo dirigente costituitosi a Livorno; 3) il fatto che l'opposizione rivelatasi al Congresso di Roma e che diceva di essere la sola rappresentante delle direttive della Internazionale era, nella situazione data, un'espressione dello stato d'animo di stanchezza e di passività che esisteva in alcune zone del Partito. La crisi subíta sia dalla classe dominante che dal proletariato nel periodo precedente l'avvento del fascismo al potere, pose nuovamente il nostro Partito dinanzi ai problemi che il Congresso di Roma non aveva avuto la possibilità di risolvere. In che cosa consistette questa crisi? I gruppi di sinistra della borghesia, fautori a parole di un governo democratico che si proponesse di arginare energicamente il movimento fascista, avevano reso arbitro il PS, di accettare o non accettare questa soluzione per liquidarlo politicamente sotto il cumulo della responsabilità di un mancato accordo antifascista. In questo stesso modo di porre la questione da parte dei democratici era implicita la preventiva capitolazione dinanzi al movimento fascista, fenomeno che si riprodusse poi nel periodo della crisi Matteotti. Tuttavia, tale impostazione se ebbe in un primo tempo il potere di determinare una chiarificazione nel PS, essendosi in base ad essa prodotta la scissione dei massimalisti dai riformisti, aggravava però la situazione del proletariato. Infatti la scissione rendeva infruttuosa la tattica proposta dai democratici, in quanto il governo di sinistra da questi prospettato doveva comprendere il Partito socialista unito, cioè significare la cattura della maggioranza della classe operaia organizzata nell'ingranaggio dello Stato borghese anticipando la legislazione fascista e rendendo politicamente inutile l'esperimento diretto fascista. D'altronde la scissione, come apparve piú chiaramente in seguito, solo meccanicamente aveva portato a uno sbalzo a sinistra dei massimalisti, i quali, se affermavano di volere aderire alla IC e quindi di riconoscere l'errore commesso a Livorno, si muovevano però con tante riserve e reticenze mentali da neutralizzare il risveglio rivoluzionario che la scissione aveva determinato nelle masse, portandole cosí a nuove disillusioni e a una ricaduta di passività, di cui approfittò il fascismo per effettuare la marcia su Roma. Il nuovo corso del Partito Questa nuova situazione si rifletté al IV Congresso della IC dove si arrivò alla formazione del Comitato di fusione dopo incertezze e resistenze che erano legate alla persuasione radicata nella maggioranza dei delegati del nostro Partito che lo spostamento dei massimalisti non rappresentava che una oscillazione transitoria e senza avvenire. In ogni modo è da questo momento che si inizia nell'interno del nostro Partito un processo di differenziazione nel gruppo dirigente di Livorno, processo che prosegue incessantemente ed esce dal campo del fenomeno di gruppo per divenire proprio di tutto il Partito, quando si avvertono e si sviluppano gli elementi della crisi del fascismo iniziatasi col Congresso di Torino del Partito popolare. Appare sempre piú evidente che occorre far uscire il Partito dalle posizioni mantenute nel 1921-22, se si vuole che il movimento comunista si sviluppi parallelamente alla crisi che subisce la classe dominante. La pregiudiziale che aveva avuto una cosí larga importanza nel passato, per la quale occorreva prima di tutto mantenere la unità organizzativa del Partito, veniva a cadere per il fatto che, nella situazione di conflitto tra il nostro Partito e l'Internazionale, si costituiva nelle nostre file uno stato di frazionismo latente che trovava la sua espressione in gruppi nettamente di destra, spesso con carattere liquidazionista. Tardare ancora a porre in tutta la loro ampiezza le quistioni fondamentali di tattica, sulle quali fino allora si era esitato ad aprire la discussione, avrebbe significato determinare una crisi generale del Partito, senza uscita. Avvennero cosí nuovi raggruppamenti che andarono sempre piú sviluppandosi, fino alla vigilia del nostro III Congresso, quando fu possibile accertare che non solo la grande maggioranza alla base del Partito (che non era stata mai apertamente interpellata) ma anche la grande maggioranza del vecchio gruppo dirigente si era staccata nettamente dalla concezione e dalla posizione politica di estrema sinistra, per porsi completamente sul terreno dell'Internazionale e del leninismo. L'importanza del III Congresso Da ciò che è stato detto finora, appare chiaramente quanto fossero grandi l'importanza e i compiti del nostro III Congresso. Esso doveva chiudere tutta un'epoca della vita del nostro Partito, ponendo termine alle crisi interne e determinando uno schieramento stabile di forze tale da permettere uno sviluppo normale della sua capacità di direzione politica delle masse da parte del Partito e quindi della sua capacità d'azione. Ha il Congresso effettivamente risolto questi compiti? Indubbiamente tutti i lavori del Congresso hanno dimostrato come, nonostante le difficoltà della situazione, il nostro Partito sia riuscito a risolvere la sua crisi di sviluppo, raggiungendo un livello di omogeneità, di compattezza e di stabilizzazione notevole e certamente superiore a quello di molte altre sezioni dell'Internazionale. L'intervento nelle discussioni di Congresso dei delegati di base, alcuni dei quali venuti dalle regioni dove piú è difficile l'attività del Partito, ha dimostrato come gli elementi fondamentali del dibattito fra l'Internazionale e il CC da una parte e l'opposizione dall'altra, siano stati non solo meccanicamente assorbiti dal Partito, ma, avendo determinato una convinzione consapevole e diffusa, abbiano contribuito ad elevare in misura impreveduta anche dagli stessi compagni piú ottimisti, il tono della vita intellettuale della massa dei compagni e la loro capacità di direzione e di iniziativa politica. Questo ci pare il significato piú rilevante del Congresso. È risultato che il nostro Partito non solo può dirsi di massa per l'influenza che esso esercita sui larghi strati della classe operaia e della massa contadina, ma perché ha acquistato nei singoli elementi che lo compongono una capacità di analisi delle situazioni, di iniziativa politica e di forza dirigente, che nel passato gli mancavano e che sono la base della sua capacità di direzione collettiva. D'altronde, tutto lo svolgimento dei lavori condotti alla base per organizzare ideologicamente e praticamente il Congresso nelle regioni e nelle province dove la repressione poliziesca vigila con maggiore intensità ogni movimento dei nostri compagni, e il fatto che si sia riusciti per sette giorni a tenere riuniti oltre sessanta compagni per il Congresso del Partito, e quasi altrettanti per il Congresso giovanile, sono di per se stessi una prova dello sviluppo piú sopra accennato. È evidente per tutti che tutto questo movimento di compagni e di organizzazioni non è solamente un puro fatto organizzativo, ma costituisce di per sé un'altissima manifestazione di valore politico. Poche cifre in proposito. Sono state tenute nella prima fase della preparazione congressuale dalle due alle tremila riunioni di base che hanno culminato in oltre un centinaio di congressi provinciali ed interprovinciali, ove furono scelti, dopo ampie discussioni, i delegati al Congresso. Valore politico e risultati acquisiti Ogni operaio è in grado di apprezzare tutto il significato di queste poche cifre che è possibile pubblicare, dopo cinque anni dall'epoca della occupazione delle fabbriche e tre anni di governo fascista che ha intensificato l'opera generale di controllo su ogni attività di massa e ha realizzato un'organizzazione di polizia che è grandemente superiore alle organizzazioni poliziesche precedentemente esistite. Poiché la maggiore debolezza dell'organizzazione operaia tradizionale si manifestava essenzialmente nello squilibrio permanente, e che diventava catastrofico nei momenti culminanti dell'attività di massa, tra la potenzialità dei quadri organizzativi di Partito e la spinta spontanea dal basso, è evidente che il nostro Partito è riuscito, nonostante le condizioni estremamente sfavorevoli dell'attuale periodo, a superare in misura notevole questa debolezza e a predisporre forze organizzative coordinate e centralizzate che assicurano la classe operaia contro gli errori e le insufficienze che si verificavano nel passato. È questo un altro dei significati piú importanti del nostro Congresso; la classe operaia è capace di azione e dimostra di essere storicamente in grado di compiere la sua missione direttrice nella lotta anticapitalistica nella misura in cui riesce ad esprimere dal suo seno tutti gli elementi tecnici che nella società moderna si dimostrano indispensabili per l'organizzazione concreta delle istituzioni in cui si realizzerà il programma proletario. E da questo punto di vista occorre analizzare tutta la attività del movimento fascista dal 1921 fino alle ultime leggi fascistissime; essa è stata sistematicamente rivolta a distruggere i quadri che il movimento proletario e rivoluzionario aveva faticosamente elaborato in quasi cinquant'anni di storia. In questo modo il fascismo riusciva nella praticità immediata a privare la classe operaia della sua autonomia e indipendenza politica e la costringeva o alla passività, cioè a una subordinazione inerte all'apparato statale, oppure, nei momenti di crisi politica, come nel periodo Matteotti, a ricercare quadri di lotta in altre classi meno esposte alla repressione. Il nostro Partito è rimasto il solo meccanismo che la classe operaia abbia a sua disposizione per selezionare nuovi quadri dirigenti di classe, cioè per riconquistare la sua indipendenza ed autonomia politica. Il Congresso ha dimostrato come il nostro Partito sia riuscito brillantemente a risolvere questo compito essenziale. Due erano gli obiettivi fondamentali che dovevano essere raggiunti dal Congresso: 1) Dopo le discussioni e i nuovi schieramenti di forze che si erano verificati cosí come abbiamo detto precedentemente, occorreva unificare il Partito, sia nel terreno dei princípi e della pratica di organizzazione che nel terreno piú strettamente politico. 2) Il Congresso era chiamato a stabilire la linea politica del Partito per il prossimo avvenire e ad elaborare un programma di lavoro pratico in tutti i campi di attività delle masse. I problemi che si ponevano per raggiungere concreti obiettivi non sono naturalmente indipendenti l'uno dall'altro, ma sono coordinati nel quadro della concezione generale del leninismo. La discussione del Congresso perciò, anche quando si svolgeva intorno agli aspetti tecnici di ogni singola questione pratica, poneva la questione generale dell'accettazione o meno del leninismo. Il Congresso doveva quindi servire a mettere in evidenza in quale misura il nostro Partito era diventato un Partito bolscevico. Gli obiettivi fondamentali Partendo da un apprezzamento storico e politico immediato della funzione della classe operaia nel nostro paese, il Congresso dette una soluzione a tutta una serie di problemi che possono raggrupparsi cosí: 1) Rapporti fra il Comitato centrale del Partito e la massa del Partito. a) In questo gruppo di problemi entra la discussione generale sulla natura del Partito, sulla necessità che esso sia un partito di classe, non solo astrattamente, cioè in quanto il programma accettato dai suoi membri esprime le aspirazioni del proletariato, ma per cosí dire, fisiologicamente, in quanto cioè la grande maggioranza dei suoi componenti è formata da proletari e in esso si riflettono e si riassumono solamente i bisogni e la ideologia di una sola classe: il proletariato. b) La subordinazione completa di tutte le energie del Partito in tal modo socialmente unificato alla direzione del CC. La lealtà di tutti gli elementi del Partito verso il CC deve diventare non solo un fatto puramente organizzativo e disciplinato, ma un vero principio di etica rivoluzionaria. Occorre infondere nelle masse del Partito una convinzione cosí radicata di questa necessità che le iniziative frazionistiche e ogni tentativo in generale di disgregare la compagine del Partito debbano trovare alla base una reazione spontanea e immediata che lo soffochi sul nascere. L'autorità del CC, tra un congresso e l'altro, non deve mai essere posta in discussione e il Partito deve diventare un blocco omogeneo. Solo a tale condizione il Partito sarà in grado di vincere i nemici di classe. Come potrebbe la massa dei senza-partito aver fiducia che lo strumento di lotta rivoluzionaria, il Partito, riesca a condurre senza tentennamenti e senza oscillazioni la lotta implacabile per conquistare e mantenere il potere, se la Centrale del Partito non ha la capacità e l'energia necessaria per eliminare tutte le debolezze che possono incrinare la sua compattezza? I due punti precedenti sarebbero di impossibile realizzazione se nel Partito, alla omogeneità sociale e alla compattezza monolitica dell'organizzazione non si aggiungesse la coscienza diffusa di una omogeneità ideologica e politica. Concretamente, la linea che il Partito deve seguire può essere espressa in questa formula: il nucleo dell'organizzazione di Partito consiste in un forte CC, strettamente collegato con la base proletaria del Partito stesso, sul terreno dell'ideologia e della tattica del marxismo-leninismo. Su questa serie di problemi l'enorme maggioranza del Congresso si è nettamente pronunciata in senso favorevole alle tesi del CC ed ha respinto non solo senza la minima concessione, ma anzi insistendo sulla necessità della intransigenza teorica e della inflessibilità pratica, le concezioni dell'opposizione che potrebbero mantenere il Partito in uno stato di deliquescenza e di amorfismo politico e sociale. 2) Rapporti del Partito con la classe proletaria (cioè con la classe di cui il Partito è diretto rappresentante, con la classe che ha il compito di dirigere la lotta anticapitalistica e di organizzare la nuova società). In questo gruppo di problemi rientra l'apprezzamento della funzione del proletariato nella società italiana, cioè del grado di maturità di tale società a trasformarsi da capitalista in socialista e quindi della possibilità per il proletariato di diventare classe indipendente e dominante. Il Congresso ha perciò discusso: a) la quistione sindacale, che per noi è essenzialmente quistione della organizzazione delle piú larghe masse, come classe a sé stante, sulla base degli interessi economici immediati, e come terreno di educazione politica rivoluzionaria; b) la quistione del fronte unico, cioè dei rapporti di direzione politica fra la parte piú avanzata del proletariato e le frazioni meno avanzate di esso. 3) Rapporti della classe proletaria nel suo complesso con le altre forze sociali che oggettivamente sono sul terreno anticapitalistico, quantunque siano dirette da partiti e gruppi politici legati alla borghesia; quindi in primo luogo i rapporti fra il proletariato e i contadini. Anche su tutta quest'altra serie di problemi la enorme maggioranza del Congresso respinse le concezioni errate dell'opposizione e si schierò in favore delle soluzioni date dal CC. Come si sono schierate le forze del Congresso Accennammo già all'atteggiamento che la stragrande maggioranza del Congresso ha assunto nei riguardi delle soluzioni da dare ai problemi essenziali nel periodo attuale. È opportuno però analizzare piú dettagliatamente l'atteggiamento assunto dall'opposizione e accennare, sia pure brevemente, ad altri atteggiamenti che si sono presentati al Congresso come atteggiamenti individuali, ma che potrebbero nell'avvenire coincidere con determinati momenti transitori nello sviluppo della situazione italiana, e che perciò devono essere fin da ora denunziati e combattuti. Abbiamo già accennato nei primi paragrafi di questa esposizione ai modi e alle forme che hanno caratterizzato la crisi di sviluppo del nostro Partito negli anni dal 1921 al 1924. Ricorderemo brevemente come al V Congresso mondiale la crisi stessa trovasse una soluzione provvisoria organizzativa con la costituzione di un CC che nel suo complesso si poneva completamente sul terreno del leninismo e della tattica dell'IC, che si scomponeva in tre parti di cui una, che aveva la maggioranza piú uno nel Comitato stesso, rappresentava gli elementi di sinistra che si erano staccati dal vecchio gruppo di Livorno, dopo il IV Congresso; un'altra che rappresentava l'opposizione costituitasi al Congresso contro le tesi di Roma, e la terza che rappresentava gli elementi terzini, entrati nel Partito dopo la fusione. Nonostante le sue intrinseche debolezze, tuttavia per il fatto che la funzione dirigente nel suo seno nettamente esercitata dal cosiddetto gruppo di centro, cioè dagli elementi di sinistra staccatisi dal gruppo dirigente di Livorno, il CC riuscí ad impostare e a risolvere energicamente il problema della bolscevizzazione del Partito e il suo accordo completo con le direttive dell'IC. Atteggiamenti dell'estrema sinistra Certamente vi furono delle resistenze e l'episodio culminante di esse, che tutti i compagni ricordano, fu la costituzione del Comitato d'intesa, cioè il tentativo di costituire una frazione organizzata che si contrapponesse al CC nella direzione del Partito. In realtà la costituzione del Comitato d'intesa fu il sintomo piú rilevante della disgregazione dell'estrema sinistra, la quale, poiché sentiva di perdere progressivamente terreno nelle file del Partito, cercò di galvanizzare con un atto clamoroso di ribellione le poche forze che ancora le rimanevano. È notevole il fatto che, dopo la sconfitta ideologica e politica subíta dall'estrema sinistra già nel periodo precongressuale, il nucleo di essa piú resistente sia andato assumendo posizioni sempre piú settarie e di ostilità verso il Partito dal quale si sentiva ogni giorno piú lontano e staccato. Questi compagni non solo continuarono a mantenersi sul terreno della piú strenua opposizione su determinati punti concreti della ideologia e della politica del Partito e dell'Internazionale, ma cercarono sistematicamente motivi di opposizione su tutti i punti, in modo da presentarsi in blocco quasi come un partito nel Partito. È facile immaginare che, partendo da una tale posizione, si dovesse arrivare, durante lo svolgimento del Congresso, ad atteggiamenti teorici e pratici, nei quali la drammaticità che era un riflesso della situazione generale in cui il Partito deve muoversi, difficilmente era distinguibile da un certo istrionismo che appariva di maniera a chi realmente aveva lottato e si era sacrificato per la classe operaia. In quest'ordine di avvenimenti dev'essere posta, ad esempio, la pregiudiziale presentata dall'opposizione, subito alla apertura del Congresso, con la quale la validità deliberativa di esso veniva contestata, cercandosi in tal modo di precostituire un alibi per una possibile ripresa di attività frazionistica e per un possibile misconoscimento della autorità della nuova dirigenza del Partito. Alla massa dei congressisti, che conoscevano quali sacrifici e quali sforzi organizzativi fosse costata la preparazione del Congresso, questa pregiudiziale apparve una vera e propria provocazione e non è senza significato che gli unici applausi (il regolamento del Congresso proibiva, per ragioni comprensibili, ogni manifestazione clamorosa di consenso o di biasimo) furono rivolti allo oratore che stigmatizzava l'atteggiamento assunto dall'opposizione e sostenne la necessità di rafforzare dimostrativamente il nuovo Comitato da eleggersi con mandato specifico di implacabile rigore contro qualsiasi iniziativa che praticamente mettesse in dubbio l'autorità del Congresso e l'efficienza delle sue deliberazioni. Affioramento di deviazioni di destra Allo stesso ordine di avvenimenti e in modo aggravato per la forma manierata e teatrale, appartiene anche l'atteggiamento assunto dall'opposizione, prima della fine del Congresso, quando si stavano per trarre le conclusioni politico-organizzative dei lavori del Congresso stesso. Ma gli stessi elementi dell'opposizione poterono avere la netta dimostrazione di quello che è lo stato d'animo diffuso nelle file del Partito; il Partito non intende permettere che si giochi piú a lungo al frazionismo e all'indisciplina; il Partito vuole realizzare il massimo di direzione collettiva e non permetterà a nessun singolo, qualunque sia il suo valore personale, di contrapporsi al Partito. Nelle sedute plenarie del Congresso l'opposizione di estrema sinistra è stata la sola opposizione ufficiale e dichiarata. L'atteggiamento di opposizione sulla questione sindacale assunto da due membri del CC, per il suo carattere d'improvvisazione d'impulsività è da considerarsi piuttosto come un fenomeno individuale di isterismo politico che di opposizione in senso sistematico. Durante i lavori della Commissione politica invece ci fu una manifestazione che, se può ritenersi per adesso di carattere puramente individuale deve essere considerata, dati gli elementi ideologici che ne formavano la base, come una vera e propria piattaforma di destra, che potrebbe essere presentata al Partito in una situazione determinata, e che perciò doveva essere, come fu, respinta senza esitazioni, dato specialmente che di essa si era fatto portavoce un membro della vecchia Centrale. Questi elementi ideologici sono: 1) l'affermazione che il governo operaio e contadino può costituirsi sulla base del Parlamento borghese; 2) l'affermazione che la socialdemocrazia non deve essere ritenuta come l'ala sinistra della borghesia, ma come l'ala destra del proletariato; 3) che nella valutazione dello Stato borghese occorre distinguere la funzione di pressione di una classe sull'altra dalla funzione di produzione di determinate soddisfazioni a certe esigenze generali della società. Il primo e il secondo di tali elementi sono contrari alle decisioni del III Congresso; il terzo è fuori dalla concezione marxista dello Stato. Tutti e tre insieme rivelano un orientamento a concepire la soluzione della crisi della società borghese all'infuori della rivoluzione. La linea politica fissata dal Partito Poiché cosí si schierarono le forze rappresentate al Congresso, cioè come una piú rigida opposizione dei residui dell'«estremismo» contro le posizioni teoriche e pratiche della maggioranza del Partito, accenneremo rapidamente solo ad alcuni punti della linea stabilita dal Congresso. Questione ideologica Su tale quistione il Congresso affermò la necessità che sia sviluppato dal Partito tutto un lavoro di educazione che rafforzi la conoscenza della nostra dottrina marxsta nelle file del Partito e sviluppi le capacità del piú largo strato dirigente. Su questo punto l'opposizione cercò di fare un'abile diversione: riesumò alcuni vecchi articoli o brani di articoli di compagni della maggioranza del Partito per sostenere che essi solo relativamente tardi hanno accettato integralmente la concezione del materialismo storico quale risulta dalle opere di Marx e di Engels, e sostenevano invece la interpretazione che del materialismo storico era data da Benedetto Croce. Poiché è noto che anche le tesi di Roma sono state giudicate come essenzialmente ispirate dalla filosofia crociana, questa argomentazione della opposizione apparve come ispirata a pura demagogia congressuale. In ogni caso, poiché la quistione non è di individui singoli, ma di massa, la linea stabilita dal Congresso, della necessità di un lavoro specifico di educazione per elevare il livello della cultura generale marxista del Partito, riduce la polemica dell'opposizione a una pura esercitazione erudita di ricerca di elementi piú o meno interessanti sullo sviluppo intellettuale di singoli compagni. Tattica del Partito Il Congresso ha approvato e ha difeso energicamente contro gli attacchi dell'opposizione la tattica seguita dal Partito nell'ultimo periodo della storia italiana caratterizzato dalla crisi Matteotti. Occorre dire che l'opposizione non ha cercato di contrapporre all'analisi che della situazione italiana è stata fatta dalla Centrale nelle tesi per il Congresso né un'altra analisi che portasse a stabilire una linea tattica diversa, né delle correzioni parziali che giustificassero una posizione di principio. È stato caratteristico anzi della falsa posizione dell'estrema sinistra il fatto che mai le sue osservazioni e le sue critiche si siano basate su un esame né approfondito e neanche superficiale dei rapporti di forza e delle condizioni generali esistenti nella società italiana. Risultò cosí chiaramente come il metodo proprio dell'estrema sinistra e che l'estrema sinistra dice essere dialettico, non è il metodo della dialettica materialistica proprio di Marx, ma il vecchio metodo della dialettica concettuale proprio della filosofia pre-marxista e persino pre-hegeliana. Alla analisi oggettiva delle forze in lotta e della direzione che esse assumono contradditoriamente in rapporto allo sviluppo delle forze materiali della società, la opposizione sostituiva la affermazione di essere in possesso di uno speciale e misterioso «fiuto» secondo il quale il Partito dovrebbe essere diretto. Strana aberrazione che autorizzava il Congresso a giudicare estremamente pericoloso e deleterio per il Partito un tale metodo che porterebbe solo a una politica di improvvisazioni e di avventure. Che d'altronde la opposizione non abbia mai posseduto un proprio metodo capace di sviluppare le forze del Partito e le energie rivoluzionarie del proletariato che possa essere contrapposto al metodo marxista e leninista, è dimostrato dall'attività svolta dal Partito negli anni 1921-1922, quando era politicamente diretto da alcuni degli attuali irriducibili oppositori. A questo proposito furono dal Congresso analizzati due momenti della situazione italiana e cioè l'atteggiamento assunto dalla direzione del Partito nel febbraio 1921, quando fu sferrata l'offensiva frontale dal fascismo in Toscana e in Puglia e l'atteggiamento della stessa direzione verso il movimento degli Arditi del popolo. Dall'analisi di questi due momenti risultò come il metodo affermato dalla opposizione porti alla passività e alla inazione e consista in ultima analisi semplicemente nel trarre dagli avvenimenti oramai svoltisi senza l'intervento del Partito nel suo complesso, degli insegnamenti di solo carattere pedagogico e propagandistico. La questione sindacale Nel campo sindacale il difficile compito del Partito consiste nel trovare un giusto accordo fra queste due linee di attività pratica: 1) difendere i sindacati di classe cercando di mantenere il massimo di coesione e di organizzazione sindacale fra le masse che tradizionalmente hanno partecipato all'organizzazione sindacale stessa. È questo un compito di eccezionale importanza, perché il Partito rivoluzionario deve sempre, anche nelle peggiori situazioni oggettive, tendere a conservare tutte le accumulazioni di esperienza e di capacità tecnica e politica che si sono venute formando attraverso gli sviluppi della storia passata nella massa proletaria. Per il nostro Partito la Confederazione generale del lavoro costituisce in Italia l'organizzazione che storicamente esprime in modo piú organico queste accumulazioni di esperienze e di capacità e rappresenta quindi il terreno entro il quale deve essere condotta questa difesa. 2) Tenendo conto del fatto che l'attuale dispersione delle grandi masse lavoratrici è dovuta essenzialmente a motivi che non sono interni della classe operaia, per cui esistono possibilità organizzative immediate di carattere non strettamente sindacale, il Partito deve proporsi di favorire e promuovere attivamente queste possibilità. Questo compito può essere adempiuto solo se il lavoro organizzativo di massa viene trasportato dal terreno corporativo nel terreno industriale di fabbrica e i legami dell'organizzazione di massa diventano elettivi e rappresentativi, oltre che d'adesione individuale per via di tessera sindacale. È chiaro, d'altronde, che questa tattica del Partito corrisponde allo sviluppo normale dell'organizzazione di massa proletaria, quale si era verificata durante e dopo la guerra, cioè nel periodo in cui il proletariato ha incominciato a porsi il problema di una lotta a fondo contro la borghesia per la conquista del potere. In questo periodo la tradizionale forma organizzativa del sindacato di mestiere era stata integrata da tutto un sistema di rappresentanze elettive di fabbrica, cioè dalle Commissioni interne. È noto anche che, specialmente durante la guerra, quando le Centrali sindacali aderirono ai Comitati di mobilitazione industriale e determinarono quindi una situazione di «pace industriale» per alcuni aspetti analoga a quella presente, le masse operaie di tutti i paesi (Italia, Francia, Russia, Inghilterra e anche gli Stati Uniti) ritrovarono le vie della resistenza e della lotta sotto la guida delle rappresentanze elettive operaie di fabbrica. La tattica sindacale del Partito consiste essenzialmente nello sviluppare tutta l'esperienza organizzativa delle grandi masse, premendo sulle possibilità di piú immediata realizzazione, considerate le difficoltà oggettive che sono create al movimento sindacale dal regime borghese da una parte e dal riformismo confederale dall'altra. Questa linea è stata approvata integralmente dalla stragrande maggioranza del Congresso. Intorno ad essa tuttavia avvennero le discussioni piú appassionate e l'opposizione fu rappresentata, oltre che dalla estrema sinistra, anche da due membri della Centrale, cosí come abbiamo già accennato. Un oratore sostenne che il sindacato è storicamente superato, perché unica azione di massa del Partito deve essere quella che si svolge nelle fabbriche. Questa tesi, legata alle piú assurde posizioni dell'infantilismo estremista, fu nettamente ed energicamente respinta dal Congresso. Per un altro oratore invece l'unica attività del Partito in questo campo deve essere l'attività organizzativa sindacale tradizionale: questa tesi è legata strettamente a una concezione di destra cioè alla volontà di non urtare troppo gravemente con la burocrazia sindacale riformista che si oppone strenuamente ad ogni organizzazione di massa. L'opposizione dell'estrema sinistra era guidata da due direttive fondamentali: la prima, di carattere essenzialmente congressuale, tendeva alla dimostrazione che la tattica delle organizzazioni di fabbrica, sostenuta dal CC e dalla maggioranza del Congresso, è legata alla concezione dell'Ordine Nuovo settimanale che, secondo l'estrema sinistra, era proudhoniana e non marxista; l'altra è legata alla questione di principio in cui la estrema sinistra si contrappone nettamente al leninismo: il leninismo sostiene che il Partito guida la classe attraverso le organizzazioni di massa e sostiene quindi come uno dei compiti essenziali del Partito lo sviluppo dell'organizzazione di massa; per l'estrema sinistra invece questo problema non esiste e si dànno al Partito tali funzioni che possono portare da una parte alle peggiori catastrofi e dall'altra ai piú pericolosi avventurismi. Il Congresso ha rigettato tutte queste deformazioni della tattica sindacale comunista, pur ritenendo necessario insistere con particolare energia sulla necessità di una maggiore e piú attiva partecipazione dei comunisti al lavoro nell'organizzazione sindacale tradizionale. La questione agraria Il Partito ha cercato, per ciò che riguarda la sua azione tra i contadini, di uscire dalla sfera della semplice propaganda ideologica tendente a diffondere solo astrattamente i termini generali della soluzione leninista del problema stesso, per entrare nel terreno pratico dell'organizzazione e dell'azione politica reale. È evidente che ciò era piú facile da ottenersi in Italia che negli altri paesi perché nel nostro paese il processo di differenziazione delle grandi masse della popolazione è per certi aspetti piú avanzato che altrove, in conseguenza della situazione politica attuale. D'altronde, una tale questione, dato che il proletariato industriale è da noi solo una minoranza della popolazione lavoratrice, si pone con maggiore intensità che altrove. Il problema di quali siano le forze motrici della rivoluzione e quello della funzione direttiva del proletariato si presentano in Italia in forme tali da domandare una particolare attenzione del nostro Partito e la ricerca di soluzioni concrete ai problemi generali che si riassumono nell'espressione: questione agraria. La grande maggioranza del Congresso ha approvato l'impostazione che il Partito ha dato a questi problemi e ha affermato la necessità di una intensificazione del lavoro secondo la linea generale già parzialmente applicata. In che cosa consiste praticamente questa attività? Il Partito deve tendere a creare in ogni regione delle unioni regionali della Associazione di difesa dei contadini: ma, entro questi quadri organizzativi piú larghi, occorre distinguere quattro raggruppamenti fondamentali delle masse contadine, per ognuno dei quali è necessario trovare atteggiamenti e soluzioni politiche ben precise e complete. Uno di questi raggruppamenti è costituito dalle masse dei contadini slavi dell'Istria e del Friuli, la cui organizzazione è legata strettamente alla questione nazionale. Un secondo è costituito dal particolare movimento contadino che si riassume sotto il titolo di «Partito dei contadini» e che ha la sua base specialmente nel Piemonte; per questo raggruppamento di carattere confessionale e di carattere piú strettamente economico, vale l'applicazione dei termini generali della tattica agraria del leninismo, dato anche il fatto che tale raggruppamento esiste nella regione in cui esiste uno dei centri proletari piú efficienti in Italia. I due altri raggruppamenti sono di gran lunga i piú considerevoli e quelli che domandano la maggiore attenzione del Partito, e cioè: 1) la massa dei contadini cattolici, raggruppati nell'Italia centrale e settentrionale, i quali sono, piú o meno, direttamente organizzati dall'Azione cattolica e dell'apparato ecclesiastico in generale, cioè dal Vaticano; 2) la massa dei contadini dell'Italia meridionale e delle isole. Per ciò che riguarda i contadini cattolici, il Congresso ha deciso che il Partito deve continuare e deve sviluppare la linea che consiste nel favorire le formazioni di sinistra che si verificano in questo campo e che sono strettamente legate alla crisi generale agraria iniziatasi già prima della guerra nel Centro e nel Nord d'Italia. Il Congresso ha affermato che l'atteggiamento assunto dal Partito verso i contadini cattolici, sebbene contenga in sé alcuni degli elementi essenziali per la soluzione del problema politico-religioso italiano, non deve in nessun modo condurre a favorire i tentativi, che possono nascere, di movimenti ideologici di natura strettamente religiosa. Il compito del Partito consiste nello spiegare i conflitti che nascono sul terreno della religione come derivanti dai conflitti di classe e nel tendere a mettere sempre in maggiore rilievo i caratteri di classe di questi conflitti e non, viceversa, nel favorire soluzioni religiose dei conflitti di classe, anche se tali soluzioni si presentano come di sinistra in quanto mettono in discussione l'autorità dell'organizzazione ufficiale religiosa. La quistione dei contadini meridionali è stata esaminata dal Congresso con particolare attenzione. Il Congresso ha riconosciuto esatta l'affermazione contenuta nelle tesi della Centrale, secondo la quale la funzione della massa contadina meridionale nello svolgimento della lotta anticapitalistica italiana deve essere esaminata a sé e deve portare alla conclusione che i contadini meridionali sono, dopo il proletariato industriale e agricolo dell'Italia del Nord, l'elemento sociale piú rivoluzionario della società italiana. Quale è la base materiale e politica di questa funzione delle masse contadine del Sud? I rapporti che intercorrono tra il capitalismo italiano e i contadini meridionali non consistono solamente nei normali rapporti storici tra città e campagna, quali sono stati creati dallo sviluppo del capitalismo in tutti i paesi del mondo; nel quadro della società nazionale questi rapporti sono aggravati e radicalizzati dal fatto che economicamente e politicamente tutta la zona meridionale e delle isole funziona come una immensa campagna di fronte all'Italia del Nord; che funziona come un'immensa città. Una tale situazione determina nell'Italia meridionale il formarsi e lo svilupparsi di determinati aspetti di una questione nazionale, se pure immediatamente essi non assumano una forma esplicita di tale questione nel suo complesso, ma solo di una vivacissima lotta a carattere regionalistico e di profonde correnti verso il decentramento e le autonomie locali. Ciò che rende caratteristica la situazione dei contadini meridionali è il fatto che essi, a differenza dei tre raggruppamenti precedentemente descritti, non hanno nel loro complesso nessuna esperienza organizzativa autonoma. Essi sono inquadrati negli schemi tradizionali della società borghese, per cui gli agrari, parte integrante del blocco agrario-capitalistico, controllano le masse contadine e le dirigono secondo i loro scopi. In conseguenza della guerra e delle agitazioni operaie del dopoguerra che avevano profondamente indebolito l'apparato statale e quasi distrutto il prestigio sociale delle classi superiori nominate, le masse contadine del Mezzogiorno si sono risvegliate alla vita propria e faticosamente hanno cercato un proprio inquadramento. Cosí si sono avuti movimenti degli ex combattenti, e vari partiti cosiddetti di «rinnovamento» che cercavano di sfruttare questo risveglio della massa contadina, qualche volta secondandolo come nel periodo della occupazione delle terre, piú spesso cercando di deviarlo e quindi di consolidarlo in una posizione di lotta per la cosiddetta democrazia, come è ultimamente avvenuto con la costituzione della «Unione nazionale». Gli ultimi avvenimenti della vita italiana che hanno determinato un passaggio in massa della piccola borghesia meridionale al fascismo, hanno resa piú acuta la necessità di dare ai contadini meridionali una direzione propria per sottrarli definitivamente all'influenza borghese agraria. Il solo organizzatore possibile della massa contadina meridionale è l'operaio industriale, rappresentato dal nostro Partito. Ma perché questo lavoro di organizzazione sia possibile ed efficace occorre che il nostro Partito si avvicini strettamente al contadino meridionale, che il nostro Partito distrugga nell'operaio industriale il pregiudizio inculcatogli dalla propaganda borghese che il Mezzogiorno sia una palla di piombo che si oppone ai piú grandiosi sviluppi dell'economia nazionale e distrugga nel contadino meridionale il pregiudizio ancora piú pericoloso per cui egli vede nel Nord d'Italia un solo blocco di nemici di classe. Per ottenere questi risultati occorre che il nostro Partito svolga un'intensa opera di propaganda anche nell'interno della sua organizzazione per dare a tutti i compagni una coscienza esatta dei termini della questione, la quale, se non sarà risolta in modo chiaroveggente e rivoluzionariamente da noi, renderà possibile alla borghesia sconfitta nella sua zona, di concentrarsi nel Sud per fare di questa parte d'Italia la piazza d'armi della controrivoluzione. Su tutta questa serie di problemi, la opposizione di estrema sinistra non riuscí a dire che delle barzellette e dei luoghi comuni. La sua posizione essenziale fu quella di negare aprioristicamente che questi problemi concreti esistano in sé, senza nessuna analisi o dimostrazione neanche potenziale. Si può dire anzi che appunto nei riguardi della questione agraria, apparve la vera essenza della concezione dell'estrema sinistra, la quale consiste in una specie di corporativismo che aspetta meccanicamente dal solo sviluppo delle condizioni obiettive generali la realizzazione dei fini rivoluzionari. Tale concezione fu, come abbiamo detto, nettamente rigettata dalla stragrande maggioranza del Congresso. Altri problemi trattati Per quanto riguarda la questione dell'organizzazione concreta del Partito nell'attuale periodo, il Congresso senza discussione ratificò le deliberazioni della recente Conferenza di organizzazione, già pubblicate nell'Unità. Il Congresso, dato il modo della sua riunione e gli obiettivi che si proponeva, i quali riguardavano specialmente la organizzazione interna del Partito e il risanamento della crisi, non poté trattare ampiamente alcune questioni che pure sono essenziali per un partito proletario rivoluzionario. Cosí solo nelle tesi fu esaminata la situazione internazionale in rapporto alla linea politica dell'IC. Nella discussione del Congresso tale argomento fu solo sfiorato e dei problemi internazionali si trattò solo la parte riguardante le forme e i rapporti di organizzazione del Comintern, poiché era questo un elemento della crisi interna del Partito. Il Congresso però ebbe una larghissima ed esauriente relazione sui lavori del recente Congresso del Partito russo e sul significato delle discussioni in esso svoltesi. Cosí il Congresso non si occupò del problema dell'organizzazione nel campo femminile, né dell'organizzazione della stampa, argomenti essenziali per il nostro movimento e che avrebbero meritato una trattazione speciale. Anche la questione della redazione del programma del Partito che era stata posta all'ordine del giorno non fu trattata dal Congresso. Pensiamo sia necessario rimediare a queste manchevolezze con Conferenze di Partito, appositamente convocate a tale scopo. Conclusione Nonostante queste parziali deficienze, si può affermare, concludendo, che la massa di lavoro svolto dal Congresso sia stata veramente imponente. Il Congresso ha elaborato una serie di risoluzioni e un programma di lavoro concreto tali da mettere in grado la classe proletaria di sviluppare le sue energie e la sua capacità di direzione politica nell'attuale situazione. Una condizione è specialmente necessaria perché le risoluzioni del Congresso, non solo siano applicate, ma diano tutti i frutti che esse possono dare: occorre che il Partito si mantenga strettamente unito, che nessun germe di disgregazione, di pessimismo, di passività sia lasciato sviluppare nel suo seno. Tutti i compagni del Partito sono chiamati a realizzare una tale condizione. Nessuno può mettere in dubbio che ciò sarà fatto con la piú grande delusione di tutti i nemici della classe operaia. Il compagno G.M. Serrati e le generazioni del socialismo italiano(37) La personalità politica del compagno Giacinto Menotti Serrati aveva assunto significato ed importanza nazionali negli ultimi dieci anni; ed è appunto nel quadro di questi dieci anni, caratterizzati dalla guerra mondiale e dal fascismo, che occorre esaminarla per apprezzarla giustamente. Sono note le debolezze fondamentali del movimento rivoluzionario italiano tradizionale. La maggiore debolezza, quella per lo meno che è stata determinante nei momenti decisivi, ci pare possa essere identificata nel fatto che sempre è mancato in Italia un gruppo forte ed omogeneo di dirigenti rivoluzionari che avesse uno stretto contatto col nucleo proletario fondamentale del Partito socialista. In una tale situazione era impossibile qualsiasi accumulazione di esperienze politiche rivoluzionarie, era impossibile ogni direzione collettiva, era impossibile ogni deduzione rapida che permettesse di trarre tutte le conseguenze dalle congiunture favorevoli alla iniziativa rivoluzionaria. È evidente altresí che in una tale situazione, in cui l'organizzazione effettiva era in rapporto inverso col volume del Partito, l'ufficio del capo individuale fosse enorme e la responsabilità che veniva a gravare sulla persona, che a volta a volta si trovava alla testa del Partito, fosse schiacciante. Questa situazione spiega come sia avvenuto che la tendenza rivoluzionaria del movimento socialista italiano, a differenza di ciò che avvenne nei riguardi della tendenza riformista, abbia visto susseguirsi alla sua dirigenza una vera cinematografia di uomini, mentre i riformisti stavano fortemente raggruppati intorno a Filippo Turati. Non solo; ma questa situazione spiega anche il fatto tristissimo che tutti, o quasi, i dirigenti della frazione rivoluzionaria, dopo un istante di grande splendore abbiano degenerato, abbiano rinnegato le loro precedenti posizioni o siano addirittura passati dall'altra parte della barricata. È questa certamente una delle ragioni della persistenza di una certa fortuna del riformismo fra le masse lavoratrici italiane: perché in esso la tradizione della tendenza è strettamente legata alla stessa persona, allo stesso gruppo di persone, è riuscito cioè a identificarsi permanentemente in un'organizzazione omogenea, composta sempre dalle stesse individualità. Per esprimersi con un termine politico approssimativo, può dirsi che nel movimento socialista rivoluzionario italiano sia sempre esistita una situazione di bonapartismo in cui era possibile, a degli uomini piú o meno convinti, di conquistare il posto della piú alta dirigenza, con dei colpi di mano improvvisi, attraverso effimeri personali successi ottenuti in un congresso o nel corso di un'agitazione operaia. Non esisteva altra forma di selezione, appunto perché non esistevano aggruppamenti stabili strettamente collegati col proletariato urbano, cioè con la frazione piú rivoluzionaria della massa lavoratrice. Giacinto Menotti Serrati spezzò questa tradizione, nel senso che con lui arrivava alla suprema carica del Partito un uomo le cui doti principali furono indubbiamente la forza del carattere e l'abnegazione; non poté spezzarla compiutamente perché non riuscí e neanche si propose di riuscire, a foggiare una nuova struttura che lo rendesse piú capace di azione e di iniziativa. Il fine che si proponeva Serrati nello svolgere la sua opera di direttore dell'Avanti! cioè di guida politica e ideologica delle classi lavoratrici italiane, fu quello di attraversare il periodo della guerra mantenendo il Partito unito sul terreno della negazione della guerra. Questi due elementi, unità del Partito e negazione della guerra, per stare insieme domandavano una limitazione dell'attività rivoluzionaria del Partito stesso. Il programma del Partito non poteva essere che quello della intransigenza formale, della non collaborazione; esso non poteva spingersi alla formula di Lenin: «trasformazione della guerra imperialista in guerra civile», senza immediatamente porre il problema della scissione, il problema della creazione di un nuovo partito per lottare prima di tutto contro i compagni di ieri, contro gli amici e i fratelli di ieri. Ora, il tratto essenziale della personalità di Serrati, come uomo di partito, era dato invece dal sentimento dell'unità, dallo sforzo incessante di conservare questa unità che rappresentava decine e decine di anni di sacrifizi e di lotta, che significava persecuzioni insieme sopportate, anni di galera insieme scontati. Si può dire da questo punto di vista che il compagno Serrati è stato il piú alto e nobile rappresentante delle vecchie generazioni del socialismo rivoluzionario italiano tradizionale; ch'egli ha espresso quanto di piú generoso e di piú disinteressato queste generazioni potevano esprimere. Se non si tiene conto di ciò, non si può capire tutto il dramma che è stato vissuto nel dopoguerra da questa generazione e tutta l'importanza e l'altissimo valore storico che ha avuto l'adesione del compagno Serrati al Partito comunista. È nel periodo della guerra che le masse popolari italiane hanno conosciuto e amato Serrati. Egli riscattava con la sua volontà rettilinea la funzione del capo rivoluzionario, che era stata degradata da uomini come Enrico Ferri, Arturo Labriola, Benito Mussolini, espressioni massime di quel bonapartismo di partito al quale abbiamo accennato. La popolarità di Serrati non si formò nelle facili arene dei grandiosi comizi dei tempi normali, quando era facile con le smaglianti orazioni, o con la bassa demagogia, sommuovere il sangue delle folle e farsi coreograficamente portare in trionfo, quando le grandi fame si costituivano in quindici giorni per diventare infamie nei quindici giorni successivi. Essa si formò lentamente, a mano a mano che fin nei piú profondi strati della vita popolare, nella trincea del Carso o nel villaggio siciliano, nonostante l'Avanti! fosse ridotto a pochissime decine di migliaia di copie, arrivava la notizia che un giornale diretto da un uomo che si chiamava Serrati non piegava né alle blandizie, né alle minacce della classe dominante e che esso testardamente e intrepidamente rispondeva «No» in nome dei lavoratori a chiunque volesse in un modo o nell'altro conquistare alla guerra la coscienza delle grandi folle. È certo che Serrati fu allora amato come mai nessun capo di partito è stato amato nel nostro paese. Nel dopoguerra, tutte le debolezze che erano insite nella vecchia struttura del movimento socialista italiano si rivelarono violentemente. Innanzi ai problemi che allora si ponevano, il programma di conservare la unità del Partito fino alla rivoluzione cosí come era stata conservata attraverso l'incendio della guerra mondiale diventava una illusione funesta. Il compagno Serrati credette che ciò fosse possibile e forse si sforzò di crederlo, di persuadersene perché egli era legato da milioni e milioni di fili al passato, alla tradizione, perché gli sembrava impossibile che non potesse ottenersi nel momento di sviluppo delle forze rivoluzionarie ciò che era stato ottenuto durante la guerra, quando tutto pareva sfasciarsi nel movimento operaio di tutto il mondo e non solamente in Italia. Noi, forse, delle generazioni giovani, non abbiamo dato tutta la importanza dovuta al dramma che allora fu vissuto. Perciò abbiamo incrudelito, forse oltre misura, nell'aggressione a ciò che ci pareva inutile sentimentalismo e sterile amore per le vecchie formule e i vecchi simboli. Ma, in verità, la nostra generazione, appunto perché troppo giovane, appunto perché non aveva lottato per formare ciò che pure era una struttura organizzativa del Partito, e una tradizione, appunto perché non si era potuta appassionare per l'opera dei primi pionieri, appunto per tutto questo poteva percepire piú distintamente la insufficienza della vecchia generazione a svolgere i compiti resi necessari dall'approssimarsi della bufera reazionaria. Noi delle giovani generazioni rappresentavamo, in realtà, la nuova situazione nella quale anche la classe nemica, pur di conservare il potere e di schiacciare il proletariato, avrebbe distrutto le vecchie forme dello Stato create dalla giovane borghesia del Risorgimento: erano quelli, e sono rimasti, tempi di ferro e di fuoco, in cui solo rischia di avere ragione chi fa le ipotesi piú pessimistiche. La grandezza del compagno Serrati e la prova, d'altronde non necessaria, di quanto la sua passione unitaria fosse profondamente sincera e dolorosa, è data dal fatto che egli, per rientrare nelle file dell'Internazionale comunista, determinò una nuova scissione e fu espulso dal Partito che pareva essere la sua creatura. La realtà fu che, con la venuta di Serrati nel nostro Partito, si chiudeva un intiero periodo della storia del movimento operaio in Italia. Le vecchie generazioni del socialismo rivoluzionario italiano, dopo aver esitato a lungo e dolorosamente, si decidevano. Per esse era chiaro oramai che le vecchie organizzazioni tradizionali erano diventate mera forma senza contenuto, che la tradizione non era là dove un'etichetta sembrava indicarlo, ma viveva solo nell'organizzazione del Partito comunista. Questo fu il significato della venuta del compagno Serrati nel nostro Partito. Essa rivelava e sanzionava un processo molecolare che si era svolto oscuramente nella massa dei lavoratori italiani dopo la scissione di Livorno, negli anni neri del 1921 e 1922, e per il quale tutto ciò che di sincero, di onesto, e di intrepido esisteva nel proletariato rivoluzionario si era incorporato nel nostro Partito, spostando radicalmente le posizioni dei partiti che si richiamano alla classe operaia. Il compagno Serrati è morto nelle prime file del Partito comunista d'Italia, nelle prime file dell'Internazionale comunista. Ci pare che anche nella sua morte cosí tragica ci sia un simbolo e una testimonianza. Essa ha rivelato in forma drammatica come l'atroce invisibile lotta che i militanti rivoluzionari debbono condurre quotidianamente per mantenere, nonostante tutto, integre le posizioni della classe operaia di fronte alla classe dominante, comporti il sacrifizio della propria vita. Essa nello stesso tempo in cui porta le masse a onorare e salutare il compagno caduto per la causa comune, deve portare le masse a stringersi sempre piú attorno al Partito che del caduto conserverà la memoria e continuerà l'opera. Un esame della situazione italiana(38) L'esame che stiamo per fare si propone: a) di verificare la linea generale stabilita dal III Congresso del nostro Partito; b) accertare i mutamenti che si sono verificati nella situazione del paese per determinare i punti sui quali l'azione immediata del Partito deve essere intensificata, dato che il nostro esame ci porti a concludere che la prospettiva generale non è mutata radicalmente. Della situazione analizzeremo i tre elementi fondamentali: 1) L'elemento positivo rivoluzionario, la posizione, cioè, attualmente occupata dal nostro Partito, e i progressi realizzati dalla tattica del fronte unico. L'esame di questo elemento della situazione deve servirci per accertare quale grado di autonomia e di indipendenza politica sia stata raggiunta dal proletariato italiano, e in quale misura la classe rivoluzionaria, guidata dal nostro Partito, si sia acquistata la fiducia di altre classi della popolazione lavoratrice; i contadini e la piccola borghesia urbana; 2) l'elemento politico rappresentato dal capitalismo che organizza il blocco governativo borghese-agrario-fascista. L'esame di questo elemento si riferirà alla situazione economica generale del paese, ai rapporti nuovi che vanno formandosi tra il capitalismo dirigente e gli elementi di massa del blocco governativo, costituiti essenzialmente da determinati strati delle classi medie urbane; rapporti che per il passato si riflettevano nel campo parlamentare e che oggi - dato il monopolio fascista - si riflettono in seno al Partito dominante mediante lotte interne; 3) l'elemento politico rappresentato dalla tendenza a costituire un blocco democratico di sinistra avente il suo perno nel Partito repubblicano, in quanto la «pregiudiziale repubblicana» costituisce il terreno ideologico e pratico della nuova coalizione. Il tratto piú caratteristico del III Congresso del nostro Partito consiste nel fatto che esso non si è limitato a porre genericamente il problema della necessità di realizzare la direzione del PC in seno alla classe operaia, e della classe operaia in seno alla popolazione lavoratrice italiana. Ma ha cercato di indicare praticamente gli elementi politici attraverso i quali questa direzione avrebbe potuto realizzarsi: ha cercato, cioè, d'individuare quei partiti e quelle associazioni attraverso le quali si esplica la influenza borghese o piccolo-borghese sulle classi lavoratrici e che sono passibili di un capovolgimento di valori classisti. E questa - secondo noi - è una delle maggiori conquiste che il nostro movimento abbia realizzato sul terreno del metodo di lavoro, terreno sul quale si verifica la capacità di direzione dell'avanguardia rivoluzionaria. Positivamente, si può affermare che il nostro Partito è riuscito a conquistare una posizione netta di iniziativa politica in mezzo alle masse lavoratrici. In quest'ultimo scorcio di tempo tutti gli organi giornalistici dei partiti che controllano le masse popolari italiane sono stati riempiti da polemiche contro l'azione del nostro Partito. Tutti questi partiti sono sulla difensiva contro la nostra azione e in realtà essi sono indirettamente guidati da noi poiché almeno il sessanta per cento della loro attività è dedicata a respingere le nostre offensive o è determinata nel senso di dare alle loro masse una soddisfazione che le tolga dalla nostra influenza. È evidente che nelle condizioni di oppressione e di controllo rappresentate dalla politica fascista i risultati della nostra tattica non possono essere misurabili statisticamente sulla scala delle grandi masse. Tuttavia è innegabile che quando determinati elementi di partiti democratici e socialdemocratici si spostano sia pure molecolarmente verso il terreno tattico preconizzato dai comunisti, questo spostamento non può essere casuale e di significato puramente individuale. Praticamente la questione può essere rappresentata cosí: - in ogni partito, ma specialmente nei partiti democratici e socialdemocratici nei quali l'apparato organizzativo è molto rilassato, esistono tre strati. Lo strato superiore molto ristretto, che di solito è costituito da parlamentari, e da intellettuali strettamente legati spesso alla classe dominante. Lo strato inferiore costituito di operai e contadini, di piccoli borghesi urbani, come massa di partito e come massa di popolazione influenzata dal partito. Uno strato intermedio che, nella situazione attuale, ha una importanza ancora superiore all'importanza che aveva nel periodo normale in quanto rappresenta spesso il solo strato attivo e politicamente vivace di questi partiti. È questo strato intermedio che mantiene il legame tra il superiore gruppo dirigente e le masse del partito e della popolazione influenzate dal partito. È sulla compattezza di questo strato medio che i gruppi dirigenti contano per una futura ripresa dei diversi partiti e per una ricostruzione di essi su una larga base. Ora è appunto su una notevole parte di questi strati medi dei diversi partiti a carattere popolare che si esercita la influenza del movimento per il fronte unico. È in questo strato medio che si verifica un fenomeno molecolare di disgregazione delle vecchie ideologie e dei vecchi programmi politici e si vedono gli inizi di una nuova formazione politica sul terreno del fronte unico. Vecchi operai riformisti o massimalisti che esercitano una larga influenza in certe fabbriche o in certi quartieri urbani, elementi contadini che nei villaggi o nei borghi di provincia rappresentano le personalità piú avanzate del mondo rurale, ai quali i contadini del villaggio o del borgo ricorrono sistematicamente per aver consigli e direttive pratiche; piccoli intellettuali di città che come esponenti del movimento cattolico di sinistra irraggiano nella provincia una influenza che non può e non deve essere misurata dalla loro modestia; ma deve essere misurata dal fatto che in provincia appaiono come una tendenza di quel partito che i contadini erano abituati a seguire. Ecco gli elementi sui quali il nostro Partito esercita una attrazione sempre crescente, i cui esponenti politici sono un indice sicuro di movimenti alla base spesso piú radicali ancora di quanto non appaia dagli spostamenti personali. Un'attenzione particolare deve essere data alla funzione che nell'attività per il fronte unico è svolta dalla nostra gioventú. Occorre perciò tener presente che all'azione della gioventú deve essere consentita una maggiore elasticità che non sia consentita al Partito. È evidente che il Partito non può addivenire a fusioni con altri gruppi politici o ad accettazioni di nuovi membri sulla base del fronte unico che tende a creare l'unità d'azione della classe operaia e l'alleanza tra operai e contadini e non può essere la base di formazione del Partito. Per i giovani invece la questione si pone diversamente. Per la loro stessa natura i giovani rappresentano lo stadio elementare di formazione del Partito. Per entrare nella «gioventú» non si può domandare di essere già comunisti nel senso completo della parola ma solo di avere una volontà di lotta e di diventare comunisti. Perciò questo punto deve servire come riferimento generale per fissare meglio la tattica propria dei giovani. Un elemento del quale occorre tener molto conto perché ha un valore storico non indifferente è questo: se ha importanza il fatto che un massimalista, un riformista, un repubblicano, un popolare, un sardista, un democratico meridionale aderiscono al programma del fronte unico proletario e dell'alleanza fra i contadini e operai, molta maggior importanza ha il fatto che a tale programma aderisca un membro dell'Azione cattolica come tale. Infatti i partiti d'opposizione sia pure in forme inadeguate e vischiose tendono a creare e mantenere un distacco tra le masse popolari e il fascismo. L'Azione cattolica, invece, rappresenta oggi una parte integrante del fascismo, tende attraverso l'ideologia religiosa a dare al fascismo il consenso di larghe masse popolari, ed è destinata in certo senso, nell'intenzione di una tendenza fortissima del Partito fascista (Federzoni, Rocco, ecc.), a sostituire lo stesso Partito fascista nella funzione di partito di massa e di organismo di controllo politico sulla popolazione. Ogni nostro successo sia pure limitato nel campo dell'Azione cattolica significa per tanto che noi riusciamo a impedire lo svolgimento della politica fascista in un campo che sembrava precluso a qualsiasi iniziativa proletaria. Concludendo su questo punto possiamo affermare che la linea politica del III Congresso è stata verificata come giusta e il bilancio della nostra azione per il fronte unico è largamente attivo. La crisi economica generale è l'elemento fondamentale della crisi politica. Occorre esaminare gli elementi di questa crisi perché tra di essi alcuni sono inerenti alla situazione generale italiana e funzioneranno negativamente anche nel periodo di dittatura proletaria. Questi elementi principali possono essere cosí fissati: dei tre elementi che tradizionalmente costituiscono l'attivo della bilancia italiana, due, le rimesse degli emigrati e l'industria del forestiero sono crollati. Il terzo elemento, l'esportazione, subisce una crisi. Se ai due fattori negativi - rimesse degli emigrati e industria del forestiero - e al terzo fattore parzialmente negativo - esportazione - si aggiunge la necessità di forti importazioni granarie per il fallimento del raccolto, è evidente che le prospettive per i prossimi mesi si presentano come catastrofiche. È necessario tener conto di questi quattro elementi per comprendere l'impotenza del governo e della classe dirigente. Certo, se il governo niente o quasi niente può fare per aumentare le rimesse degli emigrati (tener conto dell'iniziativa prospettata dal signor Giuseppe Zuccoli, presunto successore di Volpi al dicastero delle Finanze) e per fare prosperare l'industria del forestiero, qualche cosa invece si può fare per aumentare l'esportazione. È possibile in questo senso una grande politica che se pure non rimargina la ferita per lo meno tenda a cicatrizzarla. Qualcuno pensa alla possibilità di una certa politica di lavoro basata sull'inflazionismo. Naturalmente non è da escludere in senso assoluto questa possibilità, ma: 1) se anche si verificasse i suoi risultati nel campo economico sarebbero relativamente minimi; 2) i suoi risultati sarebbero invece catastrofici nel campo politico. Occorre infatti tener presenti questi elementi: 1) L'esportazione rappresenta nella bilancia italiana solamente una parte dell'attività, al massimo i due terzi; 2) per pareggiare la bilancia non solo occorrerebbe condurre l'attuale base produttiva al suo massimo rendimento, ma occorrerebbe allargare la stessa base produttiva comprando all'estero nuovi macchinari, ciò che peggiorerebbe ancora la bilancia; 3) le materie prime per l'industria italiana sono importate dall'estero e devono essere pagate con moneta non svalutata. Un aumento della produzione su larga scala porterebbe alla necessità di avere una enorme massa di capitale circolante per l'acquisto delle materie prime; 4) occorre tener presente che il fascismo come fenomeno generale ha, in Italia, portato al minimo i salari e gli stipendi della classe lavoratrice. L'inflazione è comprensibile in un paese ad alti salari, come surrogato del fascismo, per abbassare il livello di vita delle classi lavoratrici e quindi ridare elasticità alla borghesia italiana. Non è comprensibile in Italia dove il tenore di vita della classe operaia sta rasentando già la fame. Come può, dunque, risolvere la crisi la classe dominante? La politica economica del governo fascista è stata sin qui caratterizzata dalla mancanza di una linea decisa e precisa. Il governo fascista segue la politica del giorno per giorno. Tuttavia gli ultimi suoi provvedimenti per la «battaglia economica» sono essenzialmente diretti contro le masse lavoratrici. Dal sistema di compressione delle classi lavoratrici, culminata con la legislazione sindacale, si è passati all'aumento delle ore di lavoro, il quale determina la disoccupazione quindi la riduzione dei salari per l'accrescimento della mano d'opera sul mercato del lavoro. I salari subiscono una nuova diminuzione che è provocata indirettamente dalla fissazione del costo della vita non già sul costo reale di essa, ma sui numeri indici forniti dagli spacci governativi. Tutto ciò non può non provocare una maggiore radicalizzazione delle masse e il loro spostamento verso le forme di lotta sempre piú recise. Tra gli elementi della crisi economica vi è la nuova organizzazione delle società per azioni coi voti privilegiati, che è uno degli elementi di rottura fra piccola borghesia e capitalismo, e il fatto del dislivello verificatosi in quest'ultimo tempo fra la massa del capitale delle società anonime che si va concentrando in poche mani e la massa del risparmio nazionale. Questo dislivello dimostra come le fonti del risparmio vadano essiccandosi, perché i redditi attuali non sono piú sufficienti ai bisogni. Come tutto ciò si riflette nel blocco della classe dominante? Se noi osserviamo da vicino il PNF vedremo che questo è dilaniato da lotte intestine che, per quanto superiori gerarchie facciano del tutto per eliminarle, si manifestano in forme sempre piú acute. Vedremo anche che nell'orbita fascista due tendenze principali si manifestano che in sé raggruppano ed esprimono interessi di classe che sono in contrasto gli uni con gli altri e che minano la solidità della compagine fascista. Da una parte la tendenza Federzoni, Rocco, Volpi, che vuole tirare le conclusioni di tutto questo periodo dopo la marcia su Roma. Essa vuole liquidare il Partito fascista come organismo politico e incorporarne nell'apparato statale la situazione di forza borghese creata dal fascismo nelle sue lotte contro tutti gli altri partiti. Questa tendenza lavora d'accordo con la Corona e con lo stato maggiore. Essa vuole incorporare nelle forze centrali dello Stato da una parte l'Azione cattolica, cioè il Vaticano, ponendo termine di fatto e possibilmente anche di diritto al dissidio fra la casa Savoia e il Vaticano e dall'altra gli elementi piú moderati dell'ex Aventino. È certo che mentre il fascismo nella sua ala nazionalista, dato il passato e le tradizioni del vecchio nazionalismo italiano, lavora verso l'Azione cattolica, dall'altro lato la casa Savoia cerca ancora una volta di sfruttare le sue tradizioni per attirare nelle sfere governative gli uomini del gruppo Di Cesarò e del gruppo Amendola. L'altra tendenza è ufficialmente impersonata in Farinacci. Essa obbiettivamente rappresenta due contraddizioni del fascismo: 1) La contraddizione tra agrari e capitalisti nelle divergenze di interesse specialmente doganali. È certo che l'attuale fascismo rappresenta tipicamente il netto predominio del capitale finanziario dello Stato-capitale che vuole asservire a sé tutte le forze produttive del paese; 2) la seconda contraddizione è di gran lunga la piú importante ed è quella tra la piccola borghesia ed il capitalismo. La piccola borghesia fascista vede nel partito lo strumento della sua difesa, il suo Parlamento, la sua democrazia. Attraverso il partito vuole fare pressioni sul governo per impedire di essere schiacciata dal capitalismo. Un elemento che occorre tener presente è il fatto dell'asservimento completo in cui l'Italia è stata messa dal governo fascista verso l'America. Nella liquidazione del debito di guerra sia verso l'America che verso l'Inghilterra il governo fascista non si è preoccupato di avere nessuna garanzia sulla commerciabilità delle obbligazioni italiane. La borsa e la finanza italiane sono esposte in ogni momento al ricatto politico dei governi americano ed inglese che possono in ogni momento gettare sul mercato mondiale enormi quantità di valori italiani. Il debito Morgan, d'altra parte, è stato contratto in condizioni ancora peggiori. Sui 100 milioni di dollari del prestito il governo italiano ha a sua disposizione solo 33 milioni. Degli altri 67 milioni il governo italiano può disporre solo coll'alto consenso personale di Morgan, ciò che significa che il vero capo del governo italiano è Morgan. Questi elementi possono servire per dare alla piccola borghesia nella difesa dei suoi interessi attraverso il Partito fascista come tale una intonazione nazionalista contro il vecchio nazionalismo e contro l'attuale direzione del partito che ha fatto sacrificio della sovranità nazionale e dell'indipendenza politica del paese agli interessi di un gruppo ristretto di plutocrati. A questo proposito un compito nel nostro Partito deve essere quello di insistere in modo particolare sulla parola d'ordine degli Stati Uniti soviettisti d'Europa come mezzo di iniziativa politica fra le file fasciste. In generale, si può dire che la tendenza Farinacci nel Partito fascista manca di unità, di organizzazione, di princípi generali. Essa è piú uno stato d'animo diffuso che una tendenza vera e propria. Non sarà molto difficile al governo di disgregare i suoi nuclei costitutivi. Ciò che importa dal nostro punto di vista è che questa crisi, in quanto rappresenta il distacco della piccola borghesia dalla coalizione borghese-agrario-fascista, non può non essere un elemento di debolezza militare del fascismo. È evidente che avviene nel campo della democrazia un certo raggruppamento con carattere piú radicale che nel passato. L'ideologia repubblicana si rafforza, inteso ciò nello stesso senso che per il fronte unico, cioè negli strati medi dei partiti democratici e, in questo caso anche in buona parte degli strati superiori. Vecchi capi ex aventiniani hanno rifiutato l'invito a riprendere i contatti con la casa reale. Si dice che lo stesso Amendola nell'ultimo periodo della sua vita fosse diventato completamente repubblicano e facesse in questo senso propaganda personale. I popolari sarebbero diventati anche essi tendenzialmente repubblicani, ecc. È certo che si fa un grande lavoro per determinare sul terreno repubblicano un raggruppamento neo-democratico che dovrebbe prendere il potere al momento della catastrofe fascista, instaurare un regime di dittatura contro la destra reazionaria e contro la sinistra comunista. A questo risveglio democratico-repubblicano hanno contribuito gli ultimi avvenimenti europei come l'avventura Pilsudski in Polonia, ed i sussulti preagonici del Cartello francese. Il nostro Partito deve porsi il problema generale delle prospettive della politica nazionale. Gli elementi possono essere cosí stabiliti: Se pur è vero che politicamente il fascismo può aver come successore la dittatura del proletariato, poiché nessun partito e coalizione intermedia è in grado di dare sia pure una minima soddisfazione alle esigenze economiche delle classi lavoratrici che irromperebbero violentemente sulla scena politica al momento della rottura dei rapporti esistenti - non è però certo e neanche probabile che il passaggio dal fascismo alla dittatura del proletariato sia immediato. Bisogna tener conto del fatto che le forze armate esistenti, data la loro composizione, non sono conquistabili immediatamente e che esse saranno l'elemento determinante della situazione. Si possono fare delle ipotesi alle quali attribuire volta a volta maggiore carattere di probabilità. È possibile che dal governo attuale si passi a un governo di coalizione al quale uomini come Giolitti, Orlando, Di Cesarò, De Gasperi diano una maggiore elasticità immediata. Gli ultimi avvenimenti parlamentari francesi dimostrano di quale elasticità sia capace la politica borghese per allontanare la crisi rivoluzionaria, spostare gli avversari, logorarli, disgregarli. Una crisi economica improvvisa e fulminea non improbabile in una situazione come quella italiana potrebbe portare al potere la coalizione democratico-repubblicana, dato che essa si presenterebbe agli ufficiali dell'esercito e a una parte della stessa Milizia e ai funzionari dello Stato in genere (elemento di cui bisogna tener conto in situazioni come quella italiana) come capace di infrenare la rivoluzione. Queste ipotesi hanno per noi solo un valore generale di prospettiva. Esse ci servono per fissare questi punti: 1) noi dobbiamo sin da oggi restringere al minimo la influenza e la organizzazione dei partiti che possono costituire la coalizione di sinistra per rendere sempre piú probabile una caduta rivoluzionaria del fascismo, in quanto gli elementi energici ed attivi della popolazione siano sul nostro terreno nel momento della crisi; 2) in ogni caso noi dobbiamo tendere a rendere piú breve che sia possibile l'intermezzo democratico avendo fin da oggi disposto a nostro favore il maggior numero di condizioni favorevoli. È da questi elementi che dobbiamo trarre l'indicazione per la nostra attività pratica immediata. Intensificare l'attività generale del fronte unico e l'organizzazione di sempre nuovi Comitati di agitazione per centralizzarli almeno su scala regionale e provinciale. Nei Comitati le nostre frazioni devono cercare prima di tutto di ottenere il massimo di rappresentanze delle diverse correnti politiche di sinistra evitando sistematicamente ogni settarismo di partito. Le questioni devono essere dalle nostre frazioni impostate oggettivamente come espressione degli interessi della classe operaia e dei contadini. Preparare ideologicamente le masse contro i pericoli di nuove guerre imperialiste. Tattica verso il Partito massimalista tendente ad impedire, in linea subordinata, la sua entrata nell'orbita della concentrazione repubblicana e, in linea di massima, a strappargli la influenza sulle masse lavoratrici. Necessità verso il Partito sardo di azione, in vista di un suo prossimo Congresso per l'Italia meridionale e per le isole. Creazione di gruppi di lavoro regionali nel resto d'Italia. L'URSS verso il comunismo(39) I giornali borghesi hanno nella settimana scorsa dedicato frequenti articoli alla situazione russa. Delle affermazioni fatte sulla Stampa, la Tribuna, il Mondo, ha esposto le conclusioni sul Mondo stesso l'on. Baldesi affermando essere ormai provato che il comunismo è fallito in Russia e che si marcia a grandi passi verso il ristabilimento del capitalismo. L'on. Baldesi è innanzi tutto, da buon socialdemocratico, assai spiacente che i bolscevichi abbiano fatto una rivoluzione socialista nell'ottobre 1917, poiché, secondo lui, meglio sarebbe stato, dopo il rovesciamento dello zarismo, un regime democratico e borghese, uno di quei regimi che deliziano i proletari di ogni altra nazione; e ne è tanto spiacente che, malgrado sembri favorevole alla riforma agraria, dimentica che solo la rivoluzione proletaria, diede la terra ai contadini. Dimentica cioè che i vari governi succedutisi in Russia dal febbraio all'ottobre 1917 erano governi imperialisti e borghesi, i quali non avrebbero mai attuato quella riforma agraria della quale i democratici ed i riformisti sono cosí entusiasti a parole. Solo l'alleanza degli operai e dei contadini, solo la rivoluzione bolscevica ha realizzato quell'enorme rovesciamento delle basi della economia russa. Nessun regime democratico, neanche del dopoguerra, ha attuato qualcosa di simile; nell'Occidente europeo non vi si è nemmeno potuto pensare. Gli incerti tentativi di Rumenia e di Polonia stanno miseramente fallendo. Nell'esame delle attuali condizioni economiche russe, l'on. Baldesi, come tutti i suoi amici, non tengono innanzi tutto conto delle condizioni dell'anteguerra. In un libro di Harvey Fischer su I debiti interalleati edito nel 1924 dal Trust dei banchieri di New York, abbiamo trovato una statistica concernente la popolazione, l'imposta e il reddito nazionale dei diversi paesi nell'anteguerra. Il reddito per ogni abitante era di 351 dollari per quelli degli Stati Uniti, di 226 dollari per quelli dell'Inghilterra, di 182 dollari per quelli della Francia, e solo di 43 dollari per quelli della Russia. Per reddito nazionale la Russia era al di sotto anche della Grecia, della Turchia, della Bulgaria, della Serbia. Si sono poi seguite la guerra, la rivoluzione e, poi, la guerra civile. Non la rivoluzione che si è svolta in pochi giorni a Mosca e a Leningrado, come in tutto il paese, ma l'intervento delle grandi potenze europee, di quei regimi liberali e democratici che sono cari al Mondo e all'on. Baldesi, a favore degli eserciti bianchi ha devastato la Russia, l'ha ridotta un immenso territorio cosparso di rovine fumanti. Per colpa degli eserciti bianchi, - cioè borghesi, liberali, democratici - della Francia e dell'Inghilterra, i contadini non hanno piú coltivato la terra, le ferrovie sono state distrutte, le fabbriche abbandonate, le città saccheggiate; e se, malgrado tutto, il regime soviettista ha vinto, ciò significa di per se stesso che esso aveva il consenso della immensa maggioranza del popolo russo. Nessun altro regime in nessun altro paese d'Europa avrebbe potuto vincere la prova attraverso la quale è passato il regime soviettista. Basta riflettere quindi alla situazione in cui fu iniziata la rivoluzione per comprendere che se i lavoratori russi... non si sono trovati al paese della cuccagna, è ridicolo e balordo imputarne il comunismo. Devono invece essere considerati quasi miracolosi i risultati ottenuti fino ad oggi: l'avere cioè ormai rialzato la produzione industriale ed agricola al livello di ante-guerra, e l'avere migliorate le condizioni dei lavoratori. Poiché la crisi di cui sopra, e l'attuale, in Russia, è soprattutto determinata dal fatto che i contadini, non piú oppressi dagli affitti e dalle imposte, e padroni del loro lavoro, mangiano una quantità di cereali superiore a quella di ante-guerra, e possono insieme acquistare maggiori prodotti industriali per il proprio consumo. Nell'ante-guerra gli agrari russi esportavano una enorme quantità di cereali, mantenendo nella fame permanente i milioni di contadini produttori. Oggi questi hanno elevato il proprio tenore di vita, tanto che le industrie nazionali, le quali hanno raggiunto la produzione di ante-guerra, non sono piú capaci di soddisfare le loro richieste. Ma l'argomento fondamentale dei nostri contradditori è la Nep e il suo sviluppo. Essi non tengono però conto del fatto che se nella ripresa economica russa si è sviluppato il capitale privato, importanza anche maggiore ha assunto il capitale collettivo. Tutta la grande industria collettivizzata, tutte le officine, cioè le siderurgiche, le metallurgiche, le tessili, ecc., sono proprietà dello Stato e gestite da questo; esse occupano il 95 per cento degli operai, ma ciò non ha importanza per gli avversari. Essi constatano che vi sono nei villaggi russi migliaia di botteghe, di fabbriche e di maniscalchi, che sorgono anche le officine (queste non possono avere piú di 15 operai se sono fornite di motore meccanico, e 50 se sprovviste), e affermano finalmente che il capitalismo trionfa nell'industria russa. Essi fingono di ignorare che il commercio estero è monopolizzato dallo Stato attraverso le banche che sono tutti organi collettivi. Essi vogliono ignorare che tutto lo sforzo dello Stato è rivolto verso lo sviluppo degli elementi socialisti della produzione, e che gli elementi capitalisti di cui si è riconosciuta l'utilità e l'impossibilità di sopprimerli radicalmente, e di un solo colpo, sono rigorosamente controllati. Rimane l'agricoltura. Abbiamo già detto che solo la rivoluzione bolscevica ha avuto la forza di dare la terra ai contadini. In nessun regime borghese, anche se l'on. Baldesi ne fosse ministro, le masse rurali avranno mai la possibilità di avere la terra. Però è fatale, secondo la borghesia, e il socialriformista Baldesi è dello stesso parere, che si formino la media e la grande proprietà, che vi sia un processo di concentramento della ricchezza, di modo che la conclusione del processo sarebbe irremediabilmente il... latifondo. Dopo di che tra un paio di secoli si avrà un'altra rivoluzione contadina; e cosí avanti. Noi neghiamo che questo processo sia fatale quando ad esso si oppongano la forza dello Stato e la forza della economia industriale e finanziaria collettivizzata. Un altro processo sta avvenendo in Russia ed è lo sviluppo delle piccole proprietà e la loro associazione. È attraverso la cooperazione per la produzione, per la rivendita dei prodotti, per il credito, per gli acquisti, la buona produzione ecc., che i contadini russi eviteranno la ricostituzione del capitalismo agrario e costituiranno invece una economia in cui le forme associate avranno sempre maggior importanza. Fu già osservato da Bukharin che i rapporti fra contadini e operai in regime soviettista possono paragonarsi a quelli industriali ed agrari nei primordi nel secolo XIX. La lotta borghese fra i due ceti, malgrado appartenessero ambedue alla classe borghese, fu lunga poiché gli agrari non accettavano la crescente supremazia del capitale industriale e finanziario. La lotta cessò quando i due ceti si avvicinarono per la industrializzazione dell'agricoltura di modo che le divergenze divennero assai meno gravi. Cosí in Russia, dove l'industria e la finanza collettiva dominano già l'intera vita economica, la saldatura fra operai e contadini per l'economia industriale e l'economia rurale avverrà con la industrializzazione della terra. Nessun comunista ha mai promesso ai lavoratori di realizzare il regno di Bengodi in 24 ore; nessun comunista ha mai pensato di realizzare il regime comunista in sei mesi. I passaggi dal regime schiavista al feudale, dal regime feudale al regime capitalistico, sono costati all'umanità sforzi enormi per lunghissimi periodi. Anche oggi nei regimi capitalistici piú fiorenti vi sono residui dell'economia feudale. Non vi è alcuna ragione per pretendere che il comunismo si realizzi invece per un colpo di bacchetta magica. La differenza profonda fra la Russia e gli altri paesi i cui regimi sono cosí cari ai vari Baldesi della democrazia e del riformismo, è questa: che in Russia tutta la forza e tutto lo sforzo dello Stato sono rivolti alla realizzazione del comunismo, mentre negli altri paesi tutta la forza e tutto lo sforzo dello Stato sono rivolti a sostenere il capitalismo, a impedire il comunismo; e ciò anche nei paesi dove i riformisti sono al potere: in quel bel Belgio ad esempio, dove l'on. Vanderwelde è schiavo della burocrazia e... servo della democrazia, facendo pagare le spese della crisi economica alla piccola borghesia e ai lavoratori, come un qualsiasi Poincaré e peggio. Sono queste verità elementari che comprendiamo riescano ostiche ai borghesi. Se potessimo invece credere ancora in buona fede i socialdemocratici nostrani e stranieri, non ci sarebbe comprensibile la gioia che essi provano nel descrivere il preteso fallimento del comunismo in Russia, il fallimento cioè dell'unica rivoluzione in cui si sono messe alla prova le teorie marxiste e le capacità proletarie. Ma che vi è piú di socialista in costoro? Essi sanno bene che se nuove crisi determineranno una nuova società proletaria, non ad essi è riservato l'onore e la fatica di realizzare l'ideale dei lavoratori. Essi per vivacchiare non hanno altra possibilità ormai che di garantire alle borghesie la propria capacità nel difenderne il dominio, se mai si sentisse bisogno dei loro servigi. È perfettamente naturale perciò che sul Mondo, sul giornale cioè di quei democratici che hanno la responsabilità della sconfitta della crisi post-matteottiana, che hanno preferito la sconfitta al pericolo d'una ripresa rivoluzionaria proletaria, il fallimento del comunismo sia proclamato dall'on. Baldesi; da quel Baldesi che nel giorno della marcia su Roma compiva il suo dovere di deputato socialista e di dirigente della Confederazione generale del lavoro raccontando a tutti gli uscieri di Montecitorio che se l'on. Mussolini avesse veramente voluto, lui era ben disposto al personale sacrificio di accettare un portafoglio ministeriale, e che quindi è ben degno rappresentante del partito che ogni sforzo compie per liberarsi dalla catena del martirio matteottiano impostale dal destino beffardo. In che direzione si sviluppa l'Unione soviettista?(40) L'oro straniero, egregi signori del Mondo, è un argomento usato ed abusato da tutti i governi e da tutti i nazionalisti contro i movimenti liberali e democratici senza per questo rinunziare essi stessi ad usufruire di qualsiasi aiuto quando poteva essere utile, e senza neppure riuscire ad infamare od a stroncare gli accusati. È un argomento, perciò, che sta male in bocca ai democratici. Al Mondo, per esempio, sanno benissimo quale e quanta influenza di oltr'Alpe agí nell'interventismo italiano: ma in nessun caso noi giudicheremo colpa che i partiti democratici, le massonerie dei vari paesi, si appoggino e si aiutino. Ci pare però strano, diciamo cosí, che si rimproveri simile fatto ai comunisti. L'Unità non scrisse che in Russia vi è una tendenza al comunismo: l'Unità scrisse che gli elementi socialisti in politica ed economia sono preponderanti sugli elementi capitalistici, che lo sviluppo dei primi è costantemente maggiore, e che quindi non si può parlare di ritorno al capitalismo nello Stato soviettista, ma si deve parlare di un processo verso la realizzazione completa di una società comunista; i nostri argomenti furono questi: 1) La grande industria (siderurgica, metallurgica, tessile, mineraria, petrolifera, elettrica, ecc.) è completamente collettivizzata poiché essa domina completamente il mercato interno. Non ha importanza il fatto che vi siano numerosissime piccole aziende o botteghe di artigiani per sopperire ai minuti bisogni locali, poiché queste dipendono dalla grande industria fornitrice di materie prime e semi lavorate, di attrezzi e di macchine. 2) Il capitale finanziario è collettivo. Le banche sono organi collettivi ed esse controllano anche il capitale privato il quale è molto minore di quello collettivo. Tutta la vita finanziaria, e quindi anche quella economica, è diretta o controllata da questi enti della collettività. 3) Il commercio con l'estero è monopolio di Stato, il che significa anche un altro controllo degli organi collettivi sulla economia privata rurale. 4) Il commercio all'ingrosso all'interno è per la maggior parte funzione di organi collettivi (cooperative, ecc.). Appartiene alla economia privata quasi tutto il commercio al dettaglio nelle campagne, ma esso dipende, per i crediti come per le merci, dagli organi collettivi che esercitano il commercio all'ingrosso. Il Mondo a questi argomenti, a questi fatti, non rispose parola. Disse semplicemente che il monopolio del commercio estero era un fatto comune durante la guerra, quando gli Stati controllavano tutto il commercio, la produzione e il consumo. L'affermazione non è esatta e soprattutto non ha niente a vedere con la nostra questione. Il cavallo di battaglia per tutti i nostri avversari è però la questione agraria. Ripetiamo che i governi rivoluzionari succedutisi dal febbraio 1917 non avrebbero attuato la riforma agraria, semplicemente perché... essi effettivamente non la fecero; anzi, neppure la tentarono, anzi, vi si dichiararono contrari e si opposero con la forza ai primi movimenti dei contadini reprimendone severamente gl'inizi. I bolscevichi vinsero appunto perché seppero dettare le parole d'ordine corrispondenti all'intima, inesorabile aspirazione delle masse russe: pace e terra. La borghesia russa non poteva permettere la rivoluzione agraria, poiché l'espropriazione senza indennità dei latifondisti avrebbe non solo spezzato i superstiti vincoli feudali ma avrebbe colpito a morte il capitalismo industriale e finanziario. Infatti, perché la terra ai contadini e non le officine agli operai? Solo quindi la rivoluzione operaia, la rivoluzione bolscevica, poteva dare la terra ai contadini. Il Mondo si affanna inutilmente a distinguere fra Oriente e Occidente, a difendere persino quei miserabili trucchi che furono le riforme agrarie di Polonia e di Romania. E veramente la borghesia liberale e democratica ha dimostrato di che cosa è capace. Distribuí ai contadini qualche pezzo di terra garantendo naturalmente laute indennità ai proprietari. Adesso si sta tranquillamente riprendendo le terre, perché i contadini non possono pagare le imposte e le quote di indennizzo da cui sono oppressi. In quei paesi si ritorna veramente verso il latifondo anche nelle regioni dove, dopo la guerra, esso era stato spezzato. Ma in Russia la situazione è diversa: lo Stato ha proclamato proprietà collettiva la terra e ne ha poi concesso l'uso ai produttori, obbedendo alla irresistibile volontà dei contadini. Si dice che si tratta solamente di formule; l'affermazione dei grandi princípi non è invece mai priva di effetto anche se la loro realizzazione non è mai completa. Potremmo chiedere ai liberali e ai democratici del Mondo in quale paese i princípi liberali e democratici si sono mai completamente realizzati. Ma non si può negare che essi abbiano informato di sé questi due ultimi secoli. È inevitabile che nella massa dei contadini si manifestino differenze, sorgano contadini agiati e contadini medi; ma il fatto stesso che i primi saranno sempre una piccola minoranza, pone i loro interessi in contrasto con quelli della massa dei contadini poveri e dei salariati. La loro influenza politica non potrà perciò essere pericolosa, poiché l'alleanza fra i contadini poveri ed operai sarà rafforzata dalle cose stesse. D'altra parte, lo Stato agisce ed agirà nel senso di impedire la formazione di grandi aziende private; il nuovo assoggettamento cioè delle masse lavoratrici. A queste viene dimostrato giornalmente dai fatti che la via della salvezza è nella loro unione non nelle lotte intestine. Tutta la legislazione, tutti gli affari dello Stato borghese, sono rivolti ad assicurare lo sviluppo del capitale privato cioè lo sfruttamento e l'oppressione delle classi povere. Completamente opposta è la politica dello Stato soviettista. Neanche di questo fatto il Mondo tiene conto. Esso si ricorda invece delle leggi marxiste della concentrazione del capitale, ma si dimentica che Marx si riferiva a regimi capitalisti, a Stati capitalistici. Non pensava certo Marx che la concentrazione del capitale privato dovesse essere una legge fatale nella Comune parigina, ad esempio, se fosse soppravissuta. Potremmo ricordare tutti gli altri elementi che nel regime russo lavorano o contribuiranno alla realizzazione del comunismo: il nuovo spirito messianico che anima le masse, lo sviluppo enorme della cultura, la lotta contro l'analfabetismo che ha fatto piú progressi in pochi anni rivoluzionari che in centinaia di anni zaristi, la partecipazione delle masse alla vita pubblica, la persistente propaganda socialistica che raggiunge gli strati piú arretrati della popolazione, il sentimento orgoglioso di essersi liberati da una schiavitú obbrobriosa e di marciare verso un avvenire migliore. In conclusione, quali saranno le basi della società soviettista? Le materie e gli strumenti di produzione ai produttori, le miniere, le fabbriche, i trasporti, le banche appartengono alla collettività, da cui infatti sono gestiti perché non è possibile il loro spezzettamento fra i singoli. La terra è coltivata dai contadini in economia famigliare poiché non c'è ancora stata nella campagna la trasformazione industriale che sola può mutare la mentalità e la psicologia individualistica del rurale: ma in ogni campo il dominio e lo sfruttamento capitalistico è abolito. I contadini russi saranno cosí sciocchi da lasciare rifiorire la grande proprietà? Al Mondo lo si crede. Noi lo neghiamo, riferendoci alla influenza sempre maggiore delle economie collettive, industriale e finanziaria, e pensando che questo indurrà e faciliterà il passaggio delle piccole aziende private alle grandi aziende collettive. L'industrializzazione della produzione agricola è inevitabile, ma è nell'interesse stesso delle classi contadine che essa avvenga nelle forme collettive, anziché nella direzione capitalistica. Infine, notevolissimo è ancora lo slancio con cui da ogni parte del mondo si guarda a Mosca. Che cosa possono dire ormai le democrazie ai popoli oppressi, alle classi soggette? I popoli coloniali non hanno ormai provato a proprie spese l'ipocrisia delle formule democratiche, libertà, autodecisione dei popoli? Le classi soggette non hanno forse appreso che in regime borghese non può esservi per loro libertà e benessere? Essi guardano a Mosca, alla rivoluzione che ha dato la libertà alle classi lavoratrici, che ha dato gli strumenti della produzione ai produttori, che ha posto le basi di una società in cui lo sfruttamento capitalistico sarà soppresso. Contro la rivoluzione russa, le borghesie liberali e democratiche adoperarono dapprima la forza. I governi delle democrazie di Francia e di Inghilterra, di cui il Mondo è entusiasta, in nome degli immortali princípi, libertà, ecc.; armarono e sovvenzionarono tutti i controrivoluzionari. Tutti gli avventurieri che si prestarono nel ridurre la loro patria in rovina furono sconfitti. Si ricorse allora alla politica del «ferro spinato». L'accerchiamento fu rotto. Siamo adesso in una fase di lotta relativamente piú facile. Siamo alle campagne di stampa non per persuadere i popoli degli errori bolscevichi - ché ormai questi argomenti non attaccano piú - ma per persuadere del fallimento comunista. È questa la parola d'ordine a cui obbediscono tutti: fascisti e socialdemocratici, conservatori e liberali. Anche essa sarà inutile. Come agli inizi del secolo XIX tutte le speranze dei popoli si rivolgevano alla Rivoluzione francese, e invano infuriavano la reazione e la Santa Alleanza, cosí oggi si guarda, dall'Asia come dall'Europa, alla Rivoluzione russa. Può darsi che queste campagne di stampa non siano che la preparazione di nuovi attacchi armati. C'è invero un duello a morte tra la Russia e la società capitalistica: ma noi non dubitiamo della vittoria che - signori del Mondo - realizzerà per i popoli la democrazia e la libertà che invano si cercano nei vostri amatissimi regimi di Francia e di Inghilterra. Post Scriptum. L'on. Gino Baldesi dove è andato a finire? Perché ha lasciato la polemica ai democratici? Riconosce dunque che fra questi borghesi e i socialriformisti non vi è piú nessuna differenza? La Tribuna si è impermalita perché non abbiamo risposto ai suoi articoli. Non era necessario. Fascisti e riformisti adoperano gli stessi argomenti contro la rivoluzione soviettista. In quanto alla delegazione italiana in Russia, se la Tribuna è sicura che vi vedrà solo la rovina ecc., persuada gli amici del governo a non tentare di impedirla con i soliti mezzi polizieschi e a dare i passaporti; vuol dire che i delegati torneranno per iscriversi nelle Corporazioni! I contadini e la dittatura del proletariato(41) (Noterelle per il «Mondo») Abbiamo dunque un nuovo articolo del Mondo intitolato, secondo i sistemi cari al vecchio barzinismo e al nuovo calzinismo, «Si cerca il comunismo». Naturalmente il comunismo è dal Mondo ricercato nella Russia, operaia e contadina. Se volessimo imitare il sistema dialettico caro al Mondo, potremmo scrivere tutta una serie di articoli intitolata: «Si cerca la democrazia» e dimostrare che la democrazia non è mai esistita. E infatti, se la democrazia significasse, come non può non significare, governo delle masse popolari, esprimentesi attraverso il Parlamento eletto a suffragio universale, in quale paese è mai esistito il governo che risponda a tali prerogative? Nella stessa Inghilterra, patria e culla del regime parlamentare e della democrazia al governo, accanto al Parlamento esiste la Camera dei Lords ed esiste la monarchia. I poteri della democrazia sono in realtà nulli. Essa non esiste. Prima della guerra, cioè quando i socialdemocratici e tutti gli «amici del popolo» non potevano ancora accusare il bolscevismo di aver provocato la borghesia e di averla indotta, poverina!, ad uscire dalla legalità e a ricorrere a mezzi dittatoriali, è stato possibile a Lord Carson armare e mobilitare un esercito contro la legge parlamentare sulla libertà irlandese. E in Francia esiste forse la democrazia? Accanto al Parlamento esiste in Francia il Senato eletto non a suffragio universale, ma per elezione di due gradi di elettori che a loro volta solo parzialmente sono espressione del suffragio universale, ed esiste l'istituzione del presidente della repubblica. La diversa durata dei poteri dei tre diversi istituti fondamentali della Repubblica francese dovrebbe servire, secondo le dichiarazioni ufficiose, a temperare i possibili eccessi del Parlamento eletto a suffragio universale; in realtà, è l'organizzazione attraverso la quale la classe dominante si prepara ad organizzare la guerra civile nelle migliori condizioni di agitazione e propaganda. In Germania non esiste accanto al Parlamento alcuna istituzione di carattere aristocratico ed oligarchico; tuttavia abbiamo potuto recentemente vedere quale ufficio formidabile di freno esercita sulla cosí detta volontà nazionale il fatto che il presidente della repubblica abbia una base elettorale diversa nel tempo da quella che forma l'assemblea nazionale. I voti ottenuti dal referendum per l'espropriazione senza indennità degli ex principi, sono stati superiori a quelli ottenuti dal maresciallo Hindenburg per la sua nomina a presidente della repubblica. Tuttavia Hindenburg non si dimise: ma dopo avere nel periodo del referendum fatto la minaccia ricattatoria di una grave crisi politica, dopo il referendum continuò a fare pressioni perché la volontà delle masse popolari fosse resa nulla. Certo noi non ci proponiamo di convincere gli scrittori del Mondo. Li conosciamo, come ne conosciamo i diversi padroni, dai fratelli Perrone e Max Bondí, al conte Materazzo, al comm. Pecoraino e alla Banca commerciale, per incarico dei quali essi scrivono gli articoli piú contradditori, ma sempre rivolti ad ingannare le masse lavoratrici. È solo per queste masse che noi scriviamo e chiediamo: «È giusto domandare al nuovo regime operaio sorto in Russia nel 1917 durante la guerra mondiale, dopo il disastro economico sociale piú grande che la storia abbia conosciuto, il 100 per cento di applicazione del programma massimo del partito che in Russia è al potere, quando si rappresenta e si sostiene un regime che in qualche secolo di esistenza non è riuscito a realizzare nessuna delle sue promesse programmatiche ed è fallito vergognosamente, capitolando innanzi alle correnti piú reazionarie per confondersi subito con esse?». Il nostro giornale deve pubblicare tutta una serie di documenti che risponderanno esaurientemente alle questioni poste dagli scrittori del Mondo, questioni che sono essenziali per il movimento operaio internazionale, anche se il Mondo le pone nel modo piú barocco e inintelligente che si possa immaginare. Una questione che è implicita in tutta una serie di articoli e nella prosa del Mondo deve essere subito affrontata: che cosa infatti si propone il Mondo cercando di dimostrare che in Russia non esiste neanche un elemento di vita socialista, e sistematicamente tacendo il carattere operaio delle istituzioni russe dello Stato fino alle cooperative, alla banca, alla direzione delle fabbriche? Il Mondo si propone solamente di mantenere nelle larghe masse popolari la illusione che sia possibile, senza una rivoluzione e senza la conquista integrale del potere dello Stato da parte della classe operaia e dei contadini, per lo meno di ottenere ciò che oggi esiste in Russia. Tutte le argomentazioni del Mondo, da quella che riguarda il giudizio storico da dare sul fascismo italiano, fino a questa, in verità ben misera, critica di principio della struttura economica e sociale russa, tendono a questo unico fine. Per noi comunisti il regime fascista è la espressione del periodo piú avanzato dello sviluppo della società capitalistica; esso appunto serve a dimostrare come tutte le conquiste e tutte le istituzioni che le classi lavoratrici riescono a realizzare nel periodo di sviluppo relativamente pacifico del regime capitalistico, sono destinate all'annientamento se in un momento determinato la classe operaia non si impadronisce del potere dello Stato con mezzi rivoluzionari. Si capisce allora che gli scrittori del Mondo abbiano interesse a sostenere essere il fascismo un regime pre-democratico, essere il fascismo legato ad una fase incipiente ed ancora arretrata del capitalismo. Si capisce allora come gli scrittori del Mondo, presentando al pubblico del loro giornale, pubblico, purtroppo, costituito in buona parte di operai e di contadini, un modello di società russa, in cui gli elementi borghesi e piccolo-borghesi starebbero permeando le strutture dello Stato operaio per esserne infallibilmente i trionfatori e restaurare il vecchio regime, vogliano rappresentare in una forma rimodernata il vecchio schema utopistico della democrazia e del riformismo, secondo il quale gli elementi socialisti come i sindacati, le cooperative, i Consigli comunali socialisti, ecc. ecc. che esistono in regime capitalistico, potrebbero permeare la struttura di questi regimi fino a modificarli completamente, portando al trionfo incruento del socialismo. Ma appunto il fascismo ha distrutto implacabilmente questi schemi, distruggendo tutti gli elementi, socialisti in quanto legati alla classe operaia, che nel periodo di sviluppo della classe capitalistica erano andati fondendosi. Esistono oggi in Russia elementi socialisti che sono preponderanti, ed elementi di economia piccolo-borghese che teoricamente possono svilupparsi cosí come teoricamente potevano svilupparsi gli elementi socialisti che esistevano in Italia prima del fascismo. Ma in Italia il proletariato non ha conquistato il potere di Stato; la vecchia organizzazione capitalistica pose termine in un certo momento alle concessioni che aveva fatte alle cooperative, ai sindacati, ai Consigli comunali socialisti, cioè alla classe operaia. In Russia la classe operaia al potere, la classe operaia che controlla e dirige le parti essenziali dell'economia nazionale, le leve di comando di tutta la struttura economica della società russa, ha fatto e fa delle concessioni non alla vecchia società dei capitalisti e dei latifondisti, che è stata rovesciata con le armi in pugno ed è priva di ogni proprietà e di ogni diritto politico, ma fa delle concessioni alle masse contadine dalle quali teoricamente potrebbe nascere il nuovo capitalismo. C'è però una piccola questione che i signori del Mondo pare vogliono trascurare, e cioè questa: che il capitalismo sorgendo e sviluppandosi crea proletari in numero enormemente superiore a quello rappresentato dai capitalisti stessi. Pertanto la questione che agli scrittori del Mondo sembra trascurabile, e cioè quella di sapere quale classe ha il potere statale nelle mani, diventa questione essenziale. La classe operaia che in Russia ha lo Stato nelle mani, ha interesse oggi, se vuol costituire un mercato interno capace di assorbire la produzione industriale, di promuovere e favorire lo sviluppo dell'agricoltura. Siccome l'agricoltura in Russia è ancora arretrata e la conduzione agricola non può non essere individuale, lo sviluppo economico delle classi agricole russe porta necessariamente ad un certo arricchimento di uno strato superiore della campagna. Ogni operaio capisce che, se si fa una politica per ottenere che cento contadini da mille lire di reddito l'anno passino ad un reddito di duemila lire, diventando capaci di comperare dalla industria socializzata piú oggetti di quanto potessero comperare con le mille lire primitive, non si può impedire che su questi cento contadini alcuni non solo passino dalle mille alle duemila lire, ma possano, per determinate congiunture estremamente favorevoli, giungere alle cinque o seimila lire: mentre all'altro polo cinque o sei contadini non solo non riescono a passare da mille a duemila lire di reddito, ma per congiunture estremamente sfavorevoli (morte di bestiame, uragani, ecc.) vedono ridurre a zero il loro reddito di mille lire. Ciò che è essenziale per la politica della classe operaia in Russia è che la massa centrale dei contadini, attraverso dei provvedimenti legislativi, realizzi i risultati che lo Stato operaio si propone, cioè diventi la base per la formazione di un risparmio nazionale che serva ad alimentare l'apparato generale di produzione in mano della classe operaia, permettendo a questo apparato non solo di mantenersi ma di svilupparsi. Esiste questo 4 o 5 per cento tuttavia, che si sviluppa oltre i limiti previsti dalla legislazione dello Stato operaio; in un paese come la Russia, ove le masse contadine rappresentano una popolazione di cento milioni di abitanti, questo 4 o 5 per cento assume anche socialmente una forza, che può apparire imponente, di 4 o 5 milioni di abitanti. Ma se la classe operaia, che in Russia oggi assomma come popolazione almeno a 20 milioni di abitanti, si mantiene legata alla grande massa dei contadini che assomma a decine e decine di milioni, la cifra rappresentata dai nemici del socialismo viene ridotta alle sue giuste proporzioni nel quadro d'insieme, ed è assicurato il trionfo relativamente pacifico delle forze socialiste sulle forze capitalistiche. Diciamo relativamente pacifico, in quanto esistono infatti in Russia le prigioni in mano agli operai, i tribunali in mano agli operai, la polizia in mano agli operai, l'esercito in mano agli operai... cioè in Russia esiste la dittatura del proletariato, elemento socialista che noi abbiamo il torto di giudicare un tantino piú importante di quanto non lo giudichino gli amici dei fratelli Perrone, di Max Bondí, del conte Materazzo e del comm. Pecoraino. Russia, Italia e altri paesi(42) Si racconta che nell'isola di Martinica una curiosa gara esiste fra le creole e le meticcie. Le creole hanno i piedi piccolissimi e vengono fabbricate per loro delle scarpette molte graziose e gentili. Le meticcie hanno i piedi molto grossi e noccheruti e non potrebbero calzare le scarpette delle creole. Esse pertanto si recano al caffè e alla passeggiata portando elegantemente le scarpette nelle mani. Lo scrittore de Mondo rassomiglia stranamente alle meticcie dell'isola della Martinica. Il materialismo storico, il socialismo, il riformismo non sono scarpe per i suoi piedi. Perché dunque se le attacca ai lobi delle pronunciate orecchie democratiche? Le scarpe di cui egli si adorna sono d'altronde molto rozze e parecchio sdrucite. L'argomento capitale che lo scrittore del Mondo ripete, lo conosciamo già: se in Russia non esiste il comunismo integrale, ma esiste un governo comunista che gradualmente applica la politica economica che deve trasformare il regime da capitalistico in socialistico, perché tale politica economica gradualista non potrebbe essere applicata da un governo di coalizzazione borghese-socialista? Perché deve essere ritenuta utile l'opera riformista dei comunisti che possiedono il potere in Russia, e non potrebbe ritenersi altrettanto utile l'opera che avrebbe potuto svolgere l'ala destra del socialismo italiano se avesse, quando poteva, assunto il potere o vi avesse partecipato? Se il materialismo storico non fosse per lo scrittore del Mondo un paio di scarpe da portare nelle mani invece che nei piedi, egli avrebbe potuto da se stesso rispondere a questo argomento. In Russia, prima della rivoluzione proletaria, c'era un governo socialista. Esso ha lasciato preparare il colpo di Stato di Kornilof e sarebbe stato rovesciato senza l'armamento parziale degli operai e l'intervento nella lotta dei bolscevichi. Esso aveva convocato per il settembre 1917 l'Assemblea costituente che avrebbe dovuto distribuire la terra ai contadini, ma sotto la pressione dei proprietari rimandava all'infinito la convocazione e faceva mitragliare i contadini nelle campagne. Esso non riusciva a dominare i capitalisti che chiudevano sistematicamente le fabbriche per determinare la disoccupazione e costringere gli operai alla «disciplina» con la «mano ossuta della fame». Perciò il governo «socialista» fu sbalzato via per la insurrezione degli elementi piú attivi della popolazione, per gli operai industriali e i contadini-soldati. In Germania è esistito nel 1919 un governo puramente socialista; il Partito socialista aveva tanta forza nel paese che fu nominato presidente della repubblica un socialista, Ebert. I socialisti hanno cosí ben fatto il loro dovere che neanche una delle conquiste operaie della rivoluzione di novembre è stata mantenuta. La Commissione per la socializzazione, con a capo il venerando Kautsky, è stata spazzata via dai borghesi. Hindenburg è divenuto presidente della repubblica. L'esperienza inglese è ancora piú istruttiva. Già nel 1914, come fu altra volta ricordato, il Parlamento inglese fu messo in iscacco da un semplice «particolare»: Lord Carson armò nell'Ulster 100.000 soldati per opporsi all'applicazione della legge sulla libertà irlandese. L'esercito regolare, costituito da professionisti mercenari, rifiutò di marciare contro Carson che ebbe partita vinta. Tuttavia lo stesso Parlamento durante la guerra scelse come ministro Lord Carson, colpevole di colpo di Stato e di alto tradimento. L'andata al potere di MacDonald e dei laburisti è piú recente, e il suo pietoso fallimento dinanzi all'offensiva dei conservatori è nella memoria di tutti. Come è nella memoria di tutti il recente cartello delle sinistre in Francia che fa blocco con Poincaré, contro il quale aveva impostata la sua campagna elettorale e la sua piattaforma politica. E in Italia? Perché i socialisti di destra non sono andati al potere? Perché non hanno fatto una coalizione con la cosiddetta democrazia? E perché la stessa democrazia non è rimasta al potere con Giolitti, Bonomi, Facta? Per l'Italia è stata trovata la formula «psicosi». Nel 1919-1920 si dice che c'era la «psicosi» massimalista; nel 1921-22 si parlò di «psicosi» fascista. Recentemente però è venuto fuori il signor Franco Clerici che ha scritto che nel 1924 c'era la «psicosi» democratica dell'Aventino, ciò che non ha fatto piacere agli scrittori del Mondo. In questo modo tutta l'Italia nei suoi tre fattori fondamentali: proletariato, capitalismo, piccola e media borghesia, è divenuta un manicomio: tutta la politica italiana è «psicosi». Noi non crediamo alle interpretazioni a base di «psicosi». In Italia c'era un equilibrio instabile tra le forze sociali in lotta. Il proletariato era troppo forte nel 1919-20 per assoggettarsi piú oltre all'oppressione capitalistica. Ma le sue forze organizzate erano incerte, titubanti, deboli interiormente, perché il Partito socialista non era che un amalgama di almeno tre partiti; è mancato in Italia nel 1919-20 un partito rivoluzionario bene organizzato e deciso alla lotta. Da questa posizione di equilibrio instabile è nata la forza del fascismo italiano, che si è organizzato ed ha preso il potere con metodi e sistemi che, se avevano una loro peculiarità italiana ed erano legati a tutta la tradizione italiana e alla immediata situazione del nostro paese, pur tuttavia avevano e hanno una certa rassomiglianza coi metodi e i sistemi descritti da Carlo Marx nel Diciotto brumaio di Luigi Bonaparte, cioè con la tattica generale della borghesia in pericolo, in tutti i paesi. Perché i socialisti di destra non andarono al potere? Aspettavano forse il nostro consenso? Certo non potevano averlo e non l'avranno mai, perché noi siamo persuasi che essi hanno solo la capacità di capitolare dinanzi alla reazione, perché sempre, e in tutti i paesi, essi hanno capitolato davanti alla reazione. Noi siamo persuasi che sia condizione preliminare per iniziare la trasformazione della economia da capitalista in socialista il possesso del governo, la rottura completa degli attuali rapporti politici, lo schiacciamento fisico della reazione e della classe dominante. Il processo di trasformazione sarà piú o meno rapido a seconda dello sviluppo delle forze economiche; esso può essere iniziato però in tutti i paesi dell'Europa e dell'America e in una serie di paesi degli altri continenti; ma può essere iniziato dopo la conquista del potere, in regime di dittatura del proletariato. Per il Mondo, una cooperativa, un sindacato, un monopolio industriale sono uguali sempre e dappertutto. Per noi una cooperativa in regime fascista è molto diversa da una cooperativa del 1919-20, e questa era molto diversa da una cooperativa russa attuale. Seguendo il ragionamento del Mondo, un governo è sempre un governo, cioè il governo fascista è uguale al governo di qualsiasi altro paese e tempo. Forse lo scrittore del Mondo prepara le intenzioni per lastricare una nuova strada sotto la guida non piú di Dante Ferraris o del comm. Pecoraino, ma di un nuovo illuminato mecenate della democrazia. Nota. Per usare il linguaggio dei giornaletti di provincia di tutti i partiti, noi non scriveremo che lo scrittore del Mondo fugge, scappa, si dilegua abbaiando, latrando, guaiolando, ovverosia emettendo altri corporali rumori. Scriveremo solo che lo scrittore del Mondo, disgustato della nostra trivialità inaudita e inqualificabile, sta per richiudersi in un dignitoso riserbo secondo il costume democratico. Non pertanto noi continueremo a tirargli le pronunciate orecchie. Ancora delle capacità organiche della classe operaia(43) Sono trascorsi sei anni dal settembre 1920. In questo frattempo molte cose sono cambiate in mezzo alle masse operaie che nel settembre 1920 occuparono le fabbriche dell'industrie metallurgiche. Una parte notevole degli operai piú attivi e combattivi, che in quegli anni di lotte eroiche rappresentavano l'avanguardia della classe lavoratrice, sono fuori d'Italia; segnati con triplice croce nelle liste nere, dopo mesi e mesi di disoccupazione, dopo avere tentato in ogni modo (mutando mestiere, isolandosi nelle piccole officine, ecc. ecc.) di rimanere in patria per continuare il lavoro rivoluzionario, per ricostruire ogni giorno i legami che ogni giorno la reazione distruggeva, dopo sacrifici e sofferenze inaudite, essi furono costretti ad emigrare. Sei anni sono lunghi; una nuova generazione è già entrata nelle fabbriche, di operai che nel 1920 erano ancora adolescenti o fanciulli e tutt'al piú partecipavano alla vita pubblica giocando nelle strade alla guerra tra esercito rosso ed esercito polacco e rifiutando di fare il polacco anche per gioco. Tuttavia l'occupazione delle fabbriche non è stata dimenticata dalle masse e non solo dalle masse operaie, ma anche dalle masse contadine. Essa è stata la prova generale della classe rivoluzionaria italiana, la quale, come classe, ha dimostrato di essere matura, di essere capace di iniziativa, di possedere una inestimabile ricchezza di energie creative e organizzative; se il movimento è fallito, la responsabilità non può essere addossata alla classe operaia come tale, ma al Partito socialista che venne meno ai suoi doveri, che era incapace e inetto, che era alla coda della classe operaia e non alla sua testa. L'occupazione delle fabbriche è ancora all'ordine del giorno nelle conversazioni e nelle discussioni che avvengono alla base tra gli elementi d'avanguardia e gli elementi piú arretrati e passivi o tra quelli e i nemici di classe. Recentemente, in una riunione di contadini e artigiani di villaggio dell'Italia meridionale, simpatizzanti col nostro Partito, dopo un breve rapporto sulla situazione attuale, furono dai presenti posti due ordini di quistioni: 1. Che cosa succede in Russia? Come sono organizzati in Russia i municipi? Come si riesce a mettere d'accordo gli operai e i contadini, dato che i primi vogliono comprare i viveri a basso prezzo e i secondi vogliono venderli convenientemente? Gli ufficiali dell'Armata Rossa e gli impiegati dello Stato dei Soviet sono come gli ufficiali e gli impiegati del nostro paese? Sono di un'altra classe o sono operai e contadini? 2. Spiegateci perché noi operai (parlava un artigiano, fabbro-ferraio) abbiamo abbandonato le fabbriche che avevamo occupate nel settembre 1920. I signori ci dicono sempre: «Le avevate sí o no occupate le fabbriche? Perché dunque le avete abbandonate? Certamente perché senza il "capitale" non si può far nulla. Avete mandato via i capitalisti e cosí è venuto a mancare il "capitale" e voi avete fatto fallimento». Spiegateci dunque la quistione perché cosí sapremo rispondere; noi sappiamo che i signori hanno torto, ma non sappiamo dire le nostre ragioni e dobbiamo spesso chiudere la bocca. L'irradiazione rivoluzionaria dell'occupazione delle fabbriche è stata enorme, tanto in Italia che all'estero. Perché? Perché le masse lavoratrici videro in essa la riprova della rivoluzione russa in un paese occidentale, in un paese industrialmente piú progredito della Russia, con una classe operaia meglio organizzata, tecnicamente piú istruita, industrialmente piú omogenea e coesa di quanto fosse il proletariato russo nell'ottobre 1917. Siamo noi capaci di gestire la produzione per conto nostro, secondo i nostri interessi, secondo un nostro piano?, si domandavano gli operai. Siamo noi in grado di riorganizzare la produzione in modo da condurre la società intiera su un nuovo binario che porti all'abolizione delle classi e all'eguaglianza economica? La prova fu positiva, nei limiti in cui essa ebbe luogo e si sviluppò, nei limiti in cui l'esperienza poté realizzarsi, nell'àmbito dei problemi posti e risolti. L'esperienza fu limitata, in generale, ai rapporti interni di fabbrica. I contatti tra fabbrica e fabbrica furono minimi dal punto di vista industriale; si verificarono solo per le quistioni di difesa militare e anche in questo senso furono piuttosto empirici ed elementari. Gli aspetti positivi dell'occupazione delle fabbriche possono essere riassunti brevemente in questi punti: 1. Capacità di autogoverno della massa operaia. Nell'attività normale di massa, la classe operaia appare generalmente come elemento passivo di manovra. Nelle agitazioni, negli scioperi, ecc., si domandano alla massa le qualità seguenti: solidarietà, disciplina dell'organizzazione, fiducia nei dirigenti, spirito di resistenza e di sacrifizio. Ma la massa è statica; è come un immenso corpo con una piccolissima testa. L'occupazione delle fabbriche domandò una molteplicità inaudita di elementi attivi, dirigenti. Ogni fabbrica dovette costruirsi un governo, che era rivestito insieme della autorità politica e di quella industriale. Solo una parte dei tecnici e degli impiegati rimasero al loro posto; la maggioranza disertò le officine. Gli operai dovettero scegliere nelle loro file tecnici e impiegati, capireparto, capisquadra, contabili, ecc. ecc. Questo compito fu assolto brillantemente. I vecchi dirigenti, rientrati nelle loro funzioni, non ebbero nessuna difficoltà amministrativa da superare; le normali funzioni di un'azienda erano mantenute alla giornata, nonostante che il personale tecnico e amministrativo fosse estremamente ridotto e costituito di «rozzi e ignoranti» operai. 2. Capacità della massa operaia di mantenere e superare il livello di produzione del regime capitalistico. È avvenuto questo: nonostante che le maestranze fossero ridotte, perché sia pure un'infima percentuale disertò il lavoro, perché una certa percentuale lavorava per produrre oggetti non precisamente di uso corrente, sebbene molto utili al proletariato - nonostante la diserzione della maggioranza dei tecnici e degli impiegati che furono dovuti sostituire con operai - nonostante tutto ciò, la produzione mantenne il livello primitivo e spesso lo superò. Nella Fiat si produssero piú automobili che prima dell'occupazione; e le macchine «operaie», esposte quotidianamente al pubblico dalla Fiat proletaria, non furono una delle ultime ragioni delle innegabili simpatie che l'occupazione godeva fra le grandi masse della città di Torino, compresi gli intellettuali e anche gli esercenti (i quali accettavano come moneta ottima i buoni operai). 3. Capacità illimitata di iniziativa e di creazione delle masse lavoratrici. Per esaurire questo punto occorrerebbe un intero volume. La iniziativa si sviluppò in tutti i sensi. Nel campo industriale, per la necessità di risolvere quistioni tecniche, di organizzazione e di produzione industriale. Nel campo militare, per rivolgere a strumento di difesa ogni minima possibilità. Nel campo artistico, per la capacità dimostrata nei giorni di domenica di trovare modo di trattenere le masse con rappresentazioni teatrali e di altro genere, in cui tutto era inventato dagli operai: dalla messa in scena alla produzione. Bisogna aver visto dei vecchi operai, che parevano stroncati da decenni e decenni di oppressione e di sfruttamento, raddrizzarsi anche fisicamente nel periodo dell'occupazione, sviluppare attività fantastiche, suggerendo, aiutando, sempre attivi notte e giorno; bisogna aver visto questi e altri spettacoli per convincersi quanto siano illimitate le forze latenti delle masse e come esse si rivelino e si sviluppino impetuosamente, appena la convinzione si radica di essere arbitri ed egemoni dei propri destini. Come classe, gli operai italiani che occuparono le fabbriche, si dimostrarono all'altezza dei loro compiti e delle loro funzioni. Tutti i problemi che le necessità del movimento posero loro da risolvere furono brillantemente risolti. Non poterono risolvere i problemi dei rifornimenti e delle comunicazioni, perché non furono occupate le ferrovie e la flotta. Non poterono risolvere i problemi finanziari perché non furono occupati gli istituti di credito e le aziende commerciali. Non poterono risolvere i grandi problemi nazionali e internazionali, perché non conquistarono il potere di Stato. Questi problemi avrebbero dovuto essere affrontati dal Partito socialista e dai sindacati, che invece capitolarono vergognosamente, protestando l'immaturità delle masse; in realtà i dirigenti erano immaturi e incapaci, non la classe. Perciò avvenne la rottura di Livorno e si creò un nuovo partito, il Partito comunista. Nota prima - La Tribuna trova che il nostro metodo di leggere è soggettivo. Sulle quistioni di metodo lo scrittore della Tribuna dà la mano allo scrittore del Mondo il quale ha trovato modo, nonostante la vicinanza intellettuale di Adriano Tilgher, di tirare in ballo Einstein e il relativismo. Col metodo «oggettivo» della Tribuna gli uomini sarebbero ancora irrigiditi alla nozione che la terra è ferma e il sole le gira intorno. Crediamo che lo scrittore della Tribuna scambi il «soggettivismo» con la comune «intelligenza». Nota seconda - Nella discussione sulla capacità organica della classe operaia, è intervenuto uno scrittore di Regime Fascista, per dimostrare semplicemente che non conosce neanche la nomenclatura politica della Russia dei Soviet. Ci dicono che lo scrittore di Regime Fascista sia un certo padre Pantaleo, che ha buttato la tonaca alle ortiche. È rimarchevole il numero e la qualità di preti spretati o frati sfratati, che nutrono la campagna antioperaia e antibolscevica nel nostro paese, sotto il labaro della religione e del cattolicesimo, essi che sono per lo meno scomunicati: Romolo Murri, colonna politica del Resto del Carlino, don Preziosi della Vita Italiana e del Mezzogiorno, Aurelio Palmieri, ex gesuita che fa da prezzemolo in tutti gli intingoli antisoviettisti e questo padre Pantaleo del Regime Fascista. Noi e la concentrazione repubblicana(44) Nell'articolo che abbiamo, ieri, abbondantemente riportato, la Voce Repubblicana vorrebbe convincerci a sostituire i suoi schemi fossilizzati alla nostra analisi della situazione italiana e alle nostre prospettive. Lo schema della Voce è questo: la «concentrazione repubblicana» dovrebbe essere vista dai comunisti come un elemento favorevole al proprio gioco (sic) perché potenzialmente capace di rompere l'equilibrio attuale e dare un ritmo celere e pieno di possibilità alla lotta politica. Insomma, noi dovremmo pensare cosí: prima della rivoluzione di ottobre, c'è stata la rivoluzione di febbraio; prima di Lenin c'è stato Kerenskij. Orsú! Comunisti consapevoli, mettiamoci a ricercare il Kerenskij italiano. Chi sarà? Chi non sarà? Trovato: sarà Arturo Labriola, il teorizzatore della «concentrazione repubblicana». Ebbene: tutto questo modo di ragionare della Voce ci sembra enormemente puerile. Noi comunisti non abbiamo nessun «gioco» da fare; noi comunisti non vogliamo «giocare» con la storia; vogliamo fare molto sul serio e non abbiamo nessuno schema prefissato da applicare, nemmeno lo schema russo. Noi abbiamo dei princípi, una dottrina, dei fini concreti da realizzare. È solo in rapporto ai nostri princípi, alla nostra dottrina e ai fini da raggiungere che stabiliamo la nostra linea politica reale. Il nostro «Machiavelli» sono le opere di Marx e Lenin; e non la redazione della Voce Repubblicana e l'on. Arturo Labriola che, d'altronde, arieggiano messer Nicolò Machiavelli solo nel senso dei noti versi: Dietro l'avello di Machiavello giace lo scheletro di Stenterello Per noi, l'impostazione dei nostri rapporti con la concentrazione repubblicana è sufficientemente chiara. Nella società italiana, che ha raggiunto il massimo di sviluppo capitalistico che storicamente poteva raggiungere date le condizioni di luogo e di tempo, una sola classe è rivoluzionaria in senso compiuto e permanente: il proletariato industriale. Ma per lo sviluppo particolare, per le particolari condizioni nazionali dello sviluppo del capitalismo, la società italiana ha conservato molti vecchiumi del passato, una serie di istituzioni e di rapporti politici che pesano sulla situazione e ne annebbiano il profilo fondamentale. Anche in altri paesi nei quali le forze capitaliste sono molto piú sviluppate che in Italia, permangono istituzioni e rapporti politici antiquati. In Inghilterra c'è la monarchia nonostante che l'85 per cento della popolazione sia industriale; in Inghilterra, la Chiesa è una istituzione potentissima anche se formalmente non è centralizzata come il Vaticano. In Inghilterra, la Camera alta esercita una funzione di prim'ordine specialmente quando il Partito conservatore non ha la maggioranza nella Camera dei deputati. Diremo noi perciò che l'Inghilterra è un paese arretrato, pre-capitalistico, semi-feudale? E ancora: in Inghilterra non c'è un Partito repubblicano nonostante ci sia la monarchia, ciò che significa che il Partito repubblicano non esiste e si sviluppa necessariamente in quanto c'è la monarchia, in quanto esiste una classe e dei notevoli gruppi sociali che nel terreno repubblicano trovano il terreno piú adatto per la difesa della propria posizione e dei propri interessi di classe o di gruppi. Tuttavia noi riconosciamo che nella situazione italiana il peso specifico dei su ricordati «vecchiumi» è maggiore che in altri paesi; perciò appunto nella situazione generale mondiale esiste una particolare situazione italiana, una situazione cioè in cui esistono determinati caratteri peculiari; esiste il governo fascista e non il governo di Baldwin o quello di Poincaré, per esprimerci come il signor de La Palisse. La quistione allora è questa: quale apprezzamento dobbiamo dare del peso specifico dei «vecchiumi» peculiari all'Italia? Essi esistono, debbono essere superati. In ciò siamo d'accordo. Ma rappresentano essi il contenuto per l'opera storica di tutta un'epoca, di tutta una generazione e di piú di una generazione; sono essi il maggior comma dell'ordine del giorno che la storia implacabilmente ci impone di esaurire? O non sono invece solo dei dettagli, degli aspetti secondari del nostro duro lavoro storico? Questo è il problema che si pone. Per noi il contenuto dell'opera storica che si impone alle attuali generazioni è la realizzazione del socialismo. Nella via laboriosa e difficile verso questa realizzazione, troviamo dei cadaveri da interrare, dei vecchiumi da spazzar via; dobbiamo farlo, e lo faremo perché è necessario; ma un cadavere specialmente abbiamo il preciso compito di interrare: quello del capitalismo; una via dobbiamo aprire: quella che conduce al socialismo; questo è il nostro specifico dovere, non altro; nel percorrere quella via adempiremo ai compiti secondari e di dettaglio. La concentrazione repubblicana esprime nella situazione italiana questi caratteri secondari e di dettaglio: noi riconosciamo l'esistenza e il peso relativo delle quistioni che da essa sono poste; perciò ci occupiamo della concentrazione, discutiamo con i suoi esponenti, abbiamo cercato, e cercheremo ancora con molta probabilità di avere dei rapporti di alleanze. Ma se prendiamo in considerazione i lati storicamente positivi di questa corrente politica, non possiamo e non dobbiamo nasconderci, e nascondere al proletariato i lati negativi di essa. Due classi sono oggi di fronte: proletariato e borghesia; dalla lotta fondamentale di queste due classi è determinata l'attuale situazione. Ma nessuna di queste due classi è isolata: ognuna di esse ha degli alleati reali e potenziali; la borghesia ha il sopravvento perché è aiutata dai suoi alleati, perché dispone di un sistema di forze da lei controllate e dirette; il proletariato lotta anche per strappare questi alleati alla borghesia e per farsene le proprie forze ausiliarie. La concentrazione repubblicana è l'espressione politica di questa oscillazione delle forze medie, di questo latente squilibrio delle forze che decideranno sulle sorti del duello storico fra le due classi fondamentali. Se queste forze si sposteranno come masse, se avverrà la frana sociale degli strati intermedi verso la concentrazione repubblicana, la borghesia come «classe» si sposterà immediatamente sullo stesso terreno, diventerà repubblicana in 24 ore perché non vorrà rimanere isolata, perché capirà che solo con un tal movimento potrà conservare le sue posizioni essenziali. La Voce è di una ingenuità commovente quando si richiama all'atteggiamento dei gruppi di sinistra della borghesia antifascista (popolari e democrazie legalitarie); oggi in Germania il presidente della repubblica si chiama Hindenburg e il capo di governo si chiama dott. Marx, del Centro cattolico: è molto probabile che ancora nell'ottobre 1918 né l'uno né l'altro pensasse di poter essere il capo dello Stato e il capo del governo di una repubblica germanica. Perché (e qui è il punto), quando potrebbe avvenire la frana sociale degli strati medi? Potrebbe avvenire solo nel caso di una minacciosa ripresa delle energie rivoluzionarie del proletariato, solo se il capitalismo si dimostrasse inetto a soddisfare piú oltre le necessità essenziali della vita nazionale. Ma noi crediamo che appunto in quel momento è necessario che il proletariato sia unito politicamente e ideologicamente come classe perché sia in grado di risolvere i suoi problemi essenziali, coordinandoli, ben inteso, alla soluzione delle altre quistioni nazionali legate a classi e gruppi sociali che lotteranno ai suoi fianchi. Ecco: noi lavoriamo perché il proletariato sia la classe dirigente della rinnovata società italiana. La concentrazione repubblicana lavora per subordinare il proletariato ad altre forme sociali, che praticamente non possono essere che il capitalismo, poiché solo una di queste due classi può governare il paese. Su questo terreno nessun machiavellismo di vecchio e di nuovo conio riuscirà a turbare la chiarezza dei rapporti che il fascismo ha posto brutalmente. Una sola concentrazione repubblicana ha oggi in Italia una prospettiva di successo «permanente» e storicamente salda: quella che abbia il proletariato come perno fondamentale. Il nostro Partito ha visto il problema in tutta la sua ampiezza fin dal giugno 1925, e non è un caso se gli attuali «concentrazionisti» hanno solamente segnato il passo. Lettera al Comitato centrale del Partito comunista sovietico Cari compagni, i comunisti italiani e tutti i lavoratori coscienti del nostro paese hanno sempre seguito con la massima attenzione le vostre discussioni. Alla vigilia di ogni congresso e di ogni conferenza del PCR noi eravamo sicuri che, nonostante l'asprezza delle polemiche, l'unità del Partito russo non era in pericolo; eravamo sicuri anzi che, avendo raggiunto una maggiore omogeneità ideologica e organizzativa attraverso tali discussioni, il Partito sarebbe stato meglio preparato ed attrezzato per superare le difficoltà molteplici che sono legate all'esercizio del potere di uno Stato operaio. Oggi, alla vigilia della vostra XV Conferenza, non abbiamo piú la sicurezza del passato; ci sentiamo irresistibilmente angosciati; ci sembra che l'attuale atteggiamento del blocco di opposizioni e l'acutezza delle polemiche del PC dell'URSS esigano l'intervento dei partiti fratelli. È da questo convincimento preciso che noi siamo mossi nel rivolgervi questa lettera. Può darsi che l'isolamento in cui il nostro Partito è costretto a vivere ci abbia indotto a esagerare i pericoli che si riferiscono alla situazione interna del Partito comunista dell'URSS; in ogni caso non sono certo esagerati i nostri giudizi sulle ripercussioni internazionali di questa situazione e noi vogliamo come internazionalisti compiere il nostro dovere. La situazione interna del nostro Partito fratello dell'URSS ci sembra diversa e molto piú grave che nelle precedenti discussioni perché oggi vediamo verificarsi e approfondirsi una scissione nel gruppo centrale leninista che è sempre stato il nucleo dirigente del Partito e della Internazionale. Una scissione di questo genere, indipendentemente dai risultati numerici delle votazioni di congresso, può avere le piú gravi ripercussioni, non solo se la minoranza di opposizione non accetta con la massima lealtà i princípi fondamentali della disciplina rivoluzionaria di Partito, ma anche se essa, nel condurre la sua lotta, oltrepassa certi limiti che sono superiori a tutte le democrazie formali. Uno dei preziosi insegnamenti di Lenin è stato quello che noi dobbiamo molto studiare i giudizi dei nostri nemici di classe. Ebbene, cari compagni, è certo che i giornali e gli uomini di Stato piú forti della borghesia internazionale puntano su questo carattere organico del conflitto esistente nel nucleo fondamentale del Partito comunista dell'URSS, puntano sulla scissione del nostro Partito fratello e sono convinti che essa debba portare alla disgregazione e alla lenta agonia della dittatura proletaria, che essa debba determinare la catastrofe della Rivoluzione che non riuscirono a determinare le invasioni e le insurrezioni delle guardie bianche. La stessa fredda circospezione con cui oggi la stampa borghese cerca di analizzare gli avvenimenti russi, il fatto che essa cerca di evitare, per quanto le è consentito, la demagogia violenta che le era piú propria nel passato, sono sintomi che devono far riflettere i compagni russi e farli piú consapevoli della loro responsabilità. Per un'altra ragione ancora la borghesia internazionale punta sulla possibile scissione o su un aggravarsi della crisi interna del Partito comunista dell'URSS. Lo Stato operaio esiste in Russia ormai da nove anni. È certo che solo una piccola minoranza non solo delle classi lavoratrici, ma degli stessi Partiti comunisti degli altri paesi è in grado di ricostituire nel suo completo tutto lo sviluppo della Rivoluzione e di trovare anche nei dettagli di cui si compone la vita quotidiana dello Stato dei Soviet la continuità del filo rosso che porta fino alla prospettiva generale della costruzione del socialismo. E ciò non solo nei paesi dove la libertà di riunione non esiste piú e la libertà di stampa è completamente soppressa o è sottoposta a limitazioni inaudite, come in Italia (dove i tribunali hanno sequestrato e proibito la stampa dei libri di Trotzkij, Lenin, Stalin, Zinoviev e ultimamente anche del Manifesto dei comunisti) ma anche nei paesi dove ancora i nostri Partiti hanno la libertà di fornire ai loro membri e alle masse in generale, una sufficiente documentazione. In questi paesi, le grandi masse non possono comprendere le discussioni che avvengono nel Partito comunista dell'URSS, specialmente se esse sono cosí violente come l'attuale e investono non un aspetto di dettaglio, ma tutto il complesso della linea politica del Partito. Non solo le masse lavoratrici in generale, ma le stesse masse dei nostri Partiti vedono e vogliono vedere nella Repubblica dei Soviet e nel Partito che vi è al governo una sola unità di combattimento che lavora nella prospettiva generale del socialismo. Solo in quanto le masse occidentali europee vedono la Russia e il Partito russo da questo punto di vista, esse accettano volentieri e come un fatto storicamente necessario che il Partito comunista dell'URSS sia il partito dirigente dell'Internazionale, solo perciò oggi la Repubblica dei Soviet ed il Partito comunista dell'URSS sono un formidabile elemento di organizzazione e di propulsione rivoluzionaria. I partiti borghesi e socialdemocratici, per la stessa ragione, sfruttano le polemiche interne e i conflitti esistenti nel Partito comunista dell'URSS; essi vogliono lottare contro questa influenza della Rivoluzione russa, contro l'unità rivoluzionaria che intorno al Partito comunista dell'URSS si sta costituendo in tutto il mondo. Cari compagni, è estremamente significativo che in un paese come l'Italia, dove l'organizzazione statale e di partito del fascismo riesce a soffocare ogni notevole manifestazione di vita autonoma delle grandi masse operaie e contadine, è significativo che i giornali fascisti, specialmente quelli delle provincie, siano pieni di articoli, tecnicamente ben costruiti per la propaganda, con un minimo di demagogia e di atteggiamenti ingiuriosi, nei quali si cerca di dimostrare, con uno sforzo evidente di obiettività, che oramai, per le stesse manifestazioni dei leaders piú noti del blocco della opposizione del Partito comunista dell'URSS lo Stato dei Soviet va sicuramente diventando un puro Stato capitalistico e che pertanto nel duello mondiale tra fascismo e bolscevismo, il fascismo avrà il sopravvento. Questa campagna, se dimostra quanto siano ancora smisurate le simpatie che la Repubblica dei Soviet gode in mezzo alle grandi masse del popolo italiano che, in alcune regioni, da sei anni, non riceve che una scarsa letteratura illegale di Partito, dimostra altresì come il fascismo, che conosce molto bene la reale situazione interna italiana, e ha imparato a trattare con le masse, cerchi di utilizzare l'atteggiamento politico del blocco delle opposizioni per spezzare definitivamente la ferma avversione dei lavoratori al governo di Mussolini e per determinare almeno uno stato d'animo in cui il fascismo appaia almeno come una ineluttabile necessità storica, nonostante la crudeltà e i mali che l'accompagnano. Noi crediamo che nel quadro dell'Internazionale, il nostro Partito sia quello che piú risente le ripercussioni della grave situazione esistente nel Partito comunista dell'URSS. E non solo per le ragioni su esposte che, per cosí dire, sono esterne, toccano le condizioni generali dello sviluppo rivoluzionario nel nostro paese. Voi sapete che i partiti tutti dell'Internazionale hanno ereditato e dalla vecchia socialdemocrazia e dalle diverse tradizioni nazionali esistenti nei diversi paesi (anarchismo, sindacalismo, ecc. ecc.) una massa di pregiudizi e di motivi ideologici che rappresentano il focolare di tutte le deviazioni di destra e di sinistra. In questi ultimi anni, ma specialmente dopo il V Congresso mondiale, i nostri Partiti andavano raggiungendo, attraverso una dolorosa esperienza, attraverso crisi dolorose e estenuanti, una sicura stabilizzazione leninista, stavano diventando dei veri Partiti bolscevichi. Nuovi quadri proletari venivano formandosi dal basso, dalle officine; gli elementi intellettuali erano sottoposti a una rigorosa selezione e a un collaudo rigido e spietato in base al lavoro pratico, sul terreno della azione. Questa rielaborazione avveniva sotto la guida del Partito comunista dell'URSS nel suo complesso unitario e di tutti i grandi capi del Partito dell'URSS. Ebbene: l'acutezza della crisi attuale e la minaccia di scissione aperta o latente che essa contiene, arresta questo processo di sviluppo e di rielaborazione dei nostri Partiti, cristallizza le deviazioni di destra e di sinistra, allontana ancora una volta il successo dell'unità organica del Partito mondiale dei lavoratori. È su questo elemento in ispecial modo che noi crediamo nostro dovere di internazionalisti di richiamare l'attenzione dei compagni piú responsabili del Partito comunista dell'URSS. Compagni, voi siete stati, in questi nove anni di storia mondiale, l'elemento organizzatore e propulsore delle forze rivoluzionarie di tutti i paesi: la funzione che voi avete svolto non ha precedenti in tutta la storia del genere umano che la uguagli in ampiezza e profondità. Ma voi oggi state distruggendo la opera vostra, voi degradate e correte il rischio di annullare la funzione dirigente che il Partito comunista dell'URSS aveva conquistato per lo impulso di Lenin; ci pare che la passione violenta delle quistioni russe vi faccia perdere di vista gli aspetti internazionali delle quistioni russe stesse, vi faccia dimenticare che i vostri doveri di militanti russi possono e debbono essere adempiuti solo nel quadro degli interessi del proletariato internazionale. L'Ufficio politico del PCI ha studiato con la maggiore diligenza e attenzione che le erano consentite, tutti i problemi che oggi sono in discussione nel Partito comunista dell'URSS. Le quistioni che oggi si pongono a voi, possono porsi domani al nostro Partito. Anche nel nostro paese le masse rurali sono la maggioranza della popolazione lavoratrice. Inoltre tutti i problemi inerenti all'egemonia del proletariato si presenteranno da noi certamente in una forma piú complessa ed acuta che nella stessa Russia, perché la densità della popolazione rurale in Italia è enormemente piú grande, perché i nostri contadini hanno una ricchissima tradizione organizzativa e sono sempre riusciti a far sentire molto sensibilmente il loro peso specifico di massa nella vita politica nazionale, perché da noi l'apparato organizzativo ecclesiastico ha duemila anni di tradizione e si è specializzato nella propaganda e nell'organizzazione dei contadini in un modo che non ha eguali negli altri paesi. Se è vero che l'industria è piú sviluppata da noi e il proletariato ha una base materiale notevole, è anche vero che quest'industria non ha materie prime nel paese ed è quindi piú esposta alla crisi; il proletariato perciò potrà svolgere la sua funzione dirigente solo se è molto ricco di spirito di sacrificio e si è liberato completamente da ogni residuo di corporativismo riformista o sindacalista. Da questo punto di vista realistico e che noi crediamo leninista, l'Ufficio politico del PCI ha studiato le vostre discussioni. Noi, fin'ora abbiamo espresso un'opinione di Partito solo sulla quistione strettamente disciplinare delle frazioni, volendoci attenere all'invito da voi rivolto dopo il vostro XIV Congresso di non trasportare la discussione russa nelle sezioni dell'Internazionale. Dichiariamo ora che riteniamo fondamentalmente giusta la linea politica della maggioranza del CC del Partito comunista dell'URSS e che in tal senso certamente si pronunzierà la maggioranza del Partito italiano, se diverrà necessario porre tutta la questione. Non vogliamo e riteniamo inutile fare dell'agitazione, della propaganda con voi e coi compagni del blocco delle opposizioni. Non stenderemo perciò un registro di tutte le quistioni particolari col nostro apprezzamento al fianco. Ripetiamo che ci impressiona il fatto che lo atteggiamento delle opposizioni investa tutta la linea politica del CC toccando il cuore stesso della dottrina leninista e dell'azione politica del nostro Partito dell'Unione. È il principio e la pratica dell'egemonia del proletariato che vengono posti in discussione, sono i rapporti fondamentali di alleanza tra operai e contadini che vengono turbati e messi in pericolo, cioè i pilastri dello Stato operaio e della Rivoluzione. Compagni, non si è mai visto nella storia che una classe dominante, nel suo complesso, stesse in condizioni di vita inferiori a determinati elementi e strati della classe dominata e soggetta. Questa contraddizione inaudita la storia l'ha riserbata in sorte al proletariato; in questa contraddizione risiedono i maggiori pericoli per la dittatura del proletariato, specialmente nei paesi dove il capitalismo non aveva assunto un grande sviluppo e non era riuscito a unificare le forze produttive. È da questa contraddizione, che, d'altronde, si presenta già sotto alcuni suoi aspetti nei paesi capitalistici dove il proletariato ha raggiunto obiettivamente una funzione sociale elevata, che nascono il riformismo e il sindacalismo, che nasce lo spirito corporativo e le stratificazioni dell'aristocrazia operaia. Eppure il proletariato non può diventare classe dominante se non supera col sacrificio degli interessi corporativi questa contraddizione, non può mantenere la sua egemonia e la sua dittatura se anche divenuto dominante non sacrifica questi interessi immediati per gli interessi generali e permanenti della classe. Certo è facile fare della demagogia su questo terreno, è facile insistere sui lati negativi della contraddizione: «Sei tu il dominatore, o operaio mal vestito e mal nutrito, oppure è dominatore il nepman impellicciato e che ha a sua disposizione tutti i beni della terra?». Cosí i riformisti dopo uno sciopero rivoluzionario che ha aumentato la coesione e la disciplina della massa, ma con la sua lunga durata ha impoverito ancor piú i singoli operai dicono: «A che pro aver lottato? Voi siete rovinati e impoveriti». È facile fare della demagogia su questo terreno ed è difficile non farla quando la quistione è stata posta nei termini dello spirito corporativo e non in quelli del leninismo, della dottrina della egemonia del proletariato, che storicamente si trova in una determinata posizione e non in un'altra. È questo per noi l'elemento essenziale delle vostre discussioni, è in questo elemento la radice degli errori del blocco delle opposizioni e l'origine dei pericoli latenti che nella sua attività sono contenuti. Nella ideologia e nella pratica del blocco delle opposizioni rinasce in pieno tutta la tradizione della socialdemocrazia e del sindacalismo che ha impedito finora al proletariato occidentale di organizzarsi in classe dirigente. Solo una ferma unità e una ferma disciplina nel Partito che governa lo Stato operaio può assicurare l'egemonia proletaria in regime di Nep, cioè nel pieno sviluppo della contraddizione cui abbiamo accennato. Ma l'unità e la disciplina in questo caso non possono essere meccaniche e coatte; devono essere leali e di convinzione e non quelle di un reparto nemico imprigionato o assediato che pensa all'evasione o alla sortita di sorpresa. Questo, carissimi compagni, abbiamo voluto dirvi, con spirito di fratelli e di amici, sia pure di fratelli minori. I compagni Zinoviev, Trotzkij, Kamenev hanno contribuito potentemente a educarci per la rivoluzione, ci hanno qualche volta corretto molto energicamente e severamente, sono stati i nostri maestri. A loro specialmente ci rivolgiamo come ai maggiori responsabili della attuale situazione, perché vogliamo essere sicuri che la maggioranza del CC dell'URSS non intenda stravincere nella lotta e sia disposta ad evitare le misure eccessive. L'unità del nostro Partito fratello di Russia è necessaria per lo sviluppo e il trionfo delle forze rivoluzionarie mondiali; a questa necessità ogni comunista e internazionalista deve essere disposto a fare i maggiori sacrifici. I danni di un errore compiuto dal Partito unito sono facilmente superabili; i danni di una scissione o di una prolungata condizione di scissione latente possono essere irreparabili e mortali. Con saluti comunisti [L'UP del PCI] Lettera a Togliatti 26 ottobre 1926 Carissimo Ercoli, ho ricevuto la tua lettera del 18. Rispondo a titolo personale, quantunque sia persuaso di esprimere l'opinione anche degli altri compagni. La tua lettera mi pare troppo astratta e troppo schematica nel modo di ragionare. Noi siamo partiti dal punto di vista, che mi pare esatto, che nei nostri paesi non esistono solo i partiti, intesi come organizzazione tecnica, ma esistono anche le grandi masse lavoratrici, politicamente stratificate in modo contradditorio, ma nel loro complesso tendenti all'unità. Uno degli elementi piú energici di questo processo unitario è l'esistenza dell'URSS legata all'attività reale del PC dell'URSS e alla persuasione diffusa che nell'URSS si cammina nella via del socialismo. In quanto i nostri Partiti rappresentano tutto il complesso attivo dell'URSS essi hanno una determinata influenza su tutti gli strati politici della grande massa, ne rappresentano la tendenza unitaria, si muovono su un terreno storico fondamentalmente favorevole, nonostante le superstrutture contradditorie. Ma non bisogna credere che questo elemento che fa del PC dell'URSS l'organizzatore di masse piú potente che sia mai apparso nella storia, sia ormai acquisito in forma stabile e decisiva: tutt'altro. Esso è sempre instabile. Cosí non bisogna dimenticare che la rivoluzione russa ha già nove anni di esistenza e che la sua attuale attività è un insieme di azioni parziali e di atti di governo che solo una coscienza teorica e politica molto sviluppata può cogliere come insieme e nel suo movimento d'insieme verso il socialismo. Non solo per le grandi masse lavoratrici, ma anche per una notevole parte degli iscritti ai partiti occidentali, che si differenziano dalle masse solo per questo passo, radicale ma iniziale verso una coscienza sviluppata che è l'ingresso nel partito, il movimento d'insieme della rivoluzione russa è rappresentato concretamente dal fatto che il Partito russo si muove unitariamente, che insieme operano e si muovono gli uomini rappresentativi che le nostre masse conoscono e sono state abituate a conoscere. La quistione dell'unità, non solo del Partito russo ma anche del nucleo leninista, è pertanto una questione della massima importanza nel campo internazionale; è, dal punto di vista di massa, la questione piú importante in questo periodo storico di intensificato processo contradditorio verso l'unità. È possibile e probabile che l'unità non possa essere conservata almeno nella forma che essa ha avuto nel passato. È anche certo che tuttavia non crollerà il mondo e che occorre far di tutto per preparare i compagni e le masse alla nuova situazione. Ciò non toglie che sia nostro dovere assoluto richiamare alla coscienza politica dei compagni russi e richiamare energicamente, i pericoli e le debolezze che i loro atteggiamenti stanno per determinare. Saremmo dei rivoluzionari ben pietosi e irresponsabili se lasciassimo passivamente compiersi i fatti compiuti, giustificandone a priori la necessità. Che l'adempimento di un tale dovere da parte nostra possa, in via subordinata, giovare anche all'opposizione, deve preoccuparci fino ad un certo punto; infatti è nostro scopo contribuire al mantenimento e alla creazione di un piano unitario nel quale le diverse tendenze e le diverse personalità possano riavvicinarsi e fondersi anche ideologicamente. Ma io non credo che nella nostra lettera, la quale evidentemente deve essere letta nel suo insieme e non già a brani staccati e avulsi, ci sia un qualsiasi pericolo di indebolire la posizione della maggioranza del Comitato centrale. In ogni caso, appunto in vista di ciò e della possibilità di una tale apparenza, in una lettera aggiunta ti avevo autorizzato a modificare la forma: potevi benissimo posporre le due parti e mettere subito nell'inizio la nostra affermazione di «responsabilità» dell'opposizione. Questo tuo modo di ragionare perciò mi ha fatto una impressione penosissima. E voglio dirti che in noi non c'è ombra alcuna di allarmismo, ma solo ponderata e fredda riflessione. Siamo sicuri che in nessun caso crollerà il mondo: ma sarebbe stolto muoversi solo se sta per crollare il mondo, mi pare. Nessuna frase fatta perciò ci smuoverà dalla persuasione di essere nella linea giusta, nella linea leninista per il modo di considerate le quistioni russe. La linea leninista consiste nel lottare per la unità del partito, e non solo per la unità esteriore, ma per quella un po' piú intima che consiste nel non esserci nel partito due linee politiche completamente divergenti in tutte le quistioni. Non solo nei nostri paesi, per ciò che riguarda la direzione ideologica e politica dell'Internazionale, ma anche in Russia, per ciò che riguarda l'egemonia del proletariato e cioè il contenuto sociale dello Stato, l'unità del partito è condizione esistenziale. Tu fai una confusione tra gli aspetti internazionali della quistione russa che sono un riflesso del fatto storico del legame delle masse lavoratrici col primo Stato socialista - e i problemi di organizzazione internazionale nel terreno sindacale e politico. I due ordini di fatti sono coordinati strettamente, ma tuttavia distinti. Le difficoltà che si incontrano e si sono andate costituendo nel campo piú ristretto organizzativo, sono dipendenti dalle fluttuazioni che si verificano nel piú largo campo dell'ideologia diffusa di massa, cioè dal restringersi dell'influenza e del prestigio del Partito russo in alcune zone popolari. Per metodo noi abbiamo voluto parlare solo degli aspetti piú generali: abbiamo voluto evitare di cadere nell'imparaticcio scolastico che purtroppo affiora in alcuni documenti di altri partiti e toglie serietà al loro intervento. Cosí non è vero, come tu dici, che noi siamo troppo ottimisti sulla bolscevizzazione reale dei partiti occidentali. Tutt'altro. Il processo di bolscevizzazione è talmente lento e difficile che ogni anche piú piccolo inciampo lo arresta e lo ritarda. La discussione russa e l'ideologia delle opposizioni gioca in questo arresto e ritardo un uffizio tanto piú grande, in quanto le opposizioni rappresentano in Russia tutti i vecchi pregiudizi del corporativismo di classe e del sindacalismo che pesano sulla tradizione del proletariato occidentale e ne ritardano lo sviluppo ideologico e politico. La nostra osservazione era tutta rivolta contro le opposizioni. È vero che le crisi dei partiti e anche del Partito russo sono legate alla situazione obiettiva, ma cosa significa ciò? Forse che per ciò dobbiamo cessare di lottare, dobbiamo cessare di sforzarci per modificare favorevolmente gli elementi soggettivi? Il bolscevismo consiste precisamente anche nel mantenere la testa a posto e nell'essere ideologicamente e politicamente fermi anche nelle situazioni difficili. La tua osservazione è dunque inerte e priva di valore, cosí come quella contenuta al punto 5, poiché noi abbiamo parlato delle grandi masse e non già dell'avanguardia proletaria. Subordinatamente, però, la difficoltà esiste anche per questo, la quale non è campata per aria ma unita alla massa: ed esiste tanto piú, in quanto il riformismo con le sue tendenze al corporativismo di classe, cioè alla non comprensione del ruolo dirigente dell'avanguardia, ruolo da conservarsi anche a costo di sacrifizi, è molto piú radicato nell'occidente di quanto fosse in Russia. Tu dimentichi poi facilmente le condizioni tecniche in cui si svolge il lavoro in molti partiti, che non permettono la diffusione delle quistioni teoriche piú elevate altro che in piccole cerchie di operai. Tutto il tuo ragionamento è viziato di «burocratismo»: oggi, dopo nove anni dall'ottobre 1917, non è piú il fatto della presa del potere da parte dei bolscevichi che può rivoluzionare le masse occidentali, perché esso è già stato scontato ed ha prodotto i suoi effetti; oggi è attiva, ideologicamente e politicamente, la persuasione (se esiste) che il proletariato, una volta preso il potere, può costruire il socialismo. L'autorità del partito è legata a questa persuasione, che non può essere inculcata nelle grandi masse con metodi di pedagogia scolastica, ma solo di pedagogia rivoluzionaria, cioè solo dal fatto politico che il Partito russo nel suo complesso è persuaso e lotta unitariamente. Mi dispiace sinceramente che la nostra lettera non sia stata capita da te, in primo luogo, e che tu, sulla traccia del mio biglietto personale, non abbia in ogni caso cercato di capir meglio: la nostra lettera era tutta una riquisitoria contro le opposizioni, fatta non in termini demagogici ma appunto perciò piú efficace e piú seria. Ti prego di allegare agli atti, oltre il testo italiano della lettera e il mio biglietto personale, anche la presente. Saluti cordiali. Antonio Alcuni temi della quistione meridionale(45) Lo spunto per queste note è stato dato dalla pubblicazione, avvenuta nel Quarto Stato del 18 settembre, di un articolo sul problema meridionale, firmato Ulenspiegel che la redazione della rivista ha fatto precedere da un esordio alquanto buffo. Ulenspiegel dà notizia, nel suo articolo, del recente libro di Guido Dorso (La Rivoluzione meridionale, Torino, edit. Piero Gobetti, 1925) e accenna al giudizio che il Dorso ha dato intorno all'atteggiamento del nostro Partito sulla quistione del Mezzogiorno; nel suo esordio, la redazione del Quarto Stato, che si proclama costituita di «giovani che conoscono perfettamente nelle sue linee generali (sic) il problema meridionale», protesta collettivamente per il fatto che si possano riconoscere dei «meriti» al Partito comunista. E fin qui niente di male; i giovani del tipo Quarto Stato hanno, in ogni tempo e luogo, fatto sopportare alla carta ben altre opinioni e proteste senza che la carta si ribellasse. Ma poi questi «giovani» aggiungono testualmente: «Non abbiamo dimenticato che la formula magica dei comunisti torinesi era: dividere il latifondo tra i proletari rurali. Quella formula è agli antipodi con ogni sana realistica visione del problema meridionale». E qui occorre mettere le cose a posto, poiché di «magico» esiste solo l'improntitudine e il superficiale dilettantismo dei «giovani» scrittori del Quarto Stato. La «formula magica» è inventata di sana pianta. E devono avere ben poca stima dei loro intellettualissimi lettori i «giovani» del Quarto Stato se osano con tanta loquace sicumera simili capovolgimenti della verità. Ecco, infatti, un brano dell'Ordine Nuovo (numero del 3 gennaio 1920) nel quale è riassunto il punto di vista dei comunisti torinesi: «La borghesia settentrionale ha soggiogato l'Italia meridionale e le isole e le ha ridotte a colonie di sfruttamento; il proletariato settentrionale, emancipando se stesso dalla schiavitú capitalistica, emanciperà le masse contadine meridionali asservite alla banca e all'industrialismo parassitario del Settentrione. La rigenerazione economica e politica dei contadini non deve essere ricercata in una divisione delle terre incolte e mal coltivate, ma nella solidarietà del proletariato industriale, che ha bisogno, a sua volta, della solidarietà dei contadini, che ha interesse acché il capitalismo non rinasca economicamente dalla proprietà terriera e ha interesse acché l'Italia meridionale e le isole non diventino una base militare di controrivoluzione capitalistica. Imponendo il controllo operaio sull'industria, il proletariato rivolgerà l'industria alla produzione di macchine agricole per i contadini, di stoffe e calzature per i contadini, di energia elettrica per i contadini; impedirà che piú oltre l'industria e la banca sfruttino i contadini e li soggioghino come schiavi alle loro casseforti. Spezzando l'autocrazia nella fabbrica, spezzando l'apparato oppressivo dello Stato capitalistico, instaurando lo Stato operaio che soggioghi i capitalisti alla legge del lavoro utile, gli operai spezzeranno tutte le catene che tengono avvinghiato il contadino alla sua miseria, alla sua disperazione; instaurando la dittatura operaia, avendo in mano le industrie e le banche, il proletariato rivolgerà la enorme potenza dell'organizzazione statale per sostenere i contadini nella loro lotta contro i proprietari, contro la natura, contro la miseria; darà il credito ai contadini, instituirà le cooperative, garantirà la sicurezza personale e dei beni contro i saccheggiatori, farà le spese pubbliche di risanamento e di irrigazione. Farà tutto questo perché è suo interesse dare incremento alla produzione agricola, perché è suo interesse avere e conservare la solidarietà delle masse contadine, perché è suo interesse rivolgere la produzione industriale a lavoro utile di pace e di fratellanza fra città e campagna, tra Settentrione e Mezzogiorno». Ciò è stato scritto nel gennaio 1920. Sono passati sette anni e noi siamo piú anziani di sette anni anche politicamente; qualche concetto potrebbe essere oggi espresso meglio, potrebbe e dovrebbe essere meglio distinto il periodo immediatamente successivo alla conquista dello Stato, caratterizzato dal semplice controllo operaio sull'industria, dai periodi successivi. Ma quello che importa notare qui è che il concetto fondamentale dei comunisti torinesi non è stato la «formula magica» della divisione del latifondo, ma quello della alleanza politica tra operai del Nord e contadini del Sud per rovesciare la borghesia dal potere di Stato: non solo, ma proprio i comunisti torinesi (che pure sostenevano, come subordinata all'azione solidale delle due classi, la divisione delle terre) mettevano in guardia contro le illusioni «miracolistiche» sulla spartizione meccanica dei latifondi. Nello stesso articolo del 3 gennaio 1920 è scritto: «Cosa ottiene un contadino povero invadendo una terra incolta o mal coltivata? Senza macchine, senza abitazione sul luogo di lavoro, senza credito per attendere il tempo del raccolto, senza istituzioni cooperative che acquistino il raccolto stesso (se arriva al raccolto senza prima essersi impiccato al piú forte arbusto delle boscaglie o al meno tisico fico selvatico della terra incolta) e lo salvino dalle grinfie degli usurai, cosa può ottenere un contadino povero dall'invasione?». E tuttavia noi eravamo per la formula molto realistica e per nulla «magica» della terra ai contadini; ma volevamo che essa fosse inquadrata in una azione rivoluzionaria generale delle due classi alleate, sotto la direzione del proletariato industriale. Gli scrittori del Quarto Stato hanno inventato di sana pianta la «formula magica» attribuita ai comunisti torinesi, dimostrando cosí la loro poca serietà di pubblicisti e il loro poco scrupolo di intellettuali da farmacia di villaggio; e anche questi sono elementi politici che pesano e portano conseguenze. Nel campo proletario, i comunisti torinesi hanno avuto un «merito» incontrastabile: di avere imposto la quistione meridionale all'attenzione dell'avanguardia operaia, prospettandola come uno dei problemi essenziali della politica nazionale del proletariato rivoluzionario. In questo senso essi hanno contribuito praticamente a far uscire la quistione meridionale dalla sua fase indistinta, intellettualistica, cosí detta «concretista», per farla entrare in una fase nuova. L'operaio rivoluzionario di Torino e di Milano diventava il protagonista della quistione meridionale e non piú i Giustino Fortunato, i Gaetano Salvemini, gli Eugenio Azimonti, gli Arturo Labriola, per non citare che il nome dei santoni cari ai «giovani» del Quarto Stato. I comunisti torinesi si erano posti concretamente la quistione dell'«egemonia del proletariato», cioè della base sociale della dittatura proletaria e dello Stato operaio. Il proletariato può diventare classe dirigente e dominante nella misura in cui riesce a creare un sistema di alleanze di classi che gli permetta di mobilitare contro il capitalismo e lo Stato borghese la maggioranza della popolazione lavoratrice, ciò che significa, in Italia, nei reali rapporti di classe esistenti in Italia, nella misura in cui riesce a ottenere il consenso delle larghe masse contadine. Ma la quistione contadina in Italia è storicamente determinata, non è la «quistione contadina e agraria in generale»; in Italia la quistione contadina ha, per la determinata tradizione italiana, per il determinato sviluppo della storia italiana, assunto due forme tipiche e peculiari, la quistione meridionale e la quistione vaticana. Conquistare la maggioranza delle masse contadine significa dunque, per il proletariato italiano, far proprie queste due quistioni dal punto di vista sociale, comprendere le esigenze di classe che esse rappresentano, incorporare queste esigenze nel suo programma rivoluzionario di transizione, porre queste esigenze tra le sue rivendicazioni di lotta. Il primo problema da risolvere, per i comunisti torinesi, era quello di modificare l'indirizzo politico e l'ideologia generale del proletariato stesso come elemento nazionale che vive nel complesso della vita statale e subisce inconsapevolmente l'influenza della scuola, del giornale, della tradizione borghese. È noto quale ideologia sia stata diffusa in forma capillare dai propagandisti della borghesia nelle masse del Settentrione: il Mezzogiorno è la palla di piombo che impedisce piú rapidi progressi allo sviluppo civile dell'Italia; i meridionali sono biologicamente degli esseri inferiori, dei semibarbari o dei barbari completi, per destino naturale; se il Mezzogiorno è arretrato, la colpa non è del sistema capitalistico o di qualsivoglia altra causa storica, ma della natura che ha fatto i meridionali poltroni, incapaci, criminali, barbari, temperando questa sorte matrigna con la esplosione puramente individuale di grandi geni, che sono come le solitarie palme in un arido e sterile deserto. Il Partito socialista fu in gran parte il veicolo di questa ideologia borghese nel proletariato settentrionale; il Partito socialista diede il suo crisma a tutta la letteratura «meridionalista» della cricca di scrittori della cosiddetta scuola positiva, come i Ferri, i Sergi, i Niceforo, gli Orano e i minori seguaci, che in articoli, in bozzetti, in novelle, in romanzi, in libri di impressioni e di ricordi ripetevano in diverse forme lo stesso ritornello; ancora una volta la «scienza» era rivolta a schiacciare i miseri e gli sfruttati, ma questa volta essa si ammantava dei colori socialisti, pretendeva essere la scienza del proletariato. I comunisti torinesi reagirono energicamente contro questa ideologia, proprio a Torino, dove i racconti e le descrizioni dei veterani della guerra contro il «brigantaggio» nel Mezzogiorno e nelle isole avevano maggiormente influenzato la tradizione e lo spirito popolare. Reagirono energicamente, in forme pratiche, riuscendo ad ottenere risultati concreti di grandissima portata storica, riuscendo ad ottenere, proprio a Torino, embrioni di quella che sarà la soluzione del problema meridionale. D'altronde, già prima della guerra, si era verificato a Torino un episodio che conteneva in potenza tutta l'azione e la propaganda svolte nel dopoguerra dai comunisti. Quando, nel 1914, per la morte di Pilade Gay, rimase vacante il IV collegio della città e fu posta la quistione del nuovo candidato, un gruppo della sezione socialista, del quale facevano parte i futuri redattori dell'Ordine Nuovo, ventilò il progetto di presentare come candidato Gaetano Salvemini. Il Salvemini era allora l'esponente piú avanzato in senso radicale della massa contadina del Mezzogiorno. Egli era fuori del Partito socialista, anzi conduceva contro il Partito socialista una campagna vivacissima e pericolosissima, perché le sue affermazioni e le sue accuse, nella massa lavoratrice meridionale, diventavano causa di odio non solo contro i Turati, i Treves, i D'Aragona ma contro il proletariato industriale nel suo complesso. (Molte delle pallottole che le guardie regie scaricarono nel '19, '20, '21, '22 contro gli operai erano fuse nello stesso piombo che serví a stampare gli articoli del Salvemini). Tuttavia questo gruppo torinese voleva fare un'affermazione sul nome del Salvemini, nel senso che al Salvemini stesso fu esposto dal compagno Ottavio Pastore recatosi a Firenze per avere il consenso alla candidatura. «Gli operai di Torino vogliono eleggere un deputato per i contadini pugliesi. Gli operai di Torino sanno che, nelle elezioni generali del 1913, i contadini di Molfetta e di Bitonto erano, nella loro stragrande maggioranza, favorevoli al Salvemini; la pressione amministrativa del governo Giolitti e la violenza dei mazzieri e della polizia ha impedito ai contadini pugliesi di esprimersi. Gli operai di Torino non domandano impegni di sorta al Salvemini, né di partito, né di programma, né di disciplina al gruppo parlamentare; una volta eletto, il Salvemini si richiamerà ai contadini pugliesi, non agli operai di Torino, i quali faranno la propaganda elettorale secondo i loro princípi e non saranno per nulla impegnati dall'attività politica del Salvemini.» Il Salvemini non volle accettare la candidatura, quantunque fosse rimasto scosso e persino commosso dalla proposta (in quel tempo non si parlava ancora di «perfidia» comunista, e i costumi erano onesti e lieti); egli propose Mussolini come candidato e si impegnò di venire a Torino a sostenere il Partito socialista nella lotta elettorale. Tenne infatti due comizi grandiosi alla Camera del lavoro e in piazza Statuto, tra l'entusiasmo della massa che vedeva ed applaudiva in lui il rappresentante dei contadini meridionali oppressi e sfruttati in forme ancora piú odiose e bestiali che il proletariato settentrionale. L'indirizzo, potenzialmente contenuto in questo episodio che non ebbe sviluppi maggiori solo per la volontà del Salvemini, fu ripreso e applicato dai comunisti nel periodo del dopoguerra. Vogliamo ricordare i fatti piú salienti e sintomatici. Nel 1919 si formò l'associazione della «Giovane Sardegna», esordio e premessa di quel che sarà piú tardi il Partito sardo d'azione. La «Giovane Sardegna» si proponeva di unire tutti i sardi dell'isola e del continente in un blocco regionale capace di esercitare una utile pressione sul governo per ottenere che fossero mantenute le promesse fatte durante la guerra ai soldati; l'organizzatore della «Giovane Sardegna» nel continente era un tale prof. Pietro Nurra, socialista, che molto probabilmente oggi fa parte del gruppo di «giovani» che nel Quarto Stato scopre ogni settimana qualche nuovo orizzonte da esplorare. Vi aderivano con l'entusiasmo che crea ogni nuova probabilità di pescar croci, commende e medaglini, avvocati, professori, funzionari. L'assemblea costituente, convocata a Torino per i sardi abitanti nel Piemonte, riuscí imponente per il numero degli intervenuti. Era in maggioranza povera gente, popolani senza qualifica distinguibile, manovali d'officina, piccoli pensionati, ex carabinieri, ex guardie carcerarie, ex soldati di finanza che esercitavano piccoli negozi svariatissimi; tutti erano entusiasmati all'idea di ritrovarsi tra compaesani, di sentire discorsi sulla loro terra alla quale continuavano ad essere legati da innumerevoli fili di parentele, di amicizie, di ricordi, di sofferenze, di speranze: la speranza di ritornare al loro paese, ma ad un paese piú prospero e ricco, che offrisse le condizioni di vivere, sia pure modestamente. I comunisti sardi, in numero preciso di otto, si recarono alla riunione, presentarono alla presidenza una loro mozione, domandarono di fare una controrelazione. Dopo il discorso infiammato e retorico del relatore ufficiale, adorno di tutte le veneri e gli amorini dell'oratoria regionalistica, dopo che gli intervenuti avevano pianto ai ricordi dei dolori passati e del sangue versato in guerra dai reggimenti sardi, e si erano entusiasmati fino al delirio alla idea del blocco compatto di tutti i figli generosi della Sardegna, era molto difficile «piazzare» la controrelazione; le previsioni piú ottimistiche erano, se non il linciaggio, per lo meno una passeggiata fino in questura dopo essere stati salvati dalle conseguenza del «nobile sdegno della folla». La controrelazione, se suscitò una enorme stupefazione, fu però ascoltata con attenzione, e una volta rotto l'incanto, rapidamente, se pur metodicamente, si giunse alla conclusione rivoluzionaria. Il dilemma: siete voi, poveri diavoli di sardi, per un blocco coi signori di Sardegna che vi hanno rovinato e sono i sorveglianti locali dello sfruttamento capitalistico o siete per un blocco con gli operai rivoluzionari del continente che vogliono abbattere tutti gli sfruttamenti ed emancipare tutti gli oppressi? - questo dilemma fu fatto penetrare nei cervelli dei presenti. Il voto per divisione fu un formidabile successo: da una parte un gruppetto di signore sgargianti, di funzionari in tuba, di professionisti lividi dalla rabbia e dalla paura con una quarantina di poliziotti per contorno di consenso e dall'altra tutta la moltitudine dei poveri diavoli e delle donnette vestite da festa intorno alla piccolissima cellula comunista. Un'ora dopo, alla Camera del lavoro, era costituito il Circolo educativo socialista sardo con 256 inscritti; la costituzione della «Giovane Sardegna» fu rinviata sine die e non ebbe mai luogo. Fu questa la base politica dell'azione condotta fra i soldati della brigata Sassari, brigata a composizione quasi totalmente regionale. La brigata Sassari aveva partecipato alla repressione del moto insurrezionale di Torino dell'agosto 1917; si era sicuri che essa non avrebbe mai fraternizzato con gli operai, per i ricordi di odio che ogni repressione lascia nella folla anche contro gli strumenti materiali della repressione e nei reggimenti per il ricordo dei soldati caduti sotto i colpi degli insorti. La brigata fu accolta da una folla di signori e signore che offrivano ai soldati fiori, sigari, frutta. Lo stato d'animo dei soldati è caratterizzato da questo racconto di un operaio conciapelli di Sassari, addetto ai primi sondaggi di propaganda: «Mi sono avvicinato a un bivacco di piazza X (i soldati sardi nei primi giorni bivaccarono nelle piazze come in una città conquistata) e ho parlato con un giovane contadino che mi aveva accolto cordialmente perché di Sassari come lui. "Cosa siete venuti a fare a Torino?" "Siamo venuti per sparare contro i signori che fanno sciopero." "Ma non sono i signori quelli che fanno sciopero, sono gli operai e sono poveri." "Qui sono tutti signori; hanno tutti il colletto e la cravatta; guadagnano 30 lire al giorno. I poveri io li conosco e so come sono vestiti; a Sassari, sí, ci sono molti poveri; tutti 'gli zappatori' siamo poveri e guadagnamo 1,50 al giorno." "Ma anche io sono operaio e sono povero." "Tu sei povero perché sei sardo." "Ma se io faccio sciopero con gli altri, sparerai contro di me?" Il soldato rifletté un poco, poi mettendomi una mano sulla spalla: "Senti, quando fai sciopero con gli altri, resta a casa!"». Era questo lo spirito della stragrande maggioranza della brigata, che contava solo un piccolo numero di operai minatori del bacino di Iglesias. Eppure, dopo pochi mesi, alla vigilia dello sciopero generale del 20-21 luglio, la brigata fu allontanata da Torino, i soldati anziani furono congedati e la formazione divisa in tre: un terzo fu mandato ad Aosta, un terzo a Trieste, un terzo a Roma. La brigata fu fatta partire di notte, all'improvviso; nessuna folla elegante li applaudiva alla stazione; i loro canti, se erano anche essi guerrieri, non avevano piú lo stesso contenuto di quelli cantati all'arrivo. Questi avvenimenti sono rimasti senza conseguenze? No, essi hanno avuto risultati che ancora oggi sussistono e continuano ad operare nella profondità della massa popolare. Essi hanno illuminato per un momento cervelli che non avevano mai pensato in quella direzione e che sono rimasti impressionati, modificati radicalmente. I nostri archivi sono andati dispersi; molte carte sono state da noi stessi distrutte per non provocare arresti e persecuzioni. Ma noi ricordiamo decine e centinaia di lettere giunte dalla Sardegna alla redazione torinese dello Avanti!; lettere spesso collettive, spesso firmate da tutti gli ex combattenti della Sassari di un determinato paese. Per vie incontrollate e incontrollabili, l'atteggiamento politico da noi sostenuto si diffondeva; la formazione del Partito sardo d'azione ne fu fortemente influenzata alla base e sarebbe possibile ricordare a questo proposito episodi ricchi di contenuto e di significato. L'ultima ripercussione controllata di questa azione la si ebbe nel 1922, quando, con gli stessi propositi che per la brigata Sassari, furono inviati a Torino 300 carabinieri della legione di Cagliari. Ricevemmo, alla redazione dell'Ordine Nuovo, una dichiarazione di principio, firmata da una grandissima parte di questi carabinieri; essa echeggiava di tutta la nostra impostazione del problema meridionale, essa era la prova decisiva della giustezza del nostro indirizzo. Il proletariato doveva fare suo questo indirizzo per dargli efficienza politica: ciò è sottinteso. Nessuna azione di massa è possibile se la massa stessa non è convinta dei fini che vuole raggiungere e dei metodi da applicare. Il proletariato, per essere capace di governare come classe, deve spogliarsi di ogni residuo corporativo, di ogni pregiudizio o incrostazione sindacalista. Cosa significa ciò? Che non solo devono essere superate le distinzioni che esistono tra professione e professione, ma che occorre, per conquistarsi la fiducia e il consenso dei contadini e di alcune categorie semiproletarie della città, superare alcuni pregiudizi e vincere certi egoismi che possono sussistere e sussistono nella classe operaia come tale anche quando nel suo seno sono spariti i particolarismi di professione. Il metallurgico, il falegname, lo edile, ecc. devono non solo pensare come proletari e non piú come metallurgico, falegname, edile, ecc., ma devono fare ancora un passo avanti: devono pensare come operai membri di una classe che tende a dirigere i contadini e gli intellettuali, di una classe che può vincere e può costruire il socialismo solo se aiutata e seguita dalla grande maggioranza di questi strati sociali. Se non si ottiene ciò, il proletariato non diventa classe dirigente, e questi strati, che in Italia rappresentano la maggioranza della popolazione, rimanendo sotto la direzione borghese, dànno allo Stato la possibilità di resistere all'impeto proletario e di fiaccarlo. Ebbene: ciò che si è verificato nel terreno della quistione meridionale dimostra che il proletariato ha compreso questi suoi doveri. Due fatti sono da ricordare: uno verificatosi a Torino, l'altro a Reggio Emilia, cioè nella cittadella del riformismo, del corporativismo di classe, del protezionismo operaio portato ad esempio dai «meridionalisti» nella loro propaganda tra i contadini del Sud. Dopo l'occupazione delle fabbriche, la direzione della Fiat fece la proposta agli operai di assumere la gestione dell'azienda in forma di cooperativa. Come è naturale, i riformisti erano favorevoli. Si profilava una crisi industriale. Lo spettro della disoccupazione angosciava le famiglie operaie. Se la Fiat diventava cooperativa, una certa sicurezza dell'impiego avrebbe potuto essere acquistata dalla maestranza e specialmente dagli operai politicamente piú attivi, che erano persuasi di essere destinati al licenziamento. La sezione socialista guidata dai comunisti intervenne energicamente nella quistione. Fu detto agli operai: una grande azienda cooperativa come la Fiat può essere assunta dagli operai, solo se gli operai sono decisi a entrare nel sistema di forze politiche borghesi che oggi governa l'Italia. La proposta della direzione della Fiat rientra nel piano politico giolittiano. In che consiste questo piano? La borghesia, già prima della guerra, non poteva piú governare tranquillamente. La insurrezione dei contadini siciliani del 1894 e l'insurrezione di Milano del 1898 furono lo experimentum crucis della borghesia italiana. Dopo il decennio sanguinoso '90-900, la borghesia dovette rinunziare a una dittatura troppo esclusivista, troppo violenta, troppo diretta: insorgevano contro di lei simultaneamente se anche non coordinatamente i contadini meridionali e gli operai settentrionali. Nel nuovo secolo la classe dominante inaugurò una nuova politica, di alleanze di classe, di blocchi politici di classe, cioè di democrazia borghese. Doveva scegliere: o una democrazia rurale, cioè una alleanza coi contadini meridionali, una politica di libertà doganale, di suffragio universale, di decentramento amministrativo, di bassi prezzi nei prodotti industriali, o un blocco industriale capitalistico-operaio, senza suffragio universale, per il protezionismo doganale, per il mantenimento dell'accentramento statale (espressione del dominio borghese sui contadini, specialmente del Mezzogiorno e delle isole), per una politica riformistica dei salari e delle libertà sindacali. Scelse, non a caso, questa seconda soluzione; Giolitti impersonò il dominio borghese, il Partito socialista divenne lo strumento della politica giolittiana. Se osservate bene, nel decennio '900-910 si verificano le crisi piú radicali nel movimento socialista e operaio: la massa reagisce spontaneamente contro la politica dei capi riformisti. Nasce il sindacalismo, che è l'espressione istintiva, elementare, primitiva, ma sana, della reazione operaia contro il blocco con la borghesia e per un blocco coi contadini e in primo luogo coi contadini meridionali. Proprio cosí: anzi, in un certo senso, il sindacalismo è un debole tentativo dei contadini meridionali, rappresentati dai loro intellettuali piú avanzati, di dirigere il proletariato. Da chi è costituito il nucleo dirigente del sindacalismo italiano, quale è la essenza ideologica del sindacalismo italiano? Il nucleo dirigente del sindacalismo è costituito di meridionali quasi esclusivamente: Labriola, Leone, Longobardi, Orano. L'essenza ideologica del sindacalismo è un nuovo liberalismo piú energico, piú aggressivo, piú pugnace di quello tradizionale. Se osservate bene, due sono i motivi fondamentali intorno ai quali avvengono le crisi successive del sindacalismo e il passaggio graduale dei dirigenti sindacalisti nel campo borghese: l'emigrazione e il libero scambio, due motivi strettamente legati al meridionalismo. Il fatto della emigrazione fa nascere la concezione della «nazione proletaria» di Enrico Corradini; la guerra libica appare a tutto uno strato di intellettuali come l'inizio dell'offensiva della «grande proletaria» contro il mondo capitalistico e plutocratico. Tutto un gruppo di sindacalisti passa al nazionalismo, anzi il Partito nazionalista viene costituito originariamente da intellettuali ex sindacalisti (Monicelli, Forges-Davanzati, Maraviglia). Il libro di Labriola Storia di 10 anni (i dieci anni dal '900 al '910) è l'espressione piú tipica e caratteristica di questo neoliberalismo antigiolittiano e meridionalista. In questi dieci anni il capitalismo si rafforza e si sviluppa, e riversa una parte della sua attività nell'agricoltura della valle Padana. Il tratto piú caratteristico di questi 10 anni sono gli scioperi di massa degli operai agricoli della valle Padana. Un profondo rivolgimento avviene tra i contadini settentrionali; si verifica una profonda differenziazione di classe (il numero dei braccianti aumenta del 50 per cento, secondo i dati del censimento del 1911) e ad essa corrisponde una rielaborazione delle correnti politiche e degli atteggiamenti spirituali. La democrazia sociale e il mussolinismo sono i due prodotti piú salienti dell'epoca: la Romagna è il crogiuolo regionale di queste due nuove attività; il bracciante pare essere diventato il protagonista sociale della lotta politica. La democrazia sociale, nei suoi organismi di sinistra (l'Azione, di Cesena), e anche il mussolinismo cadono rapidamente sotto il controllo dei «meridionalisti». L'Azione di Cesena è una edizione regionale dell'Unità di Gaetano Salvemini. L'Avanti! diretto dal Mussolini, lentamente, ma sicuramente, si viene trasformando in una palestra per gli scrittori sindacalisti e meridionalisti. I Fancello, i Lanzillo, i Panunzio, i Ciccotti ne diventano assidui collaboratori: lo stesso Salvemini non nasconde le sue simpatie per Mussolini, che diventa anche un beniamino della Voce di Prezzolini. Tutti ricordano che in realtà, quando Mussolini esce dall'Avanti! e dal Partito socialista, egli è circondato da questa coorte di sindacalisti e di meridionalisti. La ripercussione piú notevole di questo periodo nel campo rivoluzionario è la Settimana rossa del giugno 1914: la Romagna e le Marche sono l'epicentro della Settimana rossa. Nel campo della politica borghese la ripercussione piú notevole è il patto Gentiloni. Poiché il Partito socialista, per effetto dei movimenti agrari della valle Padana, era ritornato, dopo il 1910, alla tattica intransigente, il blocco industriale, sostenuto e rappresentato da Giolitti, perde la sua efficienza; Giolitti muta spalla al suo fucile; alla alleanza tra borghesi e operai sostituisce l'alleanza tra borghesi e cattolici, che rappresentano le masse contadine dell'Italia settentrionale e centrale. Per questa alleanza il Partito conservatore di Sonnino viene completamente distrutto, conservando una sua piccolissima cellula solo nell'Italia meridionale, intorno ad Antonio Salandra. La guerra e il dopoguerra hanno visto svolgersi una serie di processi molecolari nella classe borghese della piú alta importanza. Salandra e Nitti furono i primi due capi di governo meridionali (per non parlare dei siciliani, naturalmente, come Crispi, che fu il piú energico rappresentante della dittatura borghese del secolo XIX) e cercarono di attuare il piano borghese industriale-agrario meridionale, nel terreno conservatore il Salandra, nel terreno democratico il Nitti (tutt'e due questi capi di governo furono aiutati solidamente dal Corriere della Sera, cioè dall'industria tessile lombarda). Già durante la guerra, il Salandra cercò di spostare a favore del Mezzogiorno le forze tecniche dell'organizzazione statale, cercò di sostituire al personale giolittiano dello Stato, un nuovo personale che incarnasse il nuovo corso politico della borghesia. Voi ricordate la campagna condotta dalla Stampa specialmente nel 1917-18 per una stretta collaborazione tra giolittiani e socialisti per impedire la «pugliesizzazione» dello Stato: quella campagna fu condotta nella Stampa da Francesco Ciccotti, cioè era di fatto una espressione dell'accordo esistente tra Giolitti e i riformisti. La quistione non era da poco e i giolittiani, nel loro accanimento difensivo, giunsero fino a oltrepassare i limiti consentiti a un partito della grande borghesia, giunsero fino a quelle manifestazioni di antipatriottismo e di disfattismo che sono nella memoria di tutti. Oggi Giolitti è nuovamente al potere, nuovamente la grande borghesia si affida a lui, per il panico che la invade innanzi all'impetuoso movimento delle masse popolari. Giolitti vuole addomesticare gli operai di Torino. Li ha battuti due volte: nello sciopero dell'aprile scorso e nell'occupazione delle fabbriche, tutt'e due le volte con l'aiuto della Confederazione generale del lavoro, cioè del riformismo corporativo. Ritiene ora di poterli inquadrare nel sistema borghese statale. Infatti, che avverrà se le maestranze Fiat accettano le proposte della direzione? Le attuali azioni industriali diventeranno obbligazioni; cioè la cooperativa dovrà pagare ai portatori di obbligazioni un dividendo fisso, qualunque sia il giro degli affari. L'azienda Fiat sarà taglieggiata in tutti i modi dagli istituti di credito, che rimangono in mano ai borghesi, i quali hanno l'interesse a ridurre gli operai alla loro discrezione. Le maestranze necessariamente dovranno legarsi allo Stato, il quale «verrà in aiuto agli operai» attraverso l'opera dei deputati operai, attraverso la subordinazione del partito politico operaio alla politica governativa. Ecco il piano di Giolitti nella sua piena applicazione. Il proletariato torinese non esisterà piú come classe indipendente, ma solo come un'appendice dello Stato borghese. Il corporativismo di classe avrà trionfato, ma il proletariato avrà perduto la sua posizione e il suo ufficio di dirigente e di guida; esso apparirà alle masse degli operai piú poveri come un privilegiato, apparirà ai contadini come uno sfruttatore alla stessa stregua dei borghesi, perché la borghesia, come ha sempre fatto, presenterà alle masse contadine i nuclei operai privilegiati come l'unica causa dei loro mali e della loro miseria. Le maestranze Fiat accettarono quasi all'unanimità il nostro punto di vista e le proposte della direzione furono respinte. Ma questo esperimento non poteva essere sufficiente. Il proletariato torinese, con tutta una serie di azioni, aveva dimostrato di avere raggiunto un altissimo grado di maturità e capacità politica. I tecnici e gli impiegati d'officina, nel 1919, poterono migliorare le condizioni solo perché appoggiati dagli operai. Per stroncare la agitazione dei tecnici, gli industriali proposero agli operai di nominare essi stessi, elettivamente, nuovi capisquadra e capireparto: gli operai respinsero la proposta, quantunque avessero parecchie ragioni di conflitto coi tecnici che erano sempre stati uno strumento padronale di repressione e di persecuzione. Allora i giornali fecero una furiosa campagna per isolare i tecnici, mettendo in vista i loro altissimi salari, che raggiungevano fino le 7.000 lire al mese. Gli operai qualificati aiutarono l'agitazione dei manovali, che solo cosí riuscirono a imporsi: nell'interno delle fabbriche furono spazzati via tutti i privilegi e gli sfruttamenti delle categorie piú qualificate ai danni delle meno qualificate. Attraverso queste azioni l'avanguardia proletaria si guadagnò la sua posizione sociale di avanguardia; è stata questa la base dello sviluppo del Partito comunista a Torino. Ma fuori di Torino? Ebbene, noi volemmo di proposito portare la quistione fuori di Torino e precisamente a Reggio Emilia, dove esisteva la maggiore concentrazione di riformismo e di corporativismo di classe. Reggio Emilia era sempre stato il bersaglio dei «meridionalisti». Una frase di Camillo Prampolini: «L'Italia si divide in nordici e sudici» era come l'espressione piú caratteristica dell'odio violento che tra i meridionali si spargeva contro gli operai del Nord. A Reggio Emilia si presentò una questione simile a quella della Fiat: una grande officina doveva passare nelle mani degli operai come azienda cooperativa. I riformisti reggiani erano entusiasti dell'avvenimento e lo strombazzavano nei loro giornali e nelle loro riunioni. Un comunista torinese si recò a Reggio, prese la parola nel comizio di fabbrica, espose tutto il complesso della quistione tra Nord e Sud e si ottenne il «miracolo»: gli operai, a grandissima maggioranza, respinsero la tesi riformista e corporativa. Fu dimostrato che i riformisti non rappresentavano lo spirito degli operai reggiani; ne rappresentavano solo la passività e altri lati negativi. Erano riusciti a instaurare un monopolio politico, data la notevole concentrazione nelle loro file di organizzatori e propagandisti d'un certo valore professionale, e quindi, a impedire lo sviluppo e l'organizzazione di una corrente rivoluzionaria; ma era bastata la presenza di un rivoluzionario capace per metterli in iscacco e rivelare che gli operai reggiani sono dei valorosi combattenti e non dei porci allevati con la biada governativa. Nell'aprile 1921, 5.000 operai rivoluzionari furono licenziati dalla Fiat, i Consigli di fabbrica furono aboliti, i salari reali furono abbassati. A Reggio Emilia avvenne probabilmente qualcosa di simile. Gli operai cioè furono battuti. Ma il sacrifizio che essi avevano fatto è restato inutile? Non lo crediamo: siamo anzi sicuri che esso non è stato inutile. È certo difficile registrare tutta una fila di grandi avvenimenti di massa che provino l'efficacia immediata e fulminea di queste azioni. D'altronde, per ciò che riguarda i contadini, queste registrazioni sono sempre difficili e quasi impossibili; sono ancora piú difficili per ciò che riguarda la massa contadina del Mezzogiorno. Il Mezzogiorno può essere definito una grande disgregazione sociale; i contadini, che costituiscono la grande maggioranza della sua popolazione, non hanno nessuna coesione tra loro. (Si capisce che occorre fare delle eccezioni: le Puglie, la Sardegna, la Sicilia, dove esistono caratteristiche speciali nel grande quadro della struttura meridionale.) La società meridionale è un grande blocco agrario costituito di tre strati sociali: la grande massa contadina amorfa e disgregata, gli intellettuali della piccola e media borghesia rurale, i grandi proprietari terrieri, e i grandi intellettuali. I contadini meridionali sono in perpetuo fermento, ma come massa essi sono incapaci di dare una espressione centralizzata alle loro aspirazioni e ai loro bisogni. Lo strato medio degli intellettuali riceve dalla base contadina le impulsioni per la sua attività politica e ideologica. I grandi proprietari nel campo politico e i grandi intellettuali nel campo ideologico centralizzano e dominano, in ultima analisi, tutto questo complesso di manifestazioni. Come è naturale, è nel campo ideologico che la centralizzazione si verifica con maggiore efficacia e precisione. Giustino Fortunato e Benedetto Croce rappresentano perciò le chiavi di volta del sistema meridionale e, in un certo senso, sono le due piú grandi figure della reazione italiana. Gli intellettuali meridionali sono uno strato sociale dei piú interessanti e dei piú importanti nella vita nazionale italiana. Basta pensare che piú di 3/5 della burocrazia statale è costituita di meridionali per convincersene. Ora, per comprendere la particolare psicologia degli intellettuali meridionali, occorre tenere presenti alcuni dati di fatto: 1. In ogni paese lo strato degli intellettuali è stato radicalmente modificato dallo sviluppo del capitalismo. Il vecchio tipo dell'intellettuale era l'elemento organizzativo di una società a base contadina e artigiana prevalentemente; per organizzare lo Stato, per organizzare il commercio, la classe dominante allevava un particolare tipo di intellettuale. La industria ha introdotto un nuovo tipo di intellettuale; l'organizzatore tecnico, lo specialista della scienza applicata. Nelle società, dove le forze economiche si sono sviluppate in senso capitalistico, fino ad assorbire la maggior parte dell'attività nazionale, è questo secondo tipo di intellettuale che ha prevalso, con tutte le sue caratteristiche di ordine e disciplina intellettuale. Nei paesi invece dove l'agricoltura esercita un ruolo ancora notevole o addirittura preponderante, è rimasto in prevalenza il vecchio tipo, che dà la massima parte del personale statale e che anche localmente, nel villaggio e nel borgo rurale, esercita la funzione di intermediario tra il contadino e l'amministrazione in generale. Nell'Italia meridionale predomina questo tipo, con tutte le sue caratteristiche: democratico nella faccia contadina, reazionario nella faccia rivolta verso il grande proprietario e il governo, politicante, corrotto, sleale; non si comprenderebbe la figura tradizionale dei partiti politici meridionali, se non si tenesse conto dei caratteri di questo strato sociale. 2. L'intellettuale meridionale esce prevalentemente da un ceto che nel Mezzogiorno è ancora notevole: il borghese rurale, cioè il piccolo e medio proprietario di terre che non è contadino, che non lavora la terra, che si vergognerebbe di fare l'agricoltore, ma che dalla poca terra che ha, data in affitto o a mezzadria semplice, vuol ricavare: di che vivere convenientemente, di che mandar all'università o in seminario i figlioli, di che far la dote alle figlie che devono sposare un ufficiale o un funzionario civile dello Stato. Da questo ceto gli intellettuali ricevono un'aspra avversione per il contadino lavoratore, considerato come macchina da lavoro che deve esser smunta fino all'osso e che può essere sostituita facilmente data la superpopolazione lavoratrice: ricavano anche il sentimento atavico e istintivo della folle paura del contadino e delle sue violenze distruggitrici e quindi un abito di ipocrisia raffinata e una raffinatissima arte di ingannare e addomesticare le masse contadine. 3. Poiché al gruppo sociale degli intellettuali appartiene il clero, occorre notare le diversità di caratteristiche tra il clero meridionale nel suo complesso e il clero settentrionale. Il prete settentrionale comunemente è il figlio di un artigiano o di un contadino; ha sentimenti democratici, è piú legato alla massa dei contadini; moralmente è piú corretto del prete meridionale, il quale spesso convive quasi apertamente con una donna, e perciò esercita un ufficio spirituale piú completo socialmente, cioè è un dirigente di tutta l'attività di una famiglia. Nel Settentrione la separazione della Chiesa dallo Stato e la espropriazione dei beni ecclesiastici è stata piú radicale che nel Mezzogiorno, dove le parrocchie e i conventi o hanno conservato o hanno ricostituito notevoli proprietà immobiliari e mobiliari. Nel Mezzogiorno il prete si presenta al contadino: 1) come un amministratore di terre col quale il contadino entra in conflitto per la quistione degli affitti; 2) come un usuraio che domanda elevatissimi tassi di interesse e fa giocare l'elemento religioso per riscuotere sicuramente o l'affitto o l'usura; 3) come un uomo sottoposto alle passioni comuni (donne e danaro) e che pertanto spiritualmente non dà affidamento di discrezione e di imparzialità. La confessione esercita perciò uno scarsissimo ufficio dirigente e il contadino meridionale, se spesso è superstizioso in senso pagano, non è clericale. Tutto questo complesso spiega il perché nel Mezzogiorno il Partito popolare (eccettuata qualche zona della Sicilia) non abbia una posizione notevole, non abbia posseduto nessuna rete di istituzioni e di organizzazioni di massa. L'atteggiamento del contadino verso il clero è riassunto nel detto popolare: «Il prete è prete sull'altare; fuori è un uomo come tutti gli altri». Il contadino meridionale è legato al grande proprietario terriero per il tramite dell'intellettuale. I movimenti dei contadini, in quanto si riassumono non in organizzazioni di massa autonome e indipendenti sia pure formalmente (cioè capaci di selezionare quadri contadini di origine contadina e di registrare e accumulare le differenziazioni e i progressi che nel movimento si realizzano) finiscono col sistemarsi sempre nelle ordinarie articolazioni dell'apparato statale - comuni, province, Camera dei deputati - attraverso composizioni e scomposizioni dei partiti locali, il cui personale è costituito di intellettuali, ma che sono controllati dai grandi proprietari e dai loro uomini di fiducia, come Salandra, Orlando, Di Cesarò. La guerra parve introdurre un elemento nuovo in questo tipo di organizzazione col movimento degli ex combattenti, nel quale i contadini-soldati e gli intellettuali-ufficiali formavano un blocco piú unito tra di loro e in una certa misura antagonistico coi grandi proprietari. Non durò a lungo e l'ultimo residuo di esso è l'Unione nazionale concepita da Amendola, che ha una larva di esistenza per il suo antifascismo; tuttavia, data la nessuna tradizione di organizzazione esplicita degli intellettuali democratici nel Mezzogiorno, anche questo aggruppamento deve essere rilevato e tenuto da conto, perché può diventare, da tenuissimo filo d'acqua, un limaccioso e gonfio torrente in mutate condizioni di politica generale. La sola regione dove il movimento degli ex combattenti assunse un profilo piú preciso e riuscí a crearsi una struttura sociale piú solida è la Sardegna. E si capisce: appunto perché in Sardegna la classe dei grandi proprietari terrieri è tenuissima, non svolge nessuna funzione e non ha le antichissime tradizioni culturali, intellettuali e governative del Mezzogiorno continentale. La spinta dal basso, esercitata dalle masse dei contadini e dei pastori non trova un contrappeso soffocante nel superiore strato sociale dei grandi proprietari: gli intellettuali dirigenti subiscono in pieno la spinta e fanno dei passi in avanti piú notevoli che l'Unione nazionale. La situazione siciliana ha caratteri differenziali molto profondi sia dalla Sardegna che dal Mezzogiorno. I grandi proprietari vi sono molto piú coesi e decisi che nel Mezzogiorno continentale; vi esiste inoltre una certa industria e un commercio molto sviluppato (la Sicilia è la piú ricca regione di tutto il Mezzogiorno e una delle piú ricche d'Italia); le classi superiori sentono moltissimo la loro importanza nella vita nazionale e la fanno pesare. La Sicilia e il Piemonte sono le due regioni che hanno dato maggior numero di dirigenti politici allo Stato italiano, sono le due regioni che hanno esercitato un ufficio preminente dal '70 in poi. Le masse popolari siciliane sono piú avanzate che nel Mezzogiorno, ma il loro progresso ha assunto una forma tipicamente siciliana; esiste un socialismo di massa siciliano che ha tutta una tradizione e uno sviluppo peculiare; nella Camera del 1922 esso contava circa 20 deputati su 52 che ne erano eletti nell'isola. Abbiamo detto che il contadino meridionale è legato al grande proprietario terriero per il tramite dell'intellettuale. Questo tipo di organizzazione è il tipo piú diffuso in tutto il Mezzogiorno continentale e in Sicilia. Esso realizza un mostruoso blocco agrario che nel suo complesso funziona da intermediario e da sorvegliante del capitalismo settentrionale e delle grandi banche. Il suo unico scopo è di conservare lo statu quo. Nel suo interno non esiste nessuna luce intellettuale, nessun programma, nessuna spinta a miglioramenti e progressi. Se qualche idea e qualche programma è stato affermato, essi hanno avuto la loro origine fuori del Mezzogiorno, nei gruppi politici agrari conservatori, specialmente della Toscana, che nel Parlamento erano consorziati ai conservatori del blocco agrario meridionale. Il Sonnino e il Franchetti furono dei pochi borghesi intelligenti che si posero il problema meridionale come problema nazionale e tracciarono un piano di governo per la sua soluzione. Quale fu il punto di vista di Sonnino e Franchetti? La necessità di creare nell'Italia meridionale uno strato medio indipendente di carattere economico che funzionasse, come allora si diceva, da «opinione pubblica» e limitasse i crudeli arbítri dei proprietari da una parte e moderasse l'insurrezionismo dei contadini poveri dall'altra. Sonnino e Franchetti erano rimasti spaventatissimi della popolarità che avevano nel Mezzogiorno le idee del bakunismo della I Internazionale. Questo spavento fece loro prendere degli abbagli spesso grotteschi. In una loro pubblicazione, per esempio, si accenna al fatto che una osteria o una trattoria popolare di un paese della Calabria (citiamo a memoria) è intitolata agli «scioperanti», per dimostrare quanto diffuse e radicali fossero le idee internazionalistiche. Il fatto, se vero (come deve essere vero, data la probità intellettuale degli autori), si spiega piú semplicemente, ricordando come nel Mezzogiorno siano numerose le colonie di albanesi e come la parola Skipetàri abbia subíto nei dialetti le deformazioni piú strane e curiose (cosí in alcuni documenti della repubblica veneta si parla di formazioni militari di «S'ciopetà»). Ora nel Mezzogiorno non tanto erano diffuse le teorie del Bakunin, quanto la situazione stessa era tale da aver probabilmente suggerito al Bakunin le sue teorie: certamente i contadini poveri meridionali pensavano allo «sfascio» molto prima che il cervello di Bakunin avesse escogitato la teoria della «pan distruzione». Il piano governativo di Sonnino e Franchetti non ebbe mai neanche l'inizio di una attuazione. E non poteva averlo. Il nodo di rapporti tra Settentrione e Mezzogiorno nell'organizzazione dell'economia nazionale e dello Stato, è tale per cui la nascita di una classe media diffusa di natura economica (ciò che significa poi la nascita di una borghesia capitalistica diffusa) è resa quasi impossibile. Ogni accumulazione di capitali sul luogo e ogni accumulazione di risparmi è resa impossibile dal sistema fiscale e doganale e dal fatto che i capitalisti proprietari di aziende non trasformano sul posto il profitto in nuovo capitale perché non sono del posto. Quando l'emigrazione assunse nel secolo XX le forme gigantesche che assunse, e le prime rimesse cominciarono ad affluire dall'America, gli economisti liberali gridarono trionfalmente: Il sogno di Sonnino si avvera. Una silenziosa rivoluzione si verifica nel Mezzogiorno, che lentamente ma sicuramente muterà tutta la struttura economica e sociale del paese. Ma lo Stato intervenne e la rivoluzione silenziosa fu soffocata nel nascere. Il governo offrí dei buoni del tesoro a interesse certo e gli emigranti e le loro famiglie da agenti della rivoluzione silenziosa si mutarono in agenti per dare allo Stato i mezzi finanziari per sussidiare le industrie parassitarie del Nord. Francesco Nitti che, nel piano democratico e formalmente fuori del blocco agrario meridionale, poteva sembrare un fattivo realizzatore del programma di Sonnino, fu invece il miglior agente del capitalismo settentrionale per rastrellare le ultime risorse del risparmio meridionale. I miliardi inghiottiti dalla Banca di sconto erano quasi tutti dovuti al Mezzogiorno: i 400.000 creditori della BIS erano in grandissima maggioranza risparmiatori meridionali. Al disopra del blocco agrario funziona nel Mezzogiorno un blocco intellettuale che praticamente ha servito finora a impedire che le screpolature del blocco agrario divenissero troppo pericolose e determinassero una frana. Esponenti di questo blocco intellettuale sono Giustino Fortunato e Benedetto Croce, i quali, perciò, possono essere giudicati come i reazionari piú operosi della penisola. Abbiamo detto che l'Italia meridionale è una grande disgregazione sociale. Questa formula oltre che ai contadini si può riferire anche agli intellettuali. È notevole il fatto che, nel Mezzogiorno, accanto alla grandissima proprietà siano esistite ed esistano grandi accumulazioni culturali e di intelligenza in singoli individui o in ristretti gruppi di grandi intellettuali, mentre non esiste una organizzazione della cultura media. Esiste nel Mezzogiorno la casa editrice Laterza e la rivista La Critica, esistono accademie e imprese culturali di grandissima erudizione; non esistono piccole e medie riviste, non esistono case editrici intorno a cui si raggruppino formazioni medie di intellettuali meridionali. I meridionali che hanno cercato di uscire dal blocco agrario e di impostare la quistione meridionale in forma radicale hanno trovato ospitalità e si sono raggruppati intorno a riviste stampate fuori del Mezzogiorno. Si può dire anzi che tutte le iniziative culturali dovute agli intellettuali medi che hanno avuto luogo nel XX secolo nell'Italia centrale e settentrionale furono caratterizzate dal meridionalismo, perché fortemente influenzate da intellettuali meridionali: tutte le riviste del gruppo di intellettuali fiorentini, Voce, Unità; le riviste dei democratici cristiani, come l'Azione di Cesena; le riviste dei giovani liberali emiliani e milanesi di G. Borelli, come la Patria di Bologna o l'Azione di Milano; infine la Rivoluzione liberale di Gobetti. Orbene: supremi moderatori politici e intellettuali di tutte queste iniziative sono stati Giustino Fortunato e Benedetto Croce. In una cerchia piú ampia di quella molto soffocante del blocco agrario, essi hanno ottenuto che la impostazione dei problemi meridionali non soverchiasse certi limiti, non diventasse rivoluzionaria. Uomini di grandissima cultura e intelligenza, sorti sul terreno tradizionale del Mezzogiorno ma legati alla cultura europea e quindi mondiale, essi avevano tutte le doti per dare una soddisfazione ai bisogni intellettuali dei piú onesti rappresentanti della gioventú colta del Mezzogiorno, per consolarne le irrequiete velleità di rivolta contro le condizioni esistenti, per indirizzarli secondo una linea media di serenità classica del pensiero e dell'azione. I cosiddetti neoprotestanti o calvinisti non hanno capito che in Italia, non potendoci essere una Riforma religiosa di massa, per le condizioni moderne della civiltà, si è verificata la sola Riforma storicamente possibile con la filosofia di Benedetto Croce: è stato mutato l'indirizzo e il metodo del pensiero, è stata costruita una nuova concezione del mondo che ha superato il cattolicismo e ogni altra religione mitologica. In questo senso Benedetto Croce ha compiuto una altissima funzione «nazionale»; ha distaccato gli intellettuali radicali del Mezzogiorno dalle masse contadine, facendoli partecipare alla cultura nazionale ed europea, e attraverso questa cultura li ha fatti assorbire dalla borghesia nazionale e quindi dal blocco agrario. L'Ordine Nuovo e i comunisti torinesi, se in un certo senso possono essere collegati alle formazioni intellettuali cui abbiamo accennato e se pertanto hanno anch'essi subíto l'influenza intellettuale di Giustino Fortunato e di Benedetto Croce, rappresentano però nello stesso tempo una rottura completa con quella tradizione e l'inizio di un nuovo svolgimento, che ha già dato dei frutti e che ancora ne darà. Essi, come è stato già detto, hanno posto il proletariato urbano come protagonista moderno della storia italiana e quindi della quistione meridionale. Avendo servito da intermediari tra il proletariato e determinati strati di intellettuali di sinistra, sono riusciti a modificare, se non completamente, certo notevolmente l'indirizzo mentale di essi. È questo l'elemento principale della figura di Piero Gobetti, se ben si riflette. Il quale non era un comunista e probabilmente non lo sarebbe mai diventato, ma aveva capito la posizione sociale e storica del proletariato e non riusciva piú a pensare astraendo da questo elemento. Gobetti, nel lavoro comune del giornale, era stato da noi posto a contatto con un mondo vivente che aveva prima conosciuto solo attraverso le formule dei libri. La sua caratteristica piú rilevante era la lealtà intellettuale e l'assenza completa di ogni vanità e piccineria di ordine inferiore: perciò non poteva non convincersi come tutta una serie di modi di vedere e di pensare tradizionali verso il proletariato erano falsi e ingiusti. Quale conseguenza ebbero in Gobetti questi contatti col mondo proletario? Essi furono l'origine e l'impulso per una concezione che non vogliamo discutere e approfondire, una concezione che in gran parte si riattacca al sindacalismo e al modo di pensare dei sindacalisti intellettuali: i princípi del liberalismo vengono in essa proiettati dall'ordine dei fenomeni individuali a quello dei fenomeni di massa. Le qualità di eccellenza e di prestigio nella vita degli individui vengono trasportate nelle classi, concepite quasi come individualità collettive. Questa concezione di solito porta negli intellettuali che la condividono alla pura contemplazione e registrazione dei meriti e dei demeriti, a una posizione odiosa e melensa di arbitri tra le contese, di assegnatori dei premi e delle punizioni. Praticamente il Gobetti sfuggí a questo destino. Egli si rivelò un organizzatore della cultura di straordinario valore ed ebbe in questo ultimo periodo una funzione che non deve essere né trascurata né sottovalutata dagli operai. Egli scavò una trincea oltre la quale non arretrarono quei gruppi di intellettuali piú onesti e sinceri che nel 1919-20-21 sentirono che il proletariato come classe dirigente sarebbe stato superiore alla borghesia. Alcuni in buona fede e onestamente, altri in cattivissima fede e disonestamente andarono ripetendo che il Gobetti era nient'altro che un comunista camuffato, un agente, se non del Partito comunista, per lo meno del gruppo comunista dell'Ordine Nuovo. Non occorre neanche smentire tali insulse dicerie. La figura del Gobetti e il movimento da lui rappresentato furono spontanee produzioni del nuovo clima storico italiano: in ciò è il loro significato e la loro importanza. Ci è stato qualche volta rimproverato da compagni di partito di non aver combattuto contro la corrente di idee di Rivoluzione liberale: questa assenza di lotta anzi sembrò la prova del collegamento organico, di carattere machiavellico (come si suol dire) tra noi e il Gobetti. Non potevamo combattere contro Gobetti perché egli svolgeva e rappresentava un movimento che non deve essere combattuto, almeno in linea di principio. Non comprendere ciò significa non comprendere la quistione degli intellettuali e la funzione che essi svolgono nella lotta delle classi. Gobetti praticamente ci serviva di collegamento: 1. Con gli intellettuali nati sul terreno della tecnica capitalistica che avevano assunto una posizione di sinistra, favorevole alla dittatura del proletariato, nel 1919-20. 2. Con una serie di intellettuali meridionali che, per collegamenti piú complessi, ponevano la quistione meridionale su un terreno diverso da quello tradizionale, introducendovi il proletariato del Nord: di questi intellettuali Guido Dorso è la figura piú completa e interessante. Perché avremmo dovuto lottare contro il movimento di Rivoluzione liberale? Forse perché esso non era costituito di comunisti puri che avessero accettato dall'A alla Z il nostro programma e la nostra dottrina? Questo non poteva essere domandato perché sarebbe stato politicamente e storicamente un paradosso. Gli intellettuali si sviluppano lentamente, molto piú lentamente di qualsiasi altro gruppo sociale, per la stessa loro natura e funzione storica. Essi rappresentano tutta la tradizione culturale di un popolo, vogliono riassumerne e sintetizzarne tutta la storia: ciò sia detto specialmente del vecchio tipo di intellettuale, dell'intellettuale nato sul terreno contadino. Pensare possibile che esso possa, come massa, rompere con tutto il passato per porsi completamente nel terreno di una nuova ideologia, è assurdo. È assurdo per gli intellettuali come massa, è forse assurdo anche per moltissimi intellettuali presi individualmente, nonostante tutti gli onesti sforzi che essi fanno e vogliono fare. Ora a noi interessano gli intellettuali come massa, e non solo come individui. È certo importante e utile per il proletariato che uno o piú intellettuali, individualmente, aderiscano al suo programma e alla sua dottrina, si confondano nel proletariato, ne diventino e se ne sentano parte integrante. Il proletariato, come classe, è povero di elementi organizzativi, non ha e non può formarsi un proprio strato di intellettuali che molto lentamente, molto faticosamente e solo dopo la conquista del potere statale. Ma è anche importante e utile che nella massa degli intellettuali si determini una frattura di carattere organico, storicamente caratterizzata: che si formi, come formazione di massa, una tendenza di sinistra, nel significato moderno della parola, cioè orientata verso il proletariato rivoluzionario. L'alleanza tra proletariato e masse contadine esige questa formazione: tanto piú l'esige l'alleanza tra il proletariato e le masse contadine del Mezzogiorno. Il proletariato distruggerà il blocco agrario meridionale nella misura in cui riuscirà, attraverso il suo Partito, ad organizzare in formazioni autonome e indipendenti sempre piú notevoli masse di contadini poveri; ma riuscirà in misura piú o meno larga in tale suo compito obbligatorio anche subordinatamente alla sua capacità di disgregare il blocco intellettuale che è l'armatura flessibile ma resistentissima del blocco agrario. Per la soluzione di questo compito il proletariato è stato aiutato da Piero Gobetti e noi pensiamo che gli amici del morto continueranno, anche senza la sua guida, l'opera intrapresa che è gigantesca e difficile, ma appunto perciò degna di tutti i sacrifizi (anche della vita, come è stato nel caso del Gobetti) da parte di quegli intellettuali (e sono molti, piú di quanto si creda) settentrionali e meridionali che hanno compreso essere essenzialmente nazionali e portatrici dell'avvenire due sole forze sociali: il proletariato e i contadini... Appendice La situazione italiana e i compiti del PCI(46) 1. La trasformazione dei partiti comunisti, nei quali si raccoglie l'avanguardia della classe operaia, in partiti bolscevichi, si può considerare, nel momento presente, come il compito fondamentale della Internazionale comunista. Questo compito deve essere posto in relazione con lo sviluppo storico del movimento operaio internazionale, e in particolare con la lotta svoltasi nell'interno di esso tra il marxismo e le correnti che costituivano una deviazione dai princípi e dalla pratica della lotta di classe rivoluzionaria. In Italia, il compito di creare un partito bolscevico assume tutto il rilievo che è necessario soltanto se si tengono presenti le vicende del movimento operaio dai suoi inizi e le deficienze fondamentali che in esso si sono rivelate. 2. La nascita del movimento operaio ebbe luogo in ogni paese in forme diverse. Di comune vi fu in ogni luogo la spontanea ribellione del proletariato contro il capitalismo. Questa ribellione assunse però in ogni nazione una forma specifica, la quale era riflesso e conseguenza delle particolari caratteristiche nazionali degli elementi che, provenendo dalla piccola borghesia e dai contadini, avevano contribuito a formare la grande massa del proletariato industriale. Il marxismo costituí l'elemento cosciente, scientifico, superiore al particolarismo delle varie tendenze di carattere e origine nazionale e condusse contro di esse una lotta nel campo teorico e nel campo della organizzazione. Tutto il processo formativo della I Internazionale ebbe come cardine questa lotta, la quale si conchiuse con la espulsione del bakuninismo dalla Internazionale. Quando la I Internazionale cessò di esistere, il marxismo aveva oramai trionfato nel movimento operaio. La II Internazionale si formò infatti di partiti i quali si richiamavano tutti al marxismo e lo prendevano come fondamento della loro tattica in tutte le questioni essenziali. Dopo la vittoria del marxismo, le tendenze di carattere nazionale delle quali esso aveva trionfato cercarono di manifestarsi per altra via, risorgendo nel seno stesso del marxismo come forme di revisionismo. Questo processo fu favorito dallo sviluppo della fase imperialistica del capitalismo. Sono strettamente connessi con questo fenomeno i seguenti tre fatti: il venir meno nelle file del movimento operaio della critica dello Stato, parte essenziale della dottrina marxista, alla quale si sostituiscono le utopie democratiche; il formarsi di un'aristocrazia operaia; un nuovo spostamento di masse dalla piccola borghesia e dai contadini al proletariato, e quindi una nuova diffusione tra il proletariato di correnti ideologiche di carattere nazionale, contrastanti col marxismo. Il processo di degenerazione della II Internazionale assunse cosí la forma di una lotta contro il marxismo che si svolgeva nell'interno del marxismo stesso. Esso culminò nello sfacelo provocato dalla guerra. Il solo partito che si salvò dalla degenerazione è il Partito bolscevico, il quale riuscí a mantenersi alla testa del movimento operaio del proprio paese, espulse dal proprio seno le tendenze antimarxiste ed elaborò, attraverso le esperienze di tre rivoluzioni, il leninismo, che è il marxismo dell'epoca del capitalismo monopolista, delle guerre imperialiste e della rivoluzione proletaria. Viene cosí storicamente determinata le posizione del partito bolscevico nella fondazione e a capo della III Internazionale, e sono posti i termini del problema della formazione di partiti bolscevichi in ogni paese: esso è il problema di richiamare l'avanguardia del proletariato alla dottrina e alla pratica del marxismo rivoluzionario, superando e liquidando completamente ogni corrente antimarxista. 3. In Italia le origini e le vicende del movimento operaio furono tali che non si costituí mai, prima della guerra, una corrente di sinistra marxista che avesse un carattere di permanenza e di continuità. Il carattere originario del movimento operaio italiano fu molto confuso; vi confluirono tendenze diverse, dall'idealismo mazziniano al generico umanitarismo dei cooperatori e dei fautori della mutualità e al bakuninismo, il quale sosteneva che esistevano in Italia, anche prima di uno sviluppo del capitalismo, le condizioni per passare immediatamente al socialismo. La tarda origine e la debolezza dell'industrialismo fecero mancare l'elemento chiarificatore dato dalla esistenza di un forte proletariato, ed ebbero come conseguenza che anche la scissione degli anarchici dai socialisti si ebbe con un ritardo di una ventina di anni (1892, Congresso di Genova). Nel Partito socialista italiano come uscí dal Congresso di Genova due erano le correnti dominanti. Da una parte vi era un gruppo di intellettuali che non rappresentavano piú della tendenza a una riforma democratica dello Stato: il loro marxismo non andava oltre il proposito di suscitare e organizzare le forze del proletariato per farle servire alla istaurazione della democrazia (Turati, Bissolati, ecc.). Dall'altra un gruppo piú direttamente collegato con il movimento proletario, rappresentante una tendenza operaia, ma sfornito di qualsiasi adeguata coscienza teorica (Lazzari). Fino al '900 il partito non si propose altri fini che di carattere democratico. Conquistata, dopo il '900, la libertà di organizzazione e iniziatasi una fase democratica, fu evidente la incapacità di tutti i gruppi che lo componevamo a dargli la fisionomia di un partito marxista del proletariato. Gli elementi intellettuali si staccarono anzi sempre piú dalla classe operaia, né ebbe un risultato il tentativo, dovuto a un altro strato di intellettuali e piccoli borghesi, di costituire una sinistra marxista che prese forma nel sindacalismo. Come reazione a questo tentativo trionfò in seno al partito la frazione integralista, la quale fu la espressione, nel suo vuoto verbalismo conciliatorista, di una caratteristica fondamentale del movimento operaio italiano, che si spiega essa pure con la debolezza dell'industrialismo, e con la deficiente coscienza critica del proletariato. Il rivoluzionarismo degli anni precedenti la guerra mantenne intatta questa caratteristica, non riuscendo mai a superare i confini del generico popolarismo per giungere alla costruzione di un partito della classe operaia e alla applicazione del metodo della lotta di classe. Nel seno di questa corrente rivoluzionaria si incominciò, già prima della guerra, a differenziare un gruppo di «estrema sinistra» il quale sosteneva le tesi del marxismo rivoluzionario, in modo saltuario però e senza riuscire ad esercitare sullo sviluppo del movimento operaio una influenza reale. In questo modo si spiega il carattere negativo ed equivoco che ebbe la opposizione del Partito socialista alla guerra e si spiega come il Partito socialista si trovasse, dopo la guerra, davanti a una situazione rivoluzionaria immediata, senza avere né risolto, né posto nessuno dei problemi fondamentali che la organizzazione politica del proletariato deve risolvere per attuare i suoi compiti: in prima linea il problema della «scelta della classe» e della forma organizzativa ad essa adeguata; poi il problema del programma del partito, quello della sua ideologia, e infine i problemi di strategia e di tattica la cui risoluzione porta a stringere attorno al proletariato le forze che gli sono naturalmente alleate nella lotta contro lo Stato e a guidarlo alla conquista del potere. La accumulazione sistematica di una esperienza che possa contribuire in modo positivo alla risoluzione di questi problemi si inizia in Italia soltanto dopo la guerra. Soltanto col Congresso di Livorno sono poste le basi costitutive del partito di classe del proletariato il quale, per diventare un partito bolscevico e attuare in pieno la sua funzione, deve liquidare tutte le tendenze antimarxiste tradizionalmente proprie del movimento operaio. Analisi della struttura sociale italiana 4. Il capitalismo è l'elemento predominante nella società italiana e la forza che prevale nel determinare lo sviluppo di essa. Da questo dato fondamentale deriva la conseguenza che non esiste in Italia possibilità di una rivoluzione che non sia la rivoluzione socialista. Nei paesi capitalistici la sola classe che può attuare una trasformazione sociale reale e profonda è la classe operaia. Soltanto la classe operaia è capace di tradurre in atto i rivolgimenti di carattere economico e politico che sono necessari perché le energie del nostro paese abbiano libertà e possibilità di sviluppo complete. Il modo come essa attuerà questa sua funzione rivoluzionaria è in relazione con il grado di sviluppo del capitalismo in Italia e con la struttura sociale che ad esso corrisponde. 5. L'industrialismo, che è la parte essenziale del capitalismo, è in Italia assai debole. Le sue possibilità di sviluppo sono limitate e per la situazione geografica e per la mancanza di materie prime. Esso non riesce quindi ad assorbire la maggioranza della popolazione italiana (4 milioni di operai industriali stanno di fronte a 3 milioni e mezzo di operai agricoli e a 4 milioni di contadini). Si oppone all'industrialismo una agricoltura la quale si presenta naturalmente come base della economia del paese. Le variatissime condizioni del suolo, e le conseguenti differenze di colture e sistemi di conduzione, provocano però una forte differenziazione dei ceti rurali, con una prevalenza degli strati poveri, piú vicini alle condizioni del proletariato e piú facili a subire la sua influenza e ad accettarne la guida. Tra le classi industriali ed agrarie si pone una piccola borghesia urbana abbastanza estesa e che ha una importanza assai grande. Essa consta in prevalenza di artigiani, professionisti e impiegati dello Stato. 6. La debolezza intrinseca del capitalismo costringe la classe industriale ad adottare degli espedienti per garantirsi il controllo sopra tutta la economia del paese. Questi espedienti si riducono in sostanza a un sistema di compromessi economici tra una parte degli industriali e una parte delle classi agricole, e precisamente i grandi proprietari di terre. Non ha quindi luogo la tradizionale lotta economica tra industriali ed agrari, né ha luogo la rotazione di gruppi dirigenti che essa determina in altri paesi. Gli industriali non hanno d'altra parte bisogno di sostenere, contro gli agrari, una politica economica la quale assicuri il continuo afflusso di mano d'opera dalle campagne alle fabbriche, perché questo afflusso è garantito dalla esuberanza di popolazione agricola povera che è caratteristica dell'Italia. L'accordo industriale-agrario si basa sopra una solidarietà di interessi tra alcuni gruppi privilegiati, ai danni degli interessi generali della produzione e della maggioranza di chi lavora. Esso determina una accumulazione di ricchezza nelle mani dei grandi industriali, che è conseguenza di una spoliazione sistematica di intiere categorie della popolazione e di intiere regioni del paese. I risultati di questa politica economica sono infatti il deficit del bilancio economico, l'arresto dello sviluppo economico di intiere regioni (Mezzogiorno, Isole), l'impedimento al sorgere e allo svilupparsi di una economia maggiormente adatta alla struttura del paese e alle sue risorse, la miseria crescente della popolazione lavoratrice, l'esistenza di una continua corrente di emigrazione e il conseguente impoverimento demografico. 7. Come non controlla naturalmente tutta la economia cosí la classe industriale non riesce a organizzare da sola la società intiera e lo Stato. La costruzione di uno Stato nazionale non le è resa possibile che dallo sfruttamento di fattori di politica internazionale (cosiddetto Risorgimento). Per il rafforzamento di esso e per la sua difesa è necessario il compromesso con le classi sulle quali la industria esercita una egemonia limitata, particolarmente gli agrari e la piccola borghesia. Di qui una eterogeneità e una debolezza di tutta la struttura sociale e dello Stato che ne è la espressione. 7 bis. Un riflesso della debolezza della struttura sociale si ha, in modo tipico, prima della guerra, nell'esercito. Una cerchia ristretta di ufficiali, sforniti del prestigio di capi (vecchie classi dirigenti agrarie, nuove classi industriali), ha sotto di sé una casta di ufficiali subalterni burocratizzata (piccola borghesia), la quale è incapace di servire come collegamento con la massa dei soldati indisciplinata e abbandonata a se stessa. Nella guerra tutto l'esercito è costretto a riorganizzarsi dal basso, dopo una eliminazione dei gradi superiori e una trasformazione di struttura organizzativa che corrisponde all'avvento di una nuova categoria di ufficiali subalterni. Questo fenomeno precorre l'analogo rivolgimento che il fascismo compirà nei confronti con lo Stato su scala piú vasta. 8. I rapporti tra industria e agricoltura, che sono essenziali per la vita economica di un paese e per la determinazione delle sovrastrutture politiche, hanno in Italia una base territoriale. Nel Settentrione sono accentrate in alcuni grandi centri la produzione e la popolazione agricola. In conseguenza di ciò, tutti i contrasti inerenti alla struttura sociale del paese contengono in sé un elemento che tocca la unità dello Stato e la mette in pericolo. La soluzione del problema viene cercata dai gruppi dirigenti borghesi e agrari attraverso un compromesso. Nessuno di questi gruppi possiede naturalmente un carattere unitario e una funzione unitaria. Il compromesso col quale l'unità viene salvata è d'altra parte tale da rendere piú grave la situazione. Esso dà alle popolazioni lavoratrici del Mezzogiorno una posizione analoga a quella delle popolazioni coloniali. La grande industria del Nord adempie verso di esse la funzione delle metropoli capitalistiche, i grandi proprietari di terre e la stessa media borghesia meridionale si pongono invece nella situazione delle categorie che nelle colonie si alleano alla metropoli per mantenere soggetta la massa del popolo che lavora. Lo sfruttamento economico e la oppressione politica si uniscono quindi per fare della popolazione lavoratrice del Mezzogiorno una forza continuamente mobilitata contro lo Stato. 9. Il proletariato ha in Italia una importanza superiore a quella che ha in altri paesi europei anche il capitalismo piú progredito, paragonabile solo a quella che aveva nella Russia prima della rivoluzione. Ciò è in relazione anzitutto con il fatto che per la scarsezza di materie prime la industria si basa a preferenza sulla mano d'opera (maestranze specializzate), indi con la eterogeneità e con i contrasti di interessi che indeboliscono le classi dirigenti. Di fronte a questa eterogeneità il proletariato si presenta come l'unico elemento che per la sua natura ha una funzione unificatrice e coordinatrice di tutta la società. Il suo programma di classe è il solo programma «unitario», cioè il solo la cui attuazione non porta ad approfondire i contrasti tra i diversi elementi della economia e della società e non porta a spezzare la unità dello Stato. Accanto al proletariato industriale inoltre esiste una grande massa di proletari agricoli, accentrata soprattutto nella Valle del Po, facilmente influenzata dagli operai della industria e quindi agevolmente mobilitabile nella lotta contro il capitalismo e lo Stato. Si ha in Italia una conferma della tesi che le piú favorevoli condizioni per la rivoluzione proletaria non si hanno necessariamente sempre nei paesi dove il capitalismo e l'industrialismo sono giunti al piú alto grado del loro sviluppo, ma si possono invece aver là dove il tessuto del sistema capitalistico offre minori resistenze, per le sue debolezze di struttura, a un attacco della classe rivoluzionaria e dei suoi alleati. La politica della borghesia italiana 10. Lo scopo che le classi dirigenti italiane si proposero di raggiungere dalle origini dello Stato unitario in poi, fu quello di tenere soggette le grandi masse della popolazione lavoratrice, e impedire loro di diventare, organizzandosi intorno al proletariato industriale e agricolo, una forza rivoluzionaria capace di attuare un completo rivolgimento sociale e politico e dare vita a uno Stato proletario. La debolezza intrinseca del capitalismo le costrinse però a porre come base dell'ordinamento economico e dello Stato borghese una unità ottenuta per via di compromessi tra gruppi non omogenei. In una vasta prospettiva storica questo sistema si dimostra non adeguato allo scopo cui tende. Ogni forma di compromesso fra i diversi gruppi dirigenti la società italiana si risolve infatti in un ostacolo posto allo sviluppo dell'una o dell'altra parte della economia del paese. Cosí vengono determinati nuovi contrasti e nuove reazioni della maggioranza della popolazione, si rende necessario accentuare la pressione sopra le masse e si produce una spinta sempre piú decisiva alla mobilitazione di esse per la rivolta contro lo Stato. 11. Il primo periodo di vita dello Stato italiano (1870-90) è quello della maggiore sua debolezza. Le due parti di cui si compone la classe dirigente, gli intellettuali borghesi da una parte e i capitalisti dall'altra, sono uniti nel proposito di mantenere l'unità, ma divisi circa la forma da dare allo Stato unitario. Manca tra di esse una omogeneità positiva. I problemi che lo Stato si propone sono limitati; essi riguardano piuttosto la forma che la sostanza del dominio politico della borghesia; sovrasta a tutti il problema del pareggio, che è un problema di pura conservazione. La coscienza della necessità di allargare la base delle classi che dirigono lo Stato si ha soltanto con gli inizi del «trasformismo». La maggiore debolezza dello Stato è data in questo periodo dal fatto che al di fuori di esso il Vaticano raccoglie attorno a sé un blocco reazionario e antistatale costituito dagli agrari e dalla grande massa dei contadini arretrati, controllati e diretti dai ricchi proprietari e dai preti. Il programma del Vaticano consta di due parti: esso vuole lottare contro lo Stato borghese unitario e «liberale» e in pari tempo si propone di costituire, con i contadini, un esercito di riserva contro l'avanzata del proletariato socialista, che sarà provocata dallo sviluppo della industria. Lo Stato reagisce al sabotaggio che il Vaticano compie ai suoi danni e si ha tutta una legislazione di contenuto e di scopi anticlericali. 12. Nel periodo che corre dal 1890 al 1900 la borghesia si pone risolutamente il problema di organizzare la propria dittatura e lo risolve con una serie di provvedimenti di carattere politico ed economico da cui è determinata la successiva storia italiana. Anzitutto si risolve il dissidio tra la borghesia intellettuale e gli industriali: l'avvento del potere di Crispi ne è il segno. La borghesia cosí rafforzata risolve la questione dei suoi rapporti con l'estero (Triplice alleanza) acquistando una sicurezza che le permette dei tentativi di piazzarsi nel campo della concorrenza internazionale per la conquista di mercati coloniali. All'interno la dittatura borghese si istaura politicamente con una restrizione del diritto di voto che riduce il corpo elettorale a poco piú di un milione di elettori su 30 milioni di abitanti. Nel campo economico l'introduzione del protezionismo industriale-agrario corrisponde al proposito del capitalismo di acquistare il controllo di tutta la ricchezza nazionale. Viene a mezzo di esso saldata una alleanza tra gli industriali e gli agrari. Questa alleanza strappa al Vaticano una parte delle forze che esso aveva raccolto attorno a sé, soprattutto tra i proprietari di terre del Mezzogiorno, e le fa entrare nel quadro dello Stato borghese. Il Vaticano stesso avverte del resto la necessità di dare maggiore rilievo alla parte del suo programma reazionario che riguarda la resistenza al movimento operaio e prende posizione contro il socialismo con la enciclica Rerum Novarum. Al pericolo che il Vaticano continua però a rappresentare per lo Stato le classi dirigenti reagiscono dandosi una organizzazione unitaria con un programma anticlericale, nella massoneria. I primi progressi reali del movimento operaio si hanno infatti in questo periodo. L'instaurazione della dittatura industriale-agraria pone nei suoi termini reali il problema della rivoluzione determinando i fattori storici di essa. Sorge nel Nord un proletariato industriale e agricolo, mentre nel Sud la popolazione agricola, sottoposta a un sistema di sfruttamento «coloniale», deve essere tenuta soggetta con una compressione politica sempre piú forte. I termini della «questione meridionale» vengono posti, in questo periodo, in modo netto. E spontaneamente, senza l'intervento di un fattore cosciente e senza nemmeno che il Partito socialista tragga da questo fatto una indicazione per la sua strategia di partito della classe operaia, si verifica in questo periodo per la prima volta il confluire dei tentativi insurrezionali del proletariato settentrionale, con una rivolta di contadini meridionali (fasci siciliani). 13. Spezzati i primi tentativi del proletariato e dei contadini di insorgere contro lo Stato, la borghesia italiana consolidata può adottare, per ostacolare i progressi del movimento operaio, i metodi esteriori della democrazia e quelli della corruzione politica verso la parte piú avanzata della popolazione lavoratrice (aristocrazia operaia) per renderla complice della dittatura reazionaria che essa continua ad esercitare, e impedirle di diventare il centro della insurrezione popolare contro lo Stato (giolittismo). Si ha però, tra il 1900 ed il 1910, una fase di concentrazione industriale ed agraria. Il proletariato agricolo cresce del 50 per cento a danno delle categorie degli obbligati, mezzadri e fittavoli. Di qui una ondata di movimenti agricoli, e un nuovo orientamento dei contadini che costringe lo stesso Vaticano a reagire con la fondazione dell'«Azione cattolica» e con un movimento «sociale» che giunge, nelle sue forme estreme, fino ad assumere le parvenze di una riforma religiosa (modernismo). A questa reazione del Vaticano per non lasciarsi sfuggire le masse corrisponde l'accordo dei cattolici con le classi dirigenti per dare allo Stato una base piú sicura (abolizione del non expedit, patto Gentiloni). Anche verso la fine di questo terzo periodo (1914) i diversi movimenti parziali del proletariato e dei contadini culminano in un nuovo inconscio tentativo di saldatura delle diverse forze di massa antistatali in una insurrezione contro lo Stato reazionario. Da questo tentativo viene già posto con sufficiente rilievo il problema che apparirà in tutta la sua ampiezza nel dopoguerra: cioè il problema della necessità che il proletariato organizzi, nel suo seno, un partito di classe che gli dia la capacità di porsi a capo della insurrezione e di guidarla. 14. Il massimo di concentrazione economica nel campo industriale si ha nel dopoguerra. Il proletariato raggiunge il piú alto grado di organizzazione e ad esso corrisponde il massimo di disgregazione delle classi dirigenti e dello Stato. Tutte le contraddizioni insite nell'organismo sociale italiano affiorano con la massima crudezza per il risveglio delle masse anche piú arretrate alla vita politica provocato dalla guerra e dalle sue conseguenze immediate. E, come sempre, l'avanzata degli operai dell'industria e dell'agricoltura si accompagna a una agitazione profonda delle masse dei contadini, sia del Mezzogiorno che delle altre regioni. I grandi scioperi e la occupazione delle fabbriche si svolgono contemporaneamente alla occupazione delle terre. La resistenza delle forze reazionarie si esercita ancora secondo la direzione tradizionale. Il Vaticano consente che accanto all'«Azione cattolica» si formi un vero e proprio partito, il quale si propone di inserire le masse contadine entro il quadro dello Stato borghese apparentemente accontentando le loro aspirazioni di redenzione economica e di democrazia politica. Le classi dirigenti a loro volta attuano in grande stile il piano di corruzione e disgregazione interna del movimento operaio, facendo apparire ai capi opportunisti la possibilità che una aristocrazia operaia collabori al governo in un tentativo di soluzione «riformista» del problema dello Stato (governo di sinistra). Ma in un paese povero e disunito come l'Italia, l'affacciarsi di una soluzione «riformista» del problema dello Stato provoca inevitabilmente la disgregazione della compagine statale e sociale, la quale non resiste all'urto dei numerosi gruppi in cui le stesse classi dirigenti e le classi intermedie si polverizzano. Ogni gruppo ha esigenze di protezione economica e di autonomia politica sue proprie, e, nell'assenza di un omogeneo nucleo di classe che sappia imporre, con la sua dittatura, una disciplina di lavoro e di produzione a tutto il paese, sbaragliando ed eliminando gli sfruttatori capitalisti ed agrari, il governo viene reso impossibile e la crisi del potere è continuamente aperta. La sconfitta del proletariato rivoluzionario è dovuta, in questo periodo decisivo, alle deficienze politiche, organizzative, tattiche e strategiche del partito dei lavoratori. In conseguenza di queste deficienze il proletariato non riesce a mettersi a capo dell'insurrezione della grande maggioranza della popolazione e a farla sboccare nella creazione di uno Stato operaio; esso stesso subisce invece l'influenza di altre classi sociali che ne paralizzano l'azione. La vittoria del fascismo nel 1922 deve essere considerata quindi non come una vittoria riportata sulla rivoluzione, ma come la conseguenza della sconfitta toccata alle forze rivoluzionarie per loro intrinseco difetto. Il fascismo e la sua politica 15. Il fascismo, come movimento di reazione armata che si propone lo scopo di disgregare e di disorganizzare la classe lavoratrice per immobilizzarla, rientra nel quadro della politica tradizionale delle classi dirigenti italiane, e nella lotta del capitalismo contro la classe operaia. Esso è perciò favorito nelle sue origini, nella sua organizzazione e nel suo cammino da tutti indistintamente i vecchi gruppi dirigenti, a preferenza però dagli agrari i quali sentono piú minacciosa la pressione delle plebi rurali. Socialmente però il fascismo trova la sua base nella piccola borghesia urbana e in una nuova borghesia agraria sorta da una trasformazione della proprietà rurale in alcune regioni (fenomeni di capitalismo agrario nell'Emilia, origine di una categoria di intermediari di campagna, «borse della terra», nuove ripartizioni di terreni). Questo fatto e il fatto di aver trovato una unità ideologica e organizzativa nelle formazioni militari in cui rivive la tradizione della guerra (arditismo) e che servono alla guerriglia contro i lavoratori, permettono al fascismo di concepire ed attuare un piano di conquista dello Stato in contrapposizione ai vecchi ceti dirigenti. Assurdo parlare di rivoluzione. Le nuove categorie che si raccolgono attorno al fascismo traggono però dalla loro origine una omogeneità e una comune mentalità di «capitalismo nascente». Ciò spiega come sia possibile la lotta contro gli uomini politici del passato e come esse possano giustificarla con una costruzione ideologica in contrasto con le teorie tradizionali dello Stato e dei suoi rapporti con i cittadini. Nella sostanza il fascismo modifica il programma di conservazione e di reazione che ha sempre dominato la politica italiana soltanto per un diverso modo di concepire il processo di unificazione delle forze reazionarie. Alla tattica degli accordi e dei compromessi esso sostituisce il proposito di realizzare una unità organica di tutte le forze della borghesia in un solo organismo politico sotto il controllo di una unica centrale che dovrebbe dirigere insieme il partito, il governo e lo Stato. Questo proposito corrisponde alla volontà di resistere a fondo ad ogni attacco rivoluzionario, il che permette al fascismo di raccogliere le adesioni della parte piú decisamente reazionaria della borghesia industriale e degli agrari. 16. Il metodo fascista di difesa dell'ordine, della proprietà e dello Stato è, ancora piú del sistema tradizionale dei compromessi e della politica di sinistra, disgregatore della compagine sociale e delle sue sovrastrutture politiche. Le reazioni che esso provoca devono essere esaminate in relazione alla sua applicazione sia nel campo economico che nel campo politico. Nel campo politico, anzitutto, l'unità organica della borghesia nel fascismo non si realizza immediatamente dopo la conquista del potere. Al di fuori del fascismo rimangono i centri di una opposizione borghese al regime. Da una parte non viene assorbito il gruppo che tiene fede alla soluzione giolittiana del problema dello Stato. Questo gruppo si collega a una sezione della borghesia industriale e, con un programma di riformismo «laburista», esercita influenza sopra strati di operai e piccoli borghesi. Dall'altra parte il programma di fondare lo Stato sopra una democrazia rurale del Mezzogiorno e sopra la parte «sana» della industria settentrionale (Corriere della sera, liberismo, Nitti) tende a diventare programma di una organizzazione politica di opposizione al fascismo con basi di massa nel Mezzogiorno (Unione nazionale). Il fascismo è costretto a lottare contro questi gruppi superstiti molto vivacemente e a lottare con vivacità anche maggiore contro la massoneria, che esso considera giustamente come centro di organizzazione di tutte le tradizionali forze di sostegno dello Stato. Questa lotta, che è, volere o no, l'indizio di una spezzatura nel blocco delle forze conservatrici e antiproletarie, può in determinate circostanze favorire lo sviluppo e l'affermazione del proletariato come terzo e decisivo fattore di una situazione politica. Nel campo economico il fascismo agisce come strumento di una oligarchia industriale e agraria per accentrare nelle mani del capitalismo il controllo di tutte le ricchezze del paese. Ciò non può fare a meno di provocare un malcontento nella piccola borghesia la quale, con l'avvento del fascismo, credeva giunta l'era del suo dominio. Tutta una serie di misure viene adottata dal fascismo per favorire una nuova concentrazione industriale (abolizione della imposta di successione, politica finanziaria e fiscale, inasprimento del protezionismo), e ad esse corrispondono altre misure a favore degli agrari e contro i piccoli e medi coltivatori (imposte, dazio sul grano, «battaglia del grano»). L'accumulazione che queste misure determinano non è un accrescimento di ricchezza nazionale, ma è spoliazione di una classe a favore di un'altra, e cioè delle classi lavoratrici e medie a favore della plutocrazia. Il disegno di favorire la plutocrazia appare sfacciatamente nel progetto di legalizzare nel nuovo codice di commercio il regime delle azioni privilegiate, un piccolo pugno di finanzieri viene, in questo modo, posto in condizioni di poter disporre senza controllo di ingenti masse di risparmio provenienti dalla media e piccola borghesia e queste categorie sono espropriate del diritto di disporre della loro ricchezza. Nello stesso piano, ma con conseguenze politiche piú vaste, rientra il progetto di unificazione delle banche di emissione, cioè, in pratica, di soppressione delle due grandi banche meridionali. Queste due banche adempiono oggi la funzione di assorbire i risparmi del Mezzogiorno e le rimesse degli emigranti (600 milioni), cioè la funzione che nel passato adempivano lo Stato con la emissione di buoni del tesoro e la Banca di sconto nell'interesse di una parte dell'industria pesante del Nord. Le banche meridionali sono state controllate fino ad ora dalle stesse classi dirigenti del Mezzogiorno, le quali hanno trovato in questo controllo una base reale del loro dominio politico. La soppressione delle banche meridionali come banche di emissione farà passare questa funzione alla grande industria del Nord che controlla, attraverso la Banca commerciale, la Banca d'Italia e verrà in questo modo accentuato lo sfruttamento economico «coloniale» e l'impoverimento del Mezzogiorno, nonché accelerato il lento processo di distacco dallo Stato anche della piccola borghesia meridionale. La politica economica del fascismo si completa con i provvedimenti intesi a rialzare il corso della moneta, a risanare il bilancio dello Stato, a pagare i debiti di guerra e a favorire l'intervento del capitale inglese-americano in Italia. In tutti questi campi il fascismo attua il programma della plutocrazia (Nitti) e di una minoranza industriale-agraria ai danni della grande maggioranza della popolazione le cui condizioni di vita sono progressivamente peggiorate. Coronamento di tutta la propaganda ideologica, dell'azione politica ed economica del fascismo è la tendenza di esso all'«imperialismo». Questa tendenza è la espressione del bisogno sentito dalle classi dirigenti industriali-agrarie italiane di trovare fuori del campo nazionale gli elementi per la risoluzione della crisi della società italiana. Sono in essa i germi di una guerra che verrà combattuta, in apparenza, per l'espansione italiana ma nella quale in realtà l'Italia fascista sarà uno strumento nelle mani di uno dei gruppi imperialisti che si contendono il dominio del mondo. 17. Si determinano, in conseguenza della politica del fascismo, profonde reazioni delle masse. Il fenomeno piú grave è il distacco sempre piú deciso delle popolazioni agrarie del Mezzogiorno e delle Isole dal sistema di forze che reggono lo Stato. La vecchia classe dirigente locale (Orlando, Di Cesarò, De Nicola, ecc.) non esercita piú in modo sistematico la sua funzione di anello di congiunzione con lo Stato. La piccola borghesia tende quindi ad avvicinarsi ai contadini. Il sistema di sfruttamento e di oppressione delle masse meridionali è portato dal fascismo all'estremo; questo facilita la radicalizzazione anche delle categorie intermedie e pone la questione meridionale nei suoi veri termini, come questione che sarà risolta soltanto dalla insurrezione dei contadini alleati del proletariato nella lotta contro i capitalisti e contro gli agrari. Anche i contadini medi e poveri delle altre parti d'Italia acquistano una funzione rivoluzionaria, (benché in modo piú lento. Il Vaticano - la cui funzione reazionaria è stata assunta dal fascismo - non controlla piú le popolazioni rurali in modo completo attraverso i preti, l'«Azione cattolica» e il Partito Popolare. Vi è una parte dei contadini, la quale è stata risvegliata alle lotte per la difesa dei suoi interessi dalle stesse organizzazioni autorizzate e dirette dalle autorità ecclesiastiche, ed ora, sotto la pressione economica e politica del fascismo, accentua il proprio orientamento di classe e incomincia a sentire che le sue sorti non sono separabili da quelle della classe operaia. Indizio di questa tendenza è il fenomeno Miglioli. Un sintomo assai interessante di essa è anche il fatto che le organizzazioni bianche, le quali, essendo una parte dell'«Azione cattolica», fanno capo direttamente al Vaticano, hanno dovuto entrare nei comitati intersindacali con le Leghe rosse, espressione di quel periodo proletario che i cattolici indicavano fin dal 1870 come imminente alla società italiana. Quanto al proletariato, l'attività disgregatrice delle sue forze trova un limite nella resistenza attiva della avanguardia rivoluzionaria e in una resistenza passiva della grande massa, la quale rimane fondamentalmente classista e accenna a rimettersi in movimento non appena si rallenta la pressione fisica del fascismo e si fanno piú forti gli stimoli dell'interesse di classe. Il tentativo di portare nel suo seno la scissione con i sindacati fascisti, si può considerare fallito. I sindacati fascisti, mutando il loro programma, diventano ora strumenti diretti di compressione reazionaria al servizio dello Stato. 18. Ai pericolosi spostamenti e ai nuovi reclutamenti di forze che sono provocati dalla sua politica il fascismo reagisce facendo gravare su tutta la società il peso di una forza militare e un sistema di compressione il quale tiene la popolazione inchiodata al fatto meccanico della produzione senza possibilità di avere una vita propria, di manifestare una propria volontà e di organizzarsi per la difese dei propri interessi. La cosiddetta legislazione fascista non ha altro scopo che quello di consolidare e rendere permanente questo sistema. La nuova legge elettorale politica, le modificazioni dell'ordinamento amministrativo con la introduzione del podestà per i comuni di campagna, ecc., vorrebbero segnare la fine della partecipazione delle masse alla vita politica e amministrativa del paese. Il controllo sulle associazioni impedisce ogni forma permanente «legale» di organizzazione delle masse. La nuova politica sindacale toglie alla Confederazione del lavoro e ai sindacati di classe la possibilità di concludere dei concordati per escluderli dal contatto con le masse che si erano organizzate attorno ad essi. La stampa proletaria viene soppressa. Il partito di classe del proletariato ridotto alla vita pienamente illegale. Le violenze fisiche e le persecuzioni di polizia sono adoperate sistematicamente, soprattutto nelle campagne, per incutere il terrore e mantenere una situazione da stato d'assedio. Il risultato di questa complessa attività di reazione e di compressione è lo squilibrio tra il rapporto reale delle forze sociali è il rapporto delle forze organizzate, per cui a un apparente ritorno alla normalità e alla stabilità corrisponde una acutizzazione di contrasti pronti a prorompere ad ogni istante per nuove vie. 18 bis. La crisi seguita al delitto Matteotti ha fornito un esempio della possibilità che l'apparente stabilità del regime fascista sia turbata dalle basi per il prorompere improvviso di contrasti economici e politici approfonditisi senza che fossero avvertiti. Essa ha in pari tempo fornito la prova della incapacità della piccola borghesia a guidare ad un esito, nell'attuale periodo storico, la lotta contro la reazione industriale-agraria. Forze motrici e prospettive della rivoluzione 19. Le forze motrici della rivoluzione italiana, come risulta oramai dalla nostra analisi sono, in ordine alla loro importanza, le seguenti: 1) la classe operaia e il proletario agricolo; 2) i contadini del Mezzogiorno e delle Isole e i contadini delle altre parti d'Italia. Lo sviluppo e la rapidità del processo rivoluzionario non sono prevedibili al di fuori di una valutazione di elementi soggettivi: cioè dalla misura in cui la classe operaia riuscirà ad acquistare una propria figura politica, una coscienza di classe decisa e una indipendenza da tutte le altre classi, dalla misura in cui essa riuscirà a organizzare le sue forze, cioè a esercitare di fatto un'azione di guida degli altri fattori e in prima linea a concretare politicamente la sua alleanza con i contadini. Si può affermare in linea generale, e basandosi del resto sulla esperienza italiana, che dal periodo della preparazione rivoluzionaria si entrerà in un periodo rivoluzionario «immediato» quando il proletariato industriale e agricolo del settentrione sarà riuscito a riacquistare, per lo svolgimento della situazione oggettiva e attraverso una serie di lotte particolari e immediate, un alto grado di organizzazione e di combattività. Quanto ai contadini, quelli del Mezzogiorno e delle Isole devono essere posti in prima linea tra le forze su cui deve contare la insurrezione contro la dittatura industriale-agraria, per quanto non si debba attribuir loro, all'infuori di una alleanza col proletariato, una importanza risolutiva. L'alleanza tra essi e gli operai è il risultato di un processo storico naturale e profondo, favorito da tutte le vicende dello Stato italiano. Per i contadini delle altre parti d'Italia il processo di orientamento verso l'alleanza col proletariato è piú lento e dovrà essere favorito da una attenta azione politica del partito del proletariato. I successi già ottenuti in Italia in questo campo indicano del resto che il problema di rompere l'alleanza dei contadini con le forze reazionarie deve essere posto, per gran parte, anche in altri paesi dell'Europa occidentale, come problema di distruggere la influenza della organizzazione cattolica sulle masse rurali. 20. Gli ostacoli allo sviluppo della rivoluzione, oltre che dati dalla pressione fascista, sono in relazione con la varietà dei gruppi in cui la borghesia si divide. Ognuno di questi gruppi si sforza di esercitare una influenza sopra una sezione della popolazione lavoratrice per impedire che si estenda la influenza del proletariato, o sul proletariato stesso per fargli perdere la sua figura e autonomia di classe rivoluzionaria. Si costituisce in questo modo una catena di forze reazionarie, la quale partendo dal fascismo comprende i gruppi antifascisti che non hanno grandi basi di massa (liberali), quelli che hanno una base nei contadini e nella piccola borghesia (democratici, combattenti, popolari, repubblicani), e in parte anche negli operai (partito riformista), e quelli che avendo una base proletaria tendono a mantenere le masse operaie in una condizione di passività e far loro seguire la politica di altre classi (partito massimalista). Anche il gruppo che dirige la Confederazione del lavoro deve essere considerato a questa stregua, cioè come il veicolo di una influenza disgregatrice di altre classi sopra i lavoratori. Ognuno dei gruppi che abbiamo indicati tiene legata a sé una parte della popolazione lavoratrice italiana. La modificazione di questo stato di cose è soltanto concepibile come conseguenza di una sistematica e ininterrotta azione politica della avanguardia proletaria organizzata nel Partito comunista. Una particolare attenzione deve essere data ai gruppi e partiti i quali hanno una base di massa, o cercano di formarsela come partiti democratici o come partiti regionali, nella popolazione agricola del Mezzogiorno e delle Isole (Unione nazionale, partiti d'azione sardo, molisano, irpino, ecc.). Questi partiti non esercitano una influenza diretta sul proletariato, ma sono un ostacolo alla realizzazione della alleanza tra operai e contadini. Orientando le classi agricole del Mezzogiorno verso una democrazia rurale e verso soluzioni democratiche regionali, essi spezzano l'unità del processo di liberazione della popolazione lavoratrice italiana, impediscono ai contadini di condurre a un esito la loro lotta contro lo sfruttamento economico e politico della borghesia e degli agrari, e preparano la trasformazione di essi in guardia bianca della reazione. Il successo politico della classe operaia è anche in questo campo in relazione con l'azione politica del partito del proletariato. 21. La possibilità di un abbattimento del regime fascista per una azione di gruppi antifascisti sedicenti democratici esisterebbe solo se questi gruppi riuscissero, neutralizzando l'azione del proletariato, a controllare un movimento di masse fino a poterne frenare gli sviluppi. La funzione della opposizione borghese democratica è invece quella di collaborare col fascismo nell'impedire la riorganizzazione della classe operaia e la realizzazione del suo programma di classe. In questo senso un compromesso tra fascismo e opposizione borghese è in atto e ispirerà la politica di ogni formazione di «centro» che sorga dai rottami dell'Aventino. La opposizione potrà tornare ad essere protagonista dell'azione di difesa del regime capitalista solo quando la stessa compressione fascista piú non riuscirà a impedire lo scatenamento dei conflitti di classe, e il pericolo di una insurrezione di proletari e della sua saldatura con una guerra di contadini apparirà grave e imminente. La possibilità di ricorso della borghesia e del fascismo stesso al sistema della reazione celata dalla apparenza di un «governo di sinistra» deve quindi essere continuamente presente nelle nostre prospettive (divisione di funzioni tra fascismo e democrazia, Tesi del V Congresso mondiale). 22. Da questa analisi dei fattori della rivoluzione e delle sue prospettive si deducono i compiti del Partito comunista. Ad essa devono essere collegati i criteri della sua attività organizzativa e quelli della sua azione politica. Da essa discendono le linee direttive e fondamentali del suo programma. Compiti fondamentali del Partito comunista 23. Dopo aver resistito vittoriosamente alla ondata reazionaria che voleva sommergerlo (1923), dopo aver contribuito con la propria azione a segnare un primo punto di arresto nel processo di dispersione delle forze lavoratrici (elezioni del 1924), dopo aver approfittato della crisi Matteotti per riorganizzare una avanguardia proletaria che si è opposta con notevole successo al tentativo di istaurare un predominio piccolo-borghese nella vita politica (Aventino) e aver poste le basi di una reale politica contadina del proletariato italiano, il partito si trova oggi nella fase della preparazione politica della rivoluzione. Il suo compito fondamentale può essere indicato da questi tre punti: 1) organizzare e unificare il proletariato industriale e agricolo per la rivoluzione; 2) organizzare e mobilitare attorno al proletariato tutte le forze necessarie per la vittoria rivoluzionaria e per la fondazione dello Stato operaio; 3) porre al proletariato e ai suoi alleati il problema della insurrezione contro lo Stato borghese e della lotta per la dittatura proletaria e guidarli politicamente e materialmente alla soluzione di esso attraverso una serie di lotte parziali. La costruzione del Partito comunista come partito «bolscevico» 24. La organizzazione della avanguardia proletaria in Partito comunista è la parte essenziale della nostra attività organizzativa. Gli operai italiani hanno appreso dalla loro esperienza (1919-20) che ove manchi la guida di un Partito comunista costruito come partito della classe operaia e come partito della rivoluzione, non è possibile un esito vittorioso della lotta per l'abbattimento del regime capitalistico. La costruzione di un Partito comunista che sia di fatto il partito della classe operaia e il partito della rivoluzione, - che sia cioè, un partito «bolscevico», - è in connessione diretta con i seguenti punti fondamentali: 1) la ideologia del partito; 2) la forma della organizzazione, e la sua compattezza; 3) la capacità di funzionare a contatto con la massa; 4) la capacità strategica e tattica. Ognuno di questi punti è collegato strettamente con gli altri e non potrebbe, a rigore di logica, essere separato. Ognuno di essi infatti indica e comprende una serie di problemi le cui soluzioni interferiscono e si sovrappongono. L'esame separato di essi sarà utile soltanto quando si tenga presente che nessuno può venire risolto senza che tutti siano impostati e condotti di pari passo ad una soluzione. La ideologia del partito 25. Unità ideologica completa è necessaria al Partito comunista per poter adempiere in ogni momento la sua funzione di guida della classe operaia. L'unità ideologica è elemento della forza del partito e della sua capacità politica, essa è indispensabile per farlo diventare un partito bolscevico. Base della unità ideologica è la dottrina del marxismo e del leninismo, inteso quest'ultimo come la dottrina marxista adeguata ai problemi del periodo dell'imperialismo e dell'inizio della rivoluzione proletaria (Tesi sulla bolscevizzazione dell'Esecutivo allargato dell'aprile 1925, nn. IV e VI). Il Partito comunista d'Italia ha formato la sua ideologia nella lotta contro la socialdemocrazia (riformisti) e contro il centrismo politico rappresentato dal Partito massimalista. Esso non trova però nella storia del movimento operaio italiano una vigorosa e continua corrente di pensiero marxista cui richiamarsi. Manca inoltre nelle sue file una profonda e diffusa conoscenza delle teorie del marxismo e del leninismo. Sono quindi possibili le deviazioni. L'innalzamento del livello ideologico del partito deve essere ottenuto con una sistematica attività interna la quale si proponga di portare tutti i membri ad avere una completa consapevolezza dei fini immediati del movimento rivoluzionario, una certa capacità di analisi marxista delle situazioni e una correlativa capacità di orientamento politico (scuola di partito). È da respingere una concezione la quale affermi che i fattori di coscienza e di maturità rivoluzionaria, i quali costituiscono la ideologia, si possano realizzare nel partito senza che siansi realizzati in un vasto numero dei singoli che lo compongono. 26. Nonostante le origini da una lotta contro degenerazioni di destra e centriste del movimento operaio, il pericolo di deviazioni di destra è presente nel Partito comunista d'Italia. Nel campo teorico esso è rappresentato dai tentativi di revisione del marxismo fatti dal compagno Graziadei sotto la veste di una precisazione «scientifica» di alcuni dei concetti fondamentali della dottrina di Marx. I tentativi di Graziadei non possono certo portare alla creazione di una corrente e quindi di una frazione che metta in pericolo la unità ideologica e la compattezza del partito. È però implicito in essi un appoggio a correnti e deviazioni politiche di destra. Ad ogni modo essi indicano la necessità che il partito compia un profondo studio del marxismo e acquisti una coscienza teorica piú alta e piú sicura. Il pericolo che si crei una tendenza di destra è collegato con la situazione generale del paese. La compressione stessa che il fascismo esercita tende ad alimentare la opinione che essendo il proletariato nella impossibilità di rapidamente rovesciare il regime, sia miglior tattica quella che porti, se non a un blocco borghese-proletario per la eliminazione costituzionale del fascismo, a una passività della avanguardia rivoluzionaria, a un non-intervento attivo del Partito comunista nella lotta politica immediata, onde permettere alla borghesia di servirsi del proletariato come massa di manovra elettorale contro il fascismo. Questo programma si presenta con la formula che il Partito comunista deve essere «l'ala sinistra» di una opposizione di tutte le forze che cospirano all'abbattimento del regime fascista. Esso è la espressione di un profondo pessimismo circa le capacità rivoluzionarie della classe lavoratrice. Lo stesso pessimismo e le stesse deviazioni conducono a interpretare in modo errato la natura e la funzione storica dei partiti socialdemocratici nel momento attuale, a dimenticare che la socialdemocrazia sebbene abbia ancora la sua base sociale, per gran parte, nel proletariato per quanto riguarda la sua ideologia e la funzione politica cui adempie, deve essere considerata non come un'ala destra del movimento operaio, ma come un'ala sinistra della borghesia e come tale deve essere smascherata davanti alle masse. Il pericolo di destra deve essere combattuto con la propaganda ideologica, col contrapporre al programma di destra il programma rivoluzionario della classe operaia e del suo partito, e con mezzi disciplinari ordinari ogni qualvolta la necessità lo richieda. 27. Legato con le origini del partito e con la situazione generale del paese è parimenti il pericolo di deviazione di sinistra dalla ideologia marxista e leninista. Esso è rappresentato dalla tendenza estremista che fa capo al compagno Bordiga. Questa tendenza si formò nella particolare situazione di disgregazione e incapacità programmatica, organizzativa, strategica e tattica in cui si trovò il Partito socialista italiano dalla fine della guerra al Congresso di Livorno: la sua origine e la sua fortuna sono inoltre in relazione col fatto che, essendo la classe operaia una minoranza nella popolazione lavoratrice italiana, è continuo il pericolo che il suo partito sia corrotto da infiltrazioni di altre classi, e in particolare della piccola borghesia. A questa condizione della classe operaia e alla situazione del Partito socialista italiano la tendenza di estrema sinistra reagí con una particolare ideologia, cioè con una concezione della natura del partito, della sua funzione e della sua tattica che è in contrasto con quella del marxismo e del leninismo: a) dall'estrema sinistra il partito viene definito, trascurando o sottovalutando il suo contenuto sociale, come un «organo» della classe operaia, che si costituisce per sintesi di elementi eterogenei. Il partito deve invece essere definito mettendo in rilievo anzitutto il fatto che esso è una «parte» della classe operaia. L'errore nella definizione del partito porta a impostare in modo errato i problemi organizzativi e i problemi di tattica; b) per la estrema sinistra la funzione del partito non è quella di guidare in ogni momento la classe sforzandosi di restare in contatto con essa attraverso qualsiasi mutamento di situazione oggettiva, ma di elaborare dei quadri preparati a guidare la massa quando lo svolgimento delle situazioni l'avrà portata al partito, facendole accettare le posizioni programmatiche e di principio da esso fissate; c) per quanto riguarda la tattica, l'estrema sinistra sostiene che essa non deve venire determinata in relazione con le situazioni oggettive e con la posizione delle masse in modo che essa aderisca sempre alla realtà e fornisca un continuo contatto con gli strati piú vasti della popolazione lavoratrice, ma deve essere determinata in base a preoccupazioni formalistiche. È propria dell'estremismo la concezione che le deviazioni dai princípi della politica comunista non vengono evitate con la costruzione di partiti «bolscevichi» i quali siano capaci di compiere, senza deviare, ogni azione politica che è richiesta per la mobilitazione delle masse e per la vittoria rivoluzionaria, ma possono essere evitate soltanto col porre alla tattica limiti rigidi e formali di carattere esteriore (nel campo organizzativo: «adesione individuale», cioè rifiuto delle «fusioni», le quali possono invece essere sempre, in condizioni determinate, efficacissimo mezzo di estensione della influenza del partito; nel campo politico: travisamento dei termini del problema della conquista della maggioranza, fronte unico sindacale e non politico, nessuna diversità nel modo di lottare contro la democrazia a seconda del grado di adesione delle masse a formazioni democratiche controrivoluzionarie e della imminenza e gravità di un pericolo reazionario, rifiuto della parola d'ordine del governo operaio e contadino). All'esame delle situazioni dei movimenti di massa si ricorre quindi solo per il controllo della linea dedotta in base a preoccupazioni formalistiche e settarie: viene perciò sempre a mancare, nella determinazione della politica del partito, l'elemento particolare; la unità e completezza di visione che è propria del nostro metodo di indagine politica (dialettica) è spezzata; l'attività del partito e le sue parole d'ordine perdono efficacia e valore rimanendo attività e parole di semplice propaganda. È inevitabile, come conseguenza di queste posizioni, la passività politica del partito. Di essa l'«astensionismo» fu nel passato un aspetto. Ciò permette di avvicinare l'estremismo di sinistra al massimalismo e alle deviazioni di destra. Esso è inoltre, come le tendenze di destra, espressione di uno scetticismo sulla possibilità che la massa operaia organizzi dal suo seno un partito di classe il quale sia capace di guidare la grande massa sforzandosi di tenerla in ogni momento collegata a sé. La lotta ideologica contro l'estremismo di sinistra deve essere condotta contrapponendogli la concezione marxista e leninista del partito del proletariato come partito di massa e dimostrando la necessità che esso adatti la sua tattica alle situazioni per poterle modificare, per non perdere il contatto con le masse e per acquistare sempre nuove zone d'influenza. L'estremismo di sinistra fu la ideologia ufficiale del partito italiano nel primo periodo della sua esistenza. Esso è sostenuto da compagni che furono tra i fondatori del partito e dettero un grandissimo contributo alla sua costruzione dopo Livorno. Vi sono quindi motivi per spiegare come questa concezione sia stata a lungo radicata nella maggioranza dei compagni anche senza che fosse da essi valutata criticamente in modo completo, ma piuttosto come conseguenza di uno stato d'animo diffuso. È evidente perciò che il pericolo di estrema sinistra deve essere considerato come una realtà immediata, come un ostacolo non solo alla unificazione ed elevazione ideologica, ma allo sviluppo politico del partito e alla efficacia della sua azione. Esso deve essere combattuto come tale, non solo con la propaganda, ma con una azione politica ed eventualmente con misure organizzative. 28. Elemento della ideologia del partito è il grado di spirito internazionalista che è penetrato nelle sue file. Esso è assai forte tra di noi come spirito di solidarietà internazionale, ma non altrettanto come coscienza di appartenere ad un partito mondiale. Contribuisce a questa debolezza la tendenza a presentare la concezione di estrema sinistra come una concezione nazionale («originalità» e valore «storico» delle posizioni della «sinistra italiana») la quale si oppone alla concezione marxista e leninista della Internazionale comunista e cerca di sostituirsi ad essa. Di qui l'origine di una specie di «patriottismo di partito», che rifugge dall'inquadrarsi in una organizzazione mondiale secondo i princípi che sono propri di questa organizzazione (rifiuti di cariche, lotta di frazione internazionale, ecc.). Questa debolezza di spirito internazionalista offre il terreno ad una ripercussione nel partito della campagna che la borghesia conduce contro la Internazionale comunista qualificandola come organo dello Stato russo. Alcune delle tesi di estrema sinistra a questo proposito si collegano a tesi abituali dei partiti controrivoluzionari. Esse devono venir combattute con estremo vigore, con una propaganda che dimostri come storicamente spetti al partito russo una funzione predominante e direttiva nella costruzione di una Internazionale comunista e quale è la posizione dello Stato operaio russo - prima ed unica reale conquista della classe operaia nella lotta per il potere - nei confronti del movimento operaio internazionale (Tesi sulla situazione internazionale). La base dell'organizzazione del partito 29. Tutti i problemi di organizzazione sono problemi politici. La soluzione di essi deve rendere possibile al partito di attuare il suo compito fondamentale, di far acquistare al proletariato una completa indipendenza politica, di dargli una fisionomia, una personalità, una coscienza rivoluzionaria precisa, di impedire ogni infiltrazione e influenza disgregatrice di classi ed elementi, i quali pur avendo interessi contrari al capitalismo non vogliono condurre la lotta contro di esso fino alle sue conseguenze ultime. In prima linea è un problema politico: quello della base della organizzazione. La organizzazione del partito deve essere costruita sulla base della produzione e quindi del luogo di lavoro (cellule). Questo principio è essenziale per la creazione di un partito «bolscevico». Esso dipende dal fatto che il partito deve essere attrezzato per dirigere il movimento di massa della classe operaia, la quale viene naturalmente unificata dallo sviluppo del capitalismo secondo il processo della produzione. Ponendo la base organizzativa nel luogo della produzione il partito compie un atto di scelta della classe sulla quale esso si basa. Esso proclama di essere un partito di classe e il partito di una sola classe, la classe operaia. Tutte le obiezioni al principio che pone la organizzazione del partito sulla base della produzione partono da concezioni che sono legate a classi estranee al proletariato, anche se sono presentate da compagni e gruppi che si dicono di «estrema sinistra». Esse si basano sopra una considerazione pessimista delle capacità rivoluzionarie dell'operaio e dell'operaio comunista, e sono espressione dello spirito antiproletario del piccolo borghese intellettuale, il quale crede di essere il sale della terra e vede nell'operaio lo strumento materiale dello sconvolgimento sociale e non il protagonista cosciente e intelligente della rivoluzione. Si riproducono nel partito italiano a proposito delle cellule la discussione e il contrasto che portarono in Russia alla scissione tra bolscevichi e menscevichi a proposito del medesimo problema della scelta della classe, del carattere di classe del partito e del modo di adesione al partito di elementi non proletari. Questo fatto ha del resto, in relazione con la situazione italiana, una importanza notevole. È la stessa struttura sociale e sono le condizioni e le tradizioni della lotta politica quelle che rendono in Italia assai piú serio che altrove il pericolo di edificare il partito in base a una «sintesi» di elementi eterogenei, cioè di aprire in essi la via alla influenza paralizzatrice di altre classi. Si tratta di un pericolo che sarà inoltre reso sempre piú grave dalla stessa politica del fascismo, che spingerà sul terreno rivoluzionario intieri strati della piccola borghesia. È certo che il Partito comunista non può essere solo un partito di operai. La classe operaia e il suo partito non possono fare a meno degli intellettuali né possono ignorare il problema di raccogliere intorno a sé e guidare tutti gli elementi che per una via o per un'altra sono spinti alla rivolta contro il capitalismo. Cosí pure il Partito comunista non può chiudere le porte ai contadini: esso deve anzi avere nel suo seno dei contadini e servirsi di essi per stringere il legame politico tra il proletariato e le classi rurali. Ma è da respingere energicamente, come controrivoluzionaria, ogni concezione che faccia del partito una «sintesi» di elementi eterogenei, invece di sostenere senza concessioni di sorta che esso è una parte del proletariato, che il proletariato deve dargli la impronta della organizzazione che gli è propria e che al proletariato deve essere garantita nel partito stesso una funzione direttiva. 30. Non hanno consistenza le obiezioni pratiche alla organizzazione sulla base della produzione (cellule), secondo le quali questa struttura organizzativa non permetterebbe di superare la concorrenza tra diverse categorie di operai e darebbe il partito in balia al funzionarismo. La pratica del movimento di fabbrica (1919-20) ha dimostrato che solo una organizzazione aderente al luogo e al sistema della produzione permette di stabilire un contatto tra gli strati superiori e gli strati inferiori della massa lavoratrice (qualificati, non qualificati e manovali) e di creare vincoli di solidarietà che tolgono le basi ad ogni fenomeno di «aristocrazia operaia». La organizzazione per cellule porta alla formazione nel partito di uno strato assai vasto di elementi dirigenti (segretari di cellula, membri dei comitati di cellula, ecc.), i quali sono parte della massa e rimangono in essa pure esercitando funzioni direttive, a differenza dei segretari delle sezioni territoriali i quali erano di necessità elementi staccati dalla massa lavoratrice. Il partito deve dedicare una cura particolare alla educazione di questi compagni che formano il tessuto connettivo della organizzazione e sono lo strumento del collegamento con le masse. Da qualsiasi punto di vista venga considerata, la trasformazione della struttura sulla base della produzione rimane compito fondamentale del partito nel momento presente e mezzo per la soluzione dei piú importanti suoi problemi. Si deve insistere in essa e intensificare tutto il lavoro ideologico e pratico che ad essa è relativo. Compattezza della organizzazione del partito. Frazionismo 31. La organizzazione di un partito bolscevico deve essere, in ogni momento della vita del partito, una organizzazione centralizzata, diretta dal Comitato centrale non solo a parole, ma nei fatti. Una disciplina proletaria di ferro deve regnare nelle sue file. Questo non vuol dire che il partito debba essere retto dall'alto con sistemi autocratici. Tanto il Comitato centrale quanto gli organi inferiori di direzione sono formati in base a una elezione e in base a una scelta di elementi capaci compiuta attraverso la prova del lavoro e la esperienza del movimento. Questo secondo elemento garantisce che i criteri per la formazione dei gruppi dirigenti locali e del gruppo dirigente centrale non siano meccanici, esteriori e «parlamentari», ma corrispondano a un processo reale di formazione di una avanguardia proletaria omogenea e collegata con la massa. Il principio della elezione degli organi dirigenti - democrazia interna - non è assoluto, ma relativo alle condizioni della lotta politica. Anche quando esso subisca limitazioni, gli organi centrali e periferici devono sempre considerare il loro potere non come sovrapposto, ma come sgorgante dalla volontà del partito, e sforzarsi di accentuare il loro carattere proletario e di moltiplicare i loro legami con la massa dei compagni e con la classe operaia. Quest'ultima necessità è particolarmente sentita in Italia, dove la reazione costrinse e costringe tuttora ad una forte limitazione della democrazia interna. La democrazia interna è pure relativa al grado di capacità politica posseduta dagli organi periferici e dai singoli compagni che lavorano alla periferia. L'azione che il centro esercita per accrescere questa capacità rende possibile una estensione dei sistemi «democratici» e una riduzione sempre piú grande del sistema della «cooptazione» e degli interventi dall'alto per regolare le questioni organizzative locali. 32. La centralizzazione e la compattezza del partito esigono che non esistano nel suo seno gruppi organizzati i quali assumano carattere di frazione. Un partito bolscevico si differenzia per questo profondamente dai partiti socialdemocratici i quali comprendono una grande varietà di gruppi e nei quali la lotta di frazioni è la forma normale di elaborazione delle direttive politiche e di selezione dei gruppi dirigenti. I partiti e la Internazionale comunista sono sorti in seguito ad una lotta di frazioni svoltasi nel seno della II Internazionale. Costituendosi come partiti e come organizzazione mondiale del proletariato essi hanno eletto a norma della loro vita interna e del loro sviluppo non piú la lotta di frazioni, ma la collaborazione organica di tutte le tendenze attraverso la partecipazione agli organi dirigenti. La esistenza e la lotta di frazioni sono infatti inconcepibili con la essenza del partito del proletariato, di cui spezzano la unità aprendo la via alla influenza di altre classi. Questo non vuol dire che nel partito non possano sorgere tendenze e che le tendenze talora non cerchino di organizzarsi in frazioni, ma vuol dire che contro quest'ultima eventualità si deve lottare energicamente per ridurre i contrasti di tendenze, le elaborazioni di pensiero e la selezione dei dirigenti alla forma che è propria dei partiti comunisti, cioè a un processo di svolgimento reale e unitario (dialettico) e non a una controversia e a lotte di carattere «parlamentare». 33. La esperienza del movimento operaio, fallito in seguito alla impotenza del PSI, per la lotta delle frazioni e per il fatto che ogni frazione faceva, indipendentemente dal partito, la sua politica, paralizzando l'azione delle altre frazioni e quella del partito intiero, questa esperienza offre un buon terreno per creare e mantenere la compattezza e la centralizzazione che devono esser propri di un partito bolscevico. Tra i diversi gruppi da cui il Partito comunista d'Italia ha tratto origine sussiste qualche differenziazione, che deve scomparire con un approfondimento della comune ideologia marxista e leninista. Solo tra i seguaci della ideologia antimarxista di estrema sinistra si sono mantenute a lungo una omogeneità e una solidarietà di carattere frazionistico. Dal frazionismo larvato si è anzi fatto il tentativo di passare alla lotta aperta di frazione, con la costituzione del cosiddetto «Comitato d'intesa». La profondità con cui il partito reagí a questo insano tentativo di scindere le sue forze dà affidamento sicuro che cadrà nel vuoto, in questo campo, ogni tentativo per farci ritornare alle consuetudini della socialdemocrazia. Il pericolo di un frazionismo esiste in una certa misura anche per la fusione con i terzinternazionalisti del Partito socialista. I terzinternazionalisti non hanno una loro ideologia in comune, ma sussistono tra loro dei legami di carattere essenzialmente corporativo, creatisi nei due anni di vita come frazione in seno al PSI: questi legami sono andati sempre piú allentandosi e non sarà difficile eliminarli totalmente. La lotta contro il frazionismo deve essere anzitutto propaganda di giusti princípi organizzativi, ma essa non avrà successo sino a che il partito italiano non potrà nuovamente considerare la discussione dei problemi attuali suoi e della Internazionale come fatto normale, e orientare le sue tendenze in relazione a questi problemi. Il funzionamento della organizzazione del partito 34. Un partito bolscevico deve essere organizzato in modo da poter funzionare, in qualsiasi condizione, a contatto con la massa. Questo principio assume la piú grande importanza tra di noi, per la compressione che il fascismo esercita allo scopo di impedire che i rapporti di forze reali si traducano in rapporti di forze organizzate. Soltanto con la massima concentrazione e intensità della attività del partito si può riuscire a neutralizzare almeno in parte questo fattore negativo e ad ottenere che esso non intralci profondamente il processo della rivoluzione. Devono essere perciò presi in considerazione: a) il numero degli iscritti e la loro capacità politica; essi devono essere tanti da permettere una continua estensione della nostra influenza. È da combattere la tendenza a tenere artificialmente ristretti i quadri: essa porta alla passività, alla atrofia. Ogni iscritto però deve essere un elemento politicamente attivo, capace di diffondere la influenza del partito, e tradurre quotidianamente in atto le direttive di esso, guidando una parte della massa lavoratrice; b) la utilizzazione di tutti i compagni in un lavoro pratico; c) il coordinamento unitario delle diverse specie di attività a mezzo di comitati nei quali si articola tutto il partito come organo di lavoro tra le masse; d) il funzionamento collegiale degli organi centrali del partito, considerato come condizione per la costituzione di un gruppo dirigente «bolscevico» omogeneo e compatto; e) la capacità dei compagni di lavorare tra le masse, di essere continuamente presenti tra di esse, di essere in prima fila in tutte le lotte, di sapere in ogni occasione assumere e tenere la posizione che è propria dell'avanguardia del proletariato. Si insiste su questo punto perché la necessità del lavoro sotterraneo e la errata ideologia di «estrema sinistra» hanno prodotto una limitazione della capacità di lavoro tra le masse e con le masse; f) la capacità degli organismi periferici e dei singoli compagni di affrontare situazioni imprevedute e di prendere atteggiamenti esatti anche prima che giungano disposizioni dagli organismi superiori. È da combattere la forma di passività, residuo essa pure delle false concezioni organizzative dell'estremismo, che consiste nel sapere solo «attendere gli ordini dall'alto». Il partito deve avere alla base una sua «iniziativa», cioè gli organi di base devono saper reagire immediatamente ad ogni situazione imprevista e improvvisa. g) la capacità di compiere un lavoro «sotterraneo» (illegale) e di difendere il partito dalla reazione di ogni sorta senza perdere il contatto con le masse, ma facendo servire come difesa il contatto stesso con i piú vasti strati della classe lavoratrice. Nella situazione attuale una difesa del partito e del suo apparato che sia ottenuta riducendosi ad esplicare una attività di semplice «organizzazione interna» è da considerare come un abbandono della causa della rivoluzione. Ognuno di questi punti è da considerare con attenzione perché indica insieme un difetto del partito e un progresso che gli si deve far compiere. Essi hanno tanto maggiore importanza in quanto è da prevedere che i colpi della reazione indeboliranno ancora l'apparato di collegamento tra il centro e la periferia, per quanto grandi siano gli sforzi per mantenerlo intatto. Strategia e tattica del partito 35. La capacità strategica e tattica del partito è la capacità di organizzare e unificare attorno all'avanguardia proletaria e alla classe operaia tutte le forze necessarie alla vittoria rivoluzionaria e di guidarle di fatto verso la rivoluzione approfittando delle situazioni oggettive e degli spostamenti di forze che esse provocano sia tra la popolazione lavoratrice che tra i nemici della classe operaia. Con la strategia e con la sua tattica il partito «dirige la classe operaia» nei grandi movimenti storici e nelle sue lotte quotidiane. L'una direzione è legata all'altra ed è condizionata dall'altra. 36. Il principio che il partito dirige la classe operaia non deve essere interpretato in modo meccanico. Non bisogna credere che il partito possa dirigere la classe operaia per una imposizione autoritaria esterna; questo non è vero né per il periodo che precede né per il periodo che segue la conquista del potere. L'errore di una interpretazione meccanica di questo principio deve essere combattuto nel partito italiano come una possibile conseguenza delle deviazioni ideologiche di estrema sinistra; queste deviazioni portano infatti a una arbitraria sopravvalutazione formale del partito per ciò che riguarda la funzione di guida della classe. Noi affermiamo che la capacità di dirigere la classe è in relazione non al fatto che il partito si «proclami» l'organo rivoluzionario di essa, ma al fatto che esso «effettivamente» riesca, come una parte della classe operaia, a collegarsi con tutte le sezioni della classe stessa e a imprimere alla massa un movimento nella direzione desiderata e favorita dalle condizioni oggettive. Solo come conseguenza della sua azione tra le masse il partito potrà ottenere che esse lo riconoscano come il «loro» partito (conquista della maggioranza), e solo quando questa condizione si è realizzata esso può presumere di poter trascinare dietro a sé la classe operaia. Le esigenze di questa azione tra le masse sono superiori a ogni «patriottismo» di partito. 37. Il partito dirige la classe penetrando in tutte le organizzazioni in cui la massa lavoratrice si raccoglie e compiendo in esse e attraverso di esse una sistematica mobilitazione di energie secondo il programma della lotta di classe e un'azione di conquista della maggioranza alle direttive comuniste. Le organizzazioni in cui il partito lavora e che tendono per loro natura a incorporare tutta la massa operaia non possono mai sostituire il Partito comunista, che è la organizzazione politica dei rivoluzionari, cioè dell'avanguardia del proletariato. Cosí è escluso un rapporto di subordinazione, e di «eguaglianza» tra le organizzazioni di massa e il partito (patto sindacale di Stoccarda, patto di alleanza tra il Partito socialista italiano e la Confederazione generale del lavoro). Il rapporto tra sindacati e partito è uno speciale rapporto di direzione che si realizza mediante la attività che i comunisti esplicano in seno ai sindacati. I comunisti si organizzano in frazione nei sindacati e in tutte le formazioni di massa e partecipano in prima fila alla vita di queste formazioni e alle lotte che esse conducono, sostenendovi il programma e le parole d'ordine del loro partito. Ogni tendenza a estraniarsi dalla vita delle organizzazioni, qualunque esse siano, in cui è possibile prendere contatto con le masse lavoratrici, è da combattere come pericolosa deviazione, indizio di pessimismo e sorgente di passività. 38. Organi specifici di raccoglimento delle masse lavoratrici sono nei paesi capitalistici i sindacati. L'azione nei sindacati è da considerare come essenziale per il raggiungimento dei fini del partito. Il partito che rinuncia alla lotta per esercitare la sua influenza nei sindacati e per conquistarne la direzione, rinuncia di fatto alla conquista della massa operaia e alla lotta rivoluzionaria per il potere. In Italia l'azione nei sindacati assume una particolare importanza perché consente di lavorare con intensità piú grande e con risultati migliori a quella riorganizzazione del proletariato industriale e agricolo che deve ridargli una posizione di predominio nei confronti con le altre classi sociali. La compressione fascista e specialmente la nuova politica sindacale del fascismo creano però una condizione di cose del tutto particolare. La Confederazione del lavoro e i sindacati di classe si vedono tolta la possibilità di svolgere, nelle forme tradizionali, una attività di organizzazione e di difesa economica. Essi tendono a ridursi a semplici uffici di propaganda. In parti tempo però la classe operaia, sotto l'impulso della situazione oggettiva, è spinta a riordinare le proprie forze secondo nuove forme di organizzazione. Il partito deve quindi riuscire a compiere una azione di difesa del sindacato di classe e di rivendicazioni della sua libertà, e in pari tempo deve secondare e stimolare la tendenza alla creazione di organismi rappresentativi di massa i quali aderiscano al sistema della produzione. Paralizzata l'attività del sindacato di classe, la difesa dell'interesse immediato dei lavoratori tende a compiersi attraverso uno spezzettamento della resistenza e della lotta per officine, per categorie, per reparti di lavoro, ecc. Il Partito comunista deve saper seguire tutte queste lotte ed esercitare una vera e propria direzione di esse, impedendo che in esse vada smarrito il carattere unitario e rivoluzionario dei contrasti di classe, sfruttandole anzi per favorire la mobilitazione di tutto il proletariato e la organizzazione di esso sopra un fronte di combattimento (Tesi sindacali). 39. Il partito dirige e unifica la classe operaia partecipando a tutte le lotte di carattere parziale, e formulando e agitando un programma di rivendicazioni di immediato interesse per la classe lavoratrice. Le azioni parziali e limitate sono da esso considerate come momenti necessari per giungere alla mobilitazione progressiva e alla unificazione di tutte le forze della classe lavoratrice. Il partito combatte la concezione secondo la quale ci si dovrebbe astenere dall'appoggiare o dal prendere parte ad azioni parziali perché i problemi interessanti la classe lavoratrice sono risolubili solo con l'abbattimento del regime capitalista e con una azione generale di tutte le forze anticapitalistiche. Esso è consapevole della impossibilità che le condizioni dei lavoratori siano migliorare in modo serio e durevole, nel periodo dell'imperialismo e prima che il regime capitalista sia stato abbattuto. L'agitazione di un programma di rivendicazioni immediate e l'appoggio alle lotte parziali è però il solo modo col quale si possa giungere alle grandi masse e mobilitarle contro il capitale. D'altra parte ogni agitazione o vittoria di categorie operaie nel campo delle rivendicazioni immediate rende piú acuta la crisi del capitalismo, e ne accelera anche soggettivamente la caduta in quanto sposta l'instabile equilibrio economico sul quale esso oggi basa il suo potere. Il Partito comunista lega ogni rivendicazione immediata a un obbiettivo rivoluzionario, si serve di ogni lotta parziale per insegnare alle masse la necessità dell'azione generale, della insurrezione contro il dominio reazionario del capitale, e cerca di ottenere che ogni lotta di carattere limitato sia preparata e diretta cosí da poter condurre alla mobilitazione e unificazione delle forze proletarie, e non alla loro dispersione. Esso sostiene queste sue concezioni nell'interno delle organizzazioni di massa cui spetta la direzione dei movimenti parziali, o nei confronti dei partiti politici che ne prendono la iniziativa, oppure le fa valere prendendo esso la iniziativa di proporre le azioni parziali, sia in seno a organizzazioni di massa, sia ad altri partiti (tattica di fronte unico). In ogni caso si serve della esperienza del movimento e dell'esito delle sue proposte per accrescere la sua influenza, dimostrando con i fatti che il suo programma di azione è il solo rispondente agli interessi delle masse e alla situazione oggettiva, e per portare sopra una posizione piú avanzata una sezione arretrata della classe lavoratrice. La iniziativa diretta del Partito comunista per una azione parziale, può aver luogo quando esso controlla attraverso organismi di massa una parte notevole della classe lavoratrice, o quando sia sicuro che una sua parola d'ordine diretta sia seguita egualmente da una parte notevole della classe lavoratrice. Il partito non prenderà però questa iniziativa se non quando, in relazione con la situazione oggettiva, essa porti a uno spostamento a suo favore dei rapporti di forza, e rappresenti un passo in avanti nella unificazione e mobilitazione della classe sul terreno rivoluzionario. È escluso che una azione violenta di individui o di gruppi possa servire a strappare dalla passività le masse operaie quando il partito non sia collegato profondamente con esse. In particolare la attività dei gruppi armati, anche come reazione alla violenza fisica dei fascisti, ha valore solo in quanto si collega con una reazione delle masse o riesce a suscitarla e prepararla acquistando nel campo della mobilitazione di forze materiali lo stesso valore che hanno gli scioperi e le agitazioni economiche particolari per la mobilitazione generale delle energie dei lavoratori in difesa dei loro interessi di classe. 39 bis. È un errore il ritenere che le rivendicazioni immediate e le azioni parziali possano avere solamente carattere economico. Poiché, con l'approfondirsi della crisi del capitalismo, le classi dirigenti capitalistiche e agrarie sono costrette, per mantenere il loro potere, a limitare e sopprimere le libertà di organizzazione e politiche del proletariato, la rivendicazione di queste libertà offre un ottimo terreno per agitazioni e lotte parziali, le quali possono giungere alla mobilitazione di vasti strati della popolazione lavoratrice. Tutta la legislazione con la quale i fascisti sopprimono, in Italia, anche le piú elementari libertà della classe operaia, deve quindi fornire al Partito comunista motivi per l'agitazione e mobilitazione delle masse. Sarà compito del Partito comunista collegare ognuna delle parole d'ordine che esso lancerà in questo campo con le direttive generali della sua azione: in particolare con la pratica dimostrazione della impossibilità che il regime instaurato dal fascismo subisca radicali limitazioni e trasformazioni in senso «liberale» e «democratico» senza che sia scatenata contro il fascismo una lotta di masse, la quale dovrà inesorabilmente sboccare nella guerra civile. Questa convinzione deve diffondersi nelle masse nella misura in cui noi riusciremo, collegando le rivendicazioni parziali di carattere politico con quelle di carattere economico, a trasformare i movimenti «rivoluzionari democratici» in movimenti rivoluzionari operai e socialisti. Particolarmente questo dovrà essere ottenuto per quanto riguarda l'agitazione contro la monarchia. La monarchia è uno dei puntelli del regime fascista; essa è la forma statale del fascismo italiano. La mobilitazione antimonarchica delle masse della popolazione italiana è uno degli scopi che il Partito comunista deve proporre. Essa servirà efficacemente a smascherare alcuni dei gruppi sedicenti antifascisti già coalizzati nell'Aventino. Essa deve però sempre essere condotta insieme con l'agitazione e con la lotta contro gli altri pilastri fondamentali del regime fascista, che sono la plutocrazia industriale e gli agrari. Nell'agitazione antimonarchica il problema della forma dello Stato sarà inoltre presentato dal Partito comunista in connessione continua con il problema del contenuto di classe che i comunisti intendono dare allo Stato. Nel recente passato (giugno 1925) la connessione di questi problemi venne ottenuta dal partito ponendo a base di una sua azione politica le parole d'ordine: «Assemblea repubblicana sulla base dei Comitati operai e contadini; controllo operaio sull'industria; terra ai contadini». 40. Il compito di unificare le forze del proletariato e di tutta la classe lavoratrice sopra un terreno di lotta è la parte «positiva» della tattica del fronte unico ed è in Italia, nelle circostanze attuali, compito fondamentale del partito. I comunisti devono considerare la unità della classe lavoratrice come un risultato concreto, reale, da ottenere, per impedire al capitalismo l'attuazione del suo piano di disgregare in modo permanente il proletariato e di rendere impossibile ogni lotta rivoluzionaria. Essi devono saper lavorare in tutti i modi per raggiungere questo scopo e soprattutto devono rendersi capaci di avvicinare gli operai di altri partiti e senza partito superando ostilità e incomprensioni fuori di luogo, e presentandosi in ogni caso come i fautori dell'unità della classe nella lotta per la sua difesa e per la sua liberazione. Il «fronte unico» di lotta antifascista e anticapitalista che i comunisti si sforzano di creare deve tendere a essere un fronte unito organizzato, cioè a fondarsi sopra organismi attorno ai quali tutta la massa trovi una forma e si raccolga. Tali sono gli organismi rappresentativi che le masse stesse oggi hanno la tendenza a costituire, a partire dalle officine, e in occasione di ogni agitazione, dopo che le possibilità di funzionamento normale dei sindacati hanno incominciato a essere limitate. I comunisti devono rendersi conto di questa tendenza delle masse e saperla stimolare, sviluppando gli elementi positivi che essa contiene e combattendo le deviazioni particolaristiche cui essa può dare luogo. La cosa deve essere considerata senza feticismi per una determinata forma di organizzazione, tenendo presente che lo scopo nostro fondamentale è di ottenere una mobilitazione e una unità organica sempre piú vasta di forze. Per raggiungere questo scopo occorre sapersi adattare a tutti i terreni che ci sono offerti dalla realtà, sfruttare tutti i motivi di agitazione, insistere sopra l'una o sopra l'altra forma di organizzazione a seconda della necessità e a seconda delle possibilità di sviluppo di ognuna di esse (Tesi sindacali: capitoli relativi alle commissioni interne, ai comitati di agitazione, alle conferenze di fabbriche). 41. La parola d'ordine dei comitati operai e contadini deve essere considerata come formula riassuntiva di tutta l'azione del partito in quanto essa si propone di creare un fronte unico organizzato della classe lavoratrice. I comitati operai e contadini sono organi di unità della classe lavoratrice mobilitata sia per una lotta di carattere immediato che per azioni politiche di piú largo sviluppo. La parola d'ordine della creazione di comitati operai e contadini è quindi una parola d'ordine di attuazione immediata per tutti quei casi in cui il partito riesce con la sua attività a mobilitare una sezione della classe lavoratrice abbastanza estesa (piú di una sola fabbrica, piú di una sola categoria in una località), ma essa è in pari tempo una soluzione politica e una parola di agitazione adeguata a tutto un periodo della vita e della azione del partito. Essa rende evidente e concreta la necessità che i lavoratori organizzino le loro forze e le contrappongano di fatto a quelle di tutti i gruppi di origine e natura borghese, al fine di poter diventare elemento determinante e preponderante della situazione politica. 42. La tattica del fronte unico come azione politica (manovra) destinata a smascherare partiti e gruppi sedicenti proletari e rivoluzionari aventi una base di massa, è strettamente collegata col problema della direzione delle masse da parte del Partito comunista e col problema della conquista della maggioranza. Nella forma in cui è stata definita dai congressi mondiali essa è applicabile in tutti i casi in cui, per l'adesione delle masse ai gruppi che noi combattiamo, la lotta frontale contro di essi non sia sufficiente a darci i risultati rapidi e profondi. Il successo di questa tattica è legato alla misura in cui essa è preceduta o si accompagna ad una effettiva opera di unificazione e di mobilitazione di masse ottenuta dal partito con una azione dal basso. In Italia la tattica del fronte unico deve continuare ad essere adottata dal partito nella misura in cui esso è ancora lontano dall'aver conquistato una influenza decisiva sulla maggioranza della classe operaia e della popolazione lavoratrice. Le particolari condizioni italiane assicurano la vitalità di formazioni politiche intermedie, basate sopra l'equivoco e favorite dalla passività di una parte della massa (massimalisti, repubblicani, unitari). Una formazione di questo genere sarà il gruppo di centro che assai probabilmente sorgerà dallo sfacelo dell'Aventino. Non è possibile lottare a pieno contro il pericolo che queste formazioni rappresentano se non con la tattica del fronte unico. Ma non bisogna contare di poter aver successi se non in relazione al lavoro che contemporaneamente si sarà fatto per strappare le masse alla passività. 42 bis. Il problema del Partito massimalista deve essere considerato alla stregua del problema di tutte le altre formazioni intermedie che il Partito comunista combatte come ostacolo alla preparazione rivoluzionaria del proletariato e verso le quali adotta, a seconda delle circostanze, la tattica del fronte unico. È certo che in alcune zone il problema della conquista della maggioranza è per noi legato specificamente al problema di distruggere la influenza del PSI e del suo giornale. I capi del Partito socialista d'altra parte vengono sempre piú apertamente classificandosi tra le forze controrivoluzionarie e di conservazione dell'ordine capitalistico (campagna per l'intervento del capitale americano; solidarietà di fatto con i dirigenti sindacali riformisti). Nulla permette di escludere del tutto la possibilità di un loro accostamento ai riformisti e di una successiva fusione con essi. Il Partito comunista deve tenere presente questa possibilità e proporsi fin d'ora di ottenere che, quando essa si realizzasse, le masse che sono ancora controllate dai massimalisti ma conservano uno spirito classista, si stacchino da essi decisamente e si leghino nel modo piú stretto con le masse che la avanguardia comunista tiene attorno a sé. I buoni risultati dati dalla fusione con la frazione terzinternazionalista decisa dal V Congresso hanno insegnato al partito italiano come in condizioni determinate si ottengano, con una azione politica avveduta, risultati che non si potrebbero ottenere con la normale attività di propaganda e organizzazione. 43. Mentre agita il suo programma di rivendicazioni classiste immediate e concentra la sua attività nell'ottenere la mobilitazione e unificazione delle forze operaie e lavoratrici, il partito può presentare, allo scopo di agevolare lo sviluppo della propria azione, soluzioni intermedie di problemi politici generali, e agitare queste soluzioni tra le masse che sono ancora aderenti a partiti e formazioni controrivoluzionarie. Questa presentazione e agitazione di soluzioni intermedie - lontane tanto dalle parole d'ordine del partito quanto dal programma di inerzia e passività dei gruppi che si vogliono combattere - permette di raccogliere al seguito del partito forze piú vaste, di porre in contraddizione le parole dei dirigenti i partiti di massa controrivoluzionari con le loro intenzioni reali, di spingere le masse verso soluzioni rivoluzionarie e di estendere la nostra influenza (esempio: «antiparlamento»). Queste soluzioni intermedie non si possono prevedere tutte, perché devono in ogni caso aderire alla realtà. Esse devono però essere tali da poter costituire un ponte di passaggio verso le parole d'ordine del partito, e deve apparire sempre evidente alle masse che una loro eventuale realizzazione si risolverebbe in un acceleramento del processo rivoluzionario e in un inizio di lotte piú profonde. La presentazione e agitazione di queste soluzioni intermedie è la forma specifica di lotta che deve essere usata contro i partiti sedicenti democratici, i quali in realtà sono uno dei piú forti sostegni dell'ordine capitalistico vacillante e come tali si alternano al potere con i gruppi reazionari, quando questi partiti sedicenti democratici sono collegati con strati importanti e decisivi della popolazione lavoratrice (come in Italia nei primi mesi della crisi Matteotti) e quando è imminente e grave un pericolo reazionario (tattica adottata dai bolscevichi verso Kerenski durante il colpo di Kornilov). In questi casi il Partito comunista ottiene i migliori risultati agitando le soluzioni stesse che dovrebbero essere proprie dei partiti sedicenti democratici se essi sapessero condurre per la democrazia una lotta conseguente, con tutti i mezzi che la situazione richiede. Questi partiti, posti cosí alla prova dei fatti, si smascherano di fronte alle masse e perdono la loro influenza su di esse. 44. Tutte le agitazioni particolari che il partito conduce e le attività che esso esplica in ogni direzione per mobilitare e unificare le forze della classe lavoratrice devono convergere ed essere riassunte in una formula politica la quale sia agevole a comprendersi dalle masse e abbia il massimo valore di agitazione nei loro confronti. Questa formula è quella del «governo operaio e contadino». Essa indica anche alle masse piú arretrate la necessità della conquista del potere per la soluzione dei problemi vitali che le interessano e fornisce il mezzo per portarle sul terreno che è proprio dell'avanguardia proletaria piú evoluta (lotta per la dittatura del proletariato). In questo senso essa è una formula di agitazione, ma non corrisponde ad una fase reale di sviluppo storico se non allo stesso modo delle soluzioni intermedie di cui al numero precedente. Una realizzazione di essa infatti non può essere concepita dal partito se non come inizio di una lotta rivoluzionaria diretta, cioè della guerra civile condotta dal proletariato, in alleanza con i contadini, per la conquista del potere. Il partito potrebbe essere portato a gravi deviazioni dal suo compito di guida della rivoluzione qualora interpretasse il governo operaio e contadino come rispondente ad una fase reale di sviluppo della lotta per il potere, cioè se considerasse che questa parola d'ordine indica la possibilità che il problema dello Stato venga risolto nell'interesse della classe operaia in una forma che non sia quella della dittatura del proletariato.