Vita da cadavere: Stiff di Mary Roach

Paolo Caressa (2006)




    Come dedica del suo romanzo Memorie dall'al di là (Memorias posthumas de Braz Cubas, 1880), Machado de Assis scrive: Al verme che per primo ha intaccato le fredde carni del mio cadavere dedico con nostalgico ricordo queste memorie postume. Questo incipit, a prima vista bizzarro ma non inappropriato per un libro scritto in prima persona dal protagonista ormai morto, parrebbe a prima vista adeguato anche per il volume della nostra autrice, la giornalista statunitense Mary Roach. Se non che, il libro della Roach è una specie di catalogo delle alternative possibili proprio per chi non voglia rassegnarsi ad una noiosa e lenta decomposizione post-mortem. E si tratta di un catalogo ragionato.

    L'argomento del libro, cioè i cadaveri e ciò che può loro accadere, sembra, a prima vista e con tutta la buona volontà, così grave e triste, se non macabro, che pare difficile cavarne un libro divertente, coinvolgente ed originale. Per spiegare come questo sia possibile, che è poi lo scopo di questa recensione, sgombriamo per prima cosa il campo da un equivoco: non si tratta di un libro sulla morte, né di un libro sui morti. Per capirci, non ci troviamo di fronte ad un austero e sistematico trattato come quelli di Ariès sulla storia della morte e sul suo significato per i vivi, né ad un libro sui vari aspetti della morte in quanto fenomeno in sé: non vi troverete asettiche o morbose descrizioni anamopatologiche, né speculazioni filosofiche o considerazioni escatologiche (qualcuna scatologica forse sì…), né tanto meno, e per fortuna, considerazioni di teologia spicciola sui cari estinti che spesso affollano gli ingenui trattati di altrettanto ingenui tanatologi della domenica.

    Tutt'altro. La Roach, da buona giornalista che si occupa (anche) di scienza, conosce bene i limiti delle proprie capacità di indagine e di descrizione: tanto da dedicare una parte dell'introduzione del libro alle proprie sensazioni di fronte alla salma della madre, vegliata insieme al fratello nella camera ardente di un'agenzia di pompe funebri americana (esercizi commerciali che meriterebbero un libro a sé).

    Lì, sperimentando la solitudine per l'assenza della madre appena scomparsa, Mary Roach sembra aver fatto una scoperta, semplice ma fondamentale: quel corpo, quel cadavere, non era più sua madre. Sua madre era stata qualcos'altro, ed anche se non è chiaro come definire un essere umano, con tutto il suo carico emozionale e spirituale, certamente quel cadavere era qualcosa di diverso. Una volta svuotato della sua identità, un processo di alienazione, in cui in fin dei conti consiste il morire, l'aveva mutato in altro, appunto, del quale poter tranquillamente discutere, sul quale indagare appassionatamente e sul quale poter anche scrivere in modo divertente e divertito. Tutte cose che la Roach fa in questo libro.

    Una prima osservazione che viene spontanea, già nelle prime fasi della lettura, concerne appunto il discorrere sui cadaveri: non si tratta di parlare di morti o dei modi di morire, con tutto ciò che esso comporta. Parlare di cadaveri vuol dire parlare di ciò che può accadere ad un corpo non più vivo, il cadavere appunto, non di ciò che è accaduto alla persona che, in vita, era (o possedeva?) quel cadavere. La Roach descrive con sapiente ingenuità i cadaveri di cui ci parla, ignorandone la precedente esistenza in vita: non si fanno nomi né (ovviamente) cognomi, al massimo sigle (come la "H" del capitolo ottavo), e la descrizione non è né pietosa, né scostante, né impersonale, ma anzi priva del distacco professionale del medico o dell'infermiere, ma anche di qualsiasi morboso interesse che non sia strettamente necessario al filo della narrazione.

    Infatti, praticamente in ciascun capitolo, la Roach ha modo di incontrare professionisti, scienziati e medici che per la loro attività hanno a che fare con dei cadaveri, e sempre in questi incontri l'autrice ha modo di assistere alla sorte, o a parte della sorte, riservata ad un cadavere in quella particolare circostanza.

    Certo, questo è probabilmente l'aspetto più incredibile, ed a tratti inquietante, del libro, e cioè scoprire che nei laboratori, negli istituti e nelle università delle nostre città, magari dall'altro lato della strada rispetto al nostro luogo di lavoro o alla nostra casa, i cadaveri sono protagonisti di situazioni inimmaginabili. Per non parlare poi della sorte che i cadaveri potevano subire in epoche passate, nemmeno troppo remote: se certe "scene" del libro non fossero così ben documentate, avremmo il sospetto che fossero riprese da qualche film splatter a basso costo o da qualche racconto fantastico di stampo goticheggiante.

    Cito a caso: cani a due teste sopravvissuti dall'alba al tramonto, resti di feti contesi da infermieri e medici per il loro apporto calorico, tentativi di conversazione con teste appena mozzate, trapianto delle suddette (o, dualmente, trapianto di corpi decapitati), furto di cadaveri col favore delle tenebre, etc. Un arcobaleno macabro che va dal Cuore di cane di Bulgakov a The Body Snatcher di Stevenson…

    Ovviamente, accanto a questi casi, come dire, estremi, la Roach ci presenta molte attività svolte dai cadaveri a beneficio dei vivi, come i test per gli incidenti d'auto, o le lezioni di anatomia, o la donazione di organi, o anche la paziente ed inesorabile decomposizione in campo aperto sotto l'occhio vigile di scienziati che indagano la dinamica e la chimica della decomposizione, ricerche meno oziose di quanto non si pensi, come spiegato nel terzo capitolo dove si descrive una visita ad un "campo di decomposizione" che ispira (forse per l'impossibilità di trasmettere le sensazioni olfattive in un libro) un senso di pace e serenità difficile a credersi.

    Uno dei punti di forza del lavoro della Roach è infatti la sua infaticabile voglia di "toccare con mano" (cosa effettivamente non consigliabile nella maggior parte dei casi che descrive) molte realtà descritte in libri o riviste che aveva precedentemente consultato nelle biblioteche: un po' come Melmoth l'errante, Mary Roach vaga per luoghi silenziosi popolati di cadaveri (o di loro parti, come il laboratorio di chirurgia estetica con la sua teoria di teste) e da vera viaggiatrice di professione, ha infatti iniziato la sua attività giornalistica descrivendo le impressioni dei suoi viaggi per il mondo, non esita ad imbarcarsi per la Cina inseguendo le leggende urbane sulle pratiche necrofaghe di quel popoloso paese, o a percorrere in lungo ed in largo gli istituti di medicina legale e gli obitori degli Stati Uniti per conferire con scienziati che paiono usciti da qualche film horror, come il dottor Robert White di Cleveland, che negli anni '60 trapiantava teste di scimmia nell'addome di altre (ma talvolta anche sul collo, come nel 1971, quando due sventurati primati furono “connessi” in questo modo, sopravvivendo per tre giorni [cfr. White et al. Cephalic Exchange Transplantation in the Monkey, Surgery 70(1), pp.135-139.]). Un personaggio degno di un film con Vincent Price o Christopher Lee.

    Da una tale messe di informazioni ed esperienze è venuto fuori un volume tutt'altro che morboso o tetro: questo è il tratto che mi pare più interessante del libro, ma forse anche della sua autrice. L'aver sempre mantenuto, almeno sulla carta, un distacco felicemente espresso in una prosa chiara ed ironica, come solo certi anglosassoni sanno avere, che rende la lettura piacevole e mai scostante. In una parola: divertente.

    Ovviamente, come ogni giornalista che racconti una storia o delle storie, Mary Roach lascia trasparire le sue simpatie o antipatie nei casi che, evidentemente, l'hanno più coinvolta (o forse sconvolta). Due esempi per tutti: in una sola circostanza la nostra autrice sostiene di non essere d'accordo nell'utilizzo dei cadaveri in àmbito accademico, precisamente nelle ricerche "religiose", in particolare quelle volte ad accertare la dinamica della crocifissione e l'autenticità della sindone: rimando al capitolo settimo del libro per una raccapricciante storia di queste ricerche. L'entusiamo maggiore sembra invece profonderlo nella descrizione della nuova tecnica di "smaltimento ecosolidale" dei cadaveri ideata dalla svedese Susanne Wiigh-Masak, che chiude il libro, e che propone alternative alla cremazione, molto diffusa nei paesi scandinavi.

    Su altre questioni la Roach pare sospendere il giudizio, ma presenta i fatti in modo che sia il lettore, inevitabilmente, a porsi delle domande: a me è accaduto ad esempio leggendo dell'utilizzo dei cadaveri per i test balistici, volti a studiare l'efficiacia delle armi da fuoco; nei paesi del Commonwealth questi test sono proibiti, e si usano delle gelatine che simulano la densità della carne umana per effettuarli. Difficile non cogliere il paradosso di fabbricanti d'armi, a quanto mi consta costruite per uccidere o almeno ferire delle persone, cui viene posta la questione "etica" di non utilizzare cadaveri per i loro test, come se fosse più disdicevole sparare a chi è già morto piuttosto che a chi è ancora vivo.

    In effetti, fra le righe del libro di Mary Roach si ha l'occasione di svolgere molte riflessioni, alcune serie, altre facete, almeno così è accaduto a chi scrive: qualcuno potrà storcere il naso, o provare un senso di disagio nel figurarsi quello che l'autrice ci descrive in queste pagine, sebbene mitigato da uno humor che è indubitabilmente godibile, ma non ho dubbi che la lettura di questo libro riserverà molte sorprese, stimolerà riflessioni, e forse suggerirà a qualcuno ipotesi alternative su cosa fare del proprio cadavere dopo il trapasso. Inutile eludere il discorso: del libro della Roach, e con ciò termino, siamo tutti un po' protagonisti…


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