RINALDO CARESSA: Note Critiche



Raccogliamo in questa pagina una selezione di alcuni giudizi critici relativi all'opera del maestro Caressa.


Marco Vendramin, da Il Marguttone i, numero 4-5 (1973).
Bandite le vocianti disarmonie e i giuochi di prestigio per riscuotere meraviglia, Caressa riconduce il discorso su un sussurrare lieve, vibrante di toni, rispettoso delle sfumature, attento ai tenui passaggi di colore.... leggi la recensione completa.
Roberto Ceccatelli, da Il Caffè xxi, serie vii, numero 1 (1974), e in occasione della mostra alla Galleria San Marco (Roma, 1974).
La visione che Caressa ha della natura può definirsi —con una parola deformata dall'uso ma che qui si vuole riportare al suo significato originale— realistica [...] La pennellata ferma e veloce, grassa di colore tanto da permettere improvvise accensioni di luce, denota che l'artista opera all'impronta, sotto l'urgenza di un dettato essenziale. Un senso di alta malinconia pare levarsi da queste visioni, come se in esse rimanesse qualcosa a cui l'artista ha dovuto rinunciare... leggi la recensione completa.
Antonio Angelini, da Il Caffè xxi, serie vii, numero 1 (1974), e in occasione della mostra alla Galleria San Marco (Roma, 1974).
Nel contesto di un'intensa quanto inesauribile stagione pittorica vissuta nell'indagine e nella conquista, si muove il modulo sottilmente evocativo dell'arte di Rinaldo Caressa, che da tempo ripropone la validità lirica degli scorci d'un urbanesimo a torto negletto da chi è proteso nell'assurda ricerca della novità gratuita... leggi la recensione completa.
Augusto Giordano, presentazione per la mostra personale alla Galleria San Marco (Roma, 1975).
Nei suoi paesaggi si avverte la fiduciosa e perenne ricerca di un punto d'incontro fra Arte e pensiero; ricerca spirituale nella forma e nel colore.... leggi la recensione completa.
Giuseppe Giannantonio, presentazione per la mostra personale alla Galleria dei Leoni (Roma, 1975).
Venire a contatto con il mondo pittorico di Rinaldo Caressa è vivere una di quelle esperienze che trasportano nella dimensione di una gioia pura, perché spontanea e senza riserve... leggi la recensione completa.
Vittorio Marrè Brunenghi, presentazione per la mostra personale alla Galleria dei Leoni (Roma, 1979).
Si potrebbe dire, così, con una frase immediata, Caressa o dell'amore per Roma. Atmosfere in piena luce, o nel riflesso di un pulviscolo dorato, colore di marmi o di pietre, quiete lungo il silenzioso e sognante scorrere del fiume sono l'itinerario che ormai da tempo si va dipanando nelle mani di questo pittore... leggi la recensione completa.
Carlo Espoasa, presentazione per la mostra personale presso il comune di Campodimele, 1996.
Parlare dell'arte e dell'attività artistica è compito arduo: [...] questo imbarazzo, di fronte all'opera di Rinaldo Caressa, si amplifica per l'ampiezza e l'articolazione della sua attività artistica, iniziata negli anni '50 e maturata in decenni di continuo perfezionamento tecnico ed approfondimento delle tematiche più care all'opera di uno degli ultimi, nelle parole di Sandro D'Amico, eredi della tradizione pittorica della campagna romana... leggi la recensione completa.
Renato Mammucari, presentazione per la mostra personale presso il comune di Velletri, 1998.
Nei suoi quadri Caressa riesce ad interpretare la melanconia degli struggenti tramonti romani, il silenzio dei cortili e dei vicoli rimasti miracolosamente intatti, l'atmosfera solenne e nello stesso tempo di abbandono della campagna circostante rinnovandosi di continuo di fronte allo spettacolo della natura... leggi la recensione completa.

Colloquio con la natura, da Il Marguttone

Quanti sforzi dialettici, quanti equilibrismi per giustificare questo ritorno al figurativo, al realismo riproposto in cento salse atte a rendere appetibile una pietanza che, in privato, molti stessi artisti-cuochi disdegnano.

Si sono scomodati in molti a vantarne le lodi, ma è comune nei non sprovveduti un plausibile pessimismo, una ragionata diffidenza per una molto furbesca quanto repentina correzione di rotta dell'arte contemporanea andata a nozze con la fotografia. Immune da colpe, anzi avvantaggiati da questo ritorno di fiamma del figurativo nella sua accezione più lata, sono coloro che hanno continuato ad operare nella coerenza di un personale filone naturalistico.

È questo il caso di Rinaldo Caressa che, estraneo agli sperimentalismi, alle mode, ai cerebralismi, ripercorre l'arduo sentiero dell'arte, quello tracciato dalla tradizione.

Bandite le vocianti disarmonie e i giuochi di prestigio per riscuotere meraviglia, Caressa riconduce il discorso su un sussurrare lieve, vibrante di toni, rispettoso delle sfumature, attento ai tenui passaggi di colore.

Quanta propensione per i grigi sposati ai verdi, ai rossi mielati, alle terre con impasti antichi: quelli appresi dallo studio dei maestri del naturalismo italiano.

È con tale sensibilità che Caressa riscopre o reinventa scorci di una Roma smarrita, vestigia invase da un'astiosa vegetazione, orti negletti e recondite aie impreziosite da una materia pittorica grassa e, tuttavia, proba e sapiente in cui i toni aranciati e quelli tendenti ai "freddi" risultano sempre giustapposti con grande accortezza. Se nell'opera di Caressa sono confluiti echi culturali ed esperienze passatiste, tuttavia l'artista si riscatta con aguzza capacità percettiva ed altrettanto abile resa pittorica: qualità queste che agevolano il suo sommesso colloquiare con la natura alla ricerca di quell'equilibrio che egli vagheggia fra il mondo interiore e la realtà che lo circonda.

Marco Vendramin (1973)


Da Il Caffé e in occasione della mostra alla Galleria San Marco (1974)

La visione che Caressa ha della natura può definirsi —con una parola deformata dall'uso ma che qui si vuole riportare al suo significato originale— realistica.

Gli argomenti che vengono da lui usati non possono essere quelli offerti dalla realtà di ogni giorno a chi non voglia frapporre fra sé ed il sensibile alcunché di razionalistico o teorico. Lo stile pittorico deve pertanto essere adeguato necessariamente all'osservazione di quella realtà e ad una aderenza sempre più stretta al vero. Ovviamente aderenza spirituale, semplice e schietta che comporta ampiezza e profondità di sentimenti.

Su questa lirica si dipana l'intera produzione del nostro artista con tutta una serie di raffigurazioni dirette della più comune vita degli uomini e degli aspetti più caratteristici di piccoli paesi e del tradizionale urbanesimo romano. E la sua maniera di esprimersi si sviluppa in una trasformazione appropriata al riflesso visuale della sua anima franca di pittore poeta.

Gli aspetti della realtà vengono cioè resi con ricchezza doviziosa di mezzi squisitamente artistici, primi fra tutti la finezza e la varietà dell'impostazione dimensionale, la sicurezza penetrante del disegno, la sapienza del taglio e della distribuzione delle masse cromatiche. Non si può fare a meno di notare inoltre come un innato senso d'eleganza presieda all'organizzazione dei toni, al passaggio dall'uno all'altro ed alla loro intima armonizzazione. Ogni notazione pittorica viene vivificata da un gioco complesso e raffinato di sfumature che paiono vibrare in felice sintesi o contrastarsi in un miracoloso senso di misura e di gusto. Questo insieme di motivi viene infine efficacemente reso vitale da una sicurezza tecnica (acquisita nel tempo con sacrificio e tenacia) che permette di condurre l'opera verso la perfezione, a quello "splendore supremo" additato dagli antichi maestri.

La pennellata ferma e veloce, grassa di colore tanto da permettere improvvise accensioni di luce, denota che l'artista opera all'impronta, sotto l'urgenza di un dettato essenziale.

Un senso di alta malinconia pare levarsi da queste visioni, come se in esse rimanesse qualcosa a cui l'artista ha dovuto rinunciare.

Una struggente nostalgia avvolge comunque ogni soggetto e va a stemperare quell'insito senso di malinconia, donando alla rappresentazione un colore partecipativo ed emozionale di singolare ampiezza e profondità.

Così in questa istantanea, quasi inconsapevole adesione el sentimento al dato naturale, nasce la poesia del nostro artista, che trova accenti nei suoi propri di significativa validità sia nei piccoli quadri come nelle opere di maggior impegno e di più ampie dimensioni.

Roberto Ceccatelli (1974)


Da Il Caffé e in occasione della mostra alla Galleria San Marco (1974)

Nel contesto di un'intensa quanto inesauribile stagione pittorica vissuta nell'indagine e nella conquista, si muove il modulo sottilmente evocativo dell'arte di Rinaldo Caressa, che da tempo ripropone la validità lirica degli scorci d'un urbanesimo a torto negletto da chi è proteso nell'assurda ricerca della novità gratuita. Ma l'artista dimostra che si può accedere al nuovo pur rimanendo fedele alla sostanza tradizionale della sua tematica, in virtù d'una superiore acquisizione tonale degli elementi ambientali e della loro struttura spirituale.

Il felice contrappunto umano che costituisce il substrato concettuale delle figurazioni stempera i possibili motivi pittorici di maniera per elevarli a motivazioni interpretative di una realtà sofferta nelle risultanze ideologiche ed etiche.

L'ispirazione [del maestro] viene sorretta da una singolare capacità di rapportare il motivo concettuale al fattore tecnico-proiettivo, graduando l'incidenza stilistica nella misura richiesta dall'intensità spirituale della figurazione. Così nello "Squero de' Mendicanti" e nelle "Case di Burano" Caressa affronta vaste problematiche di equilibrio fra segno, colore e significato, distillando la luce in relazione al sottofondo morale e sociale dell'ambiente e dell'atmosfera.

Antonio Angelini (1974)


In occasione della mostra alla Galleria San Marco (1975)

I paesaggi filtrati, essenziali, a volte maestosi di Rinaldo Caressa avvertono la deliberata tendenza della pittura paesaggistica a liberarsi dai vincoli di una diligente imitazione della natura a tutto vantaggio dei diritti alla fantasia.

La natura di questo artista si avvia ad una progressiva ma decisa trasformazione di materia interpretata a misura umana quale traspare dalla sua opera, dove avanza l'idea dell'arte quale fatto soggettivo, interpretativo, dove l'autore ha la facoltà di tradurre le proprie sensazioni oggettive rapportandole ad una dimensione individuale.

Le pitture di Caressa sono visioni delineate da pure forme essenziali, da accostamenti di colori soffici, quasi sfocati, in cui spazio e volume sono tradotti in modo cromatico.

Nei suoi paesaggi si avverte la fiduciosa e perenne ricerca di un punto d'incontro fra Arte e pensiero; ricerca spirituale nella forma e nel colore.

In queste opere della presente mostra possiamo annoverarlo fra gli interpreti più avanzati della moderna paesaggistica, con le tinte preziose di una pittura che sintetizza in poesia semplici oggetti o gli angoli remoti di una natura ancora viva.

Augusto Giordano (1975)


In occasione della mostra alla Galleria dei Leoni (1975)

Venire a contatto con il mondo pittorico di Rinaldo Caressa è vivere una di quelle esperienze che trasportano nella dimensione di una gioia pura, perché spontanea e senza riserve. Nei suoi quadri si coglie immediatamente, direi palpabile, l'intima soddisfazione di chi dipinge per irresistibile impulso, obbedendo alla passione che gli preme dentro. Indubbiamente Caressa sente la pittura, l'ama, ci si realizza, vive per essa: le sue tele dicono eloquentemente di questa "ragion di vita", di questa istintiva simpatia e manifestano quel vivo soddisfacimento che può testimoniare, illuminandola, l'opera di questo artista; il quale da molti anni, anzi da sempre, si dedica alla pittura per una sua esigenza interiore, che gli fa trasfondere nelle cose a cui s'accosta quel senso di godimento e di compiacimento che necessita del pennello e del colore per esternarsi e per comunicarsi agli altri.

Tema unico, ma estremamente ricco e vario, della pittura di Caressa è la natura, o più propriamente il paesaggio. La campagna, il cielo, il mare, i panorami, le piazze, le viuzze, i tetti, i monumenti, l'angolo, lo scorcio, l'interno, sono aspetti diversi di quell'unico grande paesaggio che è il mondo in cui viviamo. Egli è attento a tutto ciò, ne percepisce fin le "voci" più deboli, ne penetra il segreto incantesimo e lo ritrae con commossa soddisfazione: ne nascono quadri suggestivi e delle stupende rappresentazioni. Tra l'Artista e le cose si instaura un immediato colloquio, fatto di intimità, di confidenza e di un quasi religioso rispetto. Ed è di qui che nasce quella forza di convincimento che emanano i suoi paesaggi; il suo è un paesaggio spontaneo, schietto, aperto eppur raccolto, pieno di interiorità, sostanziato di tranquillità in un clima di riposante dolcezza.

Giuseppe Giannantonio (1975)


In occasione della mostra alla Galleria dei Leoni (1979)

Si potrebbe dire, così, con una frase immediata, Caressa o dell'amore per Roma. Atmosfere in piena luce, o nel riflesso di un pulviscolo dorato, colore di marmi o di pietre, quiete lungo il silenzioso e sognante scorrere del fiume sono l'itinerario che ormai da tempo si va dipanando nelle mani di questo pittore.

In diretta derivazione dalla poetica romana della Scuola dei XXV (vedi soprattutto Petrassi, Carosi e Simonetti), esegue la sua pittura dal vero, mostrando alberi e case, vicoli e ruderi nella luce e nei contorni che la luce stessa delinea. Ne deriva una pittura che nulla ha di minuto, poggiando le sue basi su una pennellata grassa e veloce, su una macchia larga, sicura, fusa nelle varie tonalità e nelle alternanze di chiari e di scuri, improvvisamente accesa di sole, urgente sotto la spinta del dettato essenziale.

L'aggancio alla Scuola Romana, più che alla grande lezione degli Impressionisti e dei Postimpressionisti, fa scaturire sulla tela masse colorate che, sovrapponendosi, si ammorbidiscono in una fusione di tinte omogenee, dove la sapiente alternanza di luci e ombre, di toni e mezzi toni, stabilisce con esattezza l'insieme del paesaggio.

Gli schemi compositivi sono in prevalenza due. Una serie di piani aperti, dilatati, lunghi cieli e fasce di terreno e di campi aprono la strada ad alberi posti a schermo in una campagna romana, spesso di taglio ardito, sui limiti dove la città degrada fino a morire, soffermandosi sovente sulle isolate strutture degli acquedotti silenziose varianti al variare dell'ore, abbandonandosi a cromatiche cavalcate alla riconquista di un tempo non ancora del tutto perduto. Altrimenti i piani verticali espongono il gioco dei vicoli, o delle città in genere; muovono aria e cieli attraverso le quinte di quel teatro che è la strada, sintetizzando angoli e luoghi in pure forme essenziali.

E poiché la bellezza è variabile, così come il tempo è fuggitivo, non importa a Caressa afferrare l'attimo, il momento impercettibile e contingente. La sua ricerca si volge invece sul momento come parte compositiva di un tutto, sulla atmosfera, a volte fredda, a volte intensa di sole, per lo più quasi ai limiti del magico. Valgono le parole di Millet: Quella che si chiama composizione è l'arte di trasmettere agli altri dei pensieri. Immagini quindi che con la qualità della sintesi e l'esatta interpretazione della luce diano sempre come tratto distintivo un modellato aereo.

Su queste basi si struttura uno studio costante, la cui resa, mai ripetitiva, è volta alla continua ricerca non della sola luce, ma, si badi bene, della sensazione del luogo riprodotto, sensazione che deve perdurare in galleria o a casa, lì dove il quadro trova la giusta collocazione.

Come già ebbe a dire nel 1975 Giuseppe Giannantonio, Caressa riesce a rendere corposo, quasi plastico, al di là delle strutture oggettivamente fisse, anche ciò che per sua natura non è rappresentabile, come sono le emozioni, i sentimenti, il silenzio, la nostalgia.

Arte forse semplice per qualche sbrigativo critico e anche superata, ma non per noi.

Ai quadri più antichi sono subentrate, già a partire dalle Margutte degli ultimi anni del '50, forme ariose in cui il gioco della luce viene usato per esprimere un maggior numero di colori, pur sempre però di estrema delicatezza.

L'uso delle terre predomina nella gamma più fulgida e luminosa, dal pozzuoli all'ocra, dalla terra di siena bruciata a quella naturale. La tavolozza del mattone romano, colpito ora da luce, ora da forti ombre (e che proprio per la luce e l'ombra varia colore e acquista tonalità più o meno accese) ha dato alla pennellata di questo periodo una più larga e sicura agilità e insieme nuova freschezza.

Ai primi anni del '70 risale l'incontro con Venezia e la sua laguna: un incontro senz'altro basilare, forse il più importante, che ha portato nuova linfa a tutta la produzione successiva dell'artista.

Ai temi romani si vengono ad affiancare lagune, a volte di notevole languidità, a volte torbide e morte, canali con tagli di luce arditi o vecchie case, a pelo dell'acqua, in una luminosità soffusa. Ma soprattutto dal marciume dell'acqua stagnante, dall'alitare del tempo sui luoghi fermi, è venuta la nuova lezione. Alla perfetta padronanza delle mezze tinte si è aggiunta la nuova conoscenza dei colori spenti, delle ombre trasparenti, della luminosità delle giornate grigie, suggestive ed evanescenti, difficili, in una parola, ad afferrarsi e a trasmettersi. E non sembri un paradosso la luminosità delle giornate grigie, quest'ansia di luce che gira intorno alle cose senza prenderle di petto, senza illuminarle a pieno. È questo nuovo cromatismo di terre e di ocre diluite, dimezzate con terre verdi o ingrigite con terre bruciate, sapientemente dosato e giocato sulla tela, che oggi suscita ben altra varietà di stati d'animo. Condizione essenziale dell'attuale resa dei colori diventa la preparazione in trasparenza della luce romana, basata non più su un supporto acromatico, ma su un supporto originario già romano, su cui poi sapientemente si poggiano tutte le strutture. E questo giustifica alcune screziature, che possono a colpo d'occhio sembrare parti tralasciate, mentre sono autentiche e sapienti interpretazioni della luminosità del paesaggio.

Con questi toni più delicati e aerei oggi Caressa riesce a vedere e a interpretare i soggetti romani.

A questa Roma, meno squillante e vistosa, ma più intima e quieta, approda tale pittura, che se talvolta si ripete nei soggetti, mai imita se stessa, per l'onestà e l'operosità con cui agisce, attenta a nuovi orizzonti, a cogliere atmosfere e luoghi, non così come sono, ma nel modo e nel segno che la fantasia dell'artista intravede ed eleva a messaggio, interprete sensibile di quella natura che giorno dopo giorno inesorabilmente il tempo e la civiltà ci vanno sottraendo.

Vittorio Marrè Brunenghi (1979)


Presentazione per la personale a Campodimele, 1996

Parlare dell'arte e dell'attività artistica è compito arduo: il rischio di incorrere nelle tautologie della parola spesso consiglia il silenzio di fronte al lavoro di un artista, che si pone, con le sue opere, proprio l'obiettivo di comunicare non usando le parole, ma le immagini filtrate attraverso l'occhio della sua tavolozza. Questo imbarazzo, di fronte all'opera di Rinaldo Caressa, si amplifica per l'ampiezza e l'articolazione della sua attività artistica, iniziata negli anni '50 e maturata in decenni di continuo perfezionamento tecnico ed approfondimento delle tematiche più care all'opera di uno degli ultimi, nelle parole di Sandro D'Amico, eredi della tradizione pittorica della campagna romana.

Infatti il costante punto di riferimento nell'opera di Caressa, a prescindere da brevi esperienze o temporanee incursioni nei campi della ceramica, del restauro e dell'arte sacra, è rimasta la natura, o meglio l'espressione della natura e del suo rapporto con l'uomo. Ad una occhiata superficiale gli olii (ma anche le pregevoli digressioni nella tecnica del disegno) di Caressa sembrano raffigurare luoghi disabitati, quasi morti, malinconici nella loro solitudine, ma ad un più attento esame, dalle sue opere traspare ovunque la presenza dell'uomo e del suo lavoro: le antiche "pietraie", gli infaticabili vicoli dei paesi nei quali Caressa trova alcune delle sue più felici ispirazioni; ed i magistrali scorci della Città Eterna, vera e propria maestra d'arte e d'esperienze per il pittore romano, col suo magico intrecciarsi di mondi e di epoche, di rovine, di strade, di piazze, luoghi, questi ultimi, nei quali l'arte del maestro Caressa manifesta tutta la sua vitalità (come le sue variopinte interpretazioni di Campo de' Fiori o Piazza Navona); le ariose vedute della laguna veneta, coi suoi campanili, coi suoi "squeri" caratteristici e le sue barche in secca, con l'umidità che quasi trasuda dalle dense pennellate con le quali, con tecnica e perizia, il pittore ritrae le atmosfere e le magie di quei luoghi; le più recenti esperienze pittoriche legate ai mari della Sicilia e della Sardegna, nei quali l'artista ha saputo cogliere nuove ispirazioni ed arricchire il proprio bagaglio cromatico; e, da ultimo ma non meno importante, i grandiosi acquedotti della campagna romana, i casolari abbandonati che, nelle opere di Caressa, ci parlano coi colori del tempo e ci comunicano il sereno abbandono che solo quei ruderi sanno evocare.

Questa varietà tematica presuppone una tecnica raffinata, il controllo saldo e completo della propria tavolozza: queste sono caratteristiche che non mancano al maestro Caressa, i cui cromatismi variano dalle terre che sapientemente impiega per i paesaggi, per i ruderi, per ritrarre l'ormai morente ed indefinibile colore della Roma del Belli, ai tenui azzurri e verdi delle sue marine, delle sue lagune, impasti di colore che filtrano luce e, quasi alchemicamente, nulla lasciano intendere sul segreto della loro composizione, perché, e questa è la caratteristica tecnicamente più rilevante della sua pittura, Caressa riesce a trarre dalla sua tavolozza esattamente i colori e le tonalità che i suoi soggetti esigono, e che gli consentono la pittura dal vero, privilegio concesso solo ai veri artisti.

Dunque non semplicemente paesaggistica, ma umana è la pittura del maestro Caressa, perché egli non ritrae semplicemente nelle sue opere la natura, ma il rapporto dell'uomo con la natura, i segni che la vita e l'opera dell'uomo lasciano nel paesaggio e dei quali, inevitabilmente, la natura si riappropria, come nei casolari avvolti dalla vegetazione o dagli acquedotti che sembrano, nelle opere di Caressa, quasi formazioni naturali, perfettamente inserite nella campagna romana. La sua pittura sembra realizzare l'ideale estetico del grande filosofo tedesco Kant, che, nella sua Critica del Giudizio, divide l'arte figurativa in quella del ritrarre e quella del comporre la natura: la sintesi che Caressa, nelle sue opere, effettua di questi due modi di intendere il proprio rapporto col vero ci sembra il dato più emblematico della sua lunga attività.

Carlo Espoasa (1996)


La scoperta del paesaggio: presentazione per la personale a Velletri, 1998

Il paesaggio è un genere di pittura peculiare che, pur presente sin dagli affreschi e nelle pitture murali dell'antica Roma in modo accessorio, si affranca a poco a poco dal contesto di una più ampia e articolata opera d'arte; ma solo molto più tardi diventerà l'oggetto principale del dipinto, una tendenza autonoma e indipendente, fino a costituire nel xix e xx secolo il genere più coltivato divenendo così non solo e non tanto genere di pittura autonomo, quanto soprattutto espressione del sentimento che vi è racchiuso.

E così la veduta panoramica di una città o lo scorcio di un angolo caratteristico di questa sono una "scoperta" della pittura del secolo scorso [il diciannovesimo] che ha trovato un ulteriore sviluppo modulare in quello più vicino a noi.

La pittura di Rinaldo Caressa ha il pregio di rendere l'atmosfera rarefatta di Roma o dei paesi limitrofi restituendola attraverso il filtro della propria sensibilità pittorica.

Sembra quasi che affondi le sue radici nella cultura rinascimentale, che nata dal dissolversi del Medioevo, trova le proprie radici in quella cultura urbana nella quale la città riprendeva il predominio sulla campagna, e quindi l'interesse degli artisti in genere si focalizzava sui centri urbani e sui monumenti che vi venivano realizzati, come quando Brunelleschi si trasferì a Roma per studiarvi la cupola del Pantheon trovando così la soluzione per quella di Santa Maria del Fiore a Firenze che non riusciva a realizzare.

Nei suoi quadri Caressa riesce ad interpretare la melanconia degli struggenti tramonti romani, il silenzio dei cortili e dei vicoli rimasti miracolosamente intatti, l'atmosfera solenne e nello stesso tempo di abbandono della campagna circostante rinnovandosi di continuo di fronte allo spettacolo della natura. La tecnica, mai minuziosa nei primi piani né troppo precisa nei fondi, acquista una valenza tutta sua e si arricchisce del dato coloristico che attraverso vari timbri dei colori riesce a far suonare le corde dei nostri sentimenti.

Renato Mammucari (1998)