Umor nero nel calamaio

Recensione a La melanconia a cura di Roberto Gigliucci

Paolo Caressa (2010)




Il termine melanconia è considerato desueto nell'uso corrente, e sostituito dalla più familiare parola malinconia, che gli si ritiene equivalente. Eppure, come insegna la chiosa della dotta introduzione del libro che ci apprestiamo a recensire, la distinzione ortografica dei due termini, che in fondo si riduce a un semplice scambio doppio di vocali, prelude a una ben più importante difformità semantica, che rende cruciale il titolo dell'antologia curata da Roberto Gigliucci, La melanconia, appunto, e che ne qualifica e in qualche misura determina il contenuto.

La parola melanconia infatti non allude qui soltanto a un male "antico", come gli echi del termine che lo denota, ma a una malattia appunto, più che a un semplice stato d'animo: quest'ultimo va inteso come una sensazione momentanea, e non come un malessere cronico. Già Robert Burton nel suo celeberrimo Anatomy of melancholy (1621) afferma che Melancholy, the subject of our present discourse, is either in disposition, or habite (la malinconia, l'argomento di questa nostra dissertazione, è una disposizione o una abitudine): la prima, la malinconia intesa come stato d'animo, non è una vera e propria malattia, ma piuttosto un malessere transitorio, una indisposizione cagionata da cause esterne, emotive o fisiche, e alla quale tutti gli uomini sono soggetti: Melancholy in this sense is the character of mortality leggiamo ancora nel trattato di Burton, la fortunatissima summa elizabettiana della melanconia nelle sue più variegate accezioni.

È invece alla malinconia come abitudine, come vizio se si vuole, o semplicemente come malattia cronica dello spirito che fa riferimento il termine melanconia: non una crisi depressiva, come diremmo oggi, causata da fattori esterni, ma uno stato depressivo incontrollabile, una attitudine irrefrenabile che non ha cause esterne ma interne, nell'anima (oggi diremmo nella mente) di chi la soffre. La melanconia è quindi intesa in questo senso come una vera e propria malattia, e nel mondo antico si è caricata di molti significati clinici che oggi fanno riferimento alla categoria generica del disagio mentale: il malinconico era di volta in volta frenastenico, ipocondriaco, iracondo, accidioso (di nuovo stiamo parlando di vizi), ma conservava la sua lucidità il che lo rendeva distinto e più inquietante del semplice folle. Tanto è vero che malinconici erano uomini d'ingegno, anzi, e qui veniamo al filo conduttore del libro, una notissima sentenza attribuita ad Aristotele afferma che tutti gli uomini di scienze, di lettere, d'arte e di stato sono melanconici.

La fortuna di questa affermazione nel mondo medievale e rinascimentale è una delle chiavi di lettura dell'antologia curata da Gigliucci, che registra esempi innumerevoli ed eterogenei della malinconia dell'uomo di lettere attingendo e piene mani dalla storia della letteratura italiana, dal medioevo alla prima guerra mondiale: il volume si conclude infatti con quegli splendidi versi che Saba ha dedicato a Charlot

la vecchia
malinconica Europa in lui tutta
si specchia

quasi a confermare la sentenza dello pseudo-Aristotele estendendone la lista anche ai cineasti...

Trattandosi di un'opera pubblicata nella collana dei Classici italiani della BUR, nel libro troviamo essenzialmente scene dalla storia della letteratura della nostra lingua, con alcuni frammenti di malinconia europea, sapientemente scelti: oltre al proemio del celeberrimo ed irrinunciabile libro di Burton, vediamo passare Montaigne, Milton, Keats, Baudelaire. Non possiamo quindi rimproverare al curatore omissioni anche evidenti, pensiamo a certo filone della letteratura e filosofia tedesca, come pure alle pagine malinconiche e disilluse dei grandi del siglo de oro: possiamo al più augurarci che una antologia delle tetre ombre della melanconia nella letteratura e nella poesia europee sia redatta con la stessa cura di questa in un prossimo futuro.

Il primo dato che si rileva scorrendo le pagine del volume è come le accezioni del termine melanconia siano mutate nel corso dei secoli: il libro di apre con degli esempi di "tristezza medievale" legata alla vita solitaria e cenobitica del monaco e dell'eremita alto-medievale: nell'epoca patristica il contemptus mundi era un tema diffuso e una abitudine praticata, tanto da richiedere una spiegazione per i monaci meno "motivati" sul come combattere i vizi che potevano derivare dalla loro vita di reclusi: un esempio tratto da Giovanni Cassiano, che scrive a metà del quinto secolo, serve allo scopo.

Dopo questo preludio tratto dal mondo tardo-antico, si passa alla malinconia nel medioevo italiano, l'età di Dante per essere precisi, che è invece in gran parte malinconia amorosa, e gli esempi sono tutti poetici seppure con accenti difformi: dalla ferocia di Cecco Angiolieri, che incarna il malinconico iracondo, a Dante, ovviamente, a esempi meno noti come un sonetto di Nicolò de Rossi, poeta "minore" trevigiano. Una caratteristica preziosa del libro di Gigliucci è infatti la naturalezza con la quale accanto ai grandi e a brani famosi si accostano autori che il grande pubblico non ha sicuramente presenti, e le cui opere per molti costituiranno delle piacevoli scoperte.

Naturalmente Petrarca e Boccaccio, sorprendentemente più il secondo che il primo, non possono mancare all'appello dei grandi, appunto: la malinconia di Petrarca è un male dolce, che il poeta sopporta con una sorta di voluttuosa nobiltà, e dolce è non a caso l'aggettivo che Schopenhauer, che del melanconico avrà molti tratti, utilizzerà parlando del Petrarca. Le pagine petrarchesche che figurano nel volume offrono anche il modo di citare i classici che non possono mancare in una antologia sulla melanconia, Seneca e Cicerone. E notiamo anche come del Petrarca figurino dei brani dal De remediis utriusque fortunae, in una traduzione quasi coeva, quattrocentesca.

Ci piace porre l'accento su questa notevole caratteristica del libro, e cioè quella di utilizzare, ove necessario, per le opere scritte in latino o in altre lingue traduzioni che siano il più possibile vicine all'epoca, e quindi alla sensibilità, degli originali: questa modalità di lettura permette di evitare la frattura cronologica, a volte traumatica, fra il tempo della scrittura e il tempo della lettura, mantenendo in un certo senso più intatto il contesto dell'opera. Basti per questo leggere la traduzione del Rezzonico del Penseroso di Milton rubricata nella sezione Europa melanconica.

Il percorso letterario lungo il quale Gigliucci ci accompagna è a volte tortuoso e non solo per la gravità del tema, ma anche per il suo intrecciarsi con altri topoi classici della letteratura europea ad esso strettamente legati: per esempio la tematica della morte, della vanitas, del pessimismo. Già nei brani estratti dall'opera del Boccaccio troviamo una zona di grigio fra queste tematiche, che si amplia e diviene più complessa e inestricabile nella parte centrale, e più corposa, del volume, il cosiddetto Apogeo melanconico, cioè l'età barocca. Si passa qui dalle descrizioni cliniche della melanconia ad opera degli ingegni rinascimentali e seicenteschi (e il già citato Burton si può inserire in questo novero), alla malinconica solitudo del genio rinascimentale, ben esemplificata dai versi di Michelangelo, alla lirica barocca di Giovan Battista Marino e Gian Francesco Busenello, dove immancabilmente e prevedibilmente la melanconia si carica di significati più strettamente legati alla caducità dell'esistenza, all'ineludibilità della morte, al senso del peccato che permea l'universo della Controriforma in maniera complessa e pervasiva.

Non per questo diremo che Gigliucci è andato fuori tema nelle sue scelte: già lettori ed estimatori di un suo libro proprio sulla tematica della morte e del macabro nell'epoca tardo-medievale abbiamo potuto cogliere le differenze e la tonalità specificatamente melanconica nel caleidoscopio barocco dei brani presentati nella parte centrale del libro che stiamo recensendo.

Molte pagine del libro sono dedicate alla figura del Tasso, la cui "pazzia" configura un esempio eccellente di umore melanconico sul quale gli autori seguenti, da Montaigne a Goldoni, hanno riflettuto, si sono immedesimati, e del quale hanno provato infine orrore, repulsione, pietà. Nella figura del Tasso l'aforisma dello pseudo-Aristotele trova forse la sua massima espressione, il suo apice, e infatti Tasso figura in questo libro più come personaggio che come autore.

Nella parte seguente del libro, dedicata alla letteratura settecentesca ed ottocentesca, la melanconia si diversifica e si specifica in accezioni ormai distinte e meno sfumate: da un lato la malinconia "aspra", quella dell'Alfieri per intenderci, dall'altro quella "dolce", quale si trova in Monti e Pindemonte, per passare poi alla ricchezza di sfumature dei lirici italiani dell'Ottocento, fra i quali Gigliucci ha l'accortezza di annoverare anche autori che passano prevalentemente come "librettisti" d'opera. Il legame con la musica, così come con la pittura, è sempre presente nel libro, sebbene sullo sfondo, ma affiora talvolta fornendo suggerimenti per percorsi alternativi, tutti interni ad altre forme espressive, che un lettore avventuroso potrà intraprendere sia in campo musicale che figurativo. Anche qui risulta difficile districarsi nella ricchezza di tematiche: la famosa invettiva dello Jago di Arrigo Boito (Credo in un Dio crudel...) è forse più feroce, pessimistica, demoniaca che melanconica, a meno che della "demonialità" non voglia farsi una forma di melanconia, il che è forse possibile.

Una mancanza che forse possiamo trovare nella disamina di Gigliucci è proprio il riferimento all'immaginario demoniaco dell'epoca barocca, che tanta influenza avrà ad esempio sulla letteratura anglosassone dell'epoca romantica: certe pagine del Monaco di Lewis figurerebbero bene nel libro, come pure alcune considerazioni dei trattatisti seicenteschi che si occupavano di streghe e della loro persecuzione. Gli Enciclopedisti faranno esplicito riferimento alla credenza dei très-mauvais philosophes secondo i quali l'ossessione demoniaca può essere causa di melanconia. E in effetti un altro frammento di immaginario che viene in mente è quello diametralmente opposto dell'Illuminismo: nell'Encyclopédie (1751-1772) la voce relativa a Melancholie è già seccamente e tassonomicamente scientifica: vi si legge che la melanconia è une maladie [...] sans fievre ni fureur, en quoi elle differe de la manie & de la phrénesie (una malattia [...] senza febbre né agitazione dal che differisce dalla mania e dalla frenesia). Esemplare della melanconia illuministica potrebbe essere il periodo oscuro che Giuseppe Luigi Lagrange, il grande matematico torinese, ha vissuto nei suoi primi anni parigini (proprio nel periodo della Rivoluzione francese): una melanconia ben descritta dai suoi illuminati contemporanei.

Tornando al volume in esame troviamo un capitolo interamente dedicato a Leopardi, il cui rapporto con la melanconia è forse troppo complesso e sottile per essere esaurito nelle poche pagine esemplari dall'opera del grande poeta di Recanati riportate nel volume: l'ampia bibliografia potrà fornire gli strumenti necessari per orientarsi in una materia così intricata. Noteremo soltanto come fra gli esempi proposti da Gigliucci ci siano alcune traduzioni poetiche da Simonide, a sancire il forte legame di Leopardi con la sensibilità classica, specie in relazione alle tematiche della caducità, e forse dell'inutilità, dell'esistenza.

Il volume si chiude con una sezione "crepuscolare", in cui il tardo Ottocento e il primo Novecento sono compressi in un contraddittorio abbraccio: si va dalla critica della melanconia nella letteratura del de Sanctis, che stigmatizza questa "debolezza d'animo" proprio in Petrarca, all'impietoso realismo della Storia di una capinera di Verga, la cui rilettura è sempre essa stessa malinconica, a Svevo, Pirandello, Pascoli, Carducci e D'Annunzio, nomi familiari visti sotto una luce forse inedita per il lettore occasionale. Qui il tema del libro sfuma nuovamente in altri: è melanconia quella che si cela dietro la voluttuosa sensibilità macabra di D'Annunzio, le nostalgiche inquietudini del Pascoli, la feroce, quasi gotica, prosa di Alfredo Oriani, l'implacabile analisi, con molti accenti satirici, di Svevo?

Concludono il volume alcuni Crepuscolari propriamente detti e Saba: fra i primi Gozzano e Corazzini, autore dolcissimo e malinconico per eccellenza (ma il termine, si noti è ormai mutato nell'accezione moderna). Possiamo condividere la scelta di Gigliucci di mettere qui il punto finale della sua antologia: la materia, nel Novecento, si complica, diviene oggetto di ulteriore studio, viene psicanalizzata e infine incanalata e classificata nelle teorie scientifiche sotto la voce "depressione", mondo doloroso e vasto che potrebbe specificarsi in moltissimi modi.

La malinconia è ormai legata alla paura, si pensi al secondo dopoguerra, alla disillusione, alla disperazione dell'uomo del Novecento, al crollo dei sogni e delle ideologie, all'oppressione: forse alcune delle intense pagine poetiche di Pavese e Pasolini avrebbero potuto dare una idea di questa forma moderna e post-moderna della malinconia, del male oscuro e dell'umore nero che divora le menti sensibili di artisti, poeti, musicisti e anche scienziati, pensiamo alla vicenda di Kurt Gödel, uno degli scienziati più celebri e malinconici del Novecento.

Per concludere qualche osservazione sull'edizione del libro: il corredo bibliografico del volume è notevole, forse però poco maneggevole in quanto ci sono tre bibliografie distinte. Le note sono invece molto equilibrate, non invadenti ma all'occorrenza sempre presenti. Notiamo anche come questa "nuova" veste della collana BUR ci fornisca dei tascabili meno fragili della precedente, i volumi grigi per intenderci: il libro, pur di seicento pagine, è ben rilegato e si può sottoporre agli stress di una lettura non casalinga, per portare un po' di melanconia su treni, autobus e in qualsiasi altro luogo si voglia condividerla.

Alcuni testi citati

Encyclopédie, ou dictionnaire raisonné des sciences, des art set des métiers, Parigi, 1751-1772, on line sul sito http://diderot.alembert.free.fr.

Robert Burton, Anatomy of Melancholy, what it is, with all the kinds, causes, symptomes, prognostickes and severall cure of, Henry Cripps, Oxford, 1638 (prima ed. 1621), disponibile in rete al sito http://bnf.gallica.fr. Non ne esiste una traduzione italiana se non dell'introduzione, tradotta da Giovanna Franci, a cura di Jean Starobinski, Anatomia della malinconia, Marsilio, Venezia, 1994.

Roberto Gigliucci, Lo spettacolo della morte. Estetica e ideologia del macabro nella letteratura medievale, De Rubeis, Anzio, 1994.

Matthew Gregory Lewis, Il monaco, Einaudi, Torino, 1970.

Pier Paolo Pasolini, Le ceneri di Gramsci, Garzanti, Milano, 1957.

Cesare Pavese, Verrà la morte e avrà i tuoi occhi, Einaudi, Torino, 1951.

Jean Starobinski, Storia del trattamento della malinconia dalle origini al 1900, Guerini e Associati, Milano, 1990.


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